Ferdinand Ebner, La parola e le realtà spirituali. Frammenti pneumatologici, a cura di Silvano Zucal, San Paolo, Cinisello Balsamo, Milano 1998, 149 pp. (ed. originale Das Wort und die geistigen Realitäten. Pneumatologische Fragmente, Innsbruck, Brenner, 1921, 89 pp.).
1. Un appello a pensare altrimenti
I Frammenti pneumatologici, pubblicati a Innsbruck nel 1921, rappresentano l’opera fondamentale del filosofo austriaco Ferdinand Ebner (Wiener Neustadt 1882 — Gablitz 1931). Le sue originali riflessioni sulla parola e sulla natura della relazione tra Io e Tu, e le feconde proposte che ne conseguono, lo collocano, insieme a Martin Buber, Hermann Cohen, Gabriel Marcel, Eugen Rosenstock-Huessy e Franz Rosenzweig tra gli iniziatori del pensiero dialogico. Benché pubblicati dopo la comparsa, sempre in italiano, di altre due sue opere minori (Parola e amore. Dal Diario 1916/17. Aforismi 1931, Rusconi, Milano, 1983; La parola è la via, Anicia, Roma, 1991), Ebner è ancora un personaggio poco conosciuto nell’attuale panorama filosofico. In realtà la sua figura appare scomoda alla tradizione filosofica costretta, senza mezzi termini, a mettere in questione i suoi consueti parametri.
L’opera è introdotta da un saggio esplicativo di Silvano Zucal, il quale ripercorre le tappe del cammino evolutivo del filosofo austriaco, che raggiunge qui il culmine di una profonda trasformazione e crescita forse prima esistenziale che filosofica, nutrita di rigore teoretico e serietà spirituale. In modo esauriente Zucal definisce «avventura filosofica» il percorso teoretico di Ebner: «avventura nel senso letterale del termine, perché nasce al di fuori di una “scuola”, cerca ansiosamente strade nuove, non ha mai veri interlocutori con cui confrontarsi: in fondo è un dialogo con se stesso, con le domande che si impongono e che provengono da un tormentato vissuto esistenziale» (p. 12).
Una estrema serietà senza compromessi lo porterà a sentire una profonda insoddisfazione per la filosofia tradizionale. Sin dall’inizio l’istanza provocatoria è dichiarata esplicitamente, e il lettore è immediatamente appellato a pensare altrimenti. Altrimenti che egoista, altrimenti che solitario, altrimenti da tutte le quotidiane e scontate affermazioni personali che, nel nostro tempo e nel nostro mondo, determinano l’essere di ognuno di noi. Incombente il suo invito, invocazione appassionata, che non è possibile non ascoltare senza fare la fine di Ulisse, spettatore immobilizzato di fronte al richiamo delle sirene.
Il suo pensiero procede, incalzante e diretto, in un ordine asistematico e antiaccademico. Ciò che più imbarazza è la sua capacità di colpire nel segno con una mira perfetta, propria di un pensatore fuori da ogni schema. L’impaccio è quello del filosofo di fronte ad un’istanza provocatoria e dissestante: alla filosofia è richiesto il suo suicidio.
Ogni cultura non è stata sinora e non sarà altro in futuro se non un sogno dello spirito, che l’uomo sogna nel «solipsismo dell’Io» della propria esistenza, lontano dalle realtà spirituali della vita e la cui legge interiore ha recepito in maniera eccelsa nella «concezione dell’idea» (p. 149).
Egli sceglieva allora di dedicare i Frammenti al padre, colui che certamente non li avrebbe compresi,
sebbene sia stato proprio lui in fondo a capirne assai bene il pensiero guida — naturalmente da un’altra prospettiva, che nulla sapeva né abbisognava di sapere del suo rapporto con il problema del linguaggio — nella “prassi” della sua vita silenziosa, faticosa e stentata (p. 139).
È quest’ammissione, a prima vista ingenua, a condurre il filo di provocazione radicale di tutto il pensiero ebneriano. E si coglie anche una sorta di amarezza, forse di indignazione, nel dover puntualizzare, mediante una riflessione, ciò che egli sente, con immediata e fresca lucidità, appartenere all’intima profondità dell’uomo. Per tale ragione la filosofia deve desiderare la propria fine, se vuol salvare l’uomo, e assumersi nuovi compiti, aspirare a rinnovate mete:
La filosofia […] è crollata per non aver saputo risolvere i suoi problemi consueti e per aver impostato i suoi problemi in modo insostenibile — ammettiamolo pure — e che vive oggi una parvenza di esistenza. La soluzione di tali nuovi compiti prevede naturalmente anche il suicidio della filosofia (p. 142).
Occorre innanzi tutto chiarire il senso del titolo dell’opera che poi ne costituisce quello che l’autore chiama il «pensiero guida». Perché sceglie di definire questi Frammenti «pneumatologici»? L’aria nuova che si respira sin dalle prime pagine rievoca in realtà un’aria già respirata ma dimenticata. Così tutta l’opera è attraversata da un unico filo che intende restituire all’uomo il respiro che gli appartiene, rinvigorirne lo pnéuma. In altre parole si tratta di riscoprire una dimensione umana oltre l’appiattimento dell’io alla natura, una dimensione che appartiene all’io in modo originario: lo spirituale. Ma si tratta, e questa è la sfida di Ebner alla filosofia occidentale, di comprendere innanzitutto in che modo l’Io si definisce in maniera autentica. Nel primo frammento, a proposito dell’io, leggiamo:
Finora lo si è concepito solo nel suo riferimento a se stesso o, come si potrebbe anche dire, nel suo «Io-solipsismo». Ciò significa che non si aveva in mente il vero Io, bensì il moi di Pascal. […] Ma come stanno le cose con il vero Io? La questione è molto semplice: la sua esistenza non consiste nel suo riferirsi a se stesso, bensì — e su questa circostanza cade tutto il peso — nel suo rapporto con il Tu. Il solipsismo dell’Io, del moi pascaliano non è dunque da considerarsi come assoluto, bensì come relativo, nel rapporto dell’Io con il Tu, e un Io al di fuori di tale rapporto non esiste affatto. Il solipsismo dell’Io non è qualcosa di originario nell’Io, bensì il risultato di un atto spirituale interno ad esso, di un’azione dell’Io, ovvero del suo chiudersi di fronte al Tu. L’Io e il Tu sono le realtà spirituali della vita (p. 142).
Nella prefazione si coglie l’esigenza fondamentale dell’autore di recuperare la dimensione spirituale dell’uomo in un modo che, più che originale, definirei originario. La «rilevanza spirituale» dell’esistenza umana, egli afferma,
non si esaurisce nel suo naturale affermarsi nel corso delle vicende del mondo; […] tale realtà spirituale è essenzialmente determinata dal fatto di essere radicalmente orientata ad un rapporto con qualcosa di spirituale al di fuori di sé, mediante il quale e nel quale essa esiste. Un’espressione, anzi l’espressione «oggettivamente» percepibile e dunque accessibile ad una conoscenza oggettiva di tale essere orientato ad una simile relazione si riscontra nel fatto che l’uomo è un essere parlante, che egli «ha la parola» (p. 137).
L’uomo ha la parola, e questa è la «premessa per la propria sussistenza» (ibidem). Tale affermazione evoca sin dall’inizio l’immagine di un uomo sostanzialmente aperto all’alterità, sottolinea l’essenza fondamentale, la natura fondante l’essere dell’uomo: il dialogo. E d’altro canto, tende a scongiurare un uso meramente formale del linguaggio stesso. Leggiamo ancora nella prefazione:
Se ora, tanto per dare dei nomi, chiamiamo tale realtà spirituale presente nell’uomo «Io» e quel qualcosa al di fuori, in rapporto al quale l’Io esiste, «Tu», dobbiamo allora riflettere sul fatto che questo Io e questo Tu ci sono dati nella loro «interiorità» proprio mediante la parola e nella parola; non però come «vuote» parole-vocaboli in cui non abiterebbe alcun riferimento alla realtà — quello che, certo, sembrano essere nel loro impiego astratto sostantivato e sostanzializzato — bensì piuttosto come parola che nella concretezza e attualità del suo venir espressa «reduplica» nella situazione creata dal parlare il proprio «contenuto» e il proprio contenuto di realtà (p. 137).
Fin da queste prime battute è possibile cogliere lo spirito dell’opera, espressione di un’esigenza radicale: pervenire ad un orientamento di intenzioni che si opponga al vuoto della vita relegata nell’idealismo, alla fragilità del linguaggio che non sa evocare, costruire ponti, rivolgersi alla concretezza della persona perché ha mancato lo spirito, la pienezza, e dunque la serietà. In sostanza, quella di Ebner è un’analisi appassionata e lucida di un’unica patologia che investe non solo la filosofia, ma di cui la filosofia è l’espressione emblematica.
L’urgenza e l’attualità di Ebner sono determinate dalla sua stessa ansia di ritrovare la vita, nella realtà, e di ridonarla al pensiero. A tale pensiero è chiesto innanzitutto di rinunciare alla brama di potenza, che si esplica costitutivamente già nell’apparato concettuale e categoriale che lo ha da sempre determinato, e riscoprire l’alterità della vita e della realtà libere dalla violenza della terza persona che le vuole ridotte ad un passato oggettivato una volta per tutte. All’Io, signore assoluto nell’Idea della realtà, che basta a se stesso solo per aver formulato e delimitato un angolo un tempo vivo di realtà, sottratta per sempre al divenire del tempo, è richiesto il suicidio, perché non continui a provocare la morte.
2. Dalla solitarietà alla parola pneumatica
Nei Frammementi pneumatologici Ebner chiama molto efficacemente questa dimensione dell’io Icheinsamkeit, che nella traduzione italiana suona come «Io-solipsismo», e solitarietà è il termine che ne qualifica la relazione alla vita. L’Icheinsamkeit è la malattia spirituale dell’Occidente, dell’uomo abituato a vedere nella realtà un riflesso di sé, nel patologico rifiuto della differenza che anziché renderlo assoluto nella determinazione assoluta e conciliante, sempre già detta, già pensata, lo vuole presente, vivo ogni istante nel tempo di cui deve imparare ad accettare le sfide, se vuole vivervi in proporzione.
Ma il grande errore, commesso per paura dai filosofi, è stato aver voluto cercare ad ogni costo l’armonia, anche a costo della vita stessa. Così si è trovato rifugio nell’idea, e a partire da quella si sono dipanati tutti i grandi sogni dello spirito. Già i Greci con la loro assillante ricerca della bellezza e della perfezione geometrica dimostravano questo anelito carico di ansia. Così come la ricerca matematica e scientifica sono condotte nella solitudine dell’io che non deve e non può commettere errori:
La realtà dell’Io non si trova nella sfera dello spazio ma in quella del tempo, e anche il concepimento dell’Idea nella quale l’Io cerca nella sua solitudine la sua «determinatezza esistenziale» spirituale, ha come premessa, sebbene l’idea si presenti come qualcosa di «eterno», il tempo quale momento «reale» dell’esistenza umana. […] Proprio perché nel pensiero matematico — scientifico viene a scomparire questa intima realtà volitiva dell’Io che si trova nel tempo, la tesi matematica si presenta con la pretesa di una validità sovratemporale, eterna (p. 270-1).
Dal canto suo,
L’esperienza della bellezza comunque fa dimenticare all’uomo l’origine dell’idea — nel volere e dunque nella temporalità dell’esistere umano — e fa scomparire totalmente (similmente a come avviene nella matematica) l’Io con la sua realtà interiore nell’«Io voglio», cosicché alla fine la bellezza si presenta come una visione divenuta assolutamente atemporale. Essa continua però a essere solamente un sogno, nel quale l’uomo non sa nulla della realtà del proprio esistere, neppure di quella spirituale. Essa si inarca come spoglia luminosa e come ponte radioso sopra l’abisso della frammentazione esteriore e interiore della sua vita e lo copre. La visione astratta matematico — fisica dello spazio e l’esperienza concreta della bellezza si trovano naturalmente a notevole distanza dal punto di vista spirituale. Una cosa hanno però in comune: che in esse l’Io, in quanto risulta totalmente scomparso, non può divenir consapevole del proprio «Io-solipsismo» (ibidem).
Pensiero matematico ed esperienza estetica: ricerca dell’armonia. Queste le matrici del pensiero occidentale che, anche nel momento teoretico, ricerca la bellezza in quanto conciliazione, forse accomodamento:
La creazione artistica infatti si basa, non meno del pensiero filosofico, sul fatto che qualcosa «non è in ordine». Quel mondo armonico, in cui non vi sarebbe altro che l’essere stesso di questo mondo — creatore di armonia e bellezza — nella sfera stessa della vita umana, nella realtà non esiste. Esso è solo un sogno, il sogno dello spirito nel suo dispiegamento estetico (p. 275).
Occorre andare oltre l’ingenuo rifiuto della realtà nella sua concretezza, oltre la «spoglia luminosa» che copre l’abisso, oltre l’indifferente appiattimento della realtà della vita all’idea, in poche parole oltre il principio A="A", «questo “solipsismo dell’Io” divenuto oggettivo e astratto» (p. 286). Esaurire la realtà entro le nostre determinazioni categoriali non significa altro che precluderci la vita per il sogno. Ma a cosa, e a chi serve un’esistenza di sogno? L’idealista sa di aver bluffato? Sa che egli è in realtà un fantasma?
Che l’uomo reale sei tu e sono io, questa che è la più semplice di tutte le realtà, l’idealismo non è in grado di comprenderla. […] Se pretendessi dalla filosofia che si interessasse al fatto che io esisto — pretesa che ai suoi occhi suonerebbe come una sfida arrogante — allora mi risponderebbe, dal suo punto di vista a ragione: «Cosa vuoi che importi alla filosofia di te e della tua esistenza? Ha cose più importanti da fare: deve condurre finalmente a soluzione i problemi del mondo e della vita, dell’essere e del pensare e di te potrebbe interessarsi solo qualora tu fossi l’Io “assoluto”». […] A mia volta potrei — e non con minor ragione — controbattere: «Se le cose stanno così, che mi importa della filosofia? Ho qualcosa di più importante da fare, devo esistere» (p. 248).
L’uomo Ebner, il maestro di scuola elementare nei dintorni di Vienna, che non ha potuto proseguire la carriera accademica perché impedito da gravi problemi di salute, formatosi come filosofo da autodidatta, non ha tempo per la filosofia. Sembra una contraddizione se si pensa agli anni dedicati alla sua formazione, in realtà anche questa è una delle grandi provocazioni scagliate contro chi pretende di vivere la vita fittizia dell’idea. Emblematica allora sembra la sua figura di maestro, colui che nelle ore calme delle aule scolastiche deve per forza aver tempo per la vita che nasce e che cresce. È la mancanza della dimensione temporale, la chiusura al vero mondo della vita, il mondo dove io sono e Tu sei, il sintomo della malattia spirituale dell’Occidente:
Che l’uomo reale sei tu e sono io, questa è la più semplice di tutte le realtà, l’idealismo non è in grado di comprenderla. L’Io non è, io però sono — è quello di cui la filosofia dovrebbe imparare a rendersi conto, per poi accingersi, se non le è passata tutta la voglia, a svolgere il suo assai precario compito (p. 248).
Nell’assenza di tempo, anzi nel non prendere sul serio il tempo, nel lasciare che il tempo accada svincolato dalla dimensione verticale che ne conferma il valore in pienezza, si svilisce la personalità dell’Io e quella del Tu nell’indifferenza dell’egli, senza che queste due realtà possano parlare. Ma dove non c’è parola, lì manca anche lo spirito, dunque la verità e la salute della vita spirituale.L’idealismo non ha compreso questa semplice verità, ed è accaduto che il suo uomo si perdesse nell’autistica euforia dell’io. Quest’estrema chiusura ha determinato la grande inquietudine dell’uomo occidentale, il quale pur sentendo che alla sua vita mancava qualcosa, invece di andare a cercare il suo Tu per colmare questo vuoto infinito, ha preferito perdersi altrove. Nella vita della natura e nella vita della generazione, anziché vedere il senso che riluce nella vita dello spirito, anziché vivere oltre la pura naturalità e l’omologante vita della generazione nella libertà dell’io che osa dire io di fronte al Tu, il singolo ha ritenuto che fosse più semplice trovare la garanzia della propria esistenza ancorato alla vita della natura, perso nell’ideale della generazione, inseguendo chimere che potessero salvare, invece che se stesso, l’umanità.
Ma la vita della generazione e la vita della natura rivelano soltanto i segni di una esistenza illusoria, i cui veli non si ha il coraggio di togliere per non correre il rischio di ritrovare sconvolte le matrici su cui fa leva il contenimento della follia. Le analisi che Ebner nei Frammenti pneumatologici compie della follia come risvolto inequivocabile di un’esistenza di sogno, di un individuo che non sa, che non ha saputo cogliere l’insegnamento della vita autentica e piena di valore, rivelano l’acutezza che si svolge come semplicità, di un pensatore attuale e insieme inattuale, il cui punto di forza (sarebbe interessante indagare questo punto) è il complesso rapporto che egli visse con il proprio padre, e in generale con le origini contadine della sua famiglia.
Attuale e inattuale Ebner lo è per le sue analisi spietate che s’inseriscono perfettamente nei disagi del nostro tempo, ma in modo così imprevedibile che si stenta a stare dietro alle sue istanze senza che la vita personale di ogni singolo e il modo in cui ognuno si relaziona al mondo circostante non subiscano brusche resistenze a causa di quello che il pensiero fino a quell’istante ha pensato e vissuto.
La natura — afferma Ebner — è «ciò che esiste senza Io». Non da essa e dalla sua vita procede l’Io, poiché esso è un fatto dello spirito. La forza però con cui afferma se stesso nel suo «Io-solipsismo» è una forza naturale. Lì la natura viene incontro all’io. Se essa però non lo fa e l’Io non trova la propria salvezza nello spirituale, allora è appunto perso nella follia. […] La follia non è altro che la latente malattia spirituale dell’uomo, che è divenuta acuta seppur somaticamente modificata, malattia che si radica nell’assenza di Tu da parte del suo Io (p. 239).
La natura è lo sfogo dell’io che desidera sentirsi a proprio agio, e per questo livella le opportunità di procedere oltre che gli provengono dall’apertura al Tu. In realtà però,
se pure nella forza di tale chiusura può trovare un certo autocompiacimento e grazie a questo «affermarsi nel tempo», tuttavia in segreto soffre in questo autocompiacimento e a causa di esso. La chiusura assoluta, nella quale non avrebbe più alcun rapporto con il Tu, e in forza della quale porrebbe la propria esistenza tutta in se stesso, equivarrebbe alla «morte dell’Io». In essa l’uomo perderebbe il linguaggio. Egli non potrebbe più comunicarsi a un altro, non potrebbe più capirsi con lui (p. 241).
È la parola pneumatica che salva l’anima dell’uomo, parola che fonda il suo agire nella comunicazione con il Tu, luogo di purificazione dell’amore e in questo del singolo che ritrova, in verticale, la propria salute. A questo punto è necessario chiarire la scaturigine originaria, nel pensiero ebneriano, della parola pneumatica, concepita penetrando il Vangelo, in particolare il Vangelo di Giovanni. Senza voler indagare le altre fonti di stimolo «pneumatologico» (quali Kierkegaard, Pascal, Dostoevskij, Hamann, per i quali si rimanda all’introduzione di S. Zucal, pp. 34-62), è sicuramente utile chiarire l’appartenenza ontologica della Parola, dunque del rapporto Io-Tu, all’orizzonte tipicamente cristiano. Sottolineare tale rilevanza nel pensiero di Ebner significa altresì scongiurarne i fraintendimenti da un lato, e il pericolo che la sua opera sia annoverata tra quelle di competenza e interesse specifico della cristianità dall’altro. È doveroso dunque far risaltare quegli elementi in grado di fornire una visione per così dire «allargata» di questo pensatore, affinché non vada perso quello che a mio avviso costituisce il nucleo centrale, il cuore della sua intenzionalità teoretica e pratica.
3. La giusta relazione
Per far emergere il contesto delle intenzioni specifiche e delle implicazioni del pensiero di Ebner, ritengo che sia illuminante confrontare la sua posizione con quelle di altri pensatori dialogici, quali Martin Buber e Gabriel Marcel, in merito alla concezione della relazione Io-Tu. La profonda diversità, che forse costituisce anche la ragione della maggior simpatia che gli altri due filosofi suscitano, risiede nella differenza di piani in cui la relazione è vissuta. Per Buber così come per Marcel si tratta di vivere la relazione di fronte al tu umano, ponte che conduce al tu divino. Non così per Ebner, il quale afferma a proposito del folle:
Lo si diventa solo se non si vive spiritualmente di fronte a Dio, ma di fronte all’uomo, nel quale non si può trovare il Tu del proprio Io, ma sempre e solo si sperimenta l’Io. Dietro la follia sta il fallimento del rapporto tra l’Io e il Tu. Il folle sprofonda nell’«abisso dell’Io» e si rovina spiritualmente per la solitudine dell’Io. Non diventa folle se non chi ha molto sofferto nel suo rapporto con l’uomo, proprio per il fatto che tale rapporto del suo Io con il Tu è fallito, e che sempre di nuovo nell’uomo ha sperimentato l’Io dell’altro e la «muraglia cinese del proprio» (p. 240).
Proprio a partire dalle analisi della follia, della solitarietà come malattia spirituale del nostro tempo, si può comprendere la valenza ontologica del percorso discensionale, dal Tu divino al tu umano, e la sconvolgente attualità di questo pensatore. Folle è l’uomo che ha chiuso la partita con Dio, che pensa ed agisce senza che il suo essere e pensare abbiano come sfondo e presupposto iniziale la decisione della volontà per il Tu.
Naturalmente qui bisogna entrare nel merito del problema della fede, e bisogna anche dire che è più facile ad un credente comprendere l’urgenza di Ebner. In realtà si tratta di decidere per il mistero. La follia in quanto malattia reale, che si manifesta non a caso in modo singolare nel nostro tempo, è la castrazione del mistero, la perdita del linguaggio vivo che discende nel momento in cui riconosciamo l’alterità assoluta. Restare sul piano orizzontale della comunicazione, non accettare la sfida e la comunione con ciò che è oltre, non poter pensare altrimenti, significa soffocare la vita in una sola dimensione, quella dello spazio che non si apre al tempo, se non nella generica successione orizzontale della storia e della generazione. Significa in altre parole non riconoscere la parte originaria di ognuno, e chiuderla equivale a relegarla, nel migliore dei casi, nel mondo delle idee; ma si può anche non riconoscerla affatto, e allora straripa nella follia. È questa la distinzione tra genio e folle:
il primo ha spiritualmente una relazione almeno con un Tu ideale — ed è già abbastanza grave, se la sua intera vita spirituale si riduce tutta a tale relazione — mentre il secondo parla sempre e solo ad un tu fittizio. Idea e finzione non sono naturalmente la stessa cosa; quella ha infatti sempre una rilevanza oggettiva, questa soltanto soggettiva. Chi porta in sé, il che non necessariamente si verifica per tutti, la possibilità di un Tu ideale quale premessa per essere interpellato in parole ed opere da un genio nella sua genialità, questi sa cosa fare con tale Tu, anche se poi mancherà nel parlare il suo Tu concreto. […] Tutto ciò che nell’uomo diviene parola, e quanto più ciò procede dal profondo della vita, ha il suo giusto senso e la sua autentica verità nel fatto di non mancare il Tu. La verità è ciò per il cui tramite un pensiero riceve consistenza ed essenza, e non esiste alcuna verità per un pensiero di un pensiero divenuto parola, che possa sussistere in maniera assolutamente indipendente dalla relazione della parola con quel Tu che risulta, concretamente o idealmente appellato. […] È la relazione con il giusto Tu che rende verità «oggettiva» il pensiero divenuto parola (p. 180).
Il «giusto Tu» che determina la relazione giusta non è l’uomo, né l’idea, ma Dio, fonte della parola giusta, di conseguenza della vera comunicazione tra gli uomini in quanto esseri spirituali. Non è svalutazione dell’uomo, né subordinazione, ma tentativo di recuperare in maniera fondativa ed estremamente seria il valore della comunicazione. Saper ascoltare il mistero, dunque rispondere, vuol dire non soffocare la sofferenza dell’ineffabile, non lasciare implodere la radice infinita dell’uomo e del pensiero nel pensiero che non sa contenerla, ma riconoscere la spiritualità viva che informa di sé ogni singolo, decidere di abbracciarla, senza fuggire negli accomodamenti del sogno, propri di un uomo che non osa guardare e vedere oltre.
Nella relazione giusta, in altre parole, l’io nel Tu si apre alla dimensione in cui acquista senso la speranza, il filo di continuità che lega insieme gli istanti donando loro l’unicità del mistero e la profondità del dono. Solo in virtù di tale apertura, nella disposizione dell’io a perdere se stesso nell’Altro nella forma dell’affidamento, l’amore per l’altro uomo è fecondato dalla gratuità. Si può amare l’altro uomo se l’io ha deciso di non incontrare nell’altro la «muraglia cinese» del proprio io. Comunione e comunicazione vera prevedono l’abbandono di sé, la deformazione o sfondamento dell’orizzonte esistenziale intorno al mio io, il sacrificio dell’immediatezza, dell’idea, del sogno, totale apertura, estasi. Nel faccia a faccia con il Tu sono svelati i segreti dell’esistenza, interrotta la chiusura, spezzate le catene che imbrigliavano l’io nelle espressioni patologiche della sua indigenza, l’altro uomo è accolto nella limpidezza della sua presenza, prima di ogni legge e al di là di qualsiasi convenzione. La parola che erompe da tale relazione fonda la vera comunione nell’amore, nella responsabilità, nella chiarezza e nella serietà:
La parola giusta è sempre quella che dice amore e che ha in sé il potere di abbattere le muraglie cinesi. Ogni sventura umana sulla terra dipende allora dal fatto che gli uomini sono di rado in grado di pronunciare la parola giusta. Se ne fossero capaci, si risparmierebbero la disgrazia e la pena delle guerre. Non esiste sofferenza umana che non potrebbe essere evitata grazie alla parola giusta, e non esiste nelle varie disgrazie di questa vita alcuna consolazione autentica, se non quella che viene dalla parola giusta. La parola detta senza amore è già un abuso umano del dono divino della parola. In tale abuso la parola contraddice il proprio senso autentico e si estingue spiritualmente. Va perduta nella temporalità. La parola che dice l’amore è eterna. Dal «solipsismo dell’Io» della sua esistenza — da questa «malattia mortale» della sua vita spirituale — l’uomo viene redento mediante la parola e l’amore. L’amore di Dio che ha creato l’uomo mediante la parola, nella quale era la vita, per redimerlo si fece «oggettivo» nella «parola», ovvero esperibile ai sensi, storico, nell’incarnazione di Gesù e nella parola del Vangelo (p. 255).
L’origine divina della parola non deve sviare il lettore non credente, ma condurlo a leggere oltre la frantumazione dell’esistenza e avviarlo al recupero dell’originarietà assoluta che fonda la relazione, e prima ancora la persona la cui dignità non è riconducibile allo schema vuoto dell’idea, né a quello altrettanto vuoto dell’esserci heideggeriano. Da qui il senso della radicale svolta che Ebner presenta nei Frammenti pneumatologici, che costringe nella quotidianità della vita personale a pensare altrimenti, che desta nell’uomo la consapevolezza che la propria inquietudine, così come le inquietudini del tempo, derivano dal soffocamento dell’espressione, dalla mancanza di coraggio di uscire dall’impersonalità e protendersi verso l’ineffabile profondità della persona. Il problema del linguaggio acquista una rilevanza centrale poiché la parola è la testimonianza dell’originaria derivazione della persona: lo spirito. Decidere di accettare l’evento che si dispiega a partire da questa consapevolezza significa orientare il proprio pensiero nella dimensione assoluta e priva di compromessi nella quale il singolo stravolge la propria singolarità e coinvolge la propria esistenza attraversando il Tu, e in questo percorso accogliere l’uomo.
Si comprende allora che chiedere alla filosofia il proprio suicidio significa più in generale esigere che l’uomo riconosca il nucleo vitale della propria esistenza. Significa progettare altri parametri per educare l’uomo. Dunque, oltrepassare lo svilimento della comunicazione, che soprattutto nel nostro tempo si riduce in una logica del consenso all’idea, all’illusione, al sogno:
Tutto ciò che nell’uomo diviene parola, e quanto più ciò procede dal profondo della vita, ha il suo giusto senso e la sua autentica verità nel fatto di non mancare il Tu. La verità è ciò per il cui tramite un pensiero riceve consistenza ed essenza, e non esiste alcuna verità di un pensiero divenuto parola, che possa sussistere in maniera assolutamente indipendente dalla relazione della parola con quel Tu che risulta, concretamente o idealmente, appellato. […] È la relazione con il giusto Tu che rende verità «oggettiva» il pensiero divenuto parola […] l’Io che non riesce a trovare il suo Tu fluttua tra pensieri spiazzati e mezze verità. Solo la metà delle condizioni di sussistenza della verità sono date, cioè l’Io; ed esso rischia di diventare una «non-verità» (p. 180).
La verità dell’Io si compie solo nella coniugazione che il Tu feconda e riempie, senza la quale sarebbe, appunto, solo «mezza verità». Il giusto Tu è la dimensione in cui gli uomini si comprendono al di là del linguaggio, e in cui il linguaggio acquista spessore e consistenza entro il progetto dell’uomo. Allora la domanda fondamentale, in cui tutti devono sentirsi coinvolti, è la domanda sul quid della comunicazione, che deve poter investire in maniera decisiva ogni umana attività, una domanda che trapassa inevitabilmente nella decisione della propria vita:
Rientra nella spiritualità della nostra esistenza il fatto che la vita dell’uomo in questo mondo si concluda con una domanda. Nel carattere incerto di tale esistenza emerge e si manifesta lo spirito. Ma qual è la risposta alla domanda? Gli uomini sono ben strani: aspettano davvero ancora una risposta. Ma non è stata forse già data da lungo tempo, da quasi duemila anni? E forse ancora oggi non sanno che lo spirito in essi non è solo ciò che si interroga ma soprattutto, dato che la risposta è già offerta, ciò che si decide per essa? (p. 388).