1. L’amore platonico e l’eros
Pur essendo state in larga parte deposte le riserve che hanno indotto a non intestarlo a Platone,1 l’Alcibiade I continua ad essere considerato un dialogo politico con un intreccio erotico-pedagogico funzionale alla scoperta della «cura di sé», acquisizione indispensabile per chi voglia amministrare la vita della città. L’eros del dialogo è dunque sottoposto prima alla pedagogia, che ne governa l’origine, e poi alla politica, che ne rivela la finalità. Questa posizione subalterna implica due corollari: in primo luogo fa della philìa il vero sfondo concettuale dell’eros, perché pedagogia vuol dire essenzialmente amicizia del maestro verso l’allievo, affinché l’allievo diventi a sua volta amico del bene; politica, d’altra parte, vuol dire amicizia dispiegata e messa in pratica nello spazio pubblico; secondariamente, essa avvalora anche un certo equivoco a proposito dell’«amore platonico», e cioè a proposito dell’idea che Platone aveva dell’amore, idea che giunge a noi tramite il racconto di alcune significative esperienze — una di queste è quella vissuta da Socrate e Alcibiade — che nutrono una teoria cui, ben al di là di Platone e dei suoi dialoghi, continuiamo a riferirci con la certezza di trovarvi indicato un tipo di amore particolare, riconoscibile.
Quale vissuto corrisponde all’espressione «amore platonico»? Crediamo di andare sul sicuro affermando che l’eros rinvia, per Platone, all’azione di un erastès il cui gesto tipico consiste nel far volgere l’amato (da cui la sua azione si origina), non verso di sé, non verso l’amante, dunque, al fine di ottenere il godimento nell’ottenuta reciprocità, ma verso quel buono e quel bello che sono amabili in senso assoluto, e cioè separato dalle fattezze fisiche e dal volto di colui che ha deciso di amare per primo e che risulta il «vero amante» nella misura in cui si attiene a questo ruolo. Ma questo è un «ruolo», appunto.
L’«amore platonico» arriva a noi ingabbiato in una pesante armatura costituita dalla fissità dei ruoli erastès/eròmenos, attivo/passivo; ruoli già ben determinati nella concezione dell’erotica omosessuale propria della Grecia antica, cui la filosofia aggiunge vocazione e finalità che costituiscono valore aggiunto, libera creazione, euristica pura.2 Ma a questa pur mirabile euristica sembrerebbe sfuggire, fino al rischio dello sconfinamento nell’ambiguità, che la passività può diventare una forma di attività e, viceversa, che l’attività può diventare passiva. Ciò che sembrerebbe sfuggire è appunto il viceversa.
Ci sarebbe, insomma, nella rappresentazione greca dell’amore omosessuale che conosce, con Platone, la sua massima espressione ed il suo valore aggiunto, una sorta di «allergia» verso la reciprocità, che non è immune da una certa violenza. L’eros si manifesta infatti nel desiderio di un amante che decide di amare un ragazzo, dalla cui vista è scosso, con la «missione» di condurlo, per il tramite del suo amore, ad amare il bello amabile in senso assoluto, e a volgersi verso di esso. L’amante, l’erastès, è colui che quindi conosce la via del bene, è colui che gode di un primato nella relazione, a causa del suo sapere già che l’eros umano è un mezzo potente, ma pur sempre un mezzo, per consentire all’altro di farsi a sua volta amante di un eros diverso, più alto; il vero amante si rivela dunque un maestro capace, in quanto tale, di provocare nell’eròmenos una sorta di periagoghè, di metastrophè, verso il veramente amabile. Il fine, di conseguenza, non è l’amore reciproco fra l’erastès e l’eròmenos, ma l’amore del bello da destare e impiantare nell’eròmenos; ne segue che l’incrocio fra i due partners risulta in qualche modo interrotto da questo terzo elemento che non è né l’uno né l’altro. Questo scatena il pesante equivoco che incombe sull’amore platonico, rispetto al quale ci si chiede che ruolo abbia il corpo — dimensione in cui gli amanti sono l’uno per l’altro e questo stesso è un bene — e si tende allo stesso tempo a escludere che esso entri pienamente in gioco.
Anche nell’ipotesi in cui si ammette che la sessualità ha effettivamente un ruolo all’interno di questo tipo di amore, come sembrano d’altra parte confermare diverse fonti,3 lo scenario non cambia di molto: resta, anzi, ancora più eclatante, il dato dell’irreciprocità, a partire dal fatto che nel rapporto d’amore il pais è estromesso dal godimento che ricava da lui il suo erastès.4 Ciò è in qualche modo «fisiologico» in quanto il pais viene accolto nel rapporto d’amore a partire da una inclinazione sessuale neutra, ancora indecisa e quindi al di là del maschile e del femminile: egli non ha ancora sviluppato una tendenza verso l’omosessualità («ama ma non sa dire cosa»)5 e la stessa iniziazione sessuale impartitagli dall’erastès lascia oltretutto «libera» la sua orientazione sessuale futura. Egli potrà diventare l’erastès di un pais o legarsi a una donna e procreare, o vivere entrambe le esperienze.6
Siamo così di fronte alla strana potenza di un amore che tocca sì il corpo, ma senza considerare data a priori la sua differenza sessuale; o meglio, senza considerarla preliminarmente necessaria per l’amore. La «differenza sessuale» sembra così posteriore e non anteriore e funzionale all’amore in questo tipo di eros: l’eròmenos non esprime infatti né il maschile né il femminile, ma appare nella compresenza di tratti maschili che accolgono la femminilità.7 Ciò che si profila è un amore al di là della sessuazione, laddove «al di là» vuol dire «prima» dell’impressione di una precisa marca sessuale.
Ora, questa possibilità è «fisiologica», perché suggerita appunto da una physische diventa oggetto di godimento nello spazio esiguo, perché legato a una inesorabile, fatidica, temporalità: solo per un certo periodo della vita si era pais8 (non vi si è ancora impressa una marca sessuale definita), e sancisce in modo definitivo l’irreciprocità nel rapporto. In un certo senso, l’«amore platonico» resta «platonico», e cioè non finalizzato a quella ricerca del godimento reciproco sotteso all’espressione «fare l’amore», nonostante l’ingresso della sessualità. L’irreciprocità è tale che nel Fedro — per il sentimento provato dall’eròmenos — non viene usata la parola eros che è usata per l’erastès, ma antèros. L’antèros, ovvero, letteralmente, «l’amore di risposta», è definito un eidolon eròtos, un riflesso dell’amore, che non va considerato erosma philìa9.
L’imperscrutabilità dell’eròmenos, origine separata dell’amore dell’erastès, sembra trovare, alla fine, la sua trasfigurazione e gloriosa sistemazione teorica nella descrizione aristotelica del motore immobile, l’hos eròmenon, colui che senza ricambiare l’amore che suscita si limita a farlo nascere rimanendo intatto ed integro, senza pena né turbamento alcuni verso il cielo e la natura che restano appesi (ertemai) a lui come a delle braccia avare.
Questa assenza di reciprocità dimora incontrastata, malgrado tutto, anche nel Commentario di Proclo all’Alcibiade I che, benché introduca il concetto di «conversione» degli esseri superiori verso quelli inferiori (epistrophè pros to cheiron), indicante pur sempre un movimento simmetrico, fatto cioè insieme — Socrate si abbassa, kateisin, va giù, dice Proclo, verso Alcibiade, affinché a sua volta Alcibiade si elevi verso l’ottimo —10, installa al cuore della reciprocità una qualità essenzialmente irreciproca. Irreciproca perché dettata da una ferrea gerarchia, in cui permane la separazione ontica fra il superiore e l’inferiore, che resta sostanzialmente fedele alla diversità dei ruoli dell’erastès e dell’eròmenos e al fatto che ad essere divino è l’amante.
Questa gerarchia superiore/inferiore, che conferma i due diversi livelli ontologici dell’erastès e dell’eròmenos produce, di conseguenza, una reciprocità senza libertà, per dirla con Lacan. Nel corso della sua analisi del Simposio di Platone, Lacan scrive, infatti:
Nella mano che si tende verso il frutto, verso la rosa, verso il ceppo che all’improvviso si infiamma, ebbene, il gesto di tendersi, di attirare, di attizzare è strettamente solidale con la maturazione del frutto, con la bellezza del fiore, con la vampata del ceppo. Ma quando, nel movimento di tendersi, di attirare, di attizzare, la mano è ancora lontana dall’oggetto, se dal frutto, dal fiore o dal ceppo esce una mano che si tende incontro alla vostra, e se in quel momento la vostra mano si fissa nella pienezza chiusa del frutto o in quella aperta del fiore o nell’esplosione di una mano che brucia, ecco allora che si produce l’amore. Ma non è il caso di fermarsi qui, e di limitarsi a dire che ci troviamo di fronte all’amore, voglio dire che si tratta del vostro amore, se prima eravate l’eromenos, l’oggetto amato, e che improvvisamente diventate l’erastès, colui che desidera […] La struttura di cui si tratta non è di simmetria e di ritorno. Così qui non c’è simmetria, perché nella misura in cui la mano si tende, tende verso un oggetto. La mano che appare dall’altro lato è il miracolo [corsivo mio].11
Ora, paradossalmente, la comparsa della mano nel bel frutto o nel bel fiore, quella mano che con la sua protensione attesta miracolosamente anch’io, sembra lontanissima dalla configurazione dell’«amore platonico», il cui recondito imperativo enuncerebbe invece: «Ti amo non perché tu mi possa amare, di ritorno, ma perché, attraverso il mio amore, tu possa amare il Bene che devi amare», talmente lontana che per lo stesso Lacan anche l’eros che viaggia — che va e che viene — fra Alcibiade e Socrate, e di cui gli dà notizia il Simposio, resta un amore sostanzialmente irreciproco.
Si tratta — è importante sottolinearlo — dello stesso Lacan che pure sottolinea con sorpresa, nell’encomio di eros fatto da Fedro nel Simposio, una nota significativa sul fronte dello scambio dei ruoli fra erastès ed eròmenos in cui a suo avviso si esprime proprio «la significazione dell’amore».12 Stando al discorso di Fedro che colpisce Lacan, infatti, gli dei darebbero un posto speciale ad Achille, ancora più speciale del premio conferito in vita ad Alcesti, perché Achille, pur avendo nella relazione con Patroclo il ruolo dell’eròmenos, alla morte di quest’ultimo si comporta invece come un erastès,13 decidendo di andare incontro alla morte per lui. Morire deliberatamente per Patroclo diventa l’azione di Achille, l’azione che conferma il suo essere diventato da amato, amante. E questo meraviglia gli dei, definiti nel Simposio hyperagasthèntes (molto ammirati). Vale la pena di non accontentarsi di Lacan e di riaprire il testo platonico. Questa è la spiegazione offerta da Fedro:
Resta il fatto che gli dei onorano sopra ogni virtù quella d’amore, e inoltre mostrano più stupore ed ammirazione (mallon thaumàzousin) e concedono maggiori benefici quando l’amato ama l’amante (hotan ho eròmenos ton erastèn agapà) che non quando l’amante dimostra affetto per l’amato (e hotan ho erastès ta paidikà). Infatti l’amante è più divino dell’amato, perché è pieno di dio. E per questa ragione gli dei onorano Achille anche più di Alcesti, inviandolo alle isole dei beati.14
Fra Socrate e Alcibiade non avverrebbe niente di tutto questo. Nessun miracolo stando a Lacan. Anche se resta il dubbio sul perché gli dei si mostrerebbero ammirati e commossi per qualcosa che il «buon senso» in fatto di sessualità e di «morale sessuale» greca tenderebbe invece ad escludere. L’ammirazione degli dei risulterebbe fuori legge.15
La spiegazione data da Lacan a questa rigidità e fissità di Socrate nei panni dell’erastès nella parte finale del Simposio fa leva sul rifiuto socratico di porsi nei panni dell’amato, in quanto Socrate sarebbe l’uomo kenotico, il filosofo che sa di non possedere niente e, soprattutto, niente di amabile in sé, essendo ancorato al solo desiderio. Riconoscendo di non avere niente di amabile — riconoscendo di non avere — Socrate non può accettare di diventare l’amato, secondo Lacan.16 Egli resta, quindi, filosofo e amante di Alcibiade, a modo suo, laddove «a modo suo» vuol dire che la caratterizzazione sessuale di Socrate viene calibrata sulla sua essenza di filosofo, e stando ad essa il filosofo non può che essere l’amante, colui che non ha niente da perdere perché niente possiede e che quindi ama in pura perdita; ama come parla, senza che niente ritorni a lui.
Tutto ciò conferisce un’ulteriore conferma alla struttura singolare dell’«amore platonico», che mantiene il suo aspetto di amore senza reciprocità reale fra gli amanti;17 reciprocità impedita, nel caso della lettura di Socrate fatta da Lacan, dalla struttura della filosofia che in Socrate si incarna.
Foucault stesso, che dedica una cospicua parte della sua analisi alla «cura di sé», nell’Alcibiade I18 non proferisce parola sulla natura della particolare relazione erotica fra Socrate e Alcibiade, limitandosi a sostenere che nell’Alcibiade I l’eros — ma l’eros in generale, non quello che viaggia fra Alcibiade e Socrate, non quello che a partire da loro prende la sua forma singolare di vissuto — è a servizio della cura di sé e dell’insegnamento, e che questo legame, costitutivo del modo di amare di quel maestro che è Socrate e del modo di concepire l’amore da parte di Platone, subisce nel tempo una progressiva dissociazione, fino a perdersi, perché l’eros si rivela una zavorra che rischia di complicare fino a rovinare la natura della relazione educativa, il transfert pedagogico.19
Anche a partire da questi elementi, l’«amore platonico», si conferma, come l’amicizia, un amore a tre termini, in cui il terzo: il divino, il bene, il bello in sé, cui deve mirare l’azione del vero amante, di fatto tende a far sbiadire, nella relazione fra i due partners, ciò che appunto determina quest’ultima come relazione: e cioè l’essere di fatto collegati dei due, là dove il «fatto» del collegamento dice innanzitutto il corpo in cui si iscrive la reciprocità.
Ritenere l’eros nell’Alcibiade I «funzionale» alla pedagogia e alla politica occulta l’incubazione di una particolare teoria dell’amore il cui tratto saliente è invece la piena reciprocità, cioè lo scambio dei ruoli fra l’amante e l’amato; questa teoria, che spicca come fortemente inedita rispetto allo stesso Simposio o al Fedro, che restano tuttavia imprescindibili per isolarla, viene offerta e alleggerita evocativamente in forma di conclusione nelle battute finali del testo.
Andando ben oltre il contesto in cui si sviluppa, inoltre, questa teoria, che stando all’espressione usata da Socrate chiamo teoria dello «schema invertito»,20 oltre a mettere in crisi una certa neutra fissità dei ruoli erastès/eròmenos, su cui la letteratura — da Dover a Lacan — conviene, sembra introdurre una terza via nel dilemma, oggi particolarmente acuto, fra affermazione e superamento della differenza di genere.
È a partire dalla questione della «differenza sessuale» che dirigo il mio sguardo sul testo platonico, ed è su questo fronte che vedo incidere la teoria dello «schema invertito» in modo estremamente significativo perché propositivo, fecondo.
Procederò ricostruendo e amplificando le fasi dell’intreccio erotico che vede protagonisti Socrate e Alcibiade e inserirò, secondariamente, all’interno della ricostituita centralità di questo intreccio che perviene al metabalèin tò schema, il tema della «cura di sé».
2. L’intreccio erotico tra Socrate e Alcibiade e la «cura di sé»
Socrate si presenta ad Alcibiade con risolutezza e coraggio, parlando di sé in prima persona ed esponendo la propria condizione di amante:
Figlio di Clinia, penso che tu ti meravigli del fatto che io, che pure fui il tuo primo amante, mentre gli altri hanno smesso di frequentarti, sono il solo a non allontanarmi (ouk apallattomai), e poi mentre gli altri ti importunavano con i loro discorsi, io invece in tanti anni non ti ho neppure rivolto la parola […]21
Si potrebbe pensare che l’aporeticità del comportamento che Socrate descrive a suo carico sia solo una presunta aporeticità, una tattica di avvicinamento ad Alcibiade. Le cose non stanno così questa volta, e le parole da lui poco dopo impiegate lo confermano: «Dovrei parlare. Certo è difficile (chalepòn) per un amante presentarsi a un uomo che non cede agli amanti, tuttavia (homos) devo avere il coraggio (tolmetèon) di esprimere il mio pensiero».22
La situazione è veramente difficile e richiede coraggio. Di questo è segno il fatto che la ragione del «non» (ouk apallattomai) con cui si apre il testo, viene interlocutoriamente riproposta. «Ti chiederai — rincara Socrate — perché mai, dopo aver visto nel tempo come ti sei via via sviluppato, come sei diventato arrogante e pieno di te, appoggiandoti esageratamente sulle tue doti naturali: il bell’aspetto e i nobili natali […]; Ebbene, ti chiederai come mai io non mi separo, non mi sbarazzo, del mio amore per te (ouk apallattomai tou erotos)».23
La questione, posta in modo ricorsivo, accorato, è dunque la seguente: perché non si allontana chi avrebbe dalla sua parte tutte le ragioni per allontanarsi? La risposta sembra facile, invece è difficile.24 Sembrerebbe facile poter rispondere che chi non se ne va resta perché ama, perché continua ad amare. Ma questa risposta non sarebbe perspicua, resterebbe generica, e il testo lo evidenzia. Cosa ama, infatti, chi non se ne va malgrado abbia sentito nel proprio cuore un amore contrariato dal proprio demone interiore?25 Chi non se ne va e tuttavia vede chiaramente, nell’«amato assoluto», il non amabile in assoluto?
Queste evidenti contraddizioni confermano la non facilità della risposta e rendono banale e incoerente esibire «l’amore» come ragione e risposta tout court.
Alcibiade prepara la risposta di Socrate rincarando così quell’attesa creata poco prima da Socrate stesso:
Ma forse tu non sai, Socrate, che mi hai preceduto di poco. Infatti avevo in mente di avvicinarmi io per primo per farti proprio queste domande, che cosa vuoi mai e mirando a quale aspettativa (eis tina elpida) mi importuni, sempre presente con la più tenace ostinazione (epimelestata paròn), ovunque io sia: e in realtà mi chiedo sbigottito che cosa sia mai questo tuo modo di agire e mi farebbe molto piacere saperlo.26
Nelle battute di un Alcibiade che si dice ignaro della strategia di Socrate, spicca la prima comparsa del termine epimèleia, tema fondamentale dell’intero dialogo (sia pur declinata come epimèleia heautoù). Qui l’epimèleia entra in scena al superlativo, come la disposizione eccessiva di un soggetto epimelèstatos; essa viene quindi legata a una dismisura, ma a ben guardare si tratta della dismisura da cui essa proviene: Aristotele non definisce forse l’eros hyperbolè tes philìas, eccesso di amicizia?27
Se l’epimelès è colui che si prende cura, colui che ha attenzione, sollecitudine, l’epimelèstatos è colui per il quale la cura sconfina nella fissazione, nell’ossessione; qui è in gioco l’essere perseguitati, insomma, dal fantasma dell’altro. Socrate stesso ammetterà, nell’ambito della sua risposta ad Alcibiade, di non aver mai cessato di avere la mente rivolta ad Alcibiade («prosèchon ge soi ton voun diatetèleka»);28 ti sono stato addosso con la mente, dice, il che vuol dire, sei stato il mio chiodo fisso.
È certo singolare che la prima accezione dell’epimèleia sia l’ossessione; questo sembra attestare la difficoltà che questa parola nasconde al suo interno, la sua provenienza dalla dismisura erotica che comporta la difficile conquista della giusta distanza, la fatica di un’adeguata manovra di avvicinamento all’altro di cui si ha cura, o, meglio, che si ha a cuore. L’epimèleia cela così, in nome della sua provenienza, un problema pratico: come aver cura dell’altro avendone già cura, in quanto lo si porta nel cuore? Ovvero, come avvicinarsi all’«oggetto» della propria cura? La «cura di sé», l’epimèleia heautoù che Socrate insegnerà ad Alcibiade è dunque preceduta dalla cura iperbolica di Socrate nei confronti di Alcibiade, e solo all’interno di questa cura che coincide con il singolare eros di Socrate; l’altra cura, la «cura di sé», può essere insegnata e seguita nel suo svilupparsi nell’altro. È quanto tenterò di mostrare nella mia riproposizione dei passaggi centrali del testo.29
Ma torniamo alla risposta, spiazzante, di Socrate, al perché dell’essere rimasto, al perché del non essersi separato dal suo amore, al perché del suo chiodo fisso:
Dovrei parlare. Certo è difficile per un amante presentarsi a un uomo che non cede agli amanti, tuttavia devo avere il coraggio (tolmetèon) di esprimere il mio pensiero. Infatti se io, Alcibiade, ti avessi visto soddisfatto di quei privilegi che ho appunto esposto poco fa e convinto di dover trascorrere la vita nelle condizioni che questi comportavano, avrei già da tempo desistito dal mio amore (palai an apellàgmen tou erotos), per lo meno in cuor mio ne sono convinto; tuttavia ora rivelerò altri pensieri tuoi nei confronti di te stesso, per cui capirai anche che non ho mai cessato di rivolgere a te la mia mente (ho kaì gnose hoti prosèchon ghe soi ton noun diatetèleka). Penso che se un dio ti dicesse: «Alcibiade, preferisci vivere con ciò che hai adesso o morire subito se non hai la possibilità di ottenere cose più grandi?», credo sceglieresti di morire; ma su quale speranza ora fondi la tua vita (epì tini de pote elpìdi zes) te lo dirò.30
Ciò che ha indotto Socrate a non desistere dall’amare Alcibiade non passa per una «proprietà» di Alcibiade, come verrà detto ancora più chiaramente alla fine del dialogo, ma tuttavia questa «cosa» che Alcibiade non ha, e che pertanto non può essere annoverata né fra le proprietà (le «cose» di Alcibiade), né fra le cose che Alcibiade crede di possedere, è ciò che tiene a sé Alcibiade e lo rende Alcibiade agli occhi di Socrate, e dunque una volta procurato un accesso ad essa, Socrate giungerà al cospetto di Alcibiade in persona. Cos’è questa «non-cosa» che lega Alcibiade a se stesso e allo stesso tempo «rende ragione» della resistenza di Socrate nei suoi confronti? Nient’altro che un desiderio, una speranza, guardando alla quale Alcibiade vive la sua vita. Socrate intercetta questa speranza di «cose più grandi» che scombina e contraddice — ma in modo fecondo — il vivere di Alcibiade, e la trova amabile.
Il fatto che la «cura di sé (epimèleia heautou)» consista, come si sostiene comunemente e giustamente, in un prendersi cura della «cura» dell’altro,31 nelle prime battute del testo è imprescindibilmente connesso con il dato che Socrate dice di essere ancora amante di Alcibiade grazie al suo accesso a una proprietà non cosale e invisibile di Alcibiade: al suo desiderio appunto, alla sua cura o, forse meglio, a ciò che ad Alcibiade sta a cuore, alla protensione stessa del suo cuore.
È proprio la possibilità che si dia una cura, un desiderio, un avere a cuore, una tensione, in Alcibiade, a mantenere in Socrate la postura dell’amante, postura che Socrate assume prendendo a cuore in modo stabile le belle ma vaghe speranze di Alcibiade. Ma il dato che resta eclatante, in tutto questo, è che, all’origine, l’epimèleia coincide con l’accesso all’invisibile di un cuore, ecco perché «epimèleia» non va senza eros. Nessuno può prendersi cura della cura dell’altro se prima non l’ha vista, ma vedere la cura dell’altro significa vedere nell’invisibile di un cuore, e solo l’amore apre questo accesso all’inaccessibile stesso.
Quando Socrate si rivolge ad Alcibiade ed inizia ad interrogarlo, lo fa col presupposto che lui abbia in mente le cose che Socrate crede che lui abbia in mente.32 Socrate, dunque, non ha avuto alcuna rivelazione da parte di Alcibiade, egli ha letto nell’invisibile, e questa possibilità, questa capacità, è chiaramente la prova del suo amare Alcibiade; questa «veggenza» è proprio il dono dell’eros cui la stessa epimèleia heautoù resta, come vedremo, interamente appesa.
Socrate comprende da solo che è sicuramente difficile per Alcibiade cogliere l’attinenza fra il suo non andar via e la sua lettura della cura invisibile nel cuore dello stesso Alcibiade («Forse mi chiederai, ben sapendo che quel che dico è vero: ma che ha a che fare questo, Socrate, col tuo discorso? [quello che dicevi mi avresti fatto, sul motivo per cui non mi abbandoni? (ouk apallatte)])»,33 ed è per questo che dà spontaneamente la risposta.
Prima di soffermarmi su questa risposta farò una piccola digressione che dovrebbe avere lo scopo di mostrare la relazione fra Socrate e Alcibiade all’interno di una tensione che, anticipandola, conduce verso quella reciprocità che viene fuori, quasi come una nuova teoria, alla fine dell’Alcibiade.
Quando, nel finale del Simposio, Alcibiade irrompe e sconvolge l’assetto dei discorsi precedentemente fatti, non facendo l’encomio di una potenza d’amore generica ma del suo amore, e cioè di Socrate in persona, il perno della argomentazione risiede nel fatto che egli ha visto dentro Socrate, in un dentro in cui nessun occhio umano può essere mai entrato, «immagini divine e d’oro, bellissime, meravigliose».34
Due piani del vedere si sovrappongono e immediatamente si distinguono nello sguardo di Alcibiade, che fa il seguente ragionamento:
Nessuno di voi (oudeis hymòn) conosce veramente Socrate, perché ciò che voi vedete (oràte gar),35 cari compagni di bevute, è ciò che è sotto gli occhi di tutti, compresi i miei, e cioè voi vedete come Socrate è sempre innamorato dei belli, e non fa nient’altro che star loro appresso, e ne è sconvolto, e come, d’altra parte, ignori tutto e non sappia nulla…^[36]E tuttavia, «come un Sileno scolpito, si copre all’esterno (exothen) con questo atteggiamento (periblebetai), mentre dentro (endothen), se lo si apre, sapreste immaginare, cari compagni di bevute, di quanta temperanza (sophrosyne) sia pieno? Passa tutta la sua vita ironizzando e prendendosi gioco della gente. Ma quando fa sul serio e si apre, non so se qualcuno abbia visto le immagini che ha dentro (ta entòs agàlmata). Io [corsivo mio] una volta le ho viste (all’ego ede pot’eidon)».36
La cosa che più conta, in questo brano, sono le due soggettività contrapposte, contrapposte in forza di ciò che riescono a vedere: «voi», il soggetto di oràte gar, seconda persona plurale, e «io, invece», «ma io», all’ego, prima persona singolare. Voi vedete quello che vedo pure io, ma voi non vedete quello che ho visto io, e cioè il divenir serio di Socrate, le sue immagini interiori; in breve, i suoi agàlmata. Ora, questi agàlmata, che sono il cuore del discorso di Alcibiade nel Simposio, e tali sono riconosciuti da Lacan,37 non sono altro che le immagini invisibili la cui visibilità è concessa solo all’amante.38 Cosa ha visto Alcibiade? Ha visto innanzitutto che Socrate diventa serio (spoudasantos) — quasi che tutta la sua ironia, tutta la sua maieutica, tutta la sua ricerca filosofica, fossero solo apparenza, gioco, atteggiamento, divertissement — e si apre (anoichthèntos, anoignumi), cioè espone un sé che non coincide col sé del Socrate noto a tutti, forse anche a se stesso. Alcibiade dunque, stando al Simposio, rivela Socrate (egò delòso),39 così come, nell’Alcibiade I, Socrate rivela Alcibiade. In entrambi i dialoghi, sia pure in un’inversione di ruoli, l’uno è il «rivelatore» dell’altro, nel senso che l’uno ha accesso all’invisibile che abita nell’altro, e posto che il rivelatore è sempre l’amante, cui l’amato si rivela divenendo, proprio in forza di questa rivelazione, amato, l’analogia suggerita dalla lettura sinottica dei testi suggerisce che Socrate e Alcibiade sono entrambi amanti, nel senso che ciascuno di loro è un erastès; entrambi amanti in quanto entrambi vedono nei cuori invisibili dei loro amati. Socrate legge nella speranza di Alcibiade e lo ama per quella speranza, posto che tutto quello che di lui ha, come gli altri, sotto gli occhi, è desolante; Alcibiade fa leva sugli agàlmata e non nasconde la sua vergogna, il suo disagio, la sua eterna esitazione nei confronti di un Socrate che frustra il suo desiderio («non so come devo comportarmi con quest’uomo»)40 e di cui vorrebbe augurarsi che sparisse, che si togliesse da mezzo, se non fosse che sa già che l’angoscia prodotta dalla sua assenza totale sarebbe ben peggiore di quella che la sua presenza parziale gli provoca già.41 Ciò mostra che anche Alcibiade ha, verso Socrate, un amore contrariato e che come — stando a Proclo che guarda da una parte sola — oggetto dell’amore di Socrate è il «vero Alcibiade» (alethinòn Alkibiàden),42 allo stesso modo, oggetto dell’amore di Alcibiade è il vero Socrate. Quello delle immagini meravigliose e invisibili, quello che a tratti si fa serio, quello che non interroga e non ammira i bei fanciulli, quello che lascia in pace la gente; quello che, in breve, è l’amato di Alcibiade.
Dire che Socrate e Alcibiade sono entrambi amanti non vuol dire ancora affermare la reciprocità del loro amore, erastài al plurale indica infatti la condizione di chi condivide con altri l’azione dell’amare, ma non quella trasformazione miracolosa cui Lacan allude quando parla delle mani che spuntano dal frutto o dal fiore. Gli erastài, insomma, non sono l’amante e l’amato in quanto entrambi amanti, ma sono coloro che parimenti danno inizio all’azione di amare. Cogliere, tuttavia, nel confronto fra due testi come l’Alcibiade I e il Simposio, che pare plausibile ritenere contemporanei,43 una dinamicità, una tensione, rispetto a quella fissità dei ruoli erastès/eròmenos incarnati da Socrate e Alcibiade, è tuttavia significativo, perché induce a interrogarsi sul significato di quella ferrea distinzione, sul valore di quella irreciprocità che è al cuore dell’«amore platonico».
Come fa Platone a ignorare il mimetismo che trascina l’amato a diventare amante, e ad escluderlo dal particolare amore che descrive? E posto che non lo ignora affatto, come dimostra la descrizione di quegli amanti che sono, ad uno ad uno, Socrate e Alcibiade, fin qui entrambi amanti all’attivo, perché l’ostinazione a isolare i ruoli di amante e di amato al cuore dell’«amore platonico»? Che valore dare allora a questa irreciprocità? E, ancora, posto che di fatto essa viene contraddetta, proprio quando si tratta di Socrate in persona, dell’amore di cui è capace Socrate,44 essa stessa non costituisce una sorta di «finzione erotica» tesa ad isolare un tratto dell’esperienza dell’amore che pur essendo presente in ogni amore di fatto scompare, non essendo visibile né isolabile come tale?
Sospendiamo la risposta per ritrovare la spiegazione fornita da Socrate al legame fra il suo ritorno e le belle speranze di Alcibiade, da cui prende avvio il suo amore. Belle speranze che sono sogni di gloria esprimenti il desiderio che il nome di Alcibiade resti immortale presso i Greci al pari di quello di Ciro o di Serse.45
Te lo dirò, caro figlio di Clinia e di Dinomache. Il fatto è che è impossibile (adynaton) per te realizzare senza di me (aneu emoù) tutti questi progetti: tanto grande è il potere di cui credo di disporre sui tuoi interessi e sulla tua persona (tosauten egò dynamin oimai echein eis tà sa pragmata kaì eis sé); ed è per questo, ritengo, che il dio per tanto tempo mi ha impedito di parlarti, e io, per parte mia, ho atteso che me lo permettesse. Perché se tu (hosper gar sy) riponi le tue speranze (elpìdas) nella città, pensando di mostrare che hai grandissimo valore per essa e dopo averlo dimostrato speri di potere avere subito un grandissimo potere (dynèsesthai), così io spero, dal canto mio (outo kagò elpìzo) di avere moltissimo potere presso di te (meghiston dynèsesthai parà soi), una volta che ti avrò provato quanto io ti sia prezioso (axios), al punto che né il tuo tutore (oute epìtropos) né i tuoi parenti (oute sunghenès) né nessun altro (out’allos oudèis) sarà in grado di farti acquistare la potenza che desideri (ten dynamis hes epithymeis), nessuno eccetto me (plèn emou), naturalmente con l’aiuto di dio. Finché eri troppo giovane e prima che una speranza di tale ampiezza (tosaùtes eplpìdos) ti invadesse, come penso, il dio non mi autorizzava a parlarti, perché non lo facessi senza uno scopo. Adesso invece me ne dà agio, perché ora potresti darmi ascolto.46
Non solo Socrate legge nel cuore di Alcibiade, ma si sente chiamato in causa da ciò che ha luogo in quel cuore, a insaputa di Alcibiade è il caso di dire. Chiamato in causa in prima persona ed insostituibilmente. Questa «unicità» di Socrate risalta sia di contro alla figura di un maestro, un eventuale tutore, che sarebbe autorizzato da un ordine di motivazioni neutro, oggettivo, pedagogico, sia di contro a quella di un parente, uno con lo stesso sangue. Se Socrate decide di farsi avanti, dunque, è perché avverte che il gesto di sostenere le speranze di Alcibiade solo lui può intestarselo. La famiglia e la pedagogia sono estromesse da questo compito. Quale vincolo giustifica il compito di Socrate, allora? A che titolo parla Socrate? Che ruolo ha nei confronti di Alcibiade? Evidentemente egli parla da amante, egli parla in quanto ama Alcibiade, e l’ordine dell’amore sorpassa, rispetto a ciò che deve essere detto — e fatto in quanto detto — , l’ordine del vincolo di sangue e del vincolo pedagogico.
Tutto il discorso che da questo punto in poi si svilupperà, e cioè tutto l’insegnamento concernente l’epimèleia heautoù in cui Socrate esercita la sua parresìa — parla cioè in modo franco e risoluto affinché possa suscitare risolutezza e decisione in Alcibiade — risulta dunque ancorato a questa verità. La stessa parresìa acquista una connotazione strettamente erotica in quanto essa matura nel confronto fra il tipo di amante che è Socrate e gli altri amanti cui Alcibiade non ha ceduto e che sono stati sopraffatti dalla superiorità di Alcibiade, bello e altrettanto superbo.47 La parresìa diventa così uno dei tratti peculiari che distinguono Socrate come il vero amante di contro ai semplici adulatori, amanti da strapazzo.48 Come lo stesso Foucault ammette, la parresìa è il modello opposto all’adulazione, ma l’adulazione cui si riferisce Platone è quella degli amanti indegni. Di contro, Socrate dice la verità ad Alcibiade, pur sapendo che si tratta di una veritas redarguens per lui; se la dice è perché può dirla e può dirla solo in quanto egli ama veramente Alcibiade. Veritas redarguens dentro veritas lucens.
A proposito di questa schiacciante collocazione di Socrate nel ruolo dell’unico degno e del «vero amante» — unico, si badi bene, malgrado i molti — , Proclo fornisce un’interessante spiegazione. Nel suo Commentario scrive infatti:
A dire la piena verità, sin dalle prime sillabe Socrate si rivela come l’unico amante di Alcibiade. Se, infatti, egli ha iniziato prima degli altri, è chiaro che allora era l’unico amante; se, ora che gli altri lo hanno abbandonato, egli ancora venera l’amato, anche in tal caso è l’unico amante; se, infine, quando pure gli altri erano presenti, il modo del suo amore era differente, dato che quelli nocevano al giovane, mentre lui come un guardiano, un dèmone o un dio, lo guidava dall’esterno, anche allora era chiaramente l’unico amante. La ragione di ciò risiede nel fatto che, in ciascuna classe degli esseri, ciò che è trascendente è unico, anche quando a esso segue una moltitudine.49
In poche righe, Proclo riassume la condizione di Socrate rispetto ad Alcibiade che troviamo abbozzata all’inizio del dialogo: il suo essere stato il primo amante, l’essere rimasto l’unico, l’avere espresso, con il suo modo di imporsi, con la sua parresìa, un differente tipo di amore, qualitativamente unico. L’unico resta tale, dunque, malgrado, accanto, in forza dei molti; la moltitudine degli amanti venuti dopo, infatti, non scalfisce quella separazione assoluta imposta dall’inizio con il suo accadere.
Questa struttura della trascendenza che Proclo descrive a proposito della fenomenologia erotica che si dipana fra Socrate e Alcibiade contribuisce a rischiarare il mistero di quell’«amore platonico» sostanzialmente irreciproco da cui sono partita e a cui a breve tornerò alla luce del percorso guadagnato.Cosa si esprime infatti nel gesto dell’erastès nei confronti del pais se non la volontà di isolare un inizio, di separare l’arché, il punto di avvio dell’amore, dall’amarsi effettivo e cioè sempre reciproco, anche per Platone, indubbiamente? È come se Platone volesse rendere visibile e metterci sotto gli occhi, trascinandolo nella theorìa, il «principio» invisibile dell’amore, ciò da cui parte la trasformazione originaria, quasi una nascita (anche per questo vicina all’epoca della prima giovinezza in cui il ragazzo è pais), in base alla quale l’amato diventa a sua volta amante, ma amante in modo assoluto, amante di una trascendenza, amante del principio stesso dell’amore, del principio epekeina tes ousìas, principio oltre ogni ousìa nel senso per cui è da essa separato. In poche parole, è come se Platone volesse isolare e salvare come neutro, come indifferente alla differenza, ciò che nell’esperienza è già da sempre «contaminato», e cioè il momento in cui occorre imparare ad amare l’amare stesso, il fatto stesso di poter amare, riuscendo così a rivolgersi, direi onticamente, verso il principio da cui proviene la possibilità concreta di ogni amore a venire (la «moltitudine», per usare l’espressione di Proclo). Ma questo gesto resta, come tale, un gesto inaudito, cui è possibile dare solo il significato della finzione, perché è impossibile insegnare all’altro a diventare amante (amante in assoluto, dell’assoluto) — e quindi amare veramente l’altro — senza produrre in lui, contemporaneamente, la trasformazione per cui questi, diventando amante del Bene, diviene anche, da amato, amante del suo amante, rendendo così, quest’ultimo, amato.
La teoria dell’«amore platonico», sembra così contenere la pretesa iperbolica di iscrivere e allo stesso tempo cancellare la traccia sempre sensibile dell’amore del primo amante, di affermarla per cancellarla. Il primo amante resta ragguardevole nella vita erotica del futuro amante perché è colui che non vuole restare per sé, ma per testimoniare altro, un bene più altro, totalmente altro e più alto. In breve, al primo amante compete l’iscrizione principiale nell’anima e/o nel corpo del pais (la differenza qui incide poco), dell’«amare l’amare», iscrizione che deve precedere l’arrivo del volto dell’altro da amare. Iscrizione prima dell’iscrizione, archi-scrittura dunque: pur essendo contemporanea al gesto che la produce e da esso inscindibile, questa iscrizione ha infatti la pretesa di staccarsi da sé, di staccarsi dal suo tempo e valere come l’origine separata dalla propria «occasione» concreta.
E tuttavia non possiamo chiudere qui il discorso, perché questa pur necessaria lettura decostruttiva dell’«amore platonico» non può essere la ratifica finale. Il finale dell’Alcibiade I sconvolge, infatti, non tanto l’assetto di questo piano del discorso, ma il suo senso complessivo, mettendoci sotto gli occhi una potente auto-decostruzione.
Ritorniamo al passo precedente (105 d 2 — 106 a 1). È interessante notare il modo in cui si impongono diverse sfumature di potere/possibilità (dynamis) in relazione alla speranza (elpìs). Socrate non solo accede alla speranza che dimora nel cuore di Alcibiade e in nome di questa bella speranza si dichiara suo amante, ma spera a sua volta e mette a confronto le due speranze come se esse fossero destinate a incrociarsi. La sequenza del testo lo rivela:
Come tu (hosper sy), dice ad Alcibiade, riponi le tue speranze (elpìdas) nella città, pensando di mostrare che hai grandissimo valore per essa e dopo averlo dimostrato speri di potere avere subito un grandissimo potere (dynesesthai), così io spero (elpìzo), dal canto mio, di avere moltissimo potere (meghiston dynesesthai) presso di te (parà soi) una volta che ti avrò mostrato quanto io ti sia prezioso.50
Le due speranze sono entrambe in vista dell’acquisizione di un potere, una potenza, una dynamis. Alcibiade spera di ottenere una potenza che somiglia alla gloria, Socrate spera di avere moltissimo potere presso Alcibiade. Mentre precedentemente era stato possibile guadagnare la comune condizione di Socrate e Alcibiade, il loro essere egualmente (anche se non ancora reciprocamente) erastai mettendo in relazione l’Alcibiade I con il Simposio, qui non compare ancora la reciprocità, ma compare, nell’incrocio delle speranze descritto da Socrate, il loro comune statuto di amanti. Amanti, insieme, nell’Alcibiade I.
È importante soffermarsi sulla speranza di Socrate e sul tipo di potere cui essa aspira: il potere su un cuore. Mi è impossibile non pensare alla «tacita forza del potere amante»51 che per Heidegger descrive la possibilità autentica e che sembra provenire direttamente da questo preciso punto dell’Alcibiade I. Nel particolare potere ricercato da Socrate viene chiamato in causa un potere sull’essere dell’altro che non tocca, non depreda, non accumula e non si impossessa di niente, ma lasciando essere l’altro favorisce quell’essere l’uno per l’altro, nel cui spazio può darsi ogni altra possibilità e ogni altra potenza.
È in nome di questa particolare «potenza» senza esercizio possibile che Socrate potrà ambire ad insegnare ad Alcibiade l’epimèleia heautou. Come se il potere su se stessi dato dalla conoscenza di sé fosse un dono fatto, dono dato, dal cuore dell’altro. Questo rivela infatti l’ultima parte del testo su cui mi concentrerò in vista della conclusione.Nelle pagine, per così dire, «didascaliche», emergono l’ignoranza e l’inadeguatezza di Alcibiade rispetto alle sue belle speranze che paiono, così, folli, e il timore di Socrate che si dice turbato per lui e per il proprio amore (Aganaktò hyper te sou kaì tou emautoù eròtos).52 Questa parte, che ha lo scopo di condurre al messaggio di Socrate: «conosci te stesso»,53 concerne, come è noto, la necessità di identificare l’utile con il giusto, e la necessità di una «competenza» specifica per affrontare l’agone politico. Questa competenza ricercata coincide con un particolare «impegno» (epimèleia) ed una particolare «abilità (techne)».54
«Qual è questo impegno da mettere in atto (tina oun chre ten epimèleian, ho Socrates, poieisthai? )?», chiede Alcibiade.55 Nella lunga risposta di Socrate emerge che questa particolare epimèleia è la cura di sé, al fine di diventare migliori,56 cura che è inevitabilmente connessa alla conoscenza di sé («Conosci te stesso»). Ma insieme a questo emerge anche altro, e cioè viene fuori la «condizione di possibilità» di questo «diventare migliori». Questa condizione di possibilità è la koinè boulè, la decisione comune per diventare migliori. Questa esigenza di «comunità» non solo interrompe il piano «pedagogico» per rilanciare quello propriamente erotico, ma iscrive in questo piano una reciprocità che comincia a preparare quella condizione dell’essere «amanti», al cui interno avviene la trasformazione dell’amato in amante e dell’amante in amato e che rinvia all’apparizione improvvisa delle mani dal ramo fiorito, stando a Lacan.
3. La reciprocità come modello educativo
Sono consapevole, tuttavia, che si potrebbe ancora obiettare che non esiste modello educativo che non implichi una «crescita» reciproca, una modificazione, tanto nel maestro quanto nell’allievo. A questa obiezione tenterò di rispondere esibendo la metabolè tou schematos citata da Socrate alla fine del dialogo, che presenta un’iperbole di reciprocità, una sorta di deriva mimetica che va verso la sostituzione dell’uno rispetto all’altro: elemento che incrinerebbe qualunque sistema pedagogico.
Il dialogo fra Socrate e Alcibiade conosce uno snodo e un rilancio significativo nel momento in cui viene accolto che il luogo di sé, e cioè il luogo in cui si è se stessi è l’anima («non potremmo dire che alcun’altra cosa è padrona assoluta di noi stessi più dell’anima»).57 Ma la centralità dell’anima, cuore dell’insegnamento platonico, è qui interamente funzionale al discrimine fra il vero amante e il cattivo amante. Fra Socrate e la moltitudine. È il caso di seguire il testo in quest’ultima sua parte decisiva.
— Dunque, colui che ci ordina di conoscere se stesso ci ordina di conoscere l’anima.
— Così pare.
— E colui che conosce qualcuna delle parti del suo corpo conosce le cose che sono sue (ta autou), ma non conosce se stesso (all’ouch hautòn).58
Il discrimine fra le «cose proprie» e il «se stesso» viene spiegato tramite un esempio non neutro rispetto alla condizione dei dialoganti:
— Se qualcuno è stato amante del corpo di Alcibiade, non amò Alcibiade, ma qualcosa di ciò che appartiene ad Alcibiade.
— Dici il vero
— E invece, ti ama colui che ama la tua anima?
— Sembra inevitabile in base al tuo discorso.
— E non è forse vero che colui che ama il tuo corpo, quando cessa il suo fiorire, se ne va?
— Non è vero che colui che ama l’anima non la lascia finché prosegue per la via del miglioramento?
— Dunque io sono colui che non se ne va (egò eimi ho apiòn), ma resta (allà paramènon) quando il corpo cessa il suo vigore, e tutti gli altri se ne sono andati.
— E fai bene, o Socrate; e non andartene (medè apèlthois).
— Allora cerca di essere il più bello possibile.
— Certo, mi impegnerò.59
La ragione del non allontanamento di Socrate, con cui si apre il testo, ritorna alla fine e si approfondisce con la scoperta della cura dell’anima, che è un impegno che richiede l’intera vita e richiede, soprattutto, un amore a lungo termine; non il fuoco di un giorno di primavera, ma un tempo lungo in cui l’amore si mantiene nella fiamma spenta divenuta cenere. Misurato rispetto a questa capacità, al cospetto di questa tenuta, Socrate risulta, così, il vero ed unico amante di Alcibiade:
— Le cose dunque stanno così per te: non ci fu, a quel che sembra, innamorato (erastès) di Alcibiade figlio di Clinia, e non ce n’è se non uno solo, ed è uno desiderabile (agapetòs), Socrate figlio di Sofronisco e Fenarete.
— Vero.
— Non dicesti che ti avevo prevenuto di poco venendo da te, perché volevi venire tu da me per primo per sapere per quale ragione io solo non me ne andavo?
— Era così.
— Questa sola era la ragione, perché io ero innamorato di te (monos erastès en sos), mentre gli altri lo erano delle tue cose (oi d’alloi ton son): e mentre le tue cose smettono il loro momento felice, tu invece cominci a fiorire. E d’ora in poi se non ti lasci guastare dal popolo ateniese e non diventi meno bello, non intendo abbandonarti: infatti questo io temo più di tutto: che tu diventato l’amante del popolo vada in rovina.60
La costruzione della sequenza argomentativa dell’ultimo passo («io ero innamorato di te, mentre gli altri delle tue cose») si rivela identica a quella della scena del Simposio in cui Alcibiade si contrappone ai molti che vedono solo l’aspetto esteriore di Socrate, maieutica compresa; lui, di contro, vede gli agàlmata nascosti nella sua anima. C’è la soggettività dei molti e, di contro, la sintassi marca la soggettività dell’amante. La differenza fra l’uno e i molti è qui trasfigurata nella differenza fra il vero amante e i tanti amanti facenti parte della serie. Il vero amante impone in entrambi i casi la differenza.
Rivelatosi ad Alcibiade come vero amante e incalzato da quest’ultimo che chiede come, praticamente, ci si prende cura dell’anima, Socrate tira fuori la metafora dell’occhio: se il monito «conosci te stesso» fosse stato rivolto al nostro occhio, a quella parte dell’uomo che è la vista, dunque, come se questa potesse esprimere il tutto dell’uomo, che senso avrebbe avuto l’esortazione? Non avrebbe forse spinto, dice Socrate, «a guardare quella cosa guardando alla quale l’occhio avrebbe visto se stesso?».61 Ora, l’oggetto guardando il quale guardiamo anche noi stessi, questo oggetto fatto come uno specchio, è proprio l’occhio, perché «quando guarda nell’occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio». Questa funzione di specchio, dice Socrate la «chiamiamo anche pupilla (kore), dato che è come un’immagine di chi guarda (eidolon on ti toù emblèpontos)».62
Utilizzando una definizione di Jean-Luc Marion concernente lo statuto dell’icona, potremmo dire che la pupilla è lo «specchio visibile dell’invisibile (miroir visible de l’invisible)»,63 è cioè il luogo in cui si raccoglie, diventa visibile, ciò che, senza questa esposizione in altro, resterebbe all’oscuro, senza visibilità per sé.
Come l’occhio, «se ha intenzione di guardare se stesso (ei mellei idèin), deve guardare in un occhio (eis ophthalmòn autò bleptèon) e in quel punto dell’occhio nel quale si trova a risiedere la virtù propria dell’occhio»,64 e cioè nella pupilla in cui si raccoglie la vista, allo stesso modo, l’anima, se vuole conoscere se stessa per poter prendersi cura di sé, deve guardare a un’altra anima. E precisamente a quella parte dell’altra anima in cui si raccoglie la saggezza.65
L’anima esprime la vita del vivente, e una volta raggiuntala si apre l’accesso all’intero del vivente, ma questo cuore del vivente è un luogo non solo cavo ma anche inaccessibile; esso si riempie di forme e diventa così visibile solo quando l’anima si rispecchia in un’altra anima. Questo vuol dire che Platone decostruisce il platonismo, perché l’anima non è il luogo di sé se non nel rispecchiamento cui essa può dar luogo, cogliendosi in un’altra anima. Quel vedere solitario, a parte, nell’invisibile del cuore, che caratterizzava tanto l’amore di Socrate quanto quello di Alcibiade (fra Alcibiade I e Simposio), presi separatamente come amanti l’uno dell’altro ma non ancora uno per l’altro, conosce così un crescendo di intensità, fino a diventare la condizione dell’intellegibilità del sé di chi guarda. Come dire che vedendo gli agàlmata di Socrate, Alcibiade vede e conosce Alcibiade.66 Una traccia di questo era già percepibile nel fatto che vedere le immagini meravigliose dentro Socrate costituiva per Alcibiade un modo per cogliersi nella differenza rispetto agli altri (oi men, ego de). Ma ora è al sé in persona, all«in quanto tale», al «come tale» del sé che mira il discorso, ed esso rivela che l’accesso al sé, alla propria anima, dunque, è un dono ricevuto di riflesso, dal rispecchiarsi di quest’anima nel luogo di sé di un altro, ovvero, nell’altrui anima.
Se il sé disponesse già di sé, se l’anima dell’altro intervenisse solo per confermare, per notificare, a questo sé ciò che esso sa già di essere, e viceversa, potremmo tranquillamente parlare, a proposito di questa relazione, di intersoggettività. Ma posto che in questo rispecchiamento si tratta di «dare ciò che non si ha a qualcuno che non sa di chiederlo», parafrasando Lacan, la nozione di «intersoggettività» si rivela angusta e poco perspicua. Credo che più pertinente si riveli l’impiego di quella di «interdonazione», proposta da Jean-luc Marion alla fine di Étant donné.67Interdonazione vuol dire che ciascuno consente all’altro di accedere a se stesso nel senso che ciascuno dona all’altro l’accesso a quel se stesso che l’altro non possiede perché non può essere «avuto» come una cosa fra le cose, come precisa la distinzione fatta da Socrate fra il «tu» di Alcibiade e le «sue cose».
L’impiego di questa nozione si rivela utile anche guardando al fatto che il rispecchiamento ammette dei gradi: se infatti la parte migliore dell’anima è uno specchio buono in quanto essa somiglia al dio, che sarà mai rispecchiarsi in quello specchio costituito dal dio stesso, che è «più puro (katharòtera) e più luminoso (lampròtera) della parte migliore che si trova nella nostra anima?». Che l’uomo possa ricevere la propria immagine dal dio, non può essere spiegato ricorrendo alla nozione di «intersoggettività», in quanto per il greco non c’è principio comune tra l’uomo e il dio, talmente abissale è la separazione. Ma la separazione può, tuttavia, essere intesa come rapporto. Ora, rispetto alla nozione di «intersoggettività» che suppone un piano di immanenza orizzontale in cui l’uomo e il dio non potrebbero platonicamente venire a trovarsi, la nozione di «interdonazione» consente di salvare tanto la separazione ontica quanto il rapporto con l’incommensurabile.68 Che l’uomo possa ricevere il suo sé guardando al dio, dal dio, infatti, non implica che fra l’uomo e il dio venga abolita la differenza, questo radicalizza, semmai, il dato centrale dell’epimèleia heautoù per cui è solo aprendosi alla differenza che l’identità può pervenire a sé.
Utilizzare il concetto di «interdonazione» per leggere l’epimèleia heautou vuol dire anche, infine, liberare definitivamente l’eros dell’Alcibiade I dalle due ipoteche: la pedagogia e la politica, alle quali è stato lungamente sottoposto e restituirlo a quello che sin dall’inizio appare essere: un frammento della storia d’amore fra Socrate e Alcibiade, e che alla fine si rivela essere: l’elaborazione di una precisa, radicale, teoria dell’amore.
Ora, l’attribuzione al dio della funzione di specchio ha in relazione a questa teoria delle conseguenze rilevanti: la migliore qualità del rispecchiamento consentito dal dio corrisponde infatti a una più produttiva ricettività donatrice della forma del sé altrui. Se leggiamo, come propongo, a partire dall’eros la dinamica interna dell’epimèleia heautoù, tale per cui l’anima che fa da specchio è quella del vero amante, non possiamo escludere il dio, lo specchio più puro e nitido, dall’eros. Risulta inevitabile allora ammettere che il dio risulta anche il migliore amante e questa conseguenza logica produce una scheggia che non può non muovere, non innescare una tensione nelle presunte «braccia avare» del motore immobile, rimesse in gioco dalla configurazione dell’eròmenos.69 La struttura della passività amante di Socrate che diventa lo specchio di Alcibiade chiede infatti di essere riconnessa al dio che realizza al meglio la stessa azione di Socrate. Il fatto che questa azione sia in realtà l’esercizio di una passività, attenua forse il «paradosso» di un «dio amante» per un Greco, ma contribuisce a svelare una dinamica erotica in cui la fissità dei ruoli erastès/eròmenos subisce una scossa che arriva all’hos eròmenon. Accade infatti che l’eròmenon risulti essere il miglior amante.70
Quella reciprocità che cominciava a profilarsi nella koinè boulè invocata da Socrate, che disancorava Alcibiade dai panni dell’eterno allievo, apprendista, sottomesso, si afferma e si lega alla fine a un’iperbole mimetica, con il metabalèin to schema. Ripropongo i due passaggi insieme per mostrare l’accentuazione del secondo rispetto al primo:
- Socrate
- Sì, ma la decisione sul modo in cui potremmo diventare migliori deve essere comune (koinè boulè). Io infatti non sto parlando del fatto che bisogna ricevere un’educazione, riferendomi a te (perì men sou), e a me invece no (perì emoù de ou); non c’è nulla infatti in cui io differisca da te (ou gar esth’hoto sou diaphero), se non in una cosa.
- Alcibiade
- In cosa?
- Socrate
- Il mio tutore è migliore e più saggio di Pericle, il tuo [124 b 8-14].
- Alcibiade
- Io dico questo, che rischieremo di scambiarci il ruolo (metabalèin tò schema), o Socrate, io il tuo e tu il mio (to men son egò, sy dè toumòn); infatti a partire da questo giorno non è possibile che io non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro (ou gar estin hopos ou paidagoghèso se apò tesde tès hemèras, sy d’hyp’emoù paidagoghèse).
- Socrate
- Nobile Alcibiade,71 il mio amore non differirà allora in nulla da quello della cicogna, se dopo aver allevato nel tuo animo un amore alato, sarà a sua volta (palin) oggetto delle cure di quest’ultimo [135 d 7 — 135 e 3].
Alla fine del dialogo, è Alcibiade a trarre la conclusione radicale che come una calamita attirava già a sé l’intero. Socrate accetta questa conclusione ritrovandovisi e tirando fuori la storia della cicogna che rincara il senso di una reciprocità finalmente piena, riconosciuta.72 La conclusione è che a partire da un giorno decisivo (tès hemèras), da un adesso che ricapitola il senso del loro amore, Alcibiade è come Socrate e Socrate è come Alcibiade.73 Questa identica condizione, raggiunta parità, fa sì che essi possano «scambiarsi il ruolo», invertire ciò lo «schema» maestro/allievo che ha — come sappiamo — una precisa connotazione erotica nell’idea comunemente accettata di «amore platonico». Ma invertire questo «schema» non vuol dire appiattire la differenza, vuol dire riconoscere di essere entrambi amanti, là dove «amanti» questa volta significa entrambi amati ed entrambi amanti allo stesso tempo, erastài ed eròmenoi, attivi e passivi allo stesso tempo, maestri e allievi allo stesso tempo.74
Oltre a disambiguare il mito dell’«amore platonico», l’inversione dello schema induce a riflettere sull’esser-come-l’altro dell’amore e sulle sfide che esso pone a un pensiero della «differenza di genere» e della «differenza sessuale».
L’esperienza di Alcibiade e Socrate mostra che l’amore è sempre amore dell’altro, e poco importa che in questo caso specifico si tratti di una coppia omosessuale — la differenza, con tutte le sue asperità e i suoi passaggi, è salva in questa storia che in ragione di questo si mantiene a pieno titolo nell’eterosessualità. Eterosessualità nell’omosessualità. Ma l’amore può fermarsi all’affermazione della differenza? Il «cambio dello schema» di cui parla Alcibiade include nella differenza la sostituzione dei ruoli, ma la sostituzione indebolisce la differenza facendo in modo che essa non valga più come un «assoluto» indecostruibile — è nell’eros, infatti, che la differenza si costruisce e si decostruisce. L’eros decostruisce la differenza sessuale perché la istituisce sempre da capo; ciò vuol dire che l’amore assegna a posteriori i sessi a se stessi, e che quindi la differenza sessuale non gli è preliminare ma successiva.75 Questo spiega forse la particolare ammirazione degli dèi nei confronti di Achille.
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Nell’antichità l’autenticità del dialogo era indubbia. A lungo la critica si è poi attenuta all’indicazione di Schleiermacher che lo ha ritenuto non platonico. Fra i sostenitori della non autenticità spicca A. E. Taylor, che considera l’Alcibiade I un «manuale di etica non degno di Platone» e che fra le motivazioni addotte per giustificare l’inautenticità inserisce anche questa: «Appare incredibile che Platone, che ci ha dato nel Simposio e nel Protagora un così vivido ritratto di Alcibiade possa aver trattato il medesimo personaggio in questo dialogo in modo così incolore». Cfr. Platone. L’uomo e l’opera, trad. it. di M. Corsi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 801. La mia lettura si pone all’esatto opposto rispetto a questa tesi. Tenderò infatti a mostrare proprio il rapporto essenziale e la complementarietà fra l’Alcibiade del Simposio e quello dell’Alcibiade I. L’autenticità del dialogo è stata riconosciuta invece da L. Robin, V. Goldschmidt, R. Weil, che costituisce una fonte per l’analisi dell’Alcibiade I fatta da M. Foucault ne L’ermeneutica del soggetto. Corso al Collège de France (1981-1982), trad. it. di M. Bertani, Feltrinelli, Milano 2011, e di recente da J.-F. Pradeau nella sua edizione del dialogo (Garnier-Flammarion, Paris 1999). ↩︎
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Cfr. M. Erler, Platone. Un’introduzione, trad. it. di G. Ranocchia, Einaudi, Torino 2008, p. 116. ↩︎
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Cfr. E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 42-47; K. J. Dover, L’omosessualità nella Grecia antica, trad. it. di M. Menghi, Einaudi, Torino 1978, pp. 160-178; H. Kelsen, L’amor platonico, trad. it. di C. Tommasi, Il Mulino, Bologna 1985, p. 81. ↩︎
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Cfr. K. J. Dover, cit., p. 55-56. A proposito dell’irreciprocità nella relazione fra amante e amato rinvio ad Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 5, 1157 a 6-8. ↩︎
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Cfr. Platone, Fedro, trad. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1994, p. 111 (255 D 3). ↩︎
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Per questo, a proposito della pederastia, H. Kelsen parla non tanto di «un’inversione» quanto di un «raddoppiamento e una manifestazione più ricca della sessualità individuale». Cfr. L’amor platonico, cit., p. 81. ↩︎
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Cfr. K. J. Dover, cit., p. 82 e E. Cantarella, cit., pp. 58-62. ↩︎
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Cfr. E. Cantarella, cit., p. 67. ↩︎
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Cfr. Platone, Fedro, 255 D. ↩︎
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Commentario di Proclo all’Alcibiade Primo di Platone, in Francesca Filippi, L’immaginario e il simbolico nell’uomo, Vita e Pensiero, Milano 2012, p. 301 (133 6-10). ↩︎
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J. Lacan, Il Seminario libro VIII, trad. it. di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2008, p. 59. ↩︎
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Ivi, p. 54. ↩︎
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Ivi, p. 55, p. 60. ↩︎
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Platone, Simposio, trad. it. di F. Zanatta, Feltrinelli, Milano 1995, p. 49 (180 b 1-5). ↩︎
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Chiedo al lettore la pazienza di tenere in sospeso questo dubbio cui darò spazio alla fine. ↩︎
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J. Lacan, cit., p. 174. Su questa motivazione offerta da Lacan concorda anche B. Moroncini nel suo bel libro Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone, Cronopio, Napoli 2005, p. 167. ↩︎
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L’irreciprocità fra erastès ed eròmenos viene considerata da B. Moroncini, sulla scorta di Lacan, indicativa del fatto che «Non si è amanti insieme, ma l’uno è amante, l’altro amato: uno è parte attiva, l’altro passiva. [[…];] La relazione erotica non è una relazione fra uguali in potenza. Insomma, il rapporto d’amore non è, checché ne pensi un certo umanesimo moderno, un rapporto da soggetto a soggetto, bensì da soggetto a oggetto, è, infine, una relazione impari» (op. cit., p. 27). Questa valorizzazione dell’«asimmetria» e della «disparità» (cfr. p. 26), che Moroncini ricava dal Simposio - ed estende all’amore tout court - e che gli fa sostenere che «Socrate e Alcibiade non si incontrano mai» (p. 27), non è tuttavia la verità ultima dell’Alcibiade I e quindi non possiamo considerarla la verità di Platone sull’amore. Questo non vuol dire né che per rintracciare la verità di Platone sull’amore occorre guardare necessariamente al discorso di Diotima e all’eros immortale, e cioè «all’individuazione di un oggetto che colmi la mancanza, che si presenti subito come l’unico non colpito dalla contingenza e dal divenire» (p. 141); né che l’asimmetria importata dal terzo nell’amore scompare per cui tutto si risolve, si aggiusta e si acquieta. In questi due casi, infatti, lo sfondo concettuale dell’eros resterebbe il discorso di Aristofane che punta sul recupero della pienezza originaria. Come tenterò di mostrare, il finale dell’Alcibiade I contiene un’inedita teoria dell’amore che pur restando legata alla «finitezza» mortale dell’eros approda a una reciprocità e ad una simmetria che portano alla trasformazione dell’amante in amato e dell’amato in amante. È dentro questa simmetria (ciò che Platone, per bocca di Alcibiade, chiama metabalèin to schema (135 d 8)) che si mantiene l’asimmetria strutturale dell’eros, ovvero il suo essere costitutivamente aperto al divino che funge da specchio, da terzo. ↩︎
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M. Foucault, L’ermeneutica del soggetto, op. cit. ↩︎
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Ivi, pp. 53-55. ↩︎
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Cfr. Alcibiade I, 135 d 8. ↩︎
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Platone, Alcibiade I, trad. it. di U. Bultrighini, Newton § Compton, Roma 1997, p. 523 (103 a 1-4). ↩︎
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Ivi, 104 e 4-5 (trad. it. p. 525). ↩︎
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Cfr. ivi, 104 c 5. ↩︎
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Cfr. ivi,104 e 4. ↩︎
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Cfr. ivi, 103 a 5. ↩︎
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Ivi, 104 d 1- 4 (trad. it. p. 525). ↩︎
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Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, 1171 a 11-12; 1158 a 12. ↩︎
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Platone, Alcibiade I, cit., 105 a 3. ↩︎
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L’intero dialogo attesta la provenienza dell’epimeleia eautoù dall’epimelestaton. Questa la sequenza che si produce nel testo, anche alla luce di passaggi su cui mi soffermerò a breve: io sono il solo, dice Socrate, che può aiutarti a realizzare i tuoi progetti/ sono il solo perché sono altro e rispetto ai tuoi amanti e rispetto ai tuoi consanguinei/ sono il solo perché leggo dentro di te una cura invisibile / in forza del mio amarti - condizione della visibilità della cura - ti dico ciò che devi fare/ Ma potrei dirtelo se non ti amassi?/ E cioè se la cura di te che invoco per te e che ti raccomando non fosse dentro la mia cura nei tuoi confronti e, ancora, dentro la mia nei miei confronti?/ La mia lettura tende quindi a mostrare la dipendenza strutturale dall’eros della cura di sé. L’eros non è dunque a mio avviso semplicemente funzionale alla cura di sé, una fra le tante vie intersoggettive possibili, ma fenomenologicamente indispensabile in primo luogo per la «visibilità» della cura e secondariamente per l’accesso ad essa. Mi ritrovo dunque, grosso modo, più vicina all’interpretazione di Proclo (cfr. op. cit.) che a quella di Olimpiodoro (Olympiodorus, Commentary on the First Alcibiades of Plato, Ed. di L. G. Westernink, North-Holland Publishing Company, Amsterdam 1956). Per questa accentuazione del ruolo dell’eros che mi condurrà alla fine del testo a sostituire la chiave di lettura dell’«intersoggettività» con quella dell’«interdonazione», la mia lettura si distacca dalla linea di Foucault recentemente ripresa da C. Agnello in Cura di sé e filosofia. Interpretazioni fenomenologiche di Platone, Mimesis, Milano 2010. ↩︎
-
Platone, Alcibiade I, 104 e 4- 105 b (trad. it. p. 525). ↩︎
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Cfr. M. Foucault, cit., p. 54. ↩︎
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Cfr. Platone, Alcibiade I, 106 b 11- 106 c 1. ↩︎
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Ivi, 105 d 1-3 (trad. it. p. 525) ↩︎
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Platone, Simposio, cit., 216 e 7-8 (trad. it. p. 129). ↩︎
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Ivi, 216 d 2 (trad. it. p. 129). ↩︎
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Ivi, 216 d 5 — 216 e 6 (trad. it. p. 129). ↩︎
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J. Lacan, cit., pp. 150-164. All’inverso, Proclo lega l’agalma all’essenza dell’amore provato da Socrate verso Alcibiade nell’Alcibiade I. Questo il senso dell’utilizzo della nozione: se un «essere superiore» come Socrate può amare un «essere inferiore» come Alcibiade è perché egli scorge persino in quest’ultimo le immagini della bellezza. Si tratta della «vera bellezza», quella interiore, che non coincide con la bellezza sensibile di Alcibiade. Cfr. Proclo, cit., 92, 10 (p. 257) e 190, 10 (p. 362). ↩︎
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Socrate è «in eccesso» su Socrate, agli occhi di Alcibiade, e questo eccesso di visibilità non può essere assorbito in alcun modo. Questo eccesso da sostenere come tale rivela l’amore di Alcibiade nel senso che è rivelato dall’amore di Alcibiade. Nel sostenere questa tesi mi avvalgo della nozione di «fenomeno saturo» di Jean-Luc Marion (Cfr. De surcroît, Puf, Paris 2001). ↩︎
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Platone, Simposio, cit., 216 d 1. ↩︎
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Ivi, 216 c 1- 3 (trad. it. p. 129). ↩︎
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Cfr. ibid. ↩︎
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Proclo, cit., 49, 14 (p. 217). ↩︎
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A proposito della datazione dell’Alcibiade I rinvio alla ricostruzione fatta da M. Foucault, cit., pp. 64-66. ↩︎
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La contraddizione concerne anche il fatto che Alcibiade viene amato da Socrate in un tempo lungo anche quando anagraficamente non è più un pais. Cfr. Protagora, 309 a 1- 309 b 2. ↩︎
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Cfr. Platone, Alcibiade I, 105 a -105d. ↩︎
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Ivi, 105 d 2-106 a 1-2 (trad. it. p. 527). ↩︎
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Cfr. ivi, 103 b 3- 104 c 4. ↩︎
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Cfr. Proclo, cit, 98-99 (pp. 264-266). ↩︎
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Ivi, 50, 1-10 (trad. it. p. 220). ↩︎
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Platone, Alcibiade I, cit., 105 e 1- 6 (trad. it. p. 527). Questo passaggio del dialogo mostra in modo netto il mantenersi della reciprocità all’interno dell’asimmetria. ↩︎
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Vale la pena di ricordare il celebre passaggio della Lettera sull’umanisimo. Heidegger scrive: «Prendersi a cuore una «cosa» o una «persona» nella sua essenza vuol dire amarla, volerle bene (Sich einer »Sache «oder einer Person «in ihrem Wesen annehmen, das heisst: sie lieben: sie mögen). Pensato in modo più originario, questo bene significa donare l’essenza (das Wesen schenken). Questo voler bene (Mögen) è l’essenza autentica del potere (Vermögen) che può non solo fare questa o quella cosa, ma anche lasciar «essere presente» (wesen) qualcosa nella sua provenienza (Her-kunft), cioè far essere. È il potere del voler bene ciò «in forza di cui» qualcosa può essere. Questo potere è il «possibile» autentico (das eigentlich «Mögliche»), quello la cui essenza sta nel voler bene. A partire da questo voler bene l’esssere può (vermag) il pensiero. Quello rende possibile questo. L’essere come ciò che vuole bene e che può (das Vermögend-Mögend), è il «possibile» (das Mög-liche). L’essere in quanto elemento è la «tacita forza» del potere che vuole bene, cioè del possibile. Lettera sull’«umanismo», a.c. di F. Volpi, Milano, Adelphi 1976, pp. 35-36. ↩︎
-
Platone, Alcibiade I, 119 c 6. ↩︎
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Ivi,124 b. ↩︎
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Ivi, 124 b 2-3. ↩︎
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Ivi,124 b 6 (trad. it. p. 567). ↩︎
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Cfr. ivi, 124 b 6-11. Essa è detta anche «riflessione comune (skeptèon koinè)» al 124 d 9. ↩︎
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Ivi, 130 d 3-6 (trad. it. p. 583). ↩︎
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Ivi, 130 e 6-10. ↩︎
-
Ivi, 131 c 5- 131 d 8 (trad. it. p. 585). ↩︎
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Ivi, 131 e - 132 a 1-4 (trad. it. pp. 585-587). ↩︎
-
Ivi, 132 d 1-9 (trad. it. p. 587). ↩︎
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Ivi, 132 e 7- 133 a 3. ↩︎
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Cfr. J.-L. Marion, Dieu sans l’être, Puf, Paris 1982, p. 32. ↩︎
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Platone, Alcibiade I, 133 b 1-3 (trad. it. p. 589). ↩︎
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Cfr. ivi, 133 b 6-9. ↩︎
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Amare, quindi, per Platone non è solo «uscire da se stessi», come scrive L. Robin ne La teoria platonica dell’amore (trad. it. di D. G. Porta, Celuc, Padova 1973, p. 254), ma anche rientrarvi. ↩︎
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Scrive Jean-Luc Marion: «Questa situazione, ancora inesplorata [l’interdonazione] non permette e non esige soltanto di riprendere la tematica dell’etica — del rispetto e del volto, dell’obbligazione e della sostituzione —, e di confermarne la piena legittimità fenomenologica. Forse essa autorizza anche ad abbordare ciò cui l’etica non può pervenire: l’individuazione d’altri. Perché io non voglio né devo soltanto considerarlo come il polo universale e astratto della contro-intenzionalità, in cui ciascuno può prendere il volto del volto, ma raggiungerlo nella sua insostituibile particolarità, in cui si mostra come nessun altro altri potrebbe fare. Questa individuazione ha un nome: l’amore. Étant donné. Essai d’une phénoménologie de la donation, Puf, Paris 1997, p. 443. ↩︎
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Platone, Alcibiade I, 133 c 9-11 (trad. it. p. 589). ↩︎
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Cfr. p. 3. ↩︎
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Il coinvolgimento del divino nella visibilità del sé rende molto riduttivo parlare di «retorica della seduzione» a proposito della metafora dello specchio. Per questo non concordo con la tesi di F. Renaud. Cfr. La conoscenza di sé nell’Alcibiade I e nel commento di Olimpiodoro, in Interiorità e anima. La psyché in Platone, Vita e Pensiero, Milano 2007, p. 238. ↩︎
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Èinteressante notare che alla fine del dialogo Socrate riconosce ad Alcibiade quella nobiltà inizialmente ritenuta un pretesto che non favorisce la sua crescita interiore (cfr. 104 a 6-8). Alcibiade ritorna, dunque, ciò che veramente è, dopo la koinè boulè. ↩︎
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Secondo un’antica credenza le giovani cicogne prestavano assistenza alle vecchie da cui erano state allevate in precedenza. ↩︎
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È interessante notare che la teoria del «cambio dello schema» è affidata alle battute di Alcibiade. Ora, di Alcibiade Plutarco dice che per quanto egli fosse straordinariamente bello, forte, intelligente, ricco, altero, nobile, la sua dote veramente incomparabile consisteva nel fatto che «egli sapeva imitare tutto ugualmente bene». Vite parallele, Vol. I, trad. it. di C. Carena, p. 535. ↩︎
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L’«homme du désir» e il «Maître perfetto» destinati a non incontrarsi mai, per dirla con J. Lacan e B. Moroncini (Cfr. B. Moroncini, op. cit., p. 169), nell’Alcibiade I si incontrano realmente, godono, dunque, di un’altra chance, come accade realisticamente agli amanti. ↩︎
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Questa tesi non somiglia affatto a quella prospettata in precedenza (cfr. p. 2), secondo cui il pais, l’eròmenos dell’«amore platonico» inizialmente configurato, entra nel rapporto con il suo erastès a partire da una sessualità ancora indecisa e neutra anteriore alla costituzione della «differenza sessuale». A partire dalla reciprocità piena suggerita dal «cambio dello schema», cambia radicalmente anche il modo di intendere la differenza fra i sessi ed il rapporto fra quest’ultima e la relazione erotica. Mi vengono incontro, più adeguate che mai, queste parole di Jean-Luc Nancy cui il mio pensiero si avvicina: «La differenza dei sessi non è la differenza tra due o più cose, di cui ciascuna sussisterebbe di per sé in quanto «una» (un sesso): non è né come una differenza di specie, né come una differenza di individui, né come una differenza di natura, né come una differenza di grado. È la differenza del sesso, in quanto questo differisce da sé. Il sesso è, per ogni vivente sessuato e sotto ogni aspetto, l’ente che differisce da sé [différent de soi]: differisce in quanto si differenzia secondo i gradienti molteplici e le fasi intricate denotate con «maschile/femminile, omo/etero, attivo/passivo ecc.», e differisce in quanto la specie vi demoltiplica indefinitamente le singolarità dei suoi «rappresentanti». Bisogna dire, dunque, che non c’è una differenza dei sessi, ma c’è innanzitutto e sempre il sesso che si differisce. E il sesso che si differisce deve essere pensato come rapporto, non perché consista in un rapporto con questo o quello (per esempio, un altro sesso), ma in quanto esso stesso è il rapporto, cioè il «rapportarsi», o ancora il socchiudersi [l’entr’ouvrir] del tra, del «tra-noi» o dell’intimità: il sesso che si differisce è la spaziatura dell’intimità». Il «c’è» del rapporto sessuale, trad. it. di G. Berto, SE, Milano 2002, pp. 31-32. A partire dalla parità e dalla reciprocità instaurata dal «cambio dello schema», ed utilizzando la riflessione di Nancy, si potrebbe forse dire che erastès/eròmemos entrano nel rapporto (che è differenza ma anche indifferenza) e al suo interno ri-sessuano le loro identità. ↩︎