1. Fenomenologia e fotologia
Quando nel 1964 viene pubblicato lo scritto di Jacques Derrida Violenza e metafisica, Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas1 sulla «Revue de Métaphysique et de Morale», l’attenzione del mondo accademico filosofico si impone sull’opera di Emmanuel Levinas che fino a quel momento era un pensatore poco noto. Infatti, nel trentennio che precede la pubblicazione di quella che viene considerata la prima espressione organica e teoricamente decisiva delle sue tesi, ossia Totalité et infini2 nel 1961, Levinas aveva posto le fondamenta per il suo itinerario filosofico, alla cui base vi è una serie di influssi disparati: dal fattore ebraico agli scrittori russi, senza poter dimenticare i molteplici filosofi avuti come compagni e maestri, primo fra tutti proprio Husserl. Fin da subito, infatti, il pensiero husserliano diviene oggetto di studio, come testimonia la tesi di laurea alla Sorbona di Parigi, pubblicata nel 1930, con il titolo La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl, la quale rappresenta uno delle prime opere che abbiano contribuito alla diffusione del pensiero di Husserl in Francia.3 L’influenza di Husserl e l’approdo alla fenomenologia sono dunque precoci e profondi ma saranno gradualmente oltrepassati da Levinas con una variazione originale che lo porterà ad allontanarsene in modo progressivo, conservando però il solco metodico tracciato dalla fenomenologia.
In molti passi dei suoi scritti principali, Levinas riconosce un debito nei confronti della fenomenologia husserliana. Infatti, ciò che il filosofo lituano dichiara di aver preferito nella sua recezione del pensiero di Husserl non è tanto la «lettera» della tradizione fenomenologica, quanto lo «spirito»:4 «Le nostre analisi rivendicano lo spirito della filosofia husserliana di cui la lettera è stata il richiamo, nella nostra epoca, della fenomenologia permanente come metodo di ogni filosofia».5
Non solo: nella prefazione di Totalità e Infinito si legge esplicitamente che «la presentazione e lo sviluppo delle nozioni utilizzate devono tutto al metodo fenomenologico».6 Oltre al metodo, Levinas sembra condividere con la fenomenologia husserliana una certa avversione allo psicologismo. In En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, opera pubblicata da Levinas nel 1949, la quale raccoglie due studi apparsi sulla «Revue Philosophique», uno del 1932 dedicato ad Heidegger, l’altro del 1940 su Husserl, il filosofo lituano riporta e condivide appunto la critica allo psicologismo.
Si può dire che la fenomenologia è in primo luogo il fatto di considerare la vita dello spirito come dotata di pensiero. Ed è questo l’unico scopo della critica allo psicologismo.7
E ancora,
Il fatto di scoprire in ogni evidenza ingenua un’insufficienza di cui soprattutto lo psicologismo è una conseguenza a cui la riflessione deve porre rimedio, lascia prevedere sin d’ora una concezione della conoscenza secondo cui quest’ultima realizza completamente la propria essenza solo nella riflessione su se stessa.8
Nonostante gli evidenti e palesi punti di contatto e influenza della fenomenologia sullo sviluppo del pensiero di Levinas, il filosofo lituano ritiene ad ogni modo che la filosofia di Husserl sia ancora un pensiero che si fa portavoce della tradizione metafisica occidentale, portando avanti un discorso che condivide con quest’ultima il primato della coscienza teorica.
Come nota Derrida sin dalle prime pagine di Violenza e metafisica, «l’imperialismo della teoria allarmava Levinas»;9 già a partire dai testi levinasiani degli anni trenta e quaranta, infatti, la fenomenologia si presenta, per il filosofo lituano, come una scienza teoretica, intuitiva, eidetica e rigorosa ma, soprattutto, come una scienza della soggettività, dato che l’analisi della coscienza mette a capo l’io come polo unificante di tutte le intenzionalità costitutive. «In Husserl, l’affermazione dell’oggetto non sarà l’espressione di un realismo qualunque. Nella sua filosofia, l’oggetto appare come determinato dalla struttura stessa del pensiero che ha un senso e si orienta attorno ad un polo d’identità che esso pone».10
In altri termini, sembra che intercorra un profondo rapporto tra il processo di identificazione, la quale come è noto si fonda per Husserl sulla nozione di intenzionalità,11 e la nozione fenomenologica di evidenza: «di conseguenza, la relazione tra l’intenzionalità e l’evidenza balza agli occhi. Ogni intenzione è un’evidenza cercata, un tendere alla luce».12
Luce e coscienza teorica, dunque, sono per Levinas il connubio imprescindibile di una filosofia che si costituisce a partire dalla categoria della totalità. Lo stesso verbo θεωρέω suggerisce la necessaria complicità che intercorre tra il guardare, l’osservare e la luce: infatti, è proprio alla luce del visibile, al phainomenon, che la fenomenologia rivolge il proprio sguardo illuminato, costituendosi come un pensiero che concepisce «l’insieme della vita spirituale sul modello della luce».13 Addirittura, per il filosofo lituano, «la fenomenologia, sulle orme di Platone, doveva risultare più di ogni altra filosofia, investita di luce. Poiché non era stata capace di ridurre l’estrema ingenuità, quella dello sguardo, essa predeterminava l’essere come oggetto».14
Tantomeno la relazione soggetto-oggetto che domina la nozione tradizionale di esperienza,15 quale viene a caratterizzarsi a partire proprio dai dialoghi platonici attraverso l’imporsi della metafora della luce, e che rappresenta l’opposizione violenta per eccellenza all’assolutamente Altro, non sfugge, secondo Levinas, alla fenomenologia. Eppure, nell’economia generale di Totalità e infinito, la filosofia di Platone gioca un ruolo fondamentale per quel che riguarda, soprattutto la necessità levinasiana di passare da categorie ontologiche a categorie etiche, per mezzo di un’eco dell’espressione platonica del Libro VI della Repubblica, ossia l’ἐπέκεινα τῆς οὐσἰας, che
Illuminerà sempre per Levinas il risveglio puro e la sorgente inesauribile del pensiero. Esso non è solamente l’antenato greco dell’Infinito trascendente la totalità, ma anche lo strumento di una distruzione dell’ontologia e della fenomenologia sottomesse alla totalità neutra dello Stesso come Essere o come Io.16
In Totalità e Infinito emerge, infatti, chiaramente che il Sole della Repubblica platonica descrive bene l’eccedenza etica verso l’altro, ex-cedenza che pur inserendosi nell’essere è una uscita fuori dall’essere e dalle categorie che lo descrivono, poiché «è giusto giudicare simili al sole la luce e la vista ma non ritenerle il sole».17
La metafisica greca concepisce il Bene come separato dalla totalità dell’essenza e, quindi, intravede (senza alcun contributo da parte di un sedicente pensiero orientale) una struttura tale che la totalità possa ammettere un al di là. Il Bene è Bene in sé e non rispetto al bisogno di cui fa difetto. È un lusso rispetto ai bisogni. Proprio per questo è al di là dell’essere.18
Nell’interpretazione levinasiana dell’ἐπέκεινα τῆς οὐσἰας, l’idea del Bene rappresenta, dunque, il primato etico sull’ontologia, il Bene prima dell’Essere, il rapporto trascendente con l’invisibile e assolutamente Altro prima della relazione teorica soggetto-oggetto, conforme alle categorie della logica formale: l’infinitamente Altro è l’invisibile per eccellenza. Dunque, si chiede Levinas:
La trascendenza sarebbe possibile solo a un toccare assolutamente cieco? A una fede rivolta al non senso? O al contrario se l’ipotesi platonica dell’Uno al di sopra dell’essere e della conoscenza non è un semplice sofisma, non ne abbiamo forse un’esperienza diversa da quella in cui l’Altro si trasforma nello Stesso?[…] È possibile un’esperienza così estranea come quella dell’assolutamente esteriore, un’esperienza così contraddittoria in termini quanto l’esperienza dell’eteronomo. Affermandolo, non soccomberemo certo alla tentazione e all’illusione che consisterebbe nel ritrovare attraverso la filosofia i dati empirici delle religioni positive […]. In tal modo, potremo anche mettere in discussione la tesi secondo la quale l’essenza ultima dell’Uomo e della verità sarebbe la comprensione dell’Essere dell’ente, tesi alla quale, bisogna convenire, sembrano condurre la teoria, l’esperienza e il discorso.19
Per Levinas, dunque, la filosofia occidentale si fonda su una scienza dell’esperienza della coscienza che ha come termine ultimo la parousia dell’eterno a se stesso, o classicamente, la verità ricercata sulla strada spianata e luminosa del soggetto padrone dell’esistere. Il ruolo che la metafora della luce gioca in questo percorso di conoscenza perseguito dalla coscienza teoretica si impone nella metafisica occidentale a partire, principalmente, dalla funzione che Platone, nella Repubblica, aveva segnato proprio alla luce fino ad arrivare ad Hegel nell’Estetica.
Per mezzo della luce, questa maniera per così dire immateriale che da parte sua lascia gli oggetti sussistere liberi per sé, li fa vedere ed apparire, ma non li consuma praticamente come fanno l’aria e il fuoco, in modo inavvertibile e palese. Alla vista, priva di desiderio, si offre tutto ciò che esiste materialmente nello spazio, in esteriorità reciproca.20
È proprio questa tradizionale nozione di spazio che la metafora della luce contribuisce a concretizzare, e che, a parere di Levinas, impedisce l’autentica esperienza dell’altro, la quale, invece, risiede piuttosto nel desiderio metafisico. Questo movimento positivo, questa trascendenza che Levinas chiama metafisica o etica, che va al di là della «com-prensione», della presa del Medesimo sull’Altro, è infatti desiderio. Al contrario dell’affettività del bisogno, che deve potersi sempre appagare, e dell’intenzionalità teorica totalizzante, il desiderio metafisico non tende al fine o al senso, non è teso a compiersi o soddisfarsi nella totalità dello Stesso. «Il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati».21
La pretesa di Levinas è radicale ossia restaurare la metafisica come etica, come desiderio metafisico dell’altro: ma tale desiderio non può essere quello che è, se non come paradossale rinuncia del desiderato, il quale ha, infatti, il carattere dell’invisibilità: Altri è invisibile.
Sintetizza magistralmente J. Derrida, questa non visibilità levinasiana dell’Altro:
Non comunità senza luce, non sinagoga con gli occhi bendati, bensì comunità anteriore alla luce platonica. Luce anteriore alla luce neutra, anteriore alla verità come terzo «nella cui direzione si guarda insieme», verità di giudizio e di arbitrio. Solo l’altro, il tutt’altro, può manifestarsi come ciò che è, prima della verità comune, in una certa non-manifestazione e in una certa assenza. Di lui si può solo dire che il suo fenomeno è una certa non fenomenicità, che la sua presenza (è) una certa assenza. Non assenza pura e semplice, perché allora la logica finirebbe ancora per ritrovarvici, ma una certa assenza. Una simile formulazione lo dimostra: in questa esperienza dell’altro, la logica della non contraddizione, tutto quello che Levinas indicherà con il nome di «logica formale», viene contestato alla sua radice. Tale radice non sarebbe soltanto quella del nostro linguaggio, ma quella della filosofia occidentale, in particolare della fenomenologia e dell’ontologia.22
Dunque, la filosofia di Levinas non è una «sinagoga con gli occhi bendati», ma si serve di una luce che non neutralizza l’esperienza dell’Altro, poiché se l’altro è altro, nessuno logos può comprenderlo. Inoltre, se fosse sottoposto al vedere, Autrui sarebbe inevitabilmente incluso nella totalità dello Stesso. La relazione con Altri è relazione con l’invisibile, dove l’invisibilità risulta non dall’incapacità della conoscenza umana ma dall’impossibilità di un’adeguazione totale, impossibilità di coincidere. Questa «in-comprensione», però, non è da intendersi come un irrazionalismo, per Levinas ma, al contrario, si qualifica come la relazione autentica e valida con Autrui, la quale si coltiva ancor di più nelle pagine levinasiane grazie all’idea di Infinito.
L’idea di infinito è Desiderio. Essa consiste, paradossalmente, nel pensare più di ciò che è pensato, mantenendo comunque questo più nella sua dismisura rispetto al pensiero, consiste nell’entrare in relazione con l’inafferrabile, garantendo tuttavia a quest’ultimo il suo statuto di inafferrabile. L’infinito non è dunque il correlato dell’idea di infinito, come se l’idea fosse un’intenzionalità che ha termine nel proprio oggetto. La meraviglia dell’infinito nel finito è uno sconvolgimento dell’intenzionalità, uno sconvolgimento di questo appetito della luce.23
La vista, la visione, lo sguardo sono allora concetti metaforici per eccellenza, fin da quando nel termine theoria si sono fusi l’aspetto fisiologico e ottico del vedere con quello figurato, della conoscenza intellettiva. In greco, come è noto, il termine oida, significa allo stesso tempo «ho visto e so, conosco», per questo, conosco in quanto ho visto, sono stato testimone: la visione è condizione e garanzia del sapere, dunque metafora della conoscenza. La vista diviene perciò nella storia della filosofia il senso teoretico, principale e la luce la metafora più (ab)usata per esprimere l’accesso alla conoscenza.
Ma cosa significa vedere, quando la visione si scopre coinvolta, co-implicata, addirittura costituita nel suo intimo, da un aspetto di cecità? La vista e la molteplicità dei sensi, lo sguardo e il contatto, la prossimità e la distanza sono solo alcune delle figure che costellano anche la riflessione di Derrida sul tema del visibile e dello sguardo: sguardo, occhio, vista, visione, da questi termini partono scenari sui quali insiste il lavoro della decostruzione derridiana. Ogni sguardo necessita di un occultamento, ogni luce che veicola la vista, partecipa di una dimensione d’ombra non soltanto come risvolto complementare ma come intima complicità che impedisce di fissare e di fissarsi su un’esperienza pura, primigenia e incondizionata.
La pratica decostruttiva sulla visione, sottende dunque un confronto con la metafisica che è spesso e volentieri «ontologia della presenza». Decostruire la nozione di visione e di sguardo significa esporre il vedere e il visibile al dissidio interno che li abita e li anima. Mostrare come essi siano pervasi di differenza e differenze, che non sono elementi pacifici, strutturati e consolidati una volta per tutte, bensì sono travagliati da un incessante movimento di differimento interno: il visibile è anche l’invisibile, vedere è anche sempre essere ciechi.
2. Esteriorità, volto e presenza
Al fine di elaborare «un pensiero che non vuole più essere per fondazione pensiero dell’essere e della fenomenicità»,24 Levinas pone le basi per costruire un discorso filosofico «contro la luce», progetto ambizioso che, stando a quanto notifica Derrida, non è facile da portare a termine, soprattutto perché «quando i motivi di opposizione contro il teoretismo e contro la fenomenologia — husserliana — diventeranno i motivi essenziali della rottura contro la tradizione, sarà ancora necessario che si offra ad una certa illuminazione la nudità del viso, quella “epifania” di una certa non luce».25
Proprio con la sua apparizione, con la sua epifania, l’esteriorità dell’essere infinito si manifesta, per Levinas, nella sua resistenza assoluta contro ogni potere, nel volto. In Totalità e Infinito, Levinas intende mostrare che questa esteriorità, esposizione dell’Altro all’Altro, non è spaziale ma è assoluta, infinita e irriducibile in quanto è dell’Altro, il quale non può essere ridotto alla spazialità classicamente intesa, poiché questo spazio è un luogo della totalità dello Stesso. Vi è dunque una esteriorità illusoria, propria del Medesimo e una vera esteriorità di cui la stessa opera Totalità e infinito, che porta appunto come sottotitolo l’espressione Saggio sull’esteriorità, si impegna a descrivere.
Per Levinas, l’esteriorità non è «una forma che l’essere dovrebbe assumere eventualmente o provvisoriamente nella dispersione e nella decadenza, ma proprio come il suo esistere-esteriorità inesauribile, infinita. Un’esteriorità siffatta si apre ad Altri, respinge la tematizzazione».26
Il riconoscere la trascendenza dell’esteriorità e l’impossibilità di quest’ultima di divenire interiorità del Medesimo comporta, per Levinas la rottura, con un pensiero totalizzante e totalitario, nonché l’istituzione di una relazione ad Altri fondata non sulle basi di una coscienza teorica ma esclusivamente etica. «L’esteriorità dell’essere non significa, infatti, che la molteplicità sia senza rapporto. Solo che il rapporto che lega questa molteplicità non colma l’abisso della separazione, ma lo conferma».27
Per ricostruire, in breve, la nozione di esteriorità quale quella presentata nello scritto del ’61 dal filosofo lituano, e soprattutto per notare ancor meglio come tale nozione introduca alla questione del volto in Lèvinas, sembra opportuno partire ancora una volta dalla filosofia husserliana, verso cui abbiamo visto che Levinas riconosce un grande debito, pur manifestando una certa presa di distanza.
Come è noto, la fenomenologia studia le strutture pure dell’esperienza per mezzo dell’operazione peculiare dell’epochè e della riduzione, ossia attraverso una radicale messa tra parentesi di ogni forma di esteriorità del mondo e delle cose. Tale riduzione ad una sfera che Husserl definisce «primordiale» è in effetti una sorta di esperimento mentale che prefigura una condizione di radicale solipsismo, in cui si definisce ogni fenomeno come frutto della «mia» irriducibile esperienza.
In questo mondo di fenomeni, la manifestazione dell’altro uomo, però, presenta delle peculiarità: l’altro non si presenta solo come un corpo in movimento, perché egli mi appare come portatore di un’intenzionalità, analoga alla mia.
Nel caso dell’alter-ego, l’appresentazione dell’altro uomo mi si manifesta in modo tale che io lo colga come, appunto, alter-ego anziché come un qualsiasi altro corpo che si muove nello spazio, poiché persino nel suo stare immobile, è palese che egli abbia dei pensieri, dei vissuti, delle emozioni, delle intenzioni, un’intenzionalità, in modo tale da permettermi di rappresentarmelo in analogia con me, come simile e me, come un altro me. Insomma, io ho dell’altro un’appresentazione, che mi dà immediatamente – anche se indirettamente – l’esperienza dell’altro come alter-ego.
Questa particolare modalità di esperire l’alter-ego, l’incontro con l’altro uomo, è l’esperienza di una irriducibile socialità, è, in termini husserliani, l’esperienza del legame sociale.
Ciò che in virtù della relazione analogica viene appresentato non può mai darsi realmente al presente diretto, alla percezione autentica. Alla prima proprietà si connette quest’altra: l’ego e l’alter ego sono dati per sempre e necessariamente in un accoppiamento originario. L’accoppiamento ossia il presentarsi configurato come una coppia e successivamente come gruppo o moltitudine, è un fenomeno universale della sfera trascendentale.28
Quindi, gli altri si costituiscono in me come altri ma solo in quanto essi sono in comunità con me e, dunque, alter-ego è l’appellativo che indica l’esperienza che io ho tanto della moltitudine degli altri uomini, quanto del legame degli altri uomini con me. Il fatto che tale accoppiamento sia un «fenomeno universale della sfera trascendentale» indica che la mia esperienza del mondo e delle cose passa necessariamente attraverso la loro condivisione con gli altri. Dunque, la rappresentazione del mondo nella fenomenologia husserliana e fortemente caratterizzata della categoria dell’egoità. Proprio in questa modalità egoiga dell’esperienza teorizzata dalla fenomenologia, Levinas riscontra ancora quell’«imperialismo» del Medesimo, della teoria, che fonda la concezione classica dell’esperienza e che connette, come si diceva, Platone a Husserl, dunque, l’intera storia della filosofia.
Il filosofo lituano è motivato, pertanto, a compiere una digressione da questa concettualità: questa digressione e rottura non possono compiersi come operazioni che si giocano a livello della conoscenza teorica e della rappresentazione ma si stabiliscono, invece, a partire da un’esperienza che si realizza nell’incontro concreto con l’altro. In altre parole, questo incontro con l’altro non può, seguendo la linea levinasiana, consumarsi nel cerchio dell’interiorità, portando a credere che l’altro sia solo un noema che ha le caratteristiche di un alter ego ma implica uno squarcio dirompente su una nuova modalità di concepire l’esteriorità, la quale viene a configurarsi come irriducibile ad ogni dialettica dello Stesso.
Ciò significa che il superamento della totalità non avviene nella sintesi teorica e conciliatrice della filosofia tradizionale, ma nell’evento pratico, etico, del faccia a faccia con l’altro uomo, il quale testimonia un concreto manifestarsi della sua assoluta alterità nel volto.
Ora noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro che supera l’idea dell’altro in me. Questo modo non consiste nell’assumere di fronte allo mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altri distrugge ad ogni istante, e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del suo ideatum - l’idea adeguata. Non si manifesta in base a queste qualità, ma kατ’αὐτό. Si esprime.29
La caratteristica fondamentale del volto, che Levinas descrive mediante una molteplicità variopinta di metafore, quali ad esempio la nudità, la povertà, l’unicità, la noumenicità, è, innanzitutto, l’autosignificanza.
Il volto non è un segno, dunque, non indica semplicemente la presenza d’altri, ma manifesta la modalità secondo la quale tale presenza si dispiega: il volto rappresenta un certo modo di essere presente dell’altro, che è l’espressione. «Il volto è astratto»:30 esso non è un’idea, né un concetto ma la concreta presenza dell’altro uomo: il volto dell’altro uomo appare, è presente.
Il concreto manifestarsi dell’alterità, d’altri, dunque, è chiamato da Levinas visage e la sua caratteristica principale è l’autosignificanza, perché il volto non è un segno che rinvia ad altro, ma è una presenza viva che si autopresenta e autoimpone «di per sé». Ma, a questo punto, è doveroso, soprattutto al fine di proseguire l’argomentazione che in questa sede si propone, lasciare la parola a Derrida:
Esprimersi vuol dire essere dietro il segno. Ed essere dietro il segno non vuol dire prima di tutto essere in grado di assistere (al) la propria parola, di soccorrerla, secondo l’espressione del Fedro che ne assume la difesa contro Thot (o Ermes), espressione che Levinas fa sua più di una volta? Solo la parola viva, nella sua padronanza e nel suo magistero, può recare soccorso a se stessa, solo essa è espressione e non segno servile. A condizione che sia veramente parola, «la voce creatrice, non la voce complice che è sempre schiava» (E. Jabés). E sappiamo che tutti gli dei della scrittura (Grecia, Egitto, Assiria, Babilonia) hanno lo statuto di ausiliari, segretari servili del grande dio, traghettatori lunari e scaltri che tavolta, ricorrendo a procedimenti infami, detronizzano il re degli dei. Lo scritto e l’opera, per Levinas, non sono espressioni, ma segni. Dopo l’epekeina tes ousias, è questo il secondo tema platonico di Totalità e Infinito.31
Dunque, per Levinas, il volto parla, la manifestazione del volto è già discorso e la stessa possibilità della filosofia prima, della metafisica come etica è, in primo luogo possibilità della parola. Infatti, la relazione con l’ente che si esprime, il discorso orale, «lo diremo immediatamente, è etica»;32 il discorso orale è per Levinas irriducibile ad ogni totalizzazione dialettica mentre la scrittura appare come uno dei sintomi più evidenti della violenza contro l’alterità. Il filosofo lituano interpreta metafisicamente il linguaggio inteso nella sua dimensione orale come presenza-viva dell’Altro, a partire dalla parola intesa come voce.
3. Anarchia dello spettacolo e mondo dei segni
Proprio perché il discorso orale pensa il linguaggio come «voler-dire», come espressione autentica del volto, Levinas lo definisce in opposizione al segno, all’immagine, all’opera, alla scrittura: lo scritto e l’opera sono, per Levinas, non espressioni ma segni. Il linguaggio inteso come tessuto di segni non prodotto immediatamente dalla coscienza del soggetto presente e parlante è per Levinas un linguaggio decaduto, un atto mancato o come spesso afferma richiamandosi al Fedro platonico «mera scrittura». «Lo scritto tributario della parola apre questa prospettiva universale senza la quale non c’è libertà. Ma separato dalla parola, diviene mitologia e filologia».33
È possibile secondo Levinas avere nei confronti della verità un atteggiamento prettamente filosofico e uno filologico; quest’ultimo appare al filosofo lituano come l’origine di quella violenza che sfigura il volto di Altri. Come artificio escogitato da un’astuta volontà di potenza, infatti, il segno differisce l’immediatezza del faccia a faccia: «il segno è un linguaggio muto, un linguaggio impacciato».34
Alla fine della prima sezione di Totalità e Infinito, è collocato un passo di difficile decifrazione per la sua densità metaforica, il quale porta il titolo di An-archia dello spettacolo: lo spirito maligno.35 La metafora cosmologica presente nel passo in questione risulta ruotare fondamentalmente intorno ad una scena costantemente rimossa nel pensiero di Levinas, ossia la scena della scrittura e del suo «spaventoso silenzio».
Il mondo silenzioso è un mondo che ci viene da altri, fosse anche lo spirito maligno. Il suo equivoco si insinua in una beffa. Il silenzio non è così una semplice assenza di parola; la parola è in fondo al silenzio, come una risata perfidamente soffocata. È l’inverso del linguaggio: l’interlocutore ha dato un segno ma si è sottratto a qualsiasi interpretazione - e qui è il silenzio che spaventa. La parola consiste per altri nel portare soccorso al segno emesso, nell’assistere alla propria manifestazione tramite segni, nel rimediare all’equivoco tramite questa assistenza.36
È, in sostanza, la sottrazione di una possibile origine a rendere il mondo dei soli segni, ossia il mondo-scritto, letteralmente an-archico, privo della possibilità sia di un’archeologia che di un’escatologia: il mondo an-archico è, qui definito, un «puro spettacolo». Questa sembra non essere una metafora del tutto innocente: raffigurare il mondo come luogo di una rappresentazione teatrale non è certo una novità ma, a dispetto della sua apparente inessenzialità, tale immagine tende a ribadire che il mondo dei soli segni si rivela essere una finzione, un copione, un «discorso» pilotato e inautentico: questa fictio non rende giustizia della relazione etica con l’assolutamente Altro, la quale trova invece la sua concreta attuazione in quel discorso orale inteso da Levinas come il luogo in cui l’Altro si presenta, assistendo e soccorrendo la propria manifestazione.
Lo spettacolo del mondo dei fatti è stregato:ogni fenomeno maschera, mistifica all’infinito, rendendo l’attualità impossibile. Situazione creata da questi esseri sghignazzanti, che comunicano attraverso un labirinto di sottintesi che Shakespeare e Goethe fanno apparire nelle scene di streghe in cui si parla l’anti-linguaggio e nelle quali rispondere sarebbe ricoprirsi di ridicolo.37
Una simile interpretazione metafisica del linguaggio comporta un costante abbassamento della scrittura che complotta per sottrarre al mondo il suo spessore trascendente e metafisico.
Ora, è proprio in questo che Derrida coglie una decisiva ambiguità : la metafisica levinasiana sembra qui radicalizzare il logo-fonocentrismo del pensiero occidentale. Infatti, nella lettura che Derrida compie della storia della metafisica, la tradizione si caratterizza come logocentrismo e fonocentrismo. Logocentrismo, perché la filosofia ha sempre attribuito, come si è visto, un privilegio al logos come sede della verità, cioè all’intelligibile piuttosto che al sensibile, all’interiorità dell’anima piuttosto che all’esteriorità, fondandosi, in questa operazione, su determinati concetti di ragione, scientificità, logica. Fonocentrismo, perché il luogo proprio di questo logos viene individuato nella phoné, nella voce, in contrapposizione alla scrittura.
Si chiede allora Derrida a proposito della metafisica di Levinas:
Il «discorso orale» è «discorso nella sua pienezza»? Lo scritto è solamente «linguaggio ridiventato segno»?[…] La «franchezza» dell’espressione sta essenzialmente dalla parte della parola viva per chi non è come Dio?38
Per comprendere meglio la critica derridiana al particolare fonocentrismo portato avanti dal pensiero di Levinas, è opportuno leggere da La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane39 saggio del 1966, l’itinerario derridiano che porta dalla supplementarietà del segno alla nozione di scrittura:
Questo movimento del gioco, reso possibile dalla mancanza, dall’assenza di centro e di origine, è il movimento della supplementarietà. Non è possibile determinare il centro ed esaurire la totalizzazione perché il segno che sostituisce il centro, che lo supplisce, che ne tiene il posto in sua assenza, questo segno si aggiunge, viene in sovrappiù, come supplemento.40
Dunque, visto ancora da un’altra prospettiva, una volta che il regime del derivato ha messo in scacco quello dell’originario, esso non può assumere il carattere di nuovo originario, poiché essendo costitutivamente in itinere, sfugge a qualsiasi afferramento diretto: gioco che gioca al gioco del rimando e del supplemento. In particolar modo, ancor meglio è possibile notare la centralità della supplementarietà nello sviluppo del pensiero derridiano in relazione al concetto di segno. L’obiettivo prediletto della decostruzione derridiana in questo preciso contesto, è evidentemente la linguistica, in particolar modo quella saussueriana, là dove essa pensa un segno come unione di un significante e un significato. La possibilità di un simile sistema di pensiero scaturisce direttamente dall’adozione di un meccanismo dialettico, che vede nell’opposizione tra signans e signatum, tra nome e idea, l’essenza stessa del segno linguistico. Ora, questa distinzione presa in prestito dalla logica stoica e poi scolastica è coessenziale, dunque, all’ontologia classica, che pensa sempre l’essere come presenza a sé.
Un lungo passo da Della grammatologia chiarirà ulteriormente l’analisi di Derrida:
È proprio il concetto stesso di segno a restare impegnato nella storia dell’ontologia classica, e la distinzione, per quanto tenue possa essere, tra faccia significante e faccia significata. Il parallelismo, la corrispondenza delle facce o dei piani non vi apporta alcun cambiamento. Che questa distinzione, apparsa inizialmente nella logica stoica, sia stata necessaria alla coerenza di una tematica scolastica dominata dalla teologia infinitistica, è ciò che ci impedisce di trattare come una contingenza o una comodità il fatto che oggi la si prenda a prestito. L’avevamo suggerito all’inizio, ma forse le ragioni appaiono meglio ora. Il signatum rinviava sempre, come al suo referente, ad una res, un ente creato o in ogni caso prima pensato e detto, pensabile e dicibile all’eterno presente nel logos divino e precisamente nel suo soffio. Se esso veniva ad essere in rapporto con la parola di uno spirito finito (creato o no; in ogni caso di un ente intracosmico) tramite l’intermediario di un signans, il signatum aveva un rapporto immediato con il logos divino che lo pensava nella presenza e per il quale esso non era una traccia. E per la linguistica moderna, se il significante è traccia, il significato è un senso pensabile in principio nella presenza piena di una coscienza intuitiva. La faccia significata, nella misura in cui la si distingue ancora originalmente dalla faccia significante, non è considerata come una traccia: di diritto, essa non ha bisogno del significante per essere ciò che è. È nella profondità di questa affermazione che bisogna porre il problema dei rapporti fra la linguistica e la semantica. Questo riferimento al senso di un significato pensabile e possibile al di fuori di ogni significante, resta dipendente dall’onto-teo-teleologica che abbiamo appena evocato. È l’idea di segno dunque che bisognerebbe decostruire con una meditazione sulla scrittura che si confonderebbe, come deve, con una sollecitazione dell’onto-teologia, che la ripeta fedelmente nella sua totalità e la scuota nelle sue più sicure evidenze.41
Derrida riprende, dunque, in chiave critica il modello della linguistica strutturalista saussuriana, mettendo in luce come il logocentrismo metafisico derivi dal dominio del significato sul significante a dal privilegiare il contenuto ideale della coscienza per mezzo della phonè, della voce, dominio che sembra essere costitutivo della filosofia sin dai sui natali.
Come, infatti, mostra il Fedro platonico, l’istituzione della filosofia come scienza va di pari passo con l’esaltazione della parola viva, del padre logos contro la scrittura. Nell’ambito della distinzione tra significante e significato, rispettivamente, il lato sensibile e il lato intelligibile di un segno, il fenomeno della voce mostra alcuni caratteri particolari che, secondo Derrida, spiegano il privilegio storico che essa ha ricevuto. In primo luogo, la voce, la lingua parlata, sembra rispecchiare fedelmente, senza alterazioni e quindi nel modo migliore possibile, i significati intelligibili dell’anima o del soggetto: essa si dà, quindi, come un significante peculiare, la cui funzione è quella di annullarsi di fronte al significato come se fosse un medium trasparente. Inoltre, questo significante fonetico non è tratto dall’esteriorità sensibile del mondo, ma dal soggetto stesso, è egli stesso che parla e si trova, quindi, in relazione con un significante privilegiato in quanto non-mondano e non-empirico. Questo carattere essenziale della voce diventa, poi, visibile in quella che Derrida chiama l’esperienza dell’«intendersi-parlare»,42 secondo il duplice senso del francese entendre: parlando, mi sento parlare e mi capisco, sento e capisco ciò che dico e mantengo il controllo di ciò che esprimo.
Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll’intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e solo identico. E, una volta che è scritto, tutto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso.43
Rispetto alla parola, la scrittura è per la tradizione metafisica inaugurata da Platone, una duplicazione esteriore, che sfugge al controllo dell’autore ed è capace di circolare in assenza di questo: contrariamente al logos vivo dell’anima, al pensiero e alla parola con i quali il soggetto è presso se stesso, la scrittura si presenta come qualcosa di fisso, morto ed esteriore. La scrittura rappresenta l’istanza della morte e dell’assenza rispetto al logos vivo e presente: per questo la filosofia l’ha relegata al ruolo di «segno di segno». Questa dicotomia tra parola e scrittura non è un tratto tra gli altri della filosofia, ma riguarda il suo senso complessivo: infatti, secondo Derrida, che su questo punto riprende una tesi fondamentale di Heidegger, il fonocentrismo corrisponde al privilegio dell’essere come presenza, che ha caratterizzato la storia della metafisica determinandone l’intero sistema concettuale.
Il privilegio della voce e la svalutazione della scrittura sono correlativi alla volontà di salvaguardare l’essere come presenza stabile: la voce viene privilegiata in quanto significante che si cancella nel rispecchiamento del significato, ma questo rivela che ciò che si vuole salvaguardare è, in ultima analisi, la presenza pura del significato, anteriore e indipendente rispetto a ogni segno e rimando. Da questa presenza piena e dalla sua identità a sé bisognava rimuovere ogni traccia di assenza e di differenza, delle quali la scrittura ne è il simbolo.
Nemmeno Levinas, la cui proposta filosofica è tesa a svincolarsi proprio da questa metafisica della presenza, metafisica dello Stesso e del Medesimo, sfugge allora, secondo Derrida, al privilegio della phonè come mezzo immediato della relazione etica, poiché quest’ultima, per Levinas, pone le sue fondamenta sulla stabilità del discorso orale.
4. Violenza trascendentale: economia e guerra
Non potendo sfuggire all’ascendenza della luce, anche la metafisica presuppone sempre una fenomenologia, nella sua critica stessa della fenomenologia, e soprattutto se vuole essere, come quella di Levinas, discorso ed insegnamento.44
Seguendo Derrida, anche la metafisica levinasiana, nella sua pretesa di richiamarsi al primato della relazione etica, necessita della fenomenologia, non solo trattenendola come tecnica e metodo. Infatti, Levinas riprenderà da Husserl anche il tema del primato del legame sociale e dell’«accoppiamento originario» tra l’ego e l’altro, che diventerà il motore del tema della responsabilità.
Assai differente, invece, è il modo di intendere l’Altro, che per Levinas non è semplicemente un alter-ego, pur essendo, in effetti, l’altro uomo. Intanto, la stessa critica levinasiana al primato della «coscienza d’oggetto», della coscienza teorica rimproverata alla fenomenologia husserliana, viene messa in discussione da Derrida a partire da due definizioni del «teoretico»: la prima, quella presa di mira da Levinas, stabilisce il senso della relazione soggetto-oggetto praticato dalla tradizionale nozione di esperienza, mentre la seconda manifesta ciò che determina, quasi in modo dialettico, il non-teoretico. È probabile che Derrida cerchi in questo secondo senso del teoretico un certa «idea regolativa», e infatti:
Io so con un sapere teoretico (in generale) qual è il senso del non-teoretico (per esempio, l’etico, il metafisico nel senso di Levinas) come tale, e lo rispetto come tale, come quello che è, nel suo senso. Ho uno sguardo per riconoscere quello che si guarda come una cosa, come una facciata, come un teorema. Ho uno sguardo per il viso stesso.45
Ovviamente non è questo il disaccordo fondamentale tra Levinas e Husserl ma, come si è detto prima, è a proposito di Altri che il distacco è decisivo. Secondo Levinas, infatti, Husserl fa dell’Altro un alter ego, e così facendo avrebbe mancato l’alterità infinita e positiva, riducendola alla negatività dello Stesso. Come è stato sottolineato in precedenza, nelle Meditazioni cartesiane Husserl si preoccupa di descrivere in che modo l’alterità si presenta all’io, come alter-ego. Commenta allora Derrida:
È evidente, di un’evidenzia essenziale, assoluta e definitiva, che l’altro, come altro, come altro trascendentale (altra origine assoluta ed altro punto zero del mondo) non può mai essermi dato in modo originario e in persona, ma solo per rappresentazione analogica […]. Se l’altro non fosse riconosciuto come alter ego trascendentale, sarebbe per intero nel mondo e non, come me, origine del mondo. Rifiutare di vedere in lui un ego in questo senso è, nell’ordine etico, il gesto stesso di ogni violenza.46
È impossibile, dunque, secondo la critica derridiana, incontrare l’altro nel senso dell’esperienza levinasiana, senza che esso si presenti come alter ego, ossia come un io, che io non posso mai essere. Inoltre, l’appresentazione o appercezione analogica47 husserliana dell’altro confermerebbe, dal punto di vista di Derrida, proprio l’irriducibilità, la separazione e la distanza volute dallo stesso Levinas, poiché proprio tale rappresentazione impedirebbe allo Stesso di tematizzare l’altro come oggetto. Ancora Derrida:
Se io non andassi verso l’altro per via di rappresentazione analogica, se lo raggiungessi immediatamente e originariamente, in silenzio e attraverso la comunione con il suo proprio vissuto, l’altro cesserebbe di essere altro. Contrariamente alle apparenze, il tema della trasposizione rappresentativa traduce il riconoscimento della separazione radicale delle origini assolute, il rapporto degli assoluti e il rispetto non violento del segreto: il contrario dell’assimilazione vittoriosa.48
Se, dunque, non si riconoscesse Altri nella sua forma d’ego, seguendo il trascendentalismo husserliano, l’altro sarebbe parte del mondo per intero, e tutta la sua alterità svanirebbe. Non solo: lo stesso Levinas è, in un certo senso costretto a riconoscere l’ipseità per affermare l’autore di quella violenza che la sua metafisica cerca di combattere, dato che «se così non fosse, Io, (in generale: l’egoità), non potendo essere l’altro dell’altro, non sarebbe mai vittima di violenza. La violenza di cui parla Levinas sarebbe una violenza senza vittima».49
Senza questa «simmetria» resa possibile dal riconoscimento dell’egoità dell’altro, non sarebbe possibile nessuna pretesa dissimmetria: «simmetria trascendentale di due dissimmetrie empiriche».50
Derrida rimprovera a Levinas di non aver colto, in relazione al tema dell’alterità nella sintesi trascendentale husserliana, la distinzione fondamentale tra il momento noematico-trascendentale e la realtà fattuale. Infatti, nell’argomentazione husserliana, tradurre nella coerenza del linguaggio razionale l’altro come res, sarebbe una violenza più grave, poiché ridurrebbe l’altro ad un mio momento reale ed empirico.
C’è una violenza trascendentale e pre-etica, una dissimmetria (in generale) la cui archia è lo stesso e permette ulteriormente la dissimmetria inversa, la non violenza etica di cui parla Levinas. In effetti o non c’è che lo stesso ed esso non può nemmeno più manifestarsi e essere detto, e neppure esercitare la violenza (infinità o finitezza pure); oppure ci sono lo stesso e l’altro, e allora l’altro non può essere l’altro – dello stesso – se non essendo lo stesso (di sé:ego) e lo stesso non può essere lo stesso (di sé:ego) se non essendo l’altro dell’altro: alter ego. Che io sia anche essenzialmente l’altro dell’altro, che io lo sappia, ecco l’evidenza di una strana simmetria di cui non appare mai traccia nelle descrizioni di Levinas. Senza questa evidenza io non potrei desiderare (o) rispettare l’altro nella sua dissimmetria etica. Questa violenza trascendentale che non procede da una risoluzione o da una libertà etiche, da una certa maniera di accostare e oltrepassare l’altro, instaura originariamente il rapporto tra due ipseità finite. In effetti, la necessità di accedere al senso dell’altro.51
Nella prospettiva derridiana, c’è una violenza trascendentale, che ha il carattere della necessità, pre-etica, dunque, la quale permetterebbe la stessa non-violenza etica predicata da Levinas. In definitiva,
Questa necessità a cui nessun discorso può sfuggire fin dalla sua più giovane origine, questa necessità è la violenza stessa, o meglio, origine trascendentale di una violenza irriducibile, […] nello stesso tempo non-violenza, dato che apre il rapporto all’altro. È un economia.52
Accedere all’egoità dell’alter ego, mediante rapporti eidetici segnalati dalla descrizione husserliana delle Meditazioni cartesiane, non è, dunque, un gesto «pacifico in modo assoluto. Diciamo economico».53
Esattamente, la violenza trascendentale instaura originariamente il rapporto tra due ipseità: la necessità di parlare dell’altro come altro, di accedere al senso dell’altro a partire dal fenomeno e non dalla sua tematizzabilità, è comunque una violenza, ma presa in una certa economia. Economia che cerca di evidenziare la necessità della violenza stessa, come origine del discorso e della finitezza: connaturalità del discorso e della violenza che appartiene all’ordine della storia.
La guerra è dunque congenita alla fenomenicità, è il sorgere della parola e del manifestarsi (…). Il discorso farebbe la guerra alla guerra che lo istituisce; questa guerra seconda come confessione è la minor violenza possibile, rispetto al silenzio primitivo.54
Nessuna filosofia responsabile del suo linguaggio può rinunciare all’ipseità e la forma dell’esperienza che esuli il rapporto soggetto-oggetto, è impensabile, seguendo la linea derridiana, poiché è impossibile pensare un’esperienza che non sia vissuta come la «mia»: «questo impensabile, questo impossibile sono i limiti della ragione in generale. […] Perché la Ragione? […] La filosofia che è il discorso di questa ragione come fenomenologia non può per essenza rispondere a tale interrogazione. […] Può solo lasciarsi interrogare».55
Derrida, infatti, prosegue la critica delle posizioni di Levinas, ricorrendo alla nozione husserliana di archi-fattualità, ossia l’essenza irriducibilmente egoica dell’esperienza: nulla può manifestarsi fuori dall’appartenenza al mio mondo. Questo è il dato che deve essere affrontato: non c’è esperienza che possa essere vissuta se non al presente. Nota ancora, con precisione, Derrida:
Se in ultima analisi, si vuole determinare la violenza come la necessità per l’altro di non mostrarsi come ciò che è, di non essere rispettato che nello stesso, per lo stesso e dallo stesso, di essere occultato dallo stesso proprio nel liberarsi dal suo fenomeno, allora il tempo è violenza. Questo movimento di liberazione dell’alterità assoluta nello stesso assoluto è il movimento della temporalizzazione nella sua forma universale più assoluta e incondizionata: il presente vivente.56
Per ora, si può stabilire che la nozione derridiana di «economia della violenza» è inseparabile da quella di storicità. L’impossibilità di sottrarsi all’economia della violenza è impossibilità di sottrarsi alla storia.
Se c’è polemos, e irriducibile, non è in ultima analisi, perché ci sia un qualche gusto della guerra, e meno che mai della polemica. C’è polemos quando un campo si determina come campo di battaglia, in mancanza di un metalinguaggio, di un luogo di verità esterno al campo; non c’è un punto di riferimento assoluto e astorico; e l’assenza di questo riferimento, e la conseguente storicità radicale del campo, fa si che sia necessariamente lasciato alla molteplicità, alla eterogeneità; ne segue che essere nel campo sia necessariamente essere iscritti nel polemos, anche se non si ha uno speciale gusto per la guerra. C’è un destino strategico, destinato allo stratagemma della ridiscussione della verità del campo.57
-
J. Derrida, Violence et méthaphysique, essai sur la penseé de Emmanuel Levinas, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1964, nn. 3 e 4, poi pubblicato in L’écriture e la differance, Editions de Seuil, Paris, 1967, trad. it. di G. Pozzi, Einaudi editori, Torino, 1971, pp. 99- 198, cit. pag. 129. Da questo punto in poi, le citazioni relative a questo testo verranno indicate con la sigla VM, seguita dalla pagina della traduzione italiana. ↩︎
-
E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 1986, p.60. Da questo punto in poi, le citazioni relative a questo testo verranno indicate con la sigla TI, seguita dalla pagina della traduzione italiana. ↩︎
-
Tra il 1928-29, Levinas è a Friburgo come libero ascoltatore dei corsi di Husserl, che in quell’anno accademico vertevano sul tema della costituzione dell’intersoggettività. Il 23 e il 25 febbraio 1929 Edmund Husserl tiene a Parigi presso Amphithéâtre Descartes all Sorbona, una conferenza che gli da occasione di esporre le linee fondamentali del proprio pensiero. A quell’intervento fu distribuito un sommaire de leçons, ossia uno schema in cui venivano elencati, in francese, i punti cruciali dell’esposizione, dal momento che il relatore parlò in lingua tedesca. Fu successivamente predisposta una rielaborazione accresciuta dell’esposizione, che venne pubblicata nel 1931 col titolo Méditations Cartésiennes, la cui traduzione francese fu appunto curata da E. Levinas e G. Peiffer. ↩︎
-
Cfr. VM, p. 110. ↩︎
-
E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye, 1974; trad. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza,con introduzione di S. Petrosino, Jaka Book, Milano 1983, cit. p. 226. Da questo punto in poi, le citazioni relative a questo testo verranno indicate con la sigla AE, seguita dalla pagina della traduzione italiana. ↩︎
-
TI, prefazione p. 26. ↩︎
-
E. Levinas, En découvrant l’esistence avec Husserl et Heidegger, Vrin, 2° ed. Paris, 1967; trad. it. di F. Sossi. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina Editore, Milano,cit. p. 11. ↩︎
-
Ivi, p. 15. ↩︎
-
VM, p.107. ↩︎
-
E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op.cit. p. 19. ↩︎
-
Cfr. Ivi, p. 24 ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi. 23. ↩︎
-
VM, p.107. ↩︎
-
Cfr. S. Petrosino, Fondamento ed esasperazione, saggio sul pensare di Emmanuel Levinas, Marinetti s.p,a. Genova, 1992, p. 19 nota 10. ↩︎
-
VM, p.108. ↩︎
-
Cfr. Platone, La Repubblica, 509 a, trad. it. F. Sartori, intr. M. Vergetti, note di B. Centrone, Edizione Laterza, Bari-Roma, 2011. ↩︎
-
TI, pag.104. ↩︎
-
E. Levinas, La traccia dell’Altro, in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op. cit., cit. pp.218-219. ↩︎
-
Cfr. e cit. in VM, pp. 125-126, è Hegel a parlare (Estetica). ↩︎
-
TI, p. 48. ↩︎
-
VM, p.115. ↩︎
-
TI, p. 76. ↩︎
-
VM, p.103. ↩︎
-
VM, p. 109. ↩︎
-
TI, p. 304. ↩︎
-
TI, p. 303. ↩︎
-
Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, V Meditazione, Bompiani, Milano, p. 132, paragrafo 51. ↩︎
-
TI, p. 48. ↩︎
-
Cfr.E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, op. cit, p. 197. ↩︎
-
VM, p. 128. ↩︎
-
TI, p. 71. ↩︎
-
E. Levinas, Lo scritto e l’orale, op. cit., p. 192. ↩︎
-
TI, p. 186. ↩︎
-
Cfr. TI, pp. 89-91. ↩︎
-
TI, p. 90. ↩︎
-
TI, p. 91. ↩︎
-
VM, p. 128. ↩︎
-
J. Derrida, La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane, conferenza tenuta al Colloquio internazionale dell’Università di Hopkins (Baltimore) su i linguaggio critici e le scienza dell’uomo, il 21 ottobre 1966; poi pubblicato in La scrittura e la differenza, Einaudi Editore, Torino, 1982, pp. 359-376. ↩︎
-
Ivi, p.372. ↩︎
-
J.Derrida, Della Grammatologia, op. cit., pp. 106-107. ↩︎
-
Sul tema del privilegio della phonè e la conseguente riduzione della scrittura nella storia della filosofia occidentale, cfr. J. Derrida, La voce e il fenomeno, Jaca Book, Milano, 1984 e J. Derrida, La farmacia di Platone, Jaca Book, Milano, 1985. ↩︎
-
Cfr. Platone, Fedro, 275, d4-e5, a cura di R. Velardi, BUR, classici greci e latini, Milano, 2008. ↩︎
-
VM, p.149 ↩︎
-
VM, p. 155. ↩︎
-
VM, p. 157. ↩︎
-
Cfr. E. Husserl, Meditazioni cartesiane, V Meditazione, Studi Bompiani, Milano, paragrafo 50, p.129. ↩︎
-
VM, p. 157. ↩︎
-
VM, p. 159. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
VM, p. 162. ↩︎
-
VM, p. 163. ↩︎
-
VM, p. 162. ↩︎
-
VM, p. 164-165. ↩︎
-
VM, p. 166. ↩︎
-
VM, p. 168 ↩︎
-
J. Derrida, Ho il gusto del segreto, in Il gusto del segreto, op. cit., p. 13. ↩︎