Karl Jaspers. Dalla politica alla storia

1. La genesi del problema

Nel 1949, all’indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale, Karl Jaspers pubblica Origine e senso della storia: un’opera che fuoriesce, almeno apparentemente, dai temi consueti che Jaspers aveva già ampiamente sviluppato. Qui, abbastanza naturalmente direi, può già porsi una difficoltà: da dove nasce e come si inserisce nell’evoluzione intellettuale del filosofo tedesco un’opera così concettualmente diversa? È una difficoltà che potrebbe trovare una prima, facile spiegazione nella presa in considerazione dell’intera opera di Jaspers filosofo: nel suo lungo cammino, egli si è interessato agli argomenti più vari: dagli studi giuridici, alla psicologia, alla psichiatria; dalla filosofia speculativa, alla logica; dalla filosofia della storia, alla politica, ecc. Si potrebbe quindi pensare che questo testo rientri semplicemente nell’ampio contesto degli interessi perseguiti dal filosofo di Oldenburg. Ma una risposta del genere, per quanto immediata nella sua elaborazione, rischia di mostrarsi seriamente lacunosa. Vorrei cercare di formulare pertanto, per quanto mi è possibile, una risposta più articolata; che tenga conto cioè delle motivazioni reali e contingenti che hanno spinto Karl Jaspers a interessarsi di filosofia della storia e, contemporaneamente, di politica giacché, come vedremo, esse rappresenteranno, insieme e complementariamente, l’ultima significativa stagione produttiva del filosofo tedesco. Gli interessi originari di Karl Jaspers, come è noto, furono di natura prettamente scientifica: laurea in medicina, specializzazione in psichiatria, pratica medica. Già in quegli anni tuttavia si può intravedere un elemento che si mostrerà come una costante nel suo pensiero: «Ciò che più mi importava nella scelta della medicina era il desiderio di conoscere la realtà. Alla realtà tendevo in tutti modi possibili».1 Così si esprimeva nel 1953 riandando ai tempi della sua prima professione. Era la realtà, l’uomo, che gli interessava e la medicina, le scienze in generale, gli apparivano come il veicolo più idoneo per un concreto rapporto con la società. La filosofia, che appariva così come gli era stata presentata, una pseudo-scienza, non lo soddisfaceva. La politica era al di fuori dei suoi interessi. Ma se il suo desiderio di tendere «in tutti i modi possibili» verso la realtà rimaneva immutato, ben presto questi modi possibili, a causa degli eventi, si sarebbero diversificati. «Fino al 1914 la mia posizione fu assolutamente apolitica. Tutto mi sembrava definitivo. Le apprensioni erano per un avvenire assai lontano al quale credevamo di non assistere più».2 «Ma allo scoppio della guerra del ’14 […] le cose mutarono. Il suolo della storia tremava».3 Ecco la svolta. Il primo conflitto mondiale rappresentò per il giovane Jaspers la prima tragica frattura con il mondo sonnacchioso e monotono della sua giovinezza. La sua coscienza fu agitata dagli inattesi tragici eventi i quali distrussero la stabilità e la quiete apparenti. Uno spirito così decisamente aperto verso la natura umana non poteva non essere particolarmente allarmato da un tale spaventoso conflitto il quale, oltre tutto, si rivelò un processo inarrestabile che avrebbe trascinato, negli anni a venire, in una corrente di avvenimenti catastrofici, la Germania, l’Europa e il mondo intero. In un’atmosfera di baldanzosa propaganda prima, di tensioni e di rabbia per la sconfitta poi, Jaspers cominciò, sotto l’influsso di Max Weber, a maturare la sua esperienza politica. Ciò che più gli importava era la possibilità che in quei frangenti andasse perduta per il tedesco, in nome di un’infida volontà di potenza, la libertà. Scriverà successivamente sempre a proposito di questi momenti: «La politica esiste soltanto nella libertà. Dove questa è distrutta, rimane la vita privata, fin dove è tollerata».4 Jaspers cominciò allora a intravedere la minaccia che un popolo può portare a se stesso se non è indirizzato verso un’aperta e chiara comunicazione, lanciandosi irresponsabilmente verso il baratro della violenza e del dominio. In questi anni egli avverte anche come ormai gli approcci alla società, che prima aveva tentato attraverso la medicina, non sono più sufficienti a cogliere interamente la coscienza del tempo. Occorreva una presa più diretta con la realtà, scandita da una attenzione all’uomo, colto nella sua totalità; ed ecco apparire nel 1919 Psicologia delle visioni del mondo; ma ecco anche apparire nel 1931, dopo un lungo periodo di silenzio, il primo scritto politico di Jaspers: La situazione spirituale del nostro tempo. Fu questa un’opera scritta su richiesta per il millesimo volume della Collezione Göschen. Il titolo, come ricorda il filosofo tedesco, doveva essere I movimenti spirituali di oggi, ma Jaspers lo cambiò con La situazione spirituale del nostro tempo e questo per un motivo ben preciso: «Non che io non veda i movimenti, ma non so che cosa avvenga in complesso; posso soltanto delineare la situazione e i suoi aspetti; posso stimolare il lettore, richiamare la sua attenzione, ma non dare un panorama storico del presente».5 In quel tempo a Jaspers sfuggiva la realtà nella sua variegata complessità; non aveva, per così dire, un metro con cui valutare gli avvenimenti appena trascorsi e quelli attuali: «sapevo qualcosa del fascismo, pochissimo del nazionalsocialismo la cui follia mi pareva ancora impossibile in Germania».6 «Quando, con suo stupore, Hitler prese il potere, ritenne trattarsi di un’operetta inserita nel corso della storia».7 Per questo poteva limitarsi a «delineare la situazione e i suoi aspetti». Ma solo pochi anni dopo, ciò che lui non avrebbe mai ritenuto possibile o immaginabile si mostrò in tutta la sua terribile drammaticità. Vorrei riportare le parole con cui anni dopo Jaspers ricorderà questo periodo: «Dopo il 1933 certe esperienze inattese furono inevitabili. Tutte le mostruosità che l’uomo può commettere, le più grandi follie di persone dotate di intelligenza, tutte le possibili infedeltà di cittadini apparentemente buoni, le cattiverie di uomini apparentemente per bene, le sbadataggini, tutta la miope ed egoistica passività della folla: tutto ciò divenne così largamente realtà che fu necessario modificare le nozioni acquisite sulla natura dell’uomo. Insomma, cose sulle quali prima non si era riflettuto, ora erano non solo possibili, ma reali. Pareva che la storia subiste una scossa».8 Furono quelli, per Jaspers, anni di tragiche esperienze, tanto più difficili da comprendere proprio perché inattese: dal 1933 era stato escluso dall’amministrazione dell’università, nel ’37 gli fu tolta la cattedra, nel ’38 gli fu ingiunto di non pubblicare più. Negli anni successivi la minaccia contro l’esistenza fisica sua e della moglie – ebrea – fu una presenza costante. Con molta amarezza scriverà anni dopo: «Un tedesco non può dimenticare che deve la vita sua e di sua moglie agli americani contro tedeschi i quali, in nome dello Stato nazionalsocialista tedesco, lo volevano annientare».9 Proprio questo «tradimento» fu per Jaspers la cosa più difficile da sopportare: lui, un tedesco, veniva minacciato da altri tedeschi; lo Stato, in cui aveva sempre creduto, lo aveva abbandonato, non gli riconosceva alcun diritto, neppure quello della pura esistenza fisica. Subentrò in questi frangenti una crisi di identità: chi sono i tedeschi? Dov’è la grande tradizione spirituale tedesca? Che cosa significa essere tedesco? Jaspers vide nei pochi umili amici che gli erano rimasti, in coloro che non avevano aderito alla follia dilagante, la continuazione della coscienza tedesca. Non la Gestapo, non i grandi eserciti, non i nazisti con la loro volontà di conquista, erano la Germania, ma quell’esigua minoranza di uomini che resistevano al delirio. Jaspers cercò di non perdere la speranza e si sentì unito irrimediabilmente alla sua Germania. Si trovava di fronte a problemi insolubili. I rapporti con la sua nazione diventarono impossibili. Reagì. Sperò nell’invasione degli alleati e nella distruzione della Germania di Hitler affinché i sopravvissuti potessero ricostruire dalle radici una nuova esistenza.

«Che la Germania di Hitler vincesse o perdesse […], in ogni caso la Germania aveva cessato di esistere. Ma tanti tedeschi, tante persone di lingua tedesca, che avevano parte negli eventi, che provenivano dallo Stato tedesco perduto, sarebbero sopravvissuti. Che dovevano fare? che valore aveva la loro esistenza? Restavano tedeschi, e in che senso? Avevano un loro compito?».10 Dopo la liberazione queste domande si manifestarono ancora più pressantemente. Bisognava andare avanti. Ma in che modo? Come ritrovare la coscienza millenaria che era stata sepolta sotto i milioni di morti di cui i tedeschi erano responsabili? Come spiegare una catastrofe così immane? Su quali basi poggiare una ricostruzione se una ricostruzione era possibile? Jaspers si lanciò con energia nel mondo universitario. Non accettò o non poté accettare incarichi politici, ma mise al servizio di ciò che era rimasto dello Stato la sua grande passione per l’anima tedesca e per l’uomo. Continuò a riflettere, a cercare. Occorreva capire e spiegare; dare un significato. Le riflessioni di Jaspers si allargarono, compresero il destino di tutti gli uomini. Si formò in questi anni nel filosofo tedesco un’idea che poi non lo avrebbe più abbandonato: nel corso degli eventi storici non c’è alcun oscuro disegno predeterminato; è l’uomo che sceglie di fare, esprimendosi liberamente, ciò che poi farà, è lui il responsabile del corso della storia – «cercai di capire questa nostra sorte umana, non come conoscibile necessità di un oscuro superiore processo storico, ma come una situazione i cui effetti […] vengano nettamente determinati dalla nostra libertà».11 «Il punto decisivo – continua – è questo: non esiste una legge di natura né una legge storica che determina l’andamento delle cose nel loro complesso. L’avvenire dipende dalla responsabilità delle decisioni e azioni di uomini e infine di ogni singolo tra i miliardi di individui che formano l’umanità».12 Due cose credo vadano qui sottolineate: la prima è la responsabilità diretta degli uomini e infine del singolo nei riguardi delle vicende storiche. Jaspers sottolineerà più volte questo fatto. Non poteva credere a oscuri disegni storici già in un certo modo predestinati, cui gli uomini ignari si assoggettavano. Nella sua esperienza, furono le persone che lui conosceva, con cui trattava, uomini con una storia, con una famiglia, che coscientemente si abbandonarono alla follia dilagante determinando direttamente il corso degli eventi; o con la propria responsabile adesione o con la non meno colpevole remissività di fronte alle scelte altrui. Riguardo alla responsabilità dei tedeschi Jaspers pubblicherà nel 1946 – come vedremo – La colpa della Germania, ma le sue riflessioni sono valide qui per l’uomo in assoluto, per l’uomo cittadino del mondo. Conscio del fatto che ormai i confini del mondo si sono ristretti e che ciò che rischia un popolo della terra è un rischio per tutti gli uomini, Jaspers pone nelle mani del singolo, nella sua responsabilità, nella sua coscienza, il futuro dell’uomo: «Perciò è tanto importante sapere che cosa il singolo voglia vivere e agire. La sua essenza e il corso degli eventi dipendono dal fatto che a lui sembri importante ciò che fa, sin dalle minime decisioni. […] Il mondo non fa da sé il suo unico e immutabile cammino, determinato da leggi analoghe a quelle della natura; il mondo non è un processo fatale, accessibile a qualche forma di pensiero predestinato o governato da decisioni a noi estranee, ma ciò che avviene dipende da ogni singolo uomo, in modo per lui completamente incalcolabile».13 II secondo punto che vorrei sottolineare è lo spostamento che Jaspers opera dal piano della riflessione sull’uomo a quello sulla storia. Certo più che di spostamento converrebbe parlare di affiancamento; nel senso che per Jaspers, almeno dopo le vicende del secondo conflitto mondiale da lui, come abbiamo visto, vissute in prima persona, non è possibile affrontare un discorso sull’uomo senza inserirlo in un ampio quadro storico. È da notare come la sua concezione della storia subisca una trasformazione durante e prima delle vicende belliche: «Col terrore del nazionalsocialismo e con l’esperienza dell’esclusione dal mio proprio Stato, il mio interessamento alla storia subì un mutamento».14 Questo mutamento consiste, in generale, in un nuovo compito che il filosofo affida alla storia. Non più storia intesa come «mero sapere» e come un fatto puramente «estetico»; non già storia come espressione di pura ricerca intellettuale o accademica. Ma una storia che «esce così dal campo del mero sapere per ridiventare problema di vita e di coscienza dell’esserci: – storia che – da materia di cultura estetica si trasforma in serietà dell’ascoltare e del rispondere. Il nostro modo di guardarla non è più innocuo. Il senso della nostra vita personale è determinato dalla maniera in cui conosciamo noi stessi nel tutto e da questo otteniamo base e fini storici».15

Una storia dunque, specchio della vita, capace di liberare la coscienza dell’uomo dalla sua cecità, dalla sua ristrettezza di vedute. Una storia capace di allargare gli orizzonti dell’uomo e di fargli meglio comprendere la sua natura, i suoi desideri, le sue possibilità. «La storia è il luogo della rivelazione di ciò che l’uomo è, di ciò che può essere, di ciò che da lui può venire, di ciò di cui egli è capace».16 Si ha l’impressione che Jaspers non voglia più, per così dire, essere colto alla sprovvista. La storia, per quanto non inserita in un disegno già preordinato (come abbiamo visto), per quanto espressione della libera volontà dell’uomo, è conoscibile, ha la possibilità, se letta con spirito di responsabilità e di coerenza, di illuminare la propria epoca e quindi di coglierne i rischi e più in generale le possibilità. Ripensando ai tragici eventi appena trascorsi Jaspers scriverà: «A pensarci dopo, riandando il corso della storia universale, si vide che quelle cose impossibili non erano neanche nuove nella loro radice, ma solo in quanto fenomeno, e la prevenzione di un’epoca, nonostante il vasto orizzonte spirituale della sua coscienza, ci aveva velato lo sguardo in quella direzione».17 Ecco, credo che in Jaspers sia presente adesso la necessità di non trovarsi più con lo sguardo «velato». Sempre in quegli anni scrive: «Sarebbe vano voler conoscere prima la propria epoca e apprendere così quale debba essere il corrispondente compito della filosofia. Non si può fare un calcolo di ciò che l’epoca esige, di ciò che è opportuno, e poi soddisfare metodicamente questa esigenza […] – Ma con uno sguardo retrospettivo si può rendersi conto delle condizioni della propria epoca e esaminare con occhio critico fin dove il nostro pensiero sia stato adeguato a queste condizioni, come ora le vediamo, e che cosa si voglia raggiungere in questa epoca. Ma allora il senso della riflessione filosofica va al di là di ogni epoca e di ogni tempo».18 La grande tragedia mondiale voluta da un popolo ha colpito il mondo. Jaspers vuole capire, vuole sapere; la sua riflessione si sposta sull’uomo e quindi sulla storia. Essa è opera di uomini, è semplicemente il loro destino. Per guardare al futuro con speranza, per dare una speranza all’uomo, occorre ritornare indietro, guardare alle proprie radici, essere coscienti di ciò che si è stati, facendo di questo essere la base del presente e del futuro. Non c’è in Jaspers uno sfondo di pessimismo estremo, una volontà di distruzione. La sua convinzione è che la Germania, quella del Secondo Reich, non sia affatto la «Germania» – bensì, «rispetto alla storia universale un episodio politico di breve durata. La Germania – continua – da mille anni una cosa ben diversa, con un contenuto molto più ampio».19 Questa sua affermazione non gli impedirà di tremare per il timore che la sua nazione possa nuovamente abbandonarsi alla «volontà di potenza», reimmettendosi sui binari che già due volte nell’ultimo secolo l’avevano condotta alla rovina. II suo «esilio» a Basilea e le sue opere successive (La bomba atomica e il destino dell’uomo, La Germania tra libertà e riunificazione) testimonieranno l’intensità di questi suoi timori. Credo che a questo punto si possa dare una risposta più chiara alla difficoltà che era sorta precedentemente: le riflessioni sulla storia del filosofo tedesco, la sua opera Origine e senso della storia, non rispondono a un momento isolato della sua riflessione filosofica; o semplicemente non vanno inserite nel calderone dei molti temi toccati da Jaspers, ma si inseriscono nel vivo del suo filosofare, in un punto ben preciso della sua esperienza di vita e di filosofo. Attraverso la storia e con la storia Jaspers vuole una chiarificazione del passato, cerca un’illuminazione per il presente, getta uno sguardo (che oscilla tra i poli della salvezza e della rovina dell’uomo) al futuro.

Vi è un’altra serie di motivi che, credo, andrebbe sottolineata in questo momento. E cioè come dalle riflessioni sulla propria nazione e sul destino degli uomini, il filosofo di Oldenburg – anche alla luce della filosofia della «comunicazione» che aveva già definito soprattutto nel secondo volume della Filosofia (chiarificazione dell’esistenza) e in Ragione ed esistenza – arrivi a determinare la sua aspirazione al cosmopolitismo, cioè (ma molto in breve), alla tesi di un federalismo da attuarsi, prima a livello europeo e poi a livello mondiale; e di come questa 'unità' cosmopolita possa essere ricercata tenendo ben presente la comune origine storica dell’uomo, il quale può ritrovare la base originaria capace di legarlo, al di là di ogni differenza geografica o etnica, ad ogni altro uomo. Mentre Jaspers affrontava con grande passione i problemi sorti dopo la fine del nazismo, mentre si domandava: «la fedeltà alla patria implica la fedeltà al suo governo, anche se questo governo sia criminale?»,20 sorgeva in lui l’aspirazione al cosmopolitismo che avrebbe avuto la sua completa definizione qualche anno dopo in La bomba atomica e il destino dell’uomo. In quegli anni tragici in cui il tradimento del proprio Stato lo aveva spinto ad abbandonare l’idea che quella Germania fosse «la» Germania, Jaspers va alla ricerca di «una istanza al di sopra dei popoli». Egli è convinto che uno Stato non possa liberarsi con le sue stesse forze dal totalitarismo se questo ha già assunto le redini del paese: «Quando un governo dittatoriale è al potere, non è possibile abbatterlo dall’interno».21 «La Germania – dice altrove – non poteva liberarsi da sola dal nazionalismo, ma soltanto dall’esterno; nessun totalitarismo può essere superato dall’interno, ma semmai può trasformarsi in un altro attraverso rivoluzioni cruente».22 Jaspers, con alla base queste riflessioni, aspira a un «diritto che, superiore agli stati, – dia – assistenza giuridica all’individuo violentato illegalmente dal suo Stato! Dove si compie un’ingiustizia disumana – continua – dovrebbero esistere […] una difesa contro lo stato che commette il delitto. Questa istanza suprema non potrebbe essere che la solidarietà fra tutti gli stati».23 Di fronte al totalitarismo dilagante, Jaspers afferma che soltanto una solidarietà comune a tutti i popoli possa porre un argine all’affermarsi di un così mostruoso fenomeno. Questa solidarietà deve essere ricercata tra tutti popoli, non come un’astratta forma di una generica «comprensione» ma come un’autentica forma di comunicazione da attuarsi fra uomo e uomo e fra stato e stato. È proprio la frattura che si viene ad avere fra uomini che non comunicano fra loro che favorisce grandemente, in una comunità, l’avvento di una dittatura; e infatti, fa presente Jaspers, «il nazionalsocialismo rappresentava la più radicale rottura della comunicazione da uomo a uomo e quindi anche la fine dell’essere umano».24 La libertà può essere raggiunta nel mondo «solo con la trasmissione delle informazioni, col commercio dei popoli e con la pubblica discussione, e solo se tutto questo avviene senza limitazioni».25 La possibilità di una così universale comunicazione «condizione della libertà e della pace»26 risiede nella consapevolezza che gli uomini non sono estranei fra di loro, non appartengono a mondi diversi, ma formano un tutt’uno, nascente da una comune origine.

In quegli anni Jaspers oltre a portare a termine Origine e senso della storia cominciò a lavorare intorno all’idea di una storia mondiale della filosofia; questa storia mondiale (che non è stata portata a termine), non aveva finalità puramente culturali o espositive, ma voleva segnare un momento privilegiato in cui e con cui l’esistenza può incontrarsi con l’altra esistenza: la filosofia (e qui entriamo nel rapporto filosofia-politica) apre le porte «alla possibilità di una comunicazione universale […]. Il mezzo in cui gli uomini possono trovarsi è […] la conoscenza della storia comune che ci riguarda reciprocamente tutti. La presenza di una storia mondiale della filosofia può diventare la cornice della comunicazione universale. Essa è la premessa per la massima illuminazione della nostra coscienza nella discussione con gli altri, nella distanziata meditazione».27 Come si vede, anche per questa idea di una storia mondiale della filosofia vale quanto prima accennato riguardo alla storia; cioè vale – con le parole di G. Penzo – «La distinzione di fondo tra una concezione della storia che si risolve nella dimensione del conoscere, e una dimensione della storia intesa in senso esistenziale-ontologico».28 Sia la storia, sia la storia della filosofia (ma è veramente difficile tracciare tra esse, in questo, caso una linea di demarcazione) svolgono il compito di tentare una riunificazione di ciò che da una unica scaturigine si è frantumato in mille storie locali, limitate e autonome, dimentiche del grande mistero che originariamente le accomunava. Davanti al fatto che «nessun paese può ritenersi immune dal partorire questo mostro – il totalitarismo – anche se esso possa presentarsi sotto forma di aspetti differenti»29 rimane una sola cosa da fare: ricercare sempre e dovunque la possibilità di un dialogo aperto; occorre «aumentare le comunicazioni e la continuità, ecco il grande compito umano, specie nella filosofia che è l’eco della vita e la sua preparazione».30 Ecco quindi il vero compito, il vero fine o se si preferisce il vero senso della storia: ricercare le possibilità per una migliore e più profonda amicizia fra i popoli e infine per una loro unione. Jaspers è del parere che il fine ultimo della storia «rappresenti la condizione del raggiungimento delle supreme possibilità dell’essere umano, e questo fine è l’unità dell’umanità».31 L’unità che Jaspers ha qui in mente non è quella raggiungibile attraverso l’universalità razionale della scienza. Questa infatti è espressione di un’unità puramente «intellettuale» che unisce l’uomo o meglio unifica la sua condizione con l’ausilio dei mezzi della tecnica moderna. Tanto meno può essere riposta in una riforma universale quale potrebbe uscire da congressi religiosi e per deliberazioni unanimi. Né può essere raggiunta con l’istituzione «di uno stato universale con un parlamento, una polizia, una moneta, eccetera universali. Su questa via, […] non si va avanti, perché non solo si omette, ma anche si violenta la realtà».32 Una tale unità, fa presente il filosofo tedesco, «può essere raggiunta soltanto muovendo dal profondo della storicità, e non come un contenuto collettivamente accertabile, ma soltanto nella illimitata comunicazione di ciò che è storicamente diverso, quale si realizza in un dialogo incessantemente condotto al livello della più pura amorevole lotta».33 Si deve dunque muovere dal «profondo della storicità» in una «illimitata comunicazione» per poter aspirare ad una unità. Proprio per questo bisogna bandire la violenza che, in uno stato universale di diritto, al di sopra della sovranità dei singoli stati, non avrebbe motivo di esistere. Ma ritornando alla storia, come è possibile che il suo fine rappresenti «l’unità dell’umanità»? Su quali basi Jaspers le affida un compito così elevato? Credo che una risposta possa essere vista nella convinzione che in realtà, per Jaspers, l’unità più che trovarla bisognerebbe ritrovarla. Questo nel senso che l’uomo nella sua essenza ultima è Uno. La difficoltà maggiore che si incontra nella presa in considerazione di una tale originaria unità consiste, fa presente Jaspers, nel fatto che la «diversità» è ben più appariscente e pienamente visibile: sia nel tempo sia nello spazio sono riscontrabili civiltà diverse, popoli con esperienze assolutamente originali, lingue, religioni, tradizioni, razze autonome, ognuna delle quali è a se stessa peculiare; vi è, per così dire, una serie di mondi o universi paralleli. Ma, afferma Jaspers, «considerare l’uomo in questa luce significa descriverlo e classificarlo come si fa con la multiformità del regno vegetale».34 E una tale visione, continua, «è falsa se intende affermare che vi è una diversità dell’essenza umana che raggiunge le radici ultime, una diversità di natura tale da scavare fra uomo e uomo un baratro invalicabile».35 Jaspers è del parere che per «cogliere l’unità dell’essere umano che si rivela nella storia occorre superare il piano delle considerazioni psico-biologiche».36

Occorre andare a qualcosa di più originario, e nello stesso tempo di più difficilmente esprimibile. Qui il pensiero di Jaspers si fa forse meno chiaro, ed egli stesso ricorre alla simbologia per poter dare un’idea dell’elemento superiore capace di determinare l’essenza reale dell’uomo: «Quando si parla di questa origine, si intende alludere non a una conformazione e discendenza biologica da un’unica radice, bensì all’essere umano come unità derivante da un’origine superiore. Ciò può essere immaginato in modo visivo soltanto nel simbolo: nell’idea della creazione dell’uomo da parte della divinità, a sua immagine e somiglianza, e della caduta». E conscio della difficoltà cui un’affermazione del genere va incontro si affretta a chiarire che «questa origine, che ci unisce tutti spingendoci l’uno verso l’altro, che fa presupporre e insieme cercare la nostra unità, non può, in quanto tale, essere conosciuta o contemplata, né sta davanti a noi come una realtà empirica».37 Il nostro essere originariamente Uno non può dunque essere «conosciuto» o «contemplato», ma non di meno esso è alla base del nostro essere. Quando affronta direttamente la realtà del suo tempo, quando esprime l’esigenza di una riunificazione dell’uomo in una grande federazione mondiale degli stati, contro la violenza definitiva del totalitarismo e/o delle armi atomiche, Jaspers ha come fondamento questa originaria unità dell’essere-umano che può essere ritrovata e fatta rivivere. «Questo fine unitario – afferma – che riguarda soltanto i fondamenti dell’esistere e non richiede un contenuto di credenze comuni e valido per tutti, non sembra del tutto utopistico se è voluto da un tenace sforzo spirituale in seno ai rapporti concreti di forza e se è favorito da situazioni di fatto».38 Abbiamo visto come dalla storia Jaspers trae la possibilità di una più chiara visione del proprio tempo; la possibilità di capire perché le coscienze si siano lasciate sopraffare dalla violenza; del perché certe cose siano avvenute o non siano state evitate. Ora, nella storia, nel suo senso ultimo, Jaspers cerca il fondamento delle possibilità del domani, del futuro dell’esistenza. Nei termini essenziali direi che Jaspers, che aspira all’unità dei popoli, scopre, nell’essere-uno dell’uomo originariamente posto, la base fondamentale e irrinunciabile a tale aspirazione; «l’umanità deriva da un’unica origine – dice –, da cui si è sviluppata con una differenziazione infinita, e mira alla riunificazione di quanto è frazionato».39

2. Il cammino della storia

Dopo aver osservato attraverso quali esperienze Jaspers sia giunto a maturare l’idea di un’opera come Origine e senso della storia, e dopo aver visto, nello stesso tempo, come essa si inserisca nel pieno delle sue nuove esigenze, vorrei passare a un approfondimento della particolare concezione dell’evoluzione storica, così come viene esposta nell’opera. E ciò per almeno due motivi. Il primo riguarda l’originale suddivisione in quattro grandi «respiri» della storia dell’umanità e il significativo accenno che in essi viene dato al «periodo assiale»: epoca mitica, che riesce a dare pienamente ragione di quella «comune origine dell’umanità», di cui abbiamo poc’anzi parlato. È proprio in questa epoca che Jaspers vede nascere l’uomo così come oggi lo conosciamo, ed è proprio qui che si può trovare quell’originaria unità dell’essere umano che è a fondamento di una sua possibile ritrovata unità. Il secondo motivo riguarda invece l’attenzione con cui Jaspers guarda all’ultima delle grandi tappe che, nella sua opera, scandiscono il cammino dell’uomo nel corso della storia: l’era tecnico-scientifica. In essa Jaspers vede l’uomo, con nelle mani i potenti mezzi tecnici messi a disposizione dalla scienza moderna, andare incontro a nuove possibilità fra loro contrastanti; possibilità che possono rivolgersi a suo favore, o contro di lui. Quest’ultima era rappresenta per Jaspers, nel bene o nel male, una svolta nel corso della storia dell’umanità, ma in definitiva, lo vedremo, sarà sempre l’uomo che Jaspers porrà al centro della sua attenzione. Jaspers divide la storia universale in quattro grandi tappe, che partendo dall’oscura preistoria, conducono l’uomo direttamente fino all’era moderna. Egli è consapevole del fatto che, più che di una unica storia mondiale, si debba parlare di un «aggregato di storie locali» (infatti soltanto con l’avvento della tecnica e della scienza sarà possibile parlare di vera storia universale), e avverte che è «sempre in ogni caso una rozza semplificazione dare alla storia una struttura suddividendola in alcuni periodi ma – continua – tali semplificazioni hanno lo scopo di indicare l’essenziale».40 «Quattro volte – secondo le sue parole – l’uomo sembra esser partito, per così dire, da una nuova base». «La prima volta dalla preistoria, dall’età prometeica (genesi del linguaggio, degli utensili, dell’uso del fuoco), così poco accessibile a noi, nella quale egli è anzitutto diventato uomo. La seconda volta, dalla fondazione delle antiche alte civiltà. La terza volta, dal periodo assiale, durante il quale ha rivelato la sua autentica natura umana in tutte le sue possibilità spirituali. La quarta volta, dall’era tecnico-scientifica, di cui vediamo in noi stessi l’azione riplasmatrice».41 La preistoria è un’età tanto fondamentale quanto oscura. In essa si è costituito biologicamente l’uomo. In essa l’uomo come uomo si è formato, ha assunto i caratteri biologicamente ereditabili che definiscono la sua essenza e che oggi e sempre lo caratterizzano. «Se potessimo conoscere la preistoria, – afferma Jaspers – metteremmo le mani su una sostanza fondamentale dell’essere umano, osservando il suo divenire, le condizioni e le situazioni che hanno fatto di esso quel che è».42 Per quanto importante sia questa era, tuttavia, la nostra conoscenza di essa è estremamente lacunosa e frammentaria. Jaspers fa notare come da essa sorgano interrogativi essenziali, ma anche come tali interrogativi restino puntualmente insoluti, irrisolti: «da dove veniamo? che cosa eravamo quando abbiamo cominciato la storia? che cosa è possibile prima della storia? Attraverso quali profondi decisivi processi, svoltisi allora, l’uomo è divenuto uomo, capace di avere una storia? Quali profondità dimenticate c’erano allora, quale “rivelazione primigenia”, quali luminosità a noi nascoste? Come sorsero le lingue e i miti che esistono già completi al principio della storia?».43

Tutte domande che hanno come risposta soltanto ipotesi più o meno vaghe, o nessuna risposta. Il mistero avvolge questa età in cui l’uomo è apparso e si è formato. Noi non abbiamo la possibilità di toglierle il velo. La nostra origine ci è ignota, infatti noi «non abbiamo a disposizione neppure una risposta definitiva e soddisfacente alla domanda “che cosa è l’uomo?”. Non possiamo dire con una risposta completa che cosa sia l’uomo. […] Visualizzare il problema del divenire umano nella preistoria e nella storia significa, nello stesso tempo, visualizzare il problema dell’essenza dell’essere-umano».44 Nella preistoria appare l’uomo, che si trasforma sia biologicamente sia spiritualmente «di contro a un tipo solo zoologicamente umano per noi irrappresentabile».45 Ma questa trasformazione non siamo in grado di coglierla, perché la preistoria stessa è fuori dalla nostra portata; essa «è quella frazione del passato che, pur essendo in effetti la base di tutto, è di per sé ignota».46 Jaspers pone il salto dalla preistoria alla storia nell’apparizione della testimonianza linguistica. Essa ci fa trovare il «terreno solido sotto i piedi». Ci dà la possibilità di scorgere un’intenzione, un’idea, una coscienza dietro a un manufatto. Proprio qui sta la differenza fra la preistoria e la storia. Gli oggetti, gli utensili, i monumenti, le azioni della preistoria sono muti, opachi, trasmettono solo elementi superficiali; dietro di essi non scorgiamo una volontà, un pensiero, o un desiderio. «Senza dubbio – scrive Jaspers – la preistoria […] è stata un fiume di continui mutamenti; ma spiritualmente essa non è storia, nella misura in cui esiste storia soltanto dove esiste anche una conoscenza della storia, dove esistono testimonianze, documentazione, coscienza delle origini e degli avvenimenti contemporanei».47 «Della preistoria stessa – continua Jaspers – possiamo ottenere direttamente soltanto una conoscenza esterna, nella misura in cui riusciamo a portare alla luce con gli scavi tracce dell’uomo preistorico (resti ossei) o i suoi manufatti. Finora questi ritrovamenti sono stati quantitativamente considerevoli, ma scarsi per quanto riguarda il contenuto: da essi si ricava soltanto un’idea molto vaga, per non dire nulla dell’animo, dell’atteggiamento interiore, delle credenze, del movimento spirituale degli uomini preistorici».48 La preistoria dunque rimane una «gigantesca realtà», ma per quanto grande essa non è illuminata dalla conoscenza storica e non riesce a soddisfare la nostra sete di sapere. La sua «oscurità possiede una forza di attrazione che giustamente ci trascina, e ci causa continue delusioni per la nostra ignoranza».49

Il secondo periodo nell’evoluzione storica è rappresentato dalla nascita delle antiche grandi civiltà. Con esse si attua il passaggio dalla preistoria alla storia. Queste grandi civiltà sorsero con una «contemporaneità solo apparente» in tre diverse regioni della superficie terrestre: «primo il mondo sumero-babilonese, egizio, egeo a partire dal 4000 a.C.; seconda, la civiltà prearia dell’Indo del terzo millennio […]; terzo, l’antico arcaico mondo cinese del secondo millennio a.C. di cui si coglie soltanto un indistinto barlume nei ricordi e negli scarsi resti disponibili».50 Il cambiamento rispetto alla storia è evidente: «non regna più il silenzio». Attraverso la scrittura, la comprensione del linguaggio, siamo in grado di «ascoltare» queste antiche civiltà. In esse ritroviamo un’organizzazione, uno stato, opere d’arte di elevata fattura, una burocrazia, gli scribi, un esercito. Sebbene queste antiche alte civiltà siano differenti l’una dall’altra sia per dislocazione geografica, sia temporalmente, in esse è presente come denominatore comune un forte apparato statale che si espande fino a raggiungere le proporzioni di un impero mondiale; il problema di organizzare il controllo dei fiumi e l’irrigazione lungo il Nilo, il Tigri-Eufrate e il Hoang-ho; la nascita della scrittura; l’introduzione del cavallo. Di fronte a questa «esplosione» di civiltà c’è da chiedersi: «che cosa capitò all’uomo perché passasse dall’astoricità alla storia? Qual è il fattore specifico nella sua essenza che conduce alla storia? Quali sono i caratteri fondamentali del processo storico rispetto alla preistoria?».51 Qui Jaspers, come si osserva, allarga l’orizzonte delle sue ricerche. Più che i singoli eventi, o le specifiche realtà particolari, egli è interessato al cambiamento che, generalmente, si è prodotto nell’uomo, permettendo il salto dalla preistoria alla storia. «Vorremmo una risposta dall’intimo dell’essenza umana – afferma –. Non sono gli avvenimenti esteriori, ma la trasformazione dell’uomo che vorremmo conoscere».52 Riguardo a tali «risposte» Jaspers parla di «coscienza» e di «ricordo» di «trasmissione delle acquisizioni spirituali» che liberano l’uomo dal «presente puro e semplice». Parla ancora di «razionalizzazione in vari sensi e gradi» e della «tecnica che liberarono l’uomo dai vincoli di dipendenza con l’ambiente immediatamente circostante per la soddisfazione e la salvaguardia dei suoi bisogni vitali».53 Per quanto magnifiche e grandiose siano tali civiltà, esse non rappresentano la base da cui l’uomo – ciò che noi siamo, il modo in cui viviamo, pensiamo – si svela. «Queste alte civiltà non portano ancora in sé quella rivoluzione spirituale» che individueremo nel periodo assiale, il quale porrà «le basi di un nuovo essere umano, del nostro essere umano».54 In queste antiche civiltà – continua Jaspers – «tutto è inceppato da immagini intuitive dell’essere, tenuto fermo in ordinamenti indiscussi. La vita esprime un essere-così senza problematica e su di esso si modella. I fondamentali problemi umani sono incastonati in un sapere sacro di carattere magico, non aperti alla irrequietezza della ricerca, a parte alcuni emozionanti tentativi».55 Ci troviamo di fronte a comunità evolute, ma ancora spiritualmente povere, non in grado di illuminare il proprio essere con la volontà della ricerca critica, della fantasia, della comunicazione. «Le civiltà preassiali – afferma Jaspers – quella dei babilonesi, dell’Egitto, dell’Indo e della Cina sono state a proprio modo magnifiche, ma appaiono in un certo senso come precedenti al risveglio».56 Questo «risveglio», questa fioritura, si avrà nel periodo assiale posto, come vedremo, intorno al 500 a.C., lungo la linea che collega il mondo occidentale (polarizzato in oriente-occidente) all’India, alla Cina. La storia, lunga e complessa, di queste antiche civiltà, della loro nascita, del loro splendore, della loro fine, è dunque «estremamente ricca di avvenimenti che non assumono però ancora il carattere di decisioni storiche per l’essere umano».57 Occorrerà aspettare il periodo assiale per cogliere il perno, l’asse di tutta la storia mondiale in cui «sorse l’uomo come oggi lo conosciamo».58

In Jaspers è presente l’esigenza di partire, in una concezione universale della storia, da un’ottica che non sia parziale, che non rifletta cioè un punto di vista determinato, una fede, un credo definiti. Ciò è necessario perché «leggendo» o interpretando la storia secondo i modi di vedere propri di una determinata ideologia, si corre l’ovvio, ma serio pericolo, di non riuscire ad inquadrare la totalità dello sviluppo storico universale, nelle sue infinite sfaccettature e modalità. In occidente, il perno di tutta la storia ruota in torno all’apparizione di Cristo e alla fede cristiana. Jaspers riporta le parole di Hegel il quale poteva ancora affermare: «Tutta la storia va verso Cristo e viene da Lui. L’apparizione del figlio di Dio è l’asse della storia mondiale». «Il nostro sistema di calcolare il tempo – ricorda – è il documento quotidiano di questa struttura cristiana della storia universale».59 Occorre tener presente che «la fede cristiana tuttavia è una fede, non la fede dell’umanità». Essa cioè riflette un modo di intendere la storia che è proprio dei popoli occidentali, non dell’umanità intera. In essa sono presenti altre fedi, altre concezioni, altri modi di interpretare la storia dell’uomo. D’altra parte, afferma Jaspers, tale visione, oltre ad avere il difetto di essere valida soltanto per i cristiani credenti, non è stata «legata» alla concezione «empirica» della storia. «La storia sacra è stata separata da quella profana in quanto avente un senso diverso».60 Si è venuta a creare cioè una frattura che ha, per così dire, confinato, in ambiti autonomi, la storia sacra e quella profana. Jaspers distingue la «rivelazione» dall’esperienza. «La storia trascendentale della fede rivelata cristiana – scrive – comprende la creazione, la caduta, le varie fasi della rivelazione, le profezie, l’apparizione del figlio di Dio, la redenzione e il giudizio finale. In quanto contenuto della fede di un gruppo umano storico, essa rimane indiscussa. Ciò che unisce tutti gli uomini non può peraltro essere rivelazione, deve essere esperienza. La rivelazione è la forma assunta da un particolare credo storico, l’esperienza è la forma accessibile all’uomo in quanto uomo».61 Soltanto «empiricamente» attraverso l’esperienza è quindi possibile avvicinarsi coerentemente alla storia: «un asse della storia mondiale, supposto che ne esista uno, dovrebbe essere trovato empiricamente, come fatto valido in quanto tale per tutti gli uomini, compresi i cristiani. Tale asse dovrebbe essere situato nel punto in cui fu generato tutto quello che dopo d’allora l’uomo ha potuto essere, nel punto della più straripante fecondità nel modellare l’essere-umano».62 Tale asse, che rappresenta per tutti i popoli un comune schema di autocomprensione storica, appare «situato intorno al 500 a.C. nel processo spirituale svoltosi fra l’800 e il 200. Lì si trova la più netta linea di demarcazione della storia. Allora sorse l’uomo come oggi lo conosciamo. A quell’epoca diamo per brevità il nome di “periodo assiale”».63

Esso rappresenta la vera «culla della civiltà». Noi siamo nati allora. Le categorie che oggi, e da tempo, ci sono familiari: personalità, stato, ragione, spiritualità, dubbio, religione, ricerca, morale, idea, spirito ecc. hanno avuto la loro genesi proprio in quel periodo e da allora costituiscono il nostro patrimonio spirituale. Durante quell’epoca, in tre diverse aree del mondo, in Cina, in India, in Occidente (Grecia-Palestina-Iran) contemporaneamente e senza nessun tipo di rapporto o scambio vicendevole «l’uomo si dimostrò capace di contrapporsi interiormente all’universo intero. Egli scoprì in sé la fonte originale da cui elevarsi al di sopra della propria persona e del mondo».64 «ln Cina – scrive Jaspers – vissero Confucio e Lao-Tse, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mo-Ti, Chuang-Tse, Lieh-Tsu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upanishad, visse Budda e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibilità filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica, e al nichilismo. In Iran Zarathustra propagò l’eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da Elia a Isaia a Geremia, fino a Deutero-Isaia. La Grecia vide Omero, i filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidide e Archimede. Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in quei pochi secoli quasi contemporaneamente in Cina, in India e nell’occidente, senza che alcuna di queste regioni sapesse delle altre».65 Vi fu una vera trasformazione dell’essenza dell’uomo il quale prese coscienza «dell’essere nella sua interezza», di se stesso e dei suoi limiti. Egli si rese conto della grandezza del mondo e della sua finitezza; pose domande radicali; mise in discussione la realtà; prese, con il pensiero, il pensiero ad oggetto; tentò le possibilità più contraddittorie. «La discussione, la formazione di partiti, la divisione del regno dello spirito in opposti che pur rimanevano legati l’uno all’altro, provocarono inquietudine e movimento fino all’orlo del caos spirituale».66 Vi fu il superamento dell’epoca mitica. «I miti furono riplasmati, intesi in una nuova profondità durante questa transizione, che fu creatrice di miti in maniera nuova nel momento stesso in cui il mito nella sua totalità veniva distrutto».67 Apparvero i filosofi. «Eremiti e pensatori vaganti in Cina, asceti in India, filosofi in Grecia e profeti in Israele appartengono tutti alla stessa famiglia, per quanto possano differire fra loro per convinzioni, contenuto di pensiero e disposizione interiore».68 Vi fu un allargamento di orizzonti, un guardare più lontano, un cercare inquieto, una cosciente retrovisione storica (nacque allora la consapevolezza intorno alla storia), una instabilità della coscienza stessa, una prima vera riflessione sull’uomo, sulla sua essenza, le sue possibilità. Si cercò con progetti di dominare gli eventi, di produrre o di far rinascere le situazioni migliori. Si tentò di stabilire i caratteri delle forme di convivenza ritenute migliori, dei governi e dei sistemi politici preferibili. «In questo caos vennero formulate le categorie fondamentali, secondo cui pensiamo ancor oggi, e poste le basi delle religioni universali, di cui vivono tuttora gli uomini. In ogni senso fu compiuto il passo nell’universale».69 Come si vede, per Jaspers (uno Jaspers «appassionato» si direbbe), l’età assiale rappresenta irrefragabilmente il fulcro di tutta la storia mondiale. Egli nota come solo pochi storici o filosofi si siano accorti della centralità di tale periodo. Dopo Lasaulx e Viktor von Strauss (da lui citati – i soli che abbiano analizzato il periodo assiale) «questi fatti sono rivelati qua e là, ma solo marginalmente». Essi «non sono mai stati considerati nel loro insieme, con l’intento di indicare i paralleli universali concernenti l’intera esistenza spirituale dell’umanità di quell’epoca».70

Riguardo alle obiezioni avanzate secondo cui in questi popoli il riscontrato «elemento comune» sia solo apparente (nel senso che esso è comune indistintamente a tutti gli uomini), o che «questo parallelo non ha alcun carattere storico, perché ciò che non ha contatti nello scambio spirituale non appartiene a una storia comune»71 – riguardo a tali obiezioni, Jaspers non le giudica probanti. Nel primo caso questi «elementi comuni», dice, non sono affatto comuni a tutti i popoli di tutte le regioni del mondo, ma storicamente, soltanto ai popoli di queste tre regioni, e soltanto in questo breve intervallo di tempo. Nel secondo caso Jaspers afferma che non ci troviamo di fronte ad una successione di stadi che dalla Cina attraverso l’India porta all’occidente; anzi – afferma – «questa successione non esiste né nel tempo né nel senso. Si tratta piuttosto di una esistenza fianco a fianco, ma senza contatto nella stessa epoca». «Ci sono tre radici indipendenti di una storia che in seguito […] è diventata un’unità».72 Quanto alle cause che hanno prodotto un fenomeno con una tale «strabocchevole dovizia di creazioni spirituali», Jaspers assume una posizione molto cauta. Non crede che a provocarlo possano essere stati l’invenzione della scrittura (esisteva da circa 2000 anni) o la comune necessità di regolare il corso dei grandi fiumi. «Perché ciò accadde simultaneamente? – si domanda – Perché solo nel caso di quei fiumi? Perché molto più tardi e in condizioni diverse in America?».73 E non crede che si possa parlare di uno sviluppo simultaneo nell’evoluzione biologica di individui appartenenti ad un’umanità egualmente dotata (E. Meyer), o a ipotetiche «forze oscure» agenti nell’intero organismo dell’umanità (Lasaulx). «Tutte queste spiegazioni – afferma – trascurano il fatto chiarissimo che non l’umanità, non tutti gli uomini che a quel tempo già popolavano l’intero pianeta, bensì soltanto pochi uomini, relativamente pochissimi, fecero questo passo avanti in tre luoghi. Come nel caso delle antiche alte civiltà, non era in gioco l’umanità in genere bensì soltanto una sua piccola frazione».74 Egli trova che la spiegazione più «semplice» dei fenomeni riguardanti il periodo assiale sia da ricercare nell’esistenza di «comuni condizioni sociologiche favorevoli alla creatività spirituale: molti piccoli stati e piccole città; un’epoca di divisioni politiche e di incessanti conflitti; la miseria causata da guerre e rivoluzioni […]; il riesame delle situazioni preesistenti». Rileva però come queste spiegazioni, queste «considerazioni sociologiche» si limitino a «illuminare i fatti» senza offrire «una loro spiegazione causale».75 La sua conclusione è pertanto molto cauta: «Nessuno può comprendere adeguatamente che cosa avvenne allora assurgendo ad asse della storia mondiale! Bisogna vedere i dati di fatto di questo balzo in avanti da tutti i lati, stabilirne i molteplici aspetti e interpretarne il significato, per ottenere una visione provvisoria di questo mistero che è sempre più fitto».76 Per quanto centrale, il periodo assiale è naufragato. Esso «non costituì affatto un semplice movimento di ascesa». Fu al contrario un periodo di gradi mutamenti, contrassegnato da creazioni e cadute, da crescite e fermenti ma anche da distruzione e crolli. Jaspers interpreta questa complessa situazione soprattutto alla luce della grande libertà spirituale che si presentava in tutte le tre regioni. Essa portò a grandi conflitti, provocò contrasti e rivolgimenti che condussero in fine all’anarchia. «Quando il periodo perse la sua creatività, nei tre regni della cultura sopravvenne un processo di fissazione dogmatica e di livellamento. Dal disordine divenuto intollerabile scaturì la spinta a nuovi legami, attraverso il ripristino di condizioni durevoli».77 Lo sbocco di questo grande processo storico si ebbe nella formazione di grandi e potenti imperi che sorsero quasi contemporaneamente in Cina (Tsin-Schi-Huang-ti) in India (dinastia Maurya) e in occidente (i regni ellenistici e l’imperium romanum). Queste grandi formazioni statali, splendide a volte, ebbero una lunga durata ma alla fine anch’esse (come gli imperi delle prime alte civiltà) scomparvero. La loro evoluzione costituisce la «storia» dopo il periodo assiale.

Sarebbe un errore credere, comunque, che il periodo assiale sia un fenomeno peculiare soltanto alle tre regioni di cui abbiamo parlato, fa presente Jaspers. È vero che lì e soltanto lì nacque e si evolse. Ma è anche vero che successivamente esso finì per abbracciare tutto storicamente. «Tutti i popoli che non hanno preso parte alle sue manifestazioni sono rimasti primitivi continuando a vivere quella vita astorica che era durata centinaia o migliaia di anni. Quelli che si sono trovati fuori delle tre regioni del periodo assiale sono rimasti in disparte o sono venuti in contatto con uno di questi tre centri d’irradiazione spirituale. Nel secondo caso essi sono stati attratti alla storia. Ciò è avvenuto, ad esempio, in Occidente ai germani e agli slavi, in Oriente ai giapponesi, ai malesi e ai siamesi. Per molti popoli primitivi il contatto si è concluso con la loro estinzione. Tutti gli uomini vissuti dopo il periodo assiale o sono rimasti allo stato di natura o hanno preso parte al nuovo corso degli eventi, che poneva ormai le basi di tutto».78 Dopo la fine del periodo assiale il destino comune delle tre grandi aree della cultura si è separato. Il tentativo di portare avanti questo parallelismo anche oltre il 200 a.C. è vano. Le storie si sono differenziate. Ognuna di queste tre regioni ha imboccato una strada propria ed è giunta a risultati originalmente peculiari. In questo senso ci troviamo di fronte, ancora, ad un insieme di storie locali indipendenti l’una dall’altra; a queste si affiancheranno quelle dei popoli dell’America centro-meridionale. Jaspers, per la grandezza delle istituzioni statali ma anche per la povertà spirituale che a suo parere le contraddistinguono, le assimila alle vicende delle antiche alte civiltà: «I popoli americani del Messico e del Perù giustificano il confronto con la Babilonia e l’Egitto».79 In Cina, in India, in Asia più generalmente, gli influssi del periodo assiale si faranno sentire ancora a lungo e le differenze rispetto alla storia occidentale, per quanto forti, saranno «assorbite» da quella «comune origine». Solo dopo il 1500, quando in Europa si avranno i primi passi nello sviluppo scientifico, la distanza fra queste aree sarà sempre maggiore. Proprio allora avrà inizio il tramonto culturale di questi popoli su cui scenderà una spessa cortina di silenzio. Essi solo adesso, ai nostri giorni, dopo un lungo periodo di stasi, stanno nuovamente assurgendo a popoli guida dell’umanità. Jaspers guarda all’Asia, e alla Cina di oggi particolarmente, come a un vasto serbatoio di energie umane e spirituali, che in avvenire non potranno non giocare un ruolo fondamentale nella storia mondiale. Come nell’antichità essi hanno segnato la storia dell’uomo, così adesso saranno forze capaci di plasmare il processo storico mondiale. In Occidente la storia post-assiale è più inquieta e, per certi versi, più drammatica rispetto all’Oriente. Anzitutto Jaspers nota come vi sia una polarizzazione al suo stesso interno fra Occidente e Oriente. Una polarizzazione che diventa fautrice di instabilità, mutamenti, conflitti. Jaspers nota e sottolinea una continuità spirituale nei popoli occidentali con il grande periodo precedente soprattutto grazie ad una serie di «Rinascite» che contribuiranno a restaurare il clima dell’età assiale. Egli cita il Rinascimento italiano, ma prima ancora il contatto e la presa di coscienza dei popoli nordici con quelli assiali: «I germani cominciarono la loro missione spirituale mondiale soltanto quando vennero a condividere quella rivoluzione dell’essere-umano che si era iniziata un millennio prima». E quanta importanza Jaspers dia a questa «condivisione» lo si vede immediatamente dopo: «Dal momento in cui si misero in rapporto con quel mondo essi diedero il via a un nuovo movimento, in cui si trovano ancor oggi come mondo latino-germanico dell’Europa. Ebbe inizio un altro fenomeno storicamente unico. Quanto l’antichità non era più riuscita ad ottenere si avverò ora. Le più estreme tensioni dell’essere-umano, la luminosità delle situazioni-limite, tutto ciò che era cominciato nel periodo del risveglio, ma era quasi naufragato nella tarda antichità, ebbero ora compimento con la stessa profondità, e forse con maggiore ampiezza; certo, non per la prima volta, e non attingendo esclusivamente alle proprie risorse, ma originalmente grazie all’incontro con una tradizione che venne ora sentita come propria. Cominciò una nuova prova di ciò che è possibile all’uomo».80 Sempre in Occidente – inteso nel suo significato più ampio – si avranno altre grandi manifestazioni: l’Impero Romano, il Cristianesimo, che rappresenta l’asse della nostra storia; l’Islam; le fratture all’interno della Chiesa cristiana. Questi sono fenomeni di continuità e arricchimento dell’età assiale i quali hanno plasmato le coscienze di intere generazioni di uomini. Tuttavia, per cogliere qualcosa di nuovo, di rivoluzionario, di assolutamente originale e nello stesso tempo della più grande importanza, bisognerà aspettare l’avvento dell’era scientifica, che trasformerà interamente il destino, prima dell’Occidente, e poi dell’intero pianeta. Questa è la profonda convinzione di Jaspers: dopo il periodo assiale che ha costituito l’uomo, la scienza e la tecnica rappresentano «un fatto che non ha eguali in tutta la scoria passata».81 Esso è «l’immediato presupposto della nostra vita spirituale».82

Il quarto periodo nell’evoluzione storica concepita da Jaspers è il periodo relativo all’avvento dell’era tecnico-scientifica. Questo è l’ultimo che noi riusciamo a scorgere. Jaspers ritrova il suo sviluppo nella lenta ascesa dell’evoluzione scientifica che si ebbe tra il 1500 e il 1800 in Europa. Il filosofo tedesco pone in risalto il fatto che una tale evoluzione ha avuto origine essenzialmente in occidente, anzi, più specificamente in Europa; e che essa ha contemporaneamente accentuato il processo di differenziazione fra le aree del periodo assiale; processo già in atto ormai da molti secoli. Jaspers vede infatti nella scienza e nella tecnica «l’unico elemento autenticamente nuovo e radicalmente diverso, senza confronti con tutto ciò che è asiatico, completamente autonomo ed estraneo persino ai greci».83 Ma oltre all’elemento di differenziazione rispetto alla matrice asiatica, Jaspers trova nella scienza il veicolo di mutamenti e trasformazioni tali da sconvolgere e indirizzare su nuovi binari lo svolgersi delle vicende umane. Anzitutto egli rileva che la prima conseguenza dell’enorme sviluppo della scienza e della tecnica consiste in una «unificazione» delle frazionate e autonome storie locali. «Oggi per la prima volta – scrive – esiste una reale unità dell’umanità, consistente nel fatto che nulla di essenziale può avvenire in un punto qualsiasi senza che tocchi tutti da vicino».84 Ora, questa «unificazione» è posta, dal filosofo di Oldenburg, alla base di nuove possibilità, che si muovono fra i poli della «edificazione» e della «distruzione». Jaspers, cioè, è del parere che, con l’unità della terra alla base, tutto ciò che di positivo può originarsi dall’uomo si ripercuote positivamente verso tutti gli uomini; ma è anche del parere che tutto ciò che dall’uomo, e dalle sue creazioni tecniche, viene di negativo rappresenti un pericolo per tutta l’umanità. È facile qui scorgere il «perché» di queste riflessioni. Jaspers aveva scritto Origine e senso della storia nel 1949, all’indomani del secondo conflitto mondiale, un conflitto portato avanti con i nuovi mezzi tecnici a disposizione, e che aveva finito per coinvolgere in un baratro di distruzione e di violenza tutto il pianeta. Quella guerra non fu semplicemente una guerra fra le tante combattute precedentemente, un conflitto fra due nazioni relativo a interessi strettamente privati; ma un conflitto che significò il coinvolgimento dell’intera terra, proprio perché la terra stessa era ormai da considerarsi come un tutt’uno. La scienza e la tecnica avevano permesso questa unificazione e contemporaneamente avevano posto nelle mani dell’uomo i mezzi necessari a portare la guerra nell’intero pianeta. Un altro pericolo, meno cruento forse, ma per questo non meno pericoloso, è rappresentato dai fenomeni di meccanizzazione che stanno a capo dell’evoluzione tecnica. In questi fenomeni «l’individuo è sopraffatto da una profonda insoddisfazione di se stesso, oppure si rassegna, dimentico di sé, a diventare un elemento funzionale della macchina, ad abbandonarsi irriflessivamente al suo esserci vitale, ormai spersonalizzato, a perdere di vista l’orizzonte del passato e del futuro e a ritirarsi in un presente angusto, infedele a se stesso, barattabile e utilizzabile per qualsiasi scopo impostogli, stregato da pseudocertezze eludenti discussione e prova, statiche e non dialettiche, facilmente sostituibili».85

In generale, comunque, il pericolo maggiore che l’uomo corre quando ha a che fare con la scienza moderna è quello di sopravvalutarne le possibilità, cioè quello di affidarsi, con poca «chiarezza» di pensiero ed eccesso di fiducia, alle sue prerogative, nella speranza – falsa, sottolinea Jaspers – che essa possa assicurare un futuro nuovo e migliore all’umanità: «Il grande urgente compito ancor oggi è dunque quello di comprendere esattamente il senso e i confini della scienza moderna».86 Del resto, quale sia l’atteggiamento di Jaspers nei confronti della scienza è abbastanza noto, dal momento che, fondamentalmente, la sua concezione è rimasta nel tempo abbastanza fedele a se stessa: «La nostra conoscenza scientifica – afferma – giunge soltanto fin dove la realtà può essere imbrigliata nelle nostre categorie e con i nostri metodi. Questi presupposti del procedimento delle scienze empiriche non permettono un sapere concernente la totalità dell’esperienza. Difatti, dati questi presupposti, o altri che si rendano opportuni, posso procedere con la conoscenza all’infinito, ma non posso anticipare un’immagine dell’infinito, facendone un oggetto che si presuma già conosciuto in toto, nei tratti fondamentali».87 In ultima analisi occorre dire che la scienza, con il suo sapere che si spinge sempre in avanti, non è in grado di afferrare l’eterna certezza dell’essere nella sua totalità. Ora, se da una parte Jaspers riconosce in ogni caso alla scienza un suo proprio ruolo insostituibile quando afferma che essa (che rappresenta «l’evento più rilevante nella storia del mondo dopo il creativo periodo assiale») «diventa per noi la condizione dell’intera verità della filosofia stessa» dal momento che «senza scienza non è più possibile qualsiasi veracità del filosofare»,88 d’altra parte fa notare come la scienza può essere facilmente sopravvalutata, fraintesa o addirittura essere soggetta a sviamenti e deviazioni. In questi casi la «scienza è considerata solo in funzione della tecnica, come se fosse stata posta in essere dalla volontà di potenza tecnica, e addirittura si ravvisa in essa un pervertimento del senso di verità di significato transitorio ma storicamente funesto».89 La scienza, afferma il filosofo tedesco, deve essere capita, compresa nel suo giusto valore e mantenuta entro i confini che le sono propri. Occorre abbandonare la «superstizione» che essa possa «instaurare per l’umanità un ordinamento del mondo così giusto da creare uno stato duraturo di benessere e di felicità».90 Occorre cogliere apertamente i pregi e i limiti di una tale creazione, con la coscienza, però, che i suoi mezzi e la sua potenza possono ben sfuggire di mano con conseguenze incalcolabili e definitive per l’intera umanità. Il secondo conflitto mondiale, il pericolo della bomba atomica, non sono che un «segno» di ciò a cui si può giungere. Non a caso, credo, Jaspers afferma che «il destino dell’uomo dipende dal modo in cui egli riuscirà a padroneggiare le conseguenze della tecnica per la sua vita».91 È quindi l’uomo che ha nelle sue mani il proprio destino; Jaspers lo considera come l’arbitro e l’artefice della qualità e del futuro della sua vita; tutto sta a lui, e abbiamo anche visto che non potrebbe essere diversamente: «la tecnica è solo un mezzo, in sé né buono né cattivo. Tutto dipende da quello che ne fa l’uomo, dallo scopo per cui gli serve, dalle condizioni a cui l’assoggetta. Si tratta di vedere che tipo d’uomo se ne impadronirà, quale sorta di creatura l’uomo alla fine dimostrerà d’essere con l’uso fattone. La tecnica è indipendente da quello che con essa si può fare; in quanto entità autonoma è una potenza vuota, in definitiva un trionfo paralizzante del mezzo sul fine. È possibile che la tecnica, sciolta dal senso umano, diventi frenesia in mano di mostri; o che la terra, insieme con la sua popolazione si riduca soltanto a materiale di un’unica fabbrica gigantesca […]? L’intelligenza può immaginare che ciò sia possibile; la coscienza del nostro essere-umano dirà sempre: nell’insieme è impossibile».92 Il fatto che per quanto fondamentale l’evoluzione della scienza moderna è sempre subordinata alla «personalità» dell’uomo che può e deve farne l’uso più appropriato, si può anche cogliere quando Jaspers afferma che questo momento che noi stiamo vivendo, di crescita, di innovazioni, di grandi scoperte ecc. non è un secondo periodo assiale. Infatti: «In nettissimo contrasto con il primo esso è piuttosto un periodo di catastrofica discesa verso la povertà di spirito, umanità, amore e forza creativa».93 Il quadro d’assieme, afferma Jaspers, ci dà l’impressione che lo «spirito» stesso sia stato risucchiato nel processo tecnologico; così «se cerchiamo una analogia per la nostra epoca, non la troviamo nel periodo assiale, ma piuttosto in un’altra era tecnica, di cui non abbiamo alcuna notizia tramandata: l’era dell’invenzione degli utensili e dell’uso del fuoco».94 Jaspers non sa se un nuovo periodo assiale potrà nuovamente venire.95 Fondamentalmente «la storia dell’umanità si muove fra due poli che rimangono sconosciuti, quello della sua origine e quello della sua meta»;96 ma la «profonda matrice da cui siamo derivati, il fondo autentico nascosto dal velo di costruzioni culturali secondarie, di giri di parola, convenzioni e istituzioni, deve tornare a farsi sentire».97 Solo così «questo asse reale sarebbe allora l’incarnazione di un asse ideale intorno a cui l’essere umano viene a trovarsi riunito».98

3. Le colpe della Germania

Abbiamo visto quale sia stata la tragica esperienza vissuta da Jaspers durante lo svolgimento del secondo conflitto mondiale. Furono, i suoi anni, di disperazione e di paura (egli ricorda come la deportazione sua e della moglie fosse stata fissata per il 14 aprile 1945, e come solo il 1º aprile Heidelberg fosse stata occupata dagli americani).99 Furono anche anni di profonde riflessioni sulla natura dell’«anima tedesca» e sull’attuale «perversione» di tale anima, oltre che sul destino dell’uomo in generale. In quei frangenti, lo abbiamo già sottolineato, Jaspers porta a maturazione la sua esperienza politica, e fissa con energia una linea che successivamente manterrà con grande coraggio e fermezza. Vorrei sottolineare il fatto che con questo non s’intende affermare che il filosofo tedesco elaborò nel tempo un «sistema» politico mantenendosi poi ad esso coerente. Anzi, occorre ribadire come pur dando un notevolissimo contributo a questioni politiche di capitale importanza (come il problema inerente alla «colpa» e quindi al «dopo» della Germania, o come il problema delle armi nucleari, o come ancora il problema della «riunificazione»), il filosofo di Oldenburg non abbia mai elaborato un sistema politico teorico definito e definitivo. Infatti «come non si è mai piegato alla tentazione di formulare una sistematica del filosofare, così non ha mai preteso di dare soluzioni precise ai problemi storici, quanto di mostrare un vivo interesse e una sofferta partecipazione ai temi più scottanti della vita politica e sociale».100 Ciò che vorrei far presente invece è la risolutezza e il coraggio con cui Jaspers ha saputo portare avanti le sue convinzioni, anche quando esse urtavano fortemente la suscettibilità, non tanto dei suoi nemici (cosa che lo preoccupava relativamente), quanto dei suoi interlocutori più aperti e disponibili. Opere come La colpa della Germania o come La Germania tra libertà e la riunificazione furono oggetto di grandi apprezzamenti, certo, ma anche di feroci attacchi: dopo la pubblicazione de La colpa della Germania, Jaspers ricorda come abbia ricevuto lettere che lo accusavano di alto tradimento.101 L’analisi fatta a proposito della «riunificazione» della Germania fu poi considerata come uno degli attacchi più violenti sferrati contro la BRD da un tedesco; per non parlare dell’etichetta di filosofo della NATO affibbiatagli nel dopoguerra dai comunisti.102 Il perché di tali attacchi è presto spiegato. Accanto ad una valutazione profondamente pensata della situazione presente, che andava al di là di un emotivo abbandono alle passioni o di un mal interpretato spirito di rivincita, Jaspers affiancava la lucidità e la coerenza di idee che il più delle volte urtavano contro il pubblico ma spesse volte comodo modo di pensare. In questi scritti troviamo una tremenda serietà di fondo, che contrasta con la «volontà di dimenticare» che già prendeva spazio nelle discussioni del tempo. Jaspers non era però una figura che potesse arenarsi nelle secche di una «critica sterile o del qualunquismo moralistico».103 Il suo obiettivo era quello di smuovere la coscienza e di promuovere una reale consapevolezza di ciò che era accaduto. Due sono, per così dire, i punti nodali della storia del Novecento: Auschwitz e Hiroshima. Tutte le grandi speranze e i sogni di grandezza e di felicità che l’uomo aveva coltivato si infransero drammaticamente contro tali spaventose realtà. Era possibile dimenticare? Era possibile ricercare degli ambigui accomodamenti? Delle valutazioni superficiali? Non per Jaspers, il quale, nei fatti, vedrà in Auschwitz e in Hiroshima il presagio di nuovi e definitivi pericoli per l’umanità: il totalitarismo, e la distruzione del pianeta. Il suo atteggiamento sarà dunque quello di un aperto e chiaro orientamento nella situazione attuale, che, pur non definendosi in concrete «risposte ultime» o idee determinate, si mostrerà disponibile ad una reale chiarificazione del momento storico presente. Nel 1945, dopo la liberazione di Heidelberg ad opera degli americani, Jaspers riprende la sua attività di docente nella locale Università. Nell’autunno di quell’anno affronta i problemi che riguardavano direttamente la Germania, e particolarmente la questione della colpa. Renato De Rosa nel dicembre dello stesso anno, ad Heidelberg, nell’introduzione a La colpa della Germania scrive: «Queste lezioni hanno suscitato e suscitano ancora grande emozione tra gli studenti e, per riflesso anche sulla popolazione, dato che è la prima volta, dopo tanto tempo, che qualcuno ha il coraggio di parlare con voce chiara e alta e secondo Verità, delle cose della Germania. E l’emozione si manifesta anche attraverso la maniera come l’uditorio si comporta. Si ha l’impressione che venga trattenuto il respiro. I nervi sono tesi. Raramente si battono i piedi in segno di approvazione, secondo l’uso tradizionale; raramente si strisciano per disapprovare».104 In poche battute ecco già delineata con chiarezza la situazione: alla volontà, e al coraggio della verità, da parte di Jaspers fa riscontro un atteggiamento non risoluto, non chiaro e unanime da parte dell’uditorio (e non soltanto quello studentesco). Ciò, credo, è anche comprensibile: in molti era rimasto il ricordo e l’orgoglio della passata potenza, il risentimento per la sconfitta, l’incapacità della sua accettazione, in molti altri mancava una chiara consapevolezza critica, molti altri erano semplicemente delle vittime ancora impaurite del partito nazista. In una tale situazione Jaspers prese la parola con la lucidità di chi vuole «illuminare e fare coraggio» ai tedeschi, ma anche con la durezza di chi vuole smascherare dodici anni di menzogne e di violenze. «II nazionalsocialismo – scrive ancora De Rosa – veniva analizzato da Jaspers con una spietata oggettività impressionante, degna della sua fama di psicologo. Gli studenti presero posizione contro di lui. Non tuti lo capivano. Non tutti avevano il coraggio di essere sinceri con se stessi e liberarsi di tutte le soprastrutture del passato, per le quali avevano tanto sofferto e tanto avevano ancora da soffrire. «Anche gli amici migliori del filosofo erano qualche volta dalla parte dei giovani […] Ma Jaspers non era indulgente con gli studenti, e non si lasciava commuovere dalle loro reazioni psicologiche, appariva spietato nelle sue analisi, perché si trattava di mettere a nudo le anime e di indurle alla loro rinascita e alla loro riabilitazione».105 Nella prolusione al corso di lezioni sulla situazione spirituale della Germania Jaspers, intuendo che più d’uno potesse «sentirsi colpito personalmente», dice: «vi prego fin da ora di volermi perdonare se offendo. Non è nelle mie intenzioni. Però sono ben deciso ad osare i più radicali pensieri con la massima ponderatezza possibile».106 Questa sua decisa posizione sarà mantenuta coerentemente in virtù della necessità che «ora – scrive Jaspers – veramente si tratti di cercare la verità».107 Egli si impegnerà con grande passione in tale ricerca, con l’idea che una riabilitazione del popolo tedesco, se essa è possibile, passa necessariamente attraverso il riconoscimento della colpa, e quindi, attraverso una consapevolezza matura e cosciente delle proprie responsabilità. «Lo scopo delle sue lezioni – scrive De Rosa – era quello di far riconoscere la colpa e la necessità di un tale riconoscimento. Indicare l’unica via possibile a loro rimasta: quella dell’assoluta onestà e lealtà di fronte al vincitore. Far rinascere in loro la coscienza della vera natura tedesca risalendo alla tradizione. Far rinascere in loro il bisogno di una comunicazione sincera tra di loro. Indicar loro la via della purificazione».108 Per giungere a queste consapevolezze, afferma Jaspers, «allora non debbono sussistere limitazioni che derivino da una riguardosa riservatezza. Né bisogna tacere per mitezza di animo o illudere per consolare. Non c’è nessun problema che non dobbiamo proporci e affrontare, nessun assioma, nessun sentimento, nessuna menzogna convenzionale che dobbiamo salvaguardare e ritenere intangibile».109 Dopo aver specificato, con queste parole, quale debba essere l’atteggiamento di sincera e coraggiosa apertura con cui occorre porsi di fronte alla situazione del tempo, Jaspers passa a specificare distinguendole, le colpe di cui la nazione tedesca si è macchiata e che occorre necessariamente riconoscere.

Jaspers, dunque, distingue la «colpa politica», intesa come responsabilità diretta e collettiva per le azioni compiute dal regime, dalla «colpa morale» che nasce dalla reale e fattiva collaborazione al regime, e, infine, dalla «colpa metafisica» che nasce a sua volta dall’impossibilità e dalla mancata opposizione ai delitti commessi. Questa distinzione è all’origine di un grave malinteso che si rivolgerà contro Jaspers stesso. L’opinione pubblica crederà, travisando completamente lo scritto, che il filosofo qui abbia sostenuto la tesi di una colpa collettiva, quando, in realtà, lo scopo di Jaspers era quello di porre in risalto la responsabilità individuale. In un’intervista televisiva del 1960 dirà: «Lo scritto è un’analisi sistematica di concetti. Quali concetti di colpa possono esistere? Ed ho distinto consapevolmente colpa morale e delitto da responsabilità politica. A pochi tedeschi si deve attribuire la colpa morale, a pochissimi, anche durante il nazismo, il delitto. Ma la responsabilità politica è altra cosa! Di essa ho affermato, che chi vive in uno stato […] se non ha rischiato la propria vita in questo stato per impedire il delitto, è politicamente responsabile e deve prendere su di sé insieme con gli altri le conseguenze degli avvenimenti. Stoltamente si è affermato che io abbia accettato il concetto di colpa collettiva. – È vero il contrario! Ho spiegato esplicitamente che essa non esiste. Ma è rimasta la diceria che io abbia affermato la colpa collettiva e il mio scritto è stato sepolto».110 Quello che Jaspers vuole dunque mettere in risalto è la «colpa individuale». Essa viene definita con chiarezza nella distinzione che egli fa fra «colpa politica» e «colpa morale». Riguardo alla «colpa politica» (cioè alla responsabilità dei delitti commessi dal Reich tedesco) Jaspers scrive: «Abbiamo una responsabilità collettiva». Ma, continua, «rimane a vedere in che senso ciascuno di noi deve sentirsi corresponsabile». Questa «corresponsabilità» secondo Jaspers, vale per le «azioni» compiute dallo stato a cui si appartiene (e qui siamo nella colpa politica); però ciò «non significa che ciascuno è colpevole anche nel senso morale di aver preso parte, nel fatto o nel suo modo di pensare, a quei delitti».111 Vorrei chiarire come in effetti, e decisamente, Jaspers, forse rendendosi conto di un possibile travisamento delle sue parole, si sforzi di rendere ben chiaro questo punto. Egli probabilmente si rende conto che un’accusa collettiva contro il popolo tedesco finisca col tagliargli le gambe completamente, finisca, cioè, per non permettere più alcuna possibilità di riabilitazione e di ripresa. Il suo timore è che venga definito un «tipo», il tedesco, assimilato, associato a determinate caratteristiche peculiarmente negative. Sottolinea come non vi sia alcuna «caratteristica di un popolo tale che possa averla ciascun individuo che vi appartiene. Ci sono sì degli elementi in comune, come la lingua, i costumi e le abitudini, la razza. Ma ciò nonostante anche in essi sono possibili, d’altro canto, delle differenze così forti, per cui uomini che parlano la stessa lingua possono essere talmente estranei l’uno all’altro da far pensare che essi non appartengono affatto allo stesso popolo».112 Ma, indipendentemente da queste ultime considerazioni, occorre ribadire che Jaspers decisamente non crede a una «colpa collettiva» della Germania. Questa è solo «individuale», e quindi occorre rivolgersi al singolo, alla sua coscienza, auspicando una rigorosa autocritica e una severa conversione interna. «Come ciascun Tedesco possa correggere e riabilitare se stesso – scrive –, è cosa che nessuno può prescrivere o fissare in anticipazione. È cosa che riguarda ciascun individuo chiuso in se stesso nella intimità della sua coscienza. Quel che può venir fuori da questo esame interiore e da questo travaglio deve costituire la base essenziale di quello che dovrà essere nell’avvenire l’anima tedesca».113

Un’altra considerazione che vorrei fare riguarda un particolare che nello scritto di Jaspers va sotto il nome di colpa degli altri. Qui Jaspers affronta in una prospettiva più ampia il problema della responsabilità. Anzitutto più volte sottolinea il fatto che parlare di «colpa degli altri» non significa per niente scaricare o sminuire la propria colpa. Essa, dice, è nostra, e deve pesare solo su di noi. «Per tutti gli altri si trattò allora di una certa noncuranza dovuta al loro atteggiamento ambiguo, per niente chiaro e deciso. Si trattò solo di un errore di natura politica».114 Insieme al riconoscimento delle proprie responsabilità, Jaspers richiama così l’attenzione sul fatto che prima dell’avvento del nazismo al potere, nessuno, né la Francia, né l’Inghilterra o l’America, mosse un dito per evitare un simile disastro. «Ora il non aver agito a tempo rappresenta una possibile accusa contro le potenze vincitrici, accusa che però in ogni caso naturalmente non ci libera da nessuna colpa».115 Quello che Jaspers rimprovera agli «altri» è il non essere riusciti a comprendere tempestivamente quale drammatico destino si stava preparando, e di essersi rifugiati dietro a una falsa atmosfera di pacificazione. Insomma di non aver pensato che a se stessi, senza considerare che, così facendo, si dava via libera al nazismo e alla sua sete di conquiste. Con una certa amarezza, ricordando il patto fra l’Inghilterra e Hitler tramite Ribbentrop del 1935, Jaspers scrive: «Ciò significa per noi che l’Inghilterra, pur di potersene stare in pace con Hitler, sacrificava il popolo tedesco».116 Ovviamente queste osservazioni vanno interpretate. Non credo debbano essere intese solo come uno sfogo nei confronti di chi potendo, quando ancora era in tempo, titubò. Credo che esse vadano inserite anche in una prospettiva futura. Quel che è successo può ancora succedere. Nessun popolo, nessuno stato può ritenersi a priori immune da tale pericolo. «In ogni parte del mondo bisogna guardarsi dall’illusione del «qui non potrà mai accadere», dirà qualche anno dopo.117 Stando così le cose Jaspers vuole che il tragico destino della Germania serva da esempio e da monito per tutta la terra: «La sorte della Germania potrebbe essere un’esperienza per tutti. Possa questa esperienza essere compresa e giustamente apprezzata».118 Il pericolo di un ritorno al delirio totalitaristico, sia in Germania, sia in altri stati, sarà sempre temuto da Jaspers, il quale negli anni successivi alla pubblicazione de La colpa della Germania gli dedicherà buona parte delle sue energie e della sua intelligenza.

4. Il destino dell’uomo nell’era atomica

Nel 1958 Jaspers pubblicò La bomba atomica e il destino dell’uomo. Erano passati rispettivamente dodici e nove anni da quando aveva dato alle stampe La colpa della Germania e Origine e senso della storia. Furono gli anni post-bellici densi di tensioni ed attriti; anni di contrasti fra le potenze vincitrici che sfociarono, poi, nella «guerra fredda» fra quelle che ormai potevano essere definite le due superpotenze. L’Europa era stata divisa in due blocchi, ognuna sotto l’influenza, diretta o indiretta, di una delle due superpotenze; ma in generale, tutto il pianeta risentì di questa divisione, e in esso si formarono aree più o meno ampie «legate» all’una o all’altra parte. Conflitti, interessi o problemi «locali» non erano più conflitti interessi e problemi «periferici», ma situazioni che rientravano a tutti gli effetti nell’ambito dell’ampio quadro dello sviluppo politico-sociale dell’intero pianeta. Veniva confermato così quello che Jaspers (ma non solo lui) aveva ampiamente previsto in Origine e senso della storia: non più storie locali e autonome, ma, con l’esplosione della scienza e di ciò che di più spettacolare da essa deriva – la tecnica – un’unica storia universale in cui le vicende, i pericoli, gli sviluppi di un popolo interagivano con le vicende, i pericoli, gli sviluppi di tutti gli altri popoli. In questi anni Jaspers, con vari studi, articoli, o interventi diretti (pubblicò fra l’altro La battaglia contro il totalitarismo) approfondì i temi politici che aveva maturato durante il periodo della seconda guerra mondiale. Ma una nuova realtà, o forse, sarebbe meglio dire, una nuova minaccia si stava delineando, apparendo in tutta la sua imponente drammaticità: il pericolo della distruzione dell’intero pianeta e dell’uomo, ad opera della bomba atomica. Questa terribile arma, che si configurava come il punto di arrivo dell’evoluzione tecnica spinta ai limiti estremi, con il suo enorme potenziale distruttivo rappresentò, per Jaspers, il punto di partenza119 per un’analisi approfondita sull’uomo e sul suo destino. Nel 1949 in Origine e senso della storia aveva scritto: «Durante gli ultimi secoli […] ha fatto la sua apparizione un fenomeno intrinsecamente nuovo sotto tutti gli aspetti: la scienza con le sue conseguenze nella tecnica. Essa ha rivoluzionato il mondo interiormente ed esteriormente come mai nessun altro evento dall’inizio dei ricordi storici. Ha portato con sé occasioni e pericoli senza precedenti. L’era della tecnica, in cui viviamo da appena un secolo e mezzo, ha conquistato un dominio completo solo negli ultimi decenni, ma va intensificandolo in una misura di cui non sono prevedibili i limiti. Ci rendiamo conto solo in parte delle sue enormi conseguenze».120 C’è da chiedersi a che cosa pensasse Jaspers quando parlava di «occasioni e pericoli senza precedenti», o del fatto che non ci rendiamo conto delle enormi conseguenze di un tale sviluppo tecnico. Probabilmente non al pericolo della distruzione totale, così come oggi, e ormai da tempo, siamo abituati a farlo noi. È vero, c’erano state Hiroshima e Nagasaki, ma nell’immediato dopoguerra ancora non si era rivelata pienamente l’idea della possibilità di una distruzione dell’intero pianeta ad opera delle bombe atomiche. Tuttavia la coscienza di questa possibilità – che rappresentava un pericolo così radicale per l’umanità da porla in una situazione limite – si fece lentamente avanti, soprattutto nell’ambiente degli scienziati che, per primi, espressero con chiarezza e decisione il pericolo cui si andava incontro. Jaspers (che, non dimentichiamolo, era stato prima scienziato e poi filosofo) si dimostrò molto attento ai problemi che si stavano delineando e assimilò presto, facendoli suoi, le grida di allarme e di grande preoccupazione che partivano da scienziati come Albert Einstein, Otto Hahn, Max Born, Robert Oppenheimer.121 Il suo atteggiamento fu subito molto aperto, infatti intuì presto la gravità degli immediati sviluppi, e di quella che noi oggi chiamiamo la «corsa agli armamenti» che, all’epoca, era appena iniziata. Oggi, scriveva Jaspers, questo «non è un problema fra gli altri, ma il problema dell’essere e del non essere. Esso getta la sua ombra su tutto quello che, altrimenti, ancora possiamo fare e domandare».122 Già nel 1958 il filosofo tedesco affermava: «Chi dubita delle possibilità che già oggi ogni forma di vita sulla terra possa essere annientata forse ha ragione. Ma tra dieci anni o anche prima ci si arriverà. Questa piccola differenza di tempo non diminuisce l’urgenza della riflessione».123 Quando ancora c’era chi non credeva alla reale possibilità della distruzione del pianeta, Jaspers si impegnava con grande energia in un’opera molto vasta ed estremamente interessante, che se da un lato partiva da una problematica strettamente politica e contingente, dall’altro si allargava, in piena apertura filosofica, al destino ultimo dell’uomo e a riflessioni che toccavano direttamente il fondamento e le radici dell’umanità. «Si tratta – con le parole di Giorgio Penzo – del lavoro più filosofico dei suoi scritti politici».124 Vorrei ribadire che Jaspers, in coerenza con la linea che aveva adottato fino ad allora, non intendeva fare della «politica» in senso stretto. «L’intento di questo scritto – scriveva – è filosofico. Non è quello di fare una proposta, non quello di effettuare un atto politico, non quello di portare sul tutto una soluzione. Non appartiene a nessuna “competenza” e non se ne occupa per propria legittimazione».125 Ciò che si riprometteva era di scuotere le coscienze, di smuoverle dal torpore della vita quotidiana adagiata in una, per nulla responsabile, «volontà di non sapere». «Trattare una reale possibilità, non ancora ponderata in nessun modo, come se scomparisse nel caso che la si escluda, è come seguire un contegno dello struzzo». Ecco l’atteggiamento che il filosofo tedesco voleva combattere, certo che «la volontà di non sapere è già essa stessa la sciagura».126 Il suo scopo era quello di denunciare il processo di mascheramento con cui banalmente si tentava di neutralizzare l’angoscia che sarebbe derivata da un’adeguata coscienza di questo pericolo. Jaspers era senz’altro conscio delle difficoltà di un tale compito, tanto più che la problematica che lui andava ad affrontare era di vastissima portata; nonostante ciò era fortemente convinto di quello che doveva fare: «In questa situazione il riflettere è poco – affermava –, ma è premessa per tutto ciò che viene dopo; serve per orientarsi per vedere cosa avviene – per raffigurarsi quello che è possibile e le conseguenze degli eventi e delle azioni – per chiarire la situazione nelle direttive evidentemente in atto – in definitiva per apprendere che il nuovo brutale fatto spinge il nostro pensiero sino alla radice dell’essere umano, fino lì dove diventa problema dell’uomo, che cosa egli sia e possa essere».127

Dopo aver definito la nuova situazione, il filosofo di Oldenburg passa a cercare «una risposta ad essa corrispondente». Cerca cioè cosa l’uomo può fare, cosa deve fare se vuole salvarsi. Anzitutto stigmatizza come false le ottimistiche illusioni di coloro che vorrebbero far credere che la stessa bomba atomica, con il suo potenziale distruttivo, possa esercitare una permanente e stabile azione di deterrenza. Egli fa presente che l’equilibrio derivante dal terrore, l’equilibrio che nasce dal potere deterrente delle armi atomiche, è legato ad un’angoscia che riguarda solo la distruzione dell’esserci umano, e che ci porta ad affidare la nostra salvezza a quella stessa scienza che ha costruito la minacciosa realtà della bomba atomica: «Attraverso la sola angoscia non può esserci a lungo la pace. Fondare il mondo su questa angoscia o sulle pure trattative e sui puri accordi, se sono prodotti solo da questa angoscia e poi tenuti su da questa, è veramente pazzia. La via d’uscita dalla sciagura non costa così poco».128 «Poiché la scienza – come progresso della conoscenza necessaria della natura – non può afferrare da sola il proprio significato, e non giustifica mai sufficientemente il fatto che debba esistere, non è neppure capace di mostrare la via d’uscita di fronte alla minaccia della sciagura».129 Questa è la sua idea di fondo, un’idea che probabilmente confermerebbe anche oggi davanti agli attuali tentativi di rendere inutili gli imponenti apparati nucleari per mezzo di nuovissimi sofisticati sistemi di difesa (guerre stellari). Infatti «sulla via del modo di pensare scientifico, che ha condotto alla scoperta della energia atomica – afferma – non è possibile una soluzione dei problemi sollevati dalla esistenza della bomba atomica».130 Un atteggiamento simile si può osservare quando rifiuta la «politica» come azione capace di dare una risoluzione alla nuova situazione. «Presentemente – scrive – la politica corre ancora sugli stessi binari di sempre, si serve degli stessi mezzi e della stessa sofistica delle argomentazioni vigente da sempre. È quindi facile mostrare come oggi ancora sia efficace il contrario di quei principi».131 Denuncia quindi apertamente i canoni politici universalmente accettati; denuncia i modi di gestire i rapporti tra i popoli basati sui tradizionali principi di sovranità-assoluta, non-interferenza, diritto di veto, trattative segrete ecc.132 Essi rappresentano «solamente un velo apparentemente morale dietro il quale ognuno fa quello che vuole per assicurare i suoi interessi legati alla potenza. Per altro sono un argine, eretto con consapevolezza pubblica, per differire la sciagura, ma un argine che può rompersi in ogni momento».133 Come occorre cercare oltre la scienza – espressione dell’intelletto – per sperare nella soluzione dei nuovi problemi, nello stesso modo, per Jaspers, occorre andare oltre la politica, ricercando nuove istanze, capaci di determinare un cambiamento nell’essenza dell’uomo: «Non basta trovare nuove istituzioni, dobbiamo modificare noi stessi, le nostre opinioni, la nostra volontà etico-politica».134 «La stessa politica – continua – ha bisogno di un’altra guida. Chi su questa strada opera pensando fondatamente al futuro, è sempre diretto da qualche cosa di più che non siano motivi politici. Dove è stata commisurata all’uomo la politica non è mai bastata a se stessa».135 Da qui si sviluppa la necessaria esigenza del «sovra-politico»; l’esigenza cioè di porre alla base dei rapporti umani anzitutto un cambiamento nel modo stesso di essere e di pensare del singolo uomo. Il sovra-politico, che Jaspers si figura come «idea morale» e come «spirito di sacrificio», affida una nuova e profonda responsabilità all’uomo singolo sia esso un semplice cittadino o un capo di stato. «Se l’uomo vuole proseguire a vivere si deve modificare. Se egli pensa solo all’oggi verrà il giorno in cui comincerà la guerra atomica e con questo probabilmente tutto avrà termine».136 Il cambiamento che Jaspers auspica «può avvenire solo attraverso ogni singolo uomo, nella maniera in cui vive. Dipende anzitutto da lui solo. Ogni piccola azione – continua –, ogni parola, ogni contegno in cifre di milioni e di miliardi è essenziale. Quello che ha luogo in grandi dimensioni è solo sintomo di quello che viene fatto nella segretezza dei molti».137 Ritorna così l’accenno alla singola personalità umana. Lo abbiamo visto a proposito della storia; sono gli uomini, i singoli uomini, che, insieme, determinano gli eventi. Lo abbiamo visto poi a proposito delle vicende della Germania durante la guerra: i singoli si sono lasciati irretire dalla volontà di potenza dei capi, la colpa, che non è collettiva, ricade individualmente su ognuno di essi. Lo vediamo adesso quando Jaspers alla singola individualità umana affida il compito di trovare, animata dallo «spirito di sacrificio» e con un nuovo ethos a suo fondamento, la strada verso la salvezza.Vorrei chiarire infine come l’atteggiamento di Jaspers nei confronti della politica non sia prettamente o esclusivamente negativo. Essa in sé, dice, lavora con il mezzo specifico della potenza e per la potenza (tutte le «pacificazioni» fondate su questa concezione della politica – afferma – sono solo «tregue d’armi»), ma se essa poggia, diversamente, le sue basi sull’elemento sovra-politico, allora diventa il mezzo per la salvezza dell’umanità. La grande politica ha come guida il sovra-politico; che in essa «venga ad avere valore il sovra-politico è la forza basilare della politica stessa».138

Passiamo ora ad un altro momento dell’opera di Jaspers, quello che può, per così dire, giustificare le parole di Penzo quando considera La bomba atomica e il destino dell’uomo l’opera più filosofica dei suoi scritti politici. Abbiamo visto Jaspers rifiutare alla scienza e alla forza dell’intelletto la possibilità di condurre l’uomo all’unità e quindi alla salvezza. Lo abbiamo visto criticare i modi di agire e di gestire il potere propri della «normale» concezione della politica; lo abbiamo visto aspirare ad una nuova realtà che poggi le sue basi sul sovra-politico, cioè su un nuovo modo di pensare che si muova su piani più elevati, verso un nuovo ethos: bene, tutto ciò significa aprirsi alla «ragione», superando le pastoie del puro intelletto che trattiene l’uomo, dopo avercelo condotto, nella terribile situazione in cui egli oggi irresponsabilmente si adagia. Ecco le sue parole: «È un errore pensare che l’unificazione dell’umanità venga promossa per mezzo delle scienze, e infine ne venga realizzata. La scienza è cosa propria dell’intelletto. La unanimità da essa causata è quella della conoscenza costrittiva, che non unisce gli uomini ma attesta il punto identico del loro poter pensare. […]. Solo la ragione può unire gli uomini nella totalità della loro essenza».139 L’intelletto da solo non è sufficiente, non chiarisce le possibilità dell’uomo, ma la ragione, peraltro, non può farne a meno; ricorre qui lo stesso, noto, mutuo rapporto intercorrente tra scienza e filosofia: «L’intelletto da svilupparsi da ogni parte, l’intelletto puro e critico, è richiesto dalla ragione in ogni momento. Senza di esso, la ragione non può fare neppure un passo. Ma essa non vi si perde, al contrario lo guida».140 «La ragione – continua Jaspers – è, per così dire, il luogo in cui e da cui viviamo, se realizziamo noi stessi. Da esso ogni razionale possibilità, cioè la razionalizzazione dell’infinito, viene continuamente sollecitata. Ma la ragione stessa razionalmente non è comprensibile. Tutto quello che per noi ha un senso, lo ottiene da essa. Essa stessa è come se non fosse, ma questo niente è la condizione di vita di ogni cosa significativa. La ragione produce nuove maniere di pensare, che con l’intelletto conducono oltre l’intelletto».141 Con queste parole Jaspers corre il rischio di rendere forse «astratto» il discorso sulla ragione, e l’accusa di astrattismo alla «ragione» jaspersiana si è certo fatta sentire; ma egli è convinto che il diverso piano su cui essa si manifesta è indice della possibilità del superamento di una tale difficoltà: «ogni concetto – scrive – realizza un’astrazione. Pertanto l’astrazione è un mezzo di ogni chiarezza che l’intelletto, e, quindi, la ragione conseguono […]. Quantunque senza astrazioni non vi sia chiarezza, il rimaner sospesi alle astrazioni rende estranei alla realtà. Un pensiero astratto diviene un pensiero non vero, se qualche cosa di determinato nel finito avanza la pretesa di essere vero in sé, senza relazioni, cioè se esso viene assolutizzato».142 In quest’ultimo caso è da ritrovare l’espressione del puro intelletto, afferma il filosofo tedesco, ma «diverso da questo pensiero astratto puro e semplice, il pensiero razionale assume in sé le astrazioni per avanzare con esse al di là di esse e per ritornare con ciò alla realtà».143 Nondimeno, comunque, il concetto di indefinibilità della ragione ricorre: «La ragione si può circoscriverla – fa presente – ma non definirla. La si può destare, ma non riconoscere. Non è oggetto di una volontà progettante – e infatti, afferma altrove, che la salvezza della vita dell’umanità non è raggiungibile come scopo, bensì solo come conseguenza144 –, ma, nel suo infinito ambito, ci fa trovare la via sulla quale giungiamo ad essere noi stessi e, in pari tempo, giungiamo alla necessità delle cose e al destino, in cui siamo e che noi stessi siamo».145 Discorso certamente difficile, soprattutto viste le finalità proprie di quest’opera; ma Jaspers appare molto deciso in questa sua concezione, e alla domanda «Si può osare di parlare di quello di cui non pare possibile parlare anche se tutto risale ad esso?» risponde: «Ogni filosofia lo ha fatto».146 Proprio nella filosofia Jaspers trova le modalità di quel modo nuovo di pensare che deve porsi alla base della coesistenza umana. «Il pensiero nuovo – afferma – è quello stesso vecchissimo, che finora non è riuscito a coniare e a guidare l’uomo nell’insieme: è la ragione, è la filosofia. La filosofia deve destarsi, darsi coraggio e realizzarsi. La nostra proposta, dunque: occupatevi di filosofia, studiate filosofia!» Ma non è anche questa un’astrazione? Ecco Jaspers: «È forse la proposta di studiarla nel lavorio filosofico del nostro tempo, come si presenta nei libri e nelle riviste e nelle relazioni dei congressi? Tutt’altro. L’esigenza piuttosto è questa: muovetevi nel filosofare, che è efficace all’uomo quale uomo!».147 Occorre dunque «muoversi nel filosofare» e ciò non significa rivolgersi direttamente verso progetti, scopi, proposte, piani o programmi definiti, significa piuttosto destare una «disposizione interna» dalla quale poi queste finalità comprensibili acquistano il loro senso normativo. «La ragione – fa presente Jaspers – non è già nella somma di chiari atti del pensiero. Piuttosto, questi stessi scaturiscono da una disposizione originaria che sostiene la vita. Solo questa noi definiamo come ragione».148 Jaspers, quindi, in ultima analisi definisce la ragione come una «disposizione originaria» che per quanto non definibile, non razionalizzabile, rappresenta la condizione indispensabile per risvegliare l’«autentico» nella vita, nelle cose che facciamo o in quelle che vorremmo fare. Essa deve illuminare i progetti, le ambizioni, deve porsi a fondamento del vivere comune e della volontà delle nazioni, deve, insomma, pervadere ogni pensiero, ogni idea, ogni volontà dell’uomo. «Questo pensare della ragione sorpassa tutte le assolutezze momentanee: le assolutezze pragmatiche del finalismo, le giustezze della conoscenza, le assolutezze moralistiche della legge etica, le assolutezze metafisiche del sacrificio, ma senza distruggerle. A tutto questo, piuttosto, la ragione dà senso e limite, senza poter realizzare la sua conoscenza diversamente che nella esistenza storica (nelle oggettivazioni del comunicarsi e nel continuo impedimento del fissarsi di tali oggettivazioni)».149 In Jaspers si affaccia anche il dubbio che la ragione possa sembrare utopistica, e con un’analisi estremamente precisa puntualizza la sfiducia che si leva contro di essa e contro la pretesa che essa possa in qualche modo, e realmente, produrre un cambiamento nello stato odierno delle cose e dell’uomo.150 Alle domande (che valgono per tutte) – «Dobbiamo aver fiducia nella ragione, che è la cosa più sublime?», «Dobbiamo aver fiducia nella ragione che non ha una propria organizzazione, non l’ebbe mai e non l’avrà mai, mentre, al contrario, tutta l’azione efficace tra gli uomini si basa sull’organizzazione?» risponde: «Sì, perché là è l’essenza dell’uomo vero e proprio», «Sì, perché la ragione può penetrare tutte le organizzazioni e prendere forza in ognuna di queste con queste stesse. Essa è nelle chiese, nella famiglia, nelle scuole e università, in tutte le forme di educazione sociale nell’ambito dei popoli. Essa si rivolge a tutte queste cose, senza negare la loro realtà storica, piuttosto cercando di ricondurle alla verità della loro origine, ma anche di sottoporle alla condizione di tutte loro, che è la ragione stessa aperta a tutto».151 Un’altra, fra le molte considerazioni che possono essere tratte da un’opera – La bomba atomica e il destino dell’uomo – così vasta e ricca di spunti (spesso polemici), è quella relativa al problema del «totalitarismo». È, questa una tematica che Jaspers, in un certo senso, non poteva non trattare. Le amare esperienze vissute sotto il nazionalsocialismo hitleriano che avevano tracciato profondamente i segni della paura e della inquietudine; la divisione dell’Europa in blocchi di stati liberi e non liberi; la più «sentita» divisione della Germania in due stati, in uno dei quali veniva negata la libertà; successivamente i fatti di Ungheria del 1956 che tanti echi suscitarono nella opinione pubblica del tempo – sono tutti motivi che spinsero Jaspers a porre come fondamentale il problema del totalitarismo. «Solo un altro singolo problema è equivalente alla bomba atomica, come problema dell’esistenza dell’umanità senz’altro: il pericolo del totalitarismo (non già il problema della dittatura, del marxismo, della teoria razziale), con la sua struttura terroristica distruttrice di ogni libertà e di ogni dignità umana. Lì è perduta l’esistenza, qui l’esistenza degna di essere vissuta. […]. Ambedue i problemi pare che appartengano a uno stesso destino. Almeno, sono uniti fra loro in maniera praticamente indivisibile. L’uno non si può risolverlo senza l’altro».152

Una tematica del genere ha, come è ovvio, alla sua base una riflessione sulla «libertà». Jaspers distingue la libertà «esistenziale» dalla libertà «politica». La libertà esistenziale rappresenta l’atto di trascendenza che si esprime nella decisione esistenziale, nell’accettazione del proprio senso dell’essere e di tutta la problematica, di tutta la tensione e l’angoscia che esso comporta nello sforzo di dare un significato alla propria esistenza. In quanto tale essa appare come un motivo peculiarmente individuale. Essa, inoltre «non si può trovarla nel mondo della “conoscibilità”, e rimane quindi non concepibile. Ma la rendiamo a noi stessi presente con il nostro proprio agire». Jaspers continua affermando che non si può considerarla come «qualche cosa che si dia per la nostra conoscenza, che si possa dunque trattare, e con cui si possano fare operazioni e calcoli».153 Piuttosto essa «si mostra nell’agire interno dell’uomo, che diventa se stesso e parla nella comunicazione che corre da esistenza a esistenza». Essa «si trova dove sono uomini. Essa è pre-politica e sovra-politica. È la libertà personale dell’essere autonomo, e appare possibile anche in situazioni di illibertà politica».154 Ora, dopo che Jaspers definisce la libertà politica come la «condizione reale di un modo di governare lo stato, che come tale è conoscibile», sorge com’è naturale un dualismo fra libertà politica, conoscibile e che si muove nel mondo della conoscibilità, e libertà esistenziale che, per sua essenza, trascende tale mondo. Fra le due sembra esserci, quindi, incompatibilità; ma Jaspers, in esse trova, al contrario, complementarietà: «La libertà politica – afferma – non è in grado di esistere senza la passione che parte dalla origine della libertà esistenziale. La libertà politica diventa vuota di sostanza e scompare, dove non è riferita alla più profonda libertà, propria dell’uomo in quanto uomo. Ma anche la libertà esistenziale nella sua realizzazione è compromessa nel fenomeno evidente, o forse infine è impossibile, quanto più la illibertà politica è di maniera tale, da porre sotto coazione l’uomo intero e l’intera popolazione in tutto quello che viene fatto e vissuto».155 La conclusione che si può trarre da queste parole è che la libertà esistenziale, la libertà dell’ethos sovra-politico, implica necessariamente un regime di libertà: non può esservi libertà esistenziale, e quindi dignità umana, autentica umanità, se non in regimi che permettano una concreta espressione della libertà nelle sue forme politiche e sociali. La convinzione di Jaspers che la mancanza della libertà politica intacchi e dissolva inevitabilmente la stessa libertà esistenziale lo porta a perentorie e fortemente polemiche affermazioni sull’irriducibile contrasto fra libertà e totalitarismo: «libertà e totalitarismo si escludono nei loro principi»156 «fra il principio del totalitarismo e quello della libertà non è possibile alcun compromesso reale».157 Queste parole, credo, (soprattutto se si prende in considerazione il valore intrinsecamente inestimabile della «libertà» nel pensiero di Jaspers), possono chiarire l’atteggiamento di radicale sfiducia e condanna nei confronti del totalitarismo che lo porta ad «enunciare la tesi paradossale che sarebbe meglio per l’umanità perire sotto la bomba atomica piuttosto che piegarsi al giogo disumano del totalitarismo, dove viene meno la coscienza dell’ethos»:158 «Se deve essere fatto tutto per eliminare la bomba atomica – afferma risolutamente Jaspers, – deve esserlo alla condizione che questo non avvenga al prezzo della possibilità di una vita propriamente umana».159 La profonda avversione al totalitarismo si manifesta qui in maniera evidente; egli lo assimila a un «vampiro che succhia il sangue degli esseri viventi e acquista vigore, mentre le vittime continuano la propria esistenza, ormai corpi privi di ogni vita».160 Questa profonda avversione lo porta ad affermazioni categoriche assai inquietanti: a chi crede si possa controbattere la fede nel totalitarismo con il semplice richiamo alla ragionevolezza, Jaspers fa osservare che «la situazione richiede qualcosa di totalmente diverso; […] chi vuole affermarsi deve opporre alla violenza la violenza, alla violenza potenziata una violenza altrettanto potenziata».161 E altrove ribadisce: «la democrazia è tollerante verso tutte le possibilità, ma essa stessa deve saper divenire intollerante contro l’intolleranza».162 Certamente sono, queste, affermazioni che possono lasciare perplessi; del resto però, Jaspers stesso, più volte, abbandonando l’impeto polemico, le ha smentite ridimensionando il suo atteggiamento: in La battaglia contro il totalitarismo scrive: «Se si adoperano le armi del totalitarismo per combattere la dittatura si finisce senza volerlo per trasformare la propria causa. Nel combattere il demonio, noi stessi diveniamo demoni, ed in tal caso perfino la vittoria non sarebbe che una sconfitta, perché essa sarebbe stata ottenuta installando un regime di demoni».163 Jaspers manifesta inoltre la necessità che con il mondo totalitaristico non vi sia una chiusura radicale, tale da impedire ogni comunicazione; gli uomini sono uomini, e in essi è sempre presente la possibilità che la ragione abbia il sopravvento, è indispensabile che rimanga aperto un canale in cui la volontà di cooperazione possa esprimersi: «Il tentativo di parlare gli uni gli altri non può mai essere abbandonato. Dato che i rappresentanti di quella fede, con i quali non si può parlare, sono pur tuttavia degli uomini, la fede della ragione oggi, fino all’ultimo momento, ancora in caso di apparente disperazione, deve tenersi ancorata al problema del come si possa parlare con loro, nonostante tutto».164 Queste parole, se da una parte ribadiscono l’inappellabile condanna del totalitarismo, dall’altra manifestano la certezza che la ragione, come tale, è comunque nascosta in ogni uomo e può sempre essere destata. Ciò, fa presente Jaspers, «non è possibile solo con uno sforzo della ragione diretto a trovare le giuste formulazioni, ma è possibile sul piano della rinascita dell’uomo occidentale ragionevole».165 In tal modo l’uomo occidentale attraverso la «conversione» alla ragione può risvegliare anche nel «nemico» la stessa ragione di cui lui è animato; e si effettuerebbe così «per mezzo della essenza della ragione quello che non è raggiungibile con alcuna forza militare né con la minaccia di ricorrere alla stessa. La forza della ragione sta nella sicurezza incrollabile che il suo cammino, per principio, è quello vero per l’uomo, con la libertà politica che egli pretende. Ma questa forza sta anche nella modestia di ogni singolo, nel non sapersi, a ogni passo, sulla strada assolutamente giusta e non più correggibile, ma nella consapevolezza di dovere, piuttosto, ascoltare gli altri».166 Vorrei concludere affermando che, nonostante certi limiti riscontrabili in talune soluzioni prospettate da Jaspers, limiti d’altronde difficili da evitare «come capita spesso ai filosofi quando si avventurano nelle sabbie mobili delle realtà storiche»,167 il grido di allarme lanciato da Jaspers ha smascherato la tendenza al rilassamento, al banale quieto adagiarsi in una vita inautentica. Il suo grido è un appello a non giocare la propria vita nei soli rapporti economici, giuridici, strumentali. Oltre la sfera dell’utile, del personale e della volontà di potenza, esiste davvero una sfera diversa, un ambito nuovo e pur vecchissimo in cui i rapporti umani si esprimono in una totalità complessiva dell’intera essenza umana. Il suo grido è, in fondo, un pungolo all’assunzione delle proprie originarie e fondamentali responsabilità. Esso non può essere disatteso. Meno che mai oggi.


  1. K. Jaspers, Autobiografia filosofica, Napoli, Morano, 1969, p. 14. ↩︎

  2. Ibid., 99. ↩︎

  3. Ibid., 100. ↩︎

  4. Ibid., 103. ↩︎

  5. Ibid., p. 106. ↩︎

  6. Ibid., p. 107; Cfr. K. Jaspers, La situazione spirituale del nostro tempo, Roma, Jouvence, 1982, postilla alla edizione del 1946. ↩︎

  7. H. Saner, Karl Jaspers. Dell’ampiezza della ragione e dell’attendibilità dell’agire, in Filosofi del Novecento, a cura di E. Nordhofen, Torino, Einaudi, 1988, p. 108. ↩︎

  8. K. Jaspers, Autobiografia filosofica, p. 108. ↩︎

  9. Ibid., p. 109. ↩︎

  10. Ibid., p. 113. ↩︎

  11. Ibid., p. 100. ↩︎

  12. Ibid., p. 121. ↩︎

  13. Ibid., p. 167. ↩︎

  14. Ibid., p. 147. ↩︎

  15. K. Jaspers, Origine e senso della storia, Milano, Edizioni di Comunità, 1982, p. 299. ↩︎

  16. K. Jaspers, Introduzione alla filosofia, Milano, Longanesi, 1959, p. 160. ↩︎

  17. K. Jaspers, Autobiografia filosofica, p. 108. ↩︎

  18. Ibid., p. 159. ↩︎

  19. Ibid., p. 113. ↩︎

  20. K. Jaspers, La battaglia contro il totalitarismo, in Totalitarismo e Cultura, Antologia da «Confluence», Milano, 1957, p. 312. ↩︎

  21. Ibid., p. 309. ↩︎

  22. K. Jaspers, Autobiografia filosofica, p. 103. ↩︎

  23. Ibid., p. 115. ↩︎

  24. Ibid., p. 148. ↩︎

  25. K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, Milano, Il Saggiatore, 1960, p. 37. ↩︎

  26. Ibid., p. 37. ↩︎

  27. K. Jaspers, Autobiografia filosofica, p. 148. ↩︎

  28. G. Penzo, Mondo storico ed escatologia, in ID., K. Jaspers, Brescia, Morcelliana, 1972, p. 219 ↩︎

  29. K. Jaspers, La battaglia contro il totalitarismo, p. 305 ↩︎

  30. K. Jaspers, Autobiografia filosofica, p. 118. ↩︎

  31. K. Jaspers, Introduzione alla filosofia, p. 161. ↩︎

  32. K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, p. 158. ↩︎

  33. K. Jaspers, Introduzione alla filosofia, p. 162. ↩︎

  34. K. Jaspers, Origine e senso della storia, p. 279. ↩︎

  35. Ibid., p. 281. ↩︎

  36. Ibid., p. 281. ↩︎

  37. Ibid., p. 281. ↩︎

  38. K. Jaspers, Autobiografia filosofica, p. 162. ↩︎

  39. K. Jaspers, Origine e senso della storia, p. 297. ↩︎

  40. K. Jaspers, Origine e senso della storia, p. 42. ↩︎

  41. Ibid., p. 42. ↩︎

  42. Ibid., p. 49. ↩︎

  43. Ibid, p. 49. ↩︎

  44. Ibid., p. 53. ↩︎

  45. K. Jaspers, Introduzione alla filosofia, p. 151. ↩︎

  46. K. Jaspers, Origine e senso della storia, p. 46. ↩︎

  47. Ibid., p. 46. ↩︎

  48. Ibid., p. 50. ↩︎

  49. Ibid., p. 61. ↩︎

  50. Ibid., p. 64. ↩︎

  51. Ibid., p. 66. ↩︎

  52. Ibid., p. 66. ↩︎

  53. Ibid., p. 66. ↩︎

  54. Ibid., p. 64. ↩︎

  55. Ibid., p. 68. ↩︎

  56. Ibid., p. 25. ↩︎

  57. Ibid., p. 70. ↩︎

  58. Ibid., p. 20. ↩︎

  59. K. Jaspers, Introduzione alla filosofia, p. 152. ↩︎

  60. K. Jaspers, Origine e senso della storia, p. 19. ↩︎

  61. Ibid., p. 38. ↩︎

  62. Ibid., p. 19. ↩︎

  63. Ibid., p. 19. ↩︎

  64. Ibid., p. 21. ↩︎

  65. Ibid., p. 20. ↩︎

  66. Ibid., p. 20. ↩︎

  67. Ibid., p. 21. ↩︎

  68. Ibid., p. 21. ↩︎

  69. Ibid., p. 20. ↩︎

  70. Ibid., p. 27. ↩︎

  71. Ibid., p. 28. ↩︎

  72. Ibid., p. 29. ↩︎

  73. Ibid., p. 32. ↩︎

  74. Ibid., p. 34. ↩︎

  75. Ibid., p. 36. ↩︎

  76. Ibid., p. 37. ↩︎

  77. Ibid., p. 23. ↩︎

  78. Ibid., p. 25. ↩︎

  79. Ibid., p. 94. ↩︎

  80. Ibid., p. 75. ↩︎

  81. Ibid., p. 102. ↩︎

  82. Ibid., p. 81. ↩︎

  83. Ibid., p. 101. ↩︎

  84. Ibid., p. 163. ↩︎

  85. Ibid., p. 115. ↩︎

  86. Ibid., p. 115. ↩︎

  87. K. Jaspers, Ragione e antiragione nel nostro tempo, pp. 48-49. ↩︎

  88. Ibid., pp. 49-50. ↩︎

  89. Ibid., p. 50. ↩︎

  90. K. Jaspers, Origine e senso della storia, p. 115. ↩︎

  91. Ibid., p. 147. ↩︎

  92. Ibid., p. 148. ↩︎

  93. Ibid., p. 117. ↩︎

  94. Ibid., p. 118. ↩︎

  95. Ibid., cfr. p. 118. ↩︎

  96. G. Penzo, Jaspers Esistenza e trascendenza, p. 164. ↩︎

  97. K. Jaspers, Origine e senso della storia, p. 164. ↩︎

  98. Ibid., p. 296. ↩︎

  99. K. Jaspers, Autobiografia Filosofica, p. 109. ↩︎

  100. P. Ricci, Realtà politica e riflessione filosofica nel pensiero di K. Jaspers, in «La Nuova critica», n. 34, 1973, p. 57. ↩︎

  101. K. Jaspers, La Germania tra libertà e riunificazione, Milano, Edizioni di Comunità, 1961, p. 137. ↩︎

  102. Cfr. Ibid., p. 140. ↩︎

  103. P. Ricci, Realtà politica e riflessione filosofica nel pensiero di K. Jaspers, p. 65. ↩︎

  104. R. De Rosa, Introduzione a K. Jaspers. La colpa della Germania, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1947, p. VII. ↩︎

  105. Ibid., p. XXVI. ↩︎

  106. K. Jaspers, La colpa della Germania, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1947, p. 12. ↩︎

  107. K. Jaspers, La colpa della Germania, p. I. ↩︎

  108. R. De Rosa, Introduzione a La colpa della Germania, p. XXV. ↩︎

  109. K. Jaspers, La colpa della Germania, p. 17. ↩︎

  110. K. Jaspers, La Germania tra libertà e riunificazione, p. 138. ↩︎

  111. K. Jaspers, La colpa della Germania, p. 66. ↩︎

  112. Ibid., p. 41. ↩︎

  113. Ibid., p. 41. ↩︎

  114. Ibid., p. 112. ↩︎

  115. Ibid., p. 106. ↩︎

  116. Ibid., p. 109. ↩︎

  117. K. Jaspers, La battaglia contro il totalitarismo, p. 305. ↩︎

  118. K. Jaspers, La colpa della Germania, p. 115. ↩︎

  119. Cfr. la Premessa a La Germania tra libertà e riunificazione↩︎

  120. K. Jaspers, Origine e senso della storia, p. 82. ↩︎

  121. Cfr., K. Jaspers, Introduzione a La bomba atomica e il destino dell’uomo, p. 9ss. ↩︎

  122. K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, p. 24. ↩︎

  123. Ibid., p. 11. ↩︎

  124. G. Penzo, Jaspers Esistenza e trascendenza, Roma, Edizioni Studium, 1985, p. 19. ↩︎

  125. K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, p. 23. ↩︎

  126. Ibid., p. 17. ↩︎

  127. Ibid., p. 15. ↩︎

  128. Ibid., p. 535. ↩︎

  129. Ibid., p. 318. ↩︎

  130. Ibid., p. 320. ↩︎

  131. Ibid., p. 39. ↩︎

  132. Cfr. Ibid., p. 40. ↩︎

  133. Ibid., p. 41. ↩︎

  134. Ibid., p. 44. ↩︎

  135. Ibid., p. 42. ↩︎

  136. Ibid., p. 44. ↩︎

  137. Ibid., p. 45. ↩︎

  138. Ibid., p. 75. ↩︎

  139. Ibid., p. 329. ↩︎

  140. Ibid., p. 329. ↩︎

  141. Ivi. ↩︎

  142. Ibid., p. 330. ↩︎

  143. Ivi. ↩︎

  144. Ibid., p. 544. ↩︎

  145. Ibid., p. 338. ↩︎

  146. Ibid., p. 338. ↩︎

  147. Ibid., p. 328. ↩︎

  148. Ibid., p. 341. ↩︎

  149. Ibid., p. 475. ↩︎

  150. Ibid., cfr., pp. 481ss. ↩︎

  151. Ibid., p. 526. ↩︎

  152. Ibid., p. 15. ↩︎

  153. Ibid., p. 335. ↩︎

  154. Ibid., p. 336. ↩︎

  155. Ibid., p. 337. ↩︎

  156. Ibid., p. 162. ↩︎

  157. Ibid., p. 187. ↩︎

  158. G. Penzo, Jaspers Esistenza e trascendenza, p. 20. ↩︎

  159. K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, p. 263. ↩︎

  160. K. Jaspers, La battaglia contro il totalitarismo, p. 307. ↩︎

  161. K. Jaspers, La bomba atomica e il destino dell’uomo, p. 421. ↩︎

  162. Ibid., p. 488. ↩︎

  163. K. Jaspers, La battaglia contro il totalitarismo, p. 324. ↩︎

  164. Ibid., p. 422. ↩︎

  165. Ibid., p. 423. ↩︎

  166. Ivi. ↩︎

  167. V. Fagone, Verità e Comunicazione nella Filosofia di K. Jaspers, in «La civiltà cattolica», 1969, p. 215. ↩︎