Qual è la cifra di una «lettura» quando a leggere è la penna di J. Derrida? E, soprattutto, qual è il taglio decisivo dell’orlo della lettura derridiana, se la tessitura è un testo come «Altrimenti che essere al di là dell’essenza»1 di E. Levinas? Orli, bordi, tagli, segni: dunque scrittura, particolare nozione da cui poter dar avvio ad una argomentazione sulla seconda tappa di un incontro e di un confronto duraturo, quello tra Levinas e Derrida, che si caratterizza per l’importante e reciproca contaminazione di questioni, prima fra tutte quella dell’alterità, che strutturano formalmente i loro differenti percorsi filosofici. Lo stile di lettura-scrittura di Derrida si contraddistingue come uno dei gesti più costanti e, forse, poco compresi della decostruzione: al pari di un terremoto, o meglio di uno sfollamento,2 la scrittura derridiana opera nella testualità, creando lo spazio di un’apertura all’altro, un posto lasciato vuoto per chi arriverà, un posto dove l’altro può inter-venire, un «lasciar posto all’altro» che «in ogni modo c’è, verrà, se vuole, ma prima di me, prima che io abbia potuto prevederlo».3 Scrittura intesa allora come lasciar posto, lasciar (l’) essere, divenire assente, determinando così anche un rapporto tra il soggetto e la morte, ossia l’alterità per eccellenza: la scrittura come «mancanza» potrebbe anche descrivere la costituzione stessa della soggettività.
Dunque, se si accetta questa particolare pendenza della nozione di scrittura derridiana come bordo sul quale costruire l’opportunità di un legame con l’alterità, sarà allora più semplice, forse, avvicinarsi all’esclusivo testo En ce moment même, dans cette ouvrage, me voici,4 che si impone ciò nondimeno per la sua difficoltà. Il suo carattere dialogico sintomo di un scrittura che riconosce il riferimento all’altro come un altro «già» attivo, come attivante l’interrogazione tramite un effetto di alterità, porterà Derrida a individuare nello stile di scrittura di Altrimenti che essere al di là dell’essenza di E. Levinas, l’irruzione dell’Altro, del suo segreto e del tutt’altro.
Nel caso specifico che qui si vuole portare all’attenzione, ci si potrebbe chiedere quali sono i segni di una scrittura il cui peso specifico è già, in realtà, l’alterità che vuole mettere a tema, di una scrittura che risulta evidentemente ob-jectum ma debitrice altresì di una nozione di soggettività intrigata e inquietata, soggettività già da sempre «ostaggio» di un’alterità all’opera in un’opera come Altrimenti che essere, al di là dell’essenza. Qual è allora la struttura di questa soggettività che nel medesimo momento in cui vorrebbe ricostruire il continuum della sua storia, attraverso il tutto del linguaggio,5 deve poi necessariamente far i conti con le interruzioni, le quali precedono lo stesso tentativo di ricucitura? «Egli avrà obbligato»: è attraverso questa anteriorità futura che si riassume, come si avrà modo di intravedere, il senso della responsabilità levinasiana. Ma chi è «Egli»? A cosa avrà obbligato? Questioni ineluttabilmente aggrovigliate. Si tenterà di sgomitolare quanto più possibile — seguendo le tracce della lettura derridiana di Levinas — i fili che le tengono intrecciate, non con l’intento di trovarvi ambiziosamente una risposta ma modestamente per riannodare, rilegare, rileggere e riscrivere.
1.Violenza e metafisica
Innanzitutto, seppur nella modalità e brevità di un richiamo, è opportuno notare che la matassa della questione annoda i suoi fili a partire dal 1964, anno di pubblicazione del fondamentale saggio di Derrida Violence e métaphisique, Essai sur la pensée d’Emmanuel Levinas6 nei numeri 3 e 4 della «Revue de Métaphisique et Morale», e poi ripubblicato in, del 1967: prima tappa del chiasmo Derrida/Levinas. Con Violenza e metafisica, l’attenzione del mondo accademico filosofico si impone sull’opera di Emmanuel Levinas che fino a quel momento era un pensatore poco noto. Infatti, nel trentennio che precede la pubblicazione di quella che viene considerata la prima espressione organica e teoricamente decisiva delle sue tesi, ossia Totalité et infini. Essais sur l’exteriorité7 del 1961, Levinas aveva posto le fondamenta per il suo itinerario filosofico, alla cui base vi è una serie di influssi disparati: dal fattore ebraico agli scrittori russi, senza poter dimenticare i molteplici filosofi avuti come compagni e maestri, primo fra tutti Husserl. Fin da subito, infatti, il pensiero husserliano diviene oggetto di studio, come testimonia la tesi di laurea alla Sorbona di Parigi, pubblicata nel 1930, con il titolo La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl, la quale rappresenta una delle prime opere che abbiano contribuito alla diffusione del pensiero di Husserl in Francia.8 «Uscire» ed «evadere» sono le parole-chiave del pensiero levinasiano che si dispone attorno ad esse per cercare di schiudere le serrature della filosofia occidentale ingabbiata nei catenacci dell’ontologia e della metafisica. Fin da De l’evasion, opera del 1935, Levinas getta le basi che troveranno ampio respiro nei testi successivi, mettendo fin da subito in luce tutto il peso dell’essere, essere dal quale occorre uscire, dal quale occorre, appunto, sulla scorta del titolo, evadere: «[…] l’evasione è il bisogno di uscire da se stessi, cioè spezzare l’incatenamento più radicale, più irremissibile, il fatto che moi è soi-même».9
L’esigenza di evasione del pensiero levinasiano riprende alcune categorie del pensiero ebraico che accomuna Levinas ad autori quali, ad esempio, M. Buber e F. Rosenzweig. Tale risveglio di nozioni come quelle dell’«esilio», dell’«erranza«, del «non-luogo» vuole, in un certo senso, ribadire il primato etico sulla dimensione teoretica e ontologica. Così Levinas oppone simbolicamente alla figura di Ulisse, incarnazione della razionalità occidentale, quella di Abramo, il quale guidato esclusivamente da una promessa, si affida all’erranza senza destinazione, ad un’uscita dalla propria terra come il passo di Genesi 12 — 1 rende esplicito: «esci dalla tua terra, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre e va dove io ti mostrerò». Ma, per la filosofia occidentale, qual è il senso di questa uscita? Questa uscita, quest’oltrepassamento, questo al di là, questa fine, questa evasione dall’essere è davvero possibile? E se sì, quali rischi comporta? Sono queste le domande che guidano, principalmente, il saggio derridiano del ’64. Non è un caso che Violenza e metafisica cominci proprio dalla messa in discussione della morte della filosofia, la quale rappresenta per certi versi il leitmotiv della filosofia contemporanea.
Che la filosofia sia morta ieri, dopo Hegel o Marx, Nietzsche o Heidegger — e la filosofia dovrebbe ancora errare verso il senso della sua morte — o che sia sempre vissuta sapendosi moribonda […]; che essa sia morta un giorno, nella storia […]; che al di là di questa morte e di questa mortalità della filosofia, e forse anche grazie ad esse, il pensiero abbia un avvenire o che, come oggi si asserisce, sia tutto ancora di là da venire […]; o in un modo ancora più strano, che l’avvenire stesso abbia in tal modo un avvenire, sono tutte interrogazioni alla quali non si può dare una risposta.10
D’accordo con Derrida, non si può dichiarare la morte della filosofia occidentale, poiché ogni tentativo, anche il più valido, lascia trasparire un’inevitabile partenza sul cammino tracciato da Ulisse, aprendo alla possibilità, o per meglio dire alla necessità, di compierlo di nuovo, di ripeterlo, di iterarlo, e garantendo in questo modo alla filosofia non solo ancora un avvenire, ma rivelando inconsapevolmente, nello stesso tempo in cui si cerca di nasconderla, una qualche incrollabile e inaspettata risorsa del logos greco. «Il miracolo greco non è questo o quello, non è in uno qualsiasi dei suoi risultati stupefacenti; è l’impossibilità per sempre, per qualsivoglia pensiero, di considerare i suoi saggi, secondo l’espressione di Giovanni Crisostomo, come saggi del fuori«.11È dunque da queste quinte che si dispiega la piéce messa in scena degli innumerevoli spunti di riflessioni proposti da Derrida in Violenza e metafisica che vengono filtrati neppure tanto velatamente dall’irruzione di personaggi come Husserl e Heidegger, co-protagonisti nella trama del saggio, il cui ruolo è ben definito: dopo Hegel, nella sua ombra immensa, le due grandi voci che nel Novecento hanno reso meglio la «ripetizione totale»,12 ossia il ricorso alla tradizione metafisica, appartengono a «quei due Greci che ancora sono Husserl e Heidegger».13 Nel proposito husserliano e heideggeriano di ritornare a Itaca, — anche se per vie assai differenti — alla fonte greca, per restituire alla secchezza del pensiero filosofico «ancora — già — l’elemento greco»,14 Levinas ritrova ancora la violenza contro l’alterità che si concretizza nella riduzione della relazione etica alle categorie teoretiche della metafisica occidentale. Il pensiero levinasiano vorrebbe così farsi portavoce, tramite un soffio specificamente ebraico, della possibilità di un rapporto non violento con l’infinitamente Altro, che si realizza nella dimensione etica del faccia a faccia col volto dell’Altro. La profondità delle analisi su cui preme Violenza e metafisica scava dunque il terreno di una tradizione (nella quale necessariamente dimora anche il pensiero di Levinas) il cui humus sembra consistere proprio in una certa connaturalità del discorso e della violenza.
Questa connaturalità del discorso e della violenza non ci sembra sia sopravvenuta nel corso della storia, né che sia collegata ad una certa forma della comunicazione, o ancora ad una certa «filosofia». Vorremmo mostrare qui che questa connaturalità appartiene all’essenza stessa della storia, della storicità trascendentale, nozione che non può essere qui intesa se non nell’eco di una parola comune — in un senso che sarebbe necessario chiarire meglio — a Hegel, Husserl e Heidegger.15
Derrida, inoltre, mette in risalto che l’intento perseguito dalla filosofia di Levinas è di sganciarsi dalla concettualità greco-occidentale, che subordina la relazione etica a quella ontologica, aspirando a superare quest’ultima attraverso la formulazione di un linguaggio che non sia più contaminato dal dominio dello Stesso sull’Altro. Ma è possibile ottenere questo risultato? È possibile, dunque, parlare un altro linguaggio? «Non intendiamo denunciare una incoerenza di linguaggio o una contraddizione di sistema. Vogliamo interrogarci sul senso di una necessità: quella di collocarsi nella concettualità tradizionale, per distruggerla».16Rimanendo, infatti, all’interno della logica metafisico-occidentale, che realizza il proprio sistema con le opposizioni, il pensiero di Levinas in Totalità e Infinito predica la possibilità di una pura differenza, intesa come trascendenza e separazione tra l’Altro e lo Stesso, attraverso la ripresa del primato ebraico dell’etica sull’ontologia, quest’ultima considerata sopraffazione e giustificazione di ogni oppressione violenta verso l’alterità. L’ultima nota di Violenza e metafisica che rimarca l’unione del «Jewgreek», riportando una citazione dall’Ulisse di Joyce,17 potrebbe indurre a pensare che per Derrida sia possibile una sintesi dei due poli sul modello dell’Aufhebung hegeliana. L’erranza desertica della decostruzione non si annuncia nella sintesi di un sistema, ma rileva la possibilità di vivere della e nella differenza tra il «greco» e l’«ebreo», per mezzo non di uno schema riconciliatore ma ribadendo la necessità di una contaminazione che può essere narrata con il taglio, l’incisione di una scrittura che si fa traccia, o meglio spaziatura tra il greco e l’ebreo. Chiave di volta, invero, per la lettura di Violenza e metafisica potrebbe essere proprio quella negazione del concetto di purezza in favore di un «riconoscimento della necessità logica della contaminazione».18
Siamo Ebrei? Siamo Greci? Noi viviamo nella differenza tra L’Ebreo e il Greco, che è forse l’unità di quella che chiamiamo storia. Viviamo nella e della differenza, cioè nell’ipocrisia, di cui Levinas così profondamente dice che è «non soltanto uno sgradevole difetto contingente dell’uomo, ma la lacerazione profonda di un mondo legato nello stesso tempo ai filosofi e ai profeti» (Totalità e Infinito).19
2. Un’evasione fallita? «Dire» altrimenti
Levinas non ha risposto esplicitamente e direttamente alle critiche derridiane del 1964 ma non per questo si può affermare che le abbia sottovalutate: anzi, si può sostenere che l’opera filosofica levinasiana continua proprio a partire dall’esigenza impellente di misurarsi con i problemi di fondo sollevati da Derrida alle tesi di Totalità e Infinito. Emerge a questo punto, dopo la requisitoria derridiana sull’impossibilità dell’abbandono del logos greco, la centralità che Levinas attribuisce nelle opere successive proprio al linguaggio, in risposta alle obiezioni rivoltegli: le critiche levinasiane all’ontologia sono svolte con il linguaggio e le categorie ontologiche, quindi come dire l’altro senza sottomettersi al linguaggio del detto del Medesimo? Altrimenti che essere o al di là dell’essenza potrebbe essere interpretato come il tentativo di una riorganizzazione del discorso svolto in Totalità e Infinito e tale riorganizzazione ruota principalmente proprio attorno alla questione del linguaggio e, più precisamente, alla possibilità di evitare adeguatamente il linguaggio ontologico: «Altrimenti che essere o al di là dell’essenza nel quale il linguaggio ontologico di cui si serve Totalità e Infinito è evitato».20
Se, dunque l’ontologia deve essere criticata, superata, e se questo superamento deve essere effettivo ed efficace, cioè in grado di non trattenere al suo interno scie di ciò che intende superare, allora è necessario che la critica diventi così radicale da liberare il linguaggio stesso dalle leggi del sistema ontologico, senza però consumarsi nel silenzio. Levinas sembra consapevole delle difficoltà ma non si sottrae in Altrimenti che essere al tentativo di delineare un altrimenti detto. La risposta alla domanda «come dire e pensare l’altro?» passa attraverso la presa di coscienza che il primo rapporto tra il Medesimo e l’Altro è il linguaggio.«Prendere coscienza di un essere significa dunque, per questo essere stesso, essere colto attraverso un’idealità a partire da un Detto. Anche un essere empirico individuale è avvicinato attraverso l’idealità del logos».21Ovviamente, si è inseriti in un pensiero che assume prioritariamente il linguaggio anche se non nel senso della filosofia analitica anglosassone o dell’ermeneutica gadameriana: la «filosofia del linguaggio» di Levinas, strettamente legata allo sforzo di garantire il riconoscimento etico dell’altro e di dare spazio al molteplice contro ogni riduzione ad unità, introduce categorie originali, già notate in Totalità e Infinito, come quelle di «volto», «faccia a faccia», «prossimità». Da questo punto di vista non si tratta nemmeno più di opporre dialetticamente l’Altro allo Stesso, l’Infinito alla Totalità, l’esteriorità all’interiorità, Abramo ad Ulisse, poiché il lessico dell’altrimenti che essere non è quello dell’opposizione ontologica, ma quello dell’immediatezza: «esasperazione», «sofferenza», «dolore», «pelle», «lacerazione», si potrebbe dire, linguaggio delle passioni. Proprio attraverso questo passaggio è possibile intravedere il senso della riorganizzazione tentata da Levinas in Altrimenti che essere al suo livello più profondo, ed è necessario soffermarsi proprio sul lessico e sul gesto stilistico dell’opera del ’74. Rinunciando al linguaggio del logos tradizionale dell’identificazione, Levinas rintraccia in quel Dire che precede ogni mediazione, il linguaggio altro, il parlare altrimenti, tentando non solo di dire la trascendenza in modo adeguato, ma di delineare un linguaggio etico, un dire la responsabilità, che si mostra come iperbole della passività. La difficile chiarificazione del «Dire originario» come senso primo che precede il linguaggio si appoggia sulla sua connotazione etica e, dunque, il compito della filosofia prima, come sua più intima vocazione, è per Levinas risalire dal detto verso il Dire che lo anima e possiede senso prima di tale correlazione.
Il Dire indicibile si presta al Detto, all’indiscrezione ancillare del linguaggio abusivo che divulga e profana l’indicibile, ma si lascia ridurre senza cancellare l’indicibile nell’ambiguità o nell’enigma del trascendente in cui lo spirito ansante trattiene una eco che si allontana.22
Il linguaggio è anche significanza della significazione: la significazione non si esaurisce nel Detto ma significa nel Dire, facendo in modo che questa eccedenza del linguaggio nel Dire, non permetta la coincidenza del significante col significato ma sia espressione dell’etero-nomia del Detto.In Altrimenti che essere, il linguaggio si configura, in primo luogo, come presentazione dell’altro, e questa preliminare valenza della presenza dell’altro nel linguaggio è da intendersi come interpellanza, nel genere del vocativo, permettendo così alle nozioni di essere, ente, esistenza e esistente, come anche di verbo e nome, ossia, in definitiva, alla complessità del nostro linguaggio, quell’intima complicità con l’interpellanza, con la domanda di contatto, ossia con la richiesta della presenza dell’altro che chiama alla responsabilità nella forma di un coinvolgimento non scelto volontariamente dal soggetto.
Il Medesimo ha a che fare con Altri ancor prima che — a qualunque titolo — l’altro appaia a una coscienza. La soggettività è strutturata come l’altro nel Medesimo, ma secondo una modalità diversa da quella della coscienza… La soggettività è l’Altro nel Medesimo secondo una modalità diversa da quella della presenza degli interlocutori, l’uno all’altro, in un dialogo in cui essi sono in pace e in accordo l’uno con l’altro. L’Altro nel Medesimo della soggettività è l’inquietudine del Medesimo inquietato dall’Altro… Il nodo annodato in soggettività — che nella soggettività divenuta coscienza dell’essere si testimonia ancora nell’interrogazione — significa una fedeltà del Medesimo all’Altro, prima di ogni coscienza, significa un’affezione per l’Altro che io non conosco e che non potrebbe giustificare alcuna identità e che non si identificherà, in quanto Altro, a niente.23
Questa prossimità dell’Altro nel Medesimo si concretizza come responsabilità, come contatto che, a sua volta, si realizza nel linguaggio, il quale esprime eticamente una significazione che non è tematizzata nei suoi segni ma acquisisce valore dal suo trascenderli: il linguaggio nella sua letteralità, dunque, convoca l’altro e non si limita solo a rappresentarlo, ma mantiene la distanza nella sua consistenza metaforica, per la quale tra (n) s-porta oltre. Lo spazio del linguaggio è, dunque, per se stesso metaforico, (meta-pherein), è altro. I luoghi della retorica (topoi), le figure del linguaggio, sono già letteralmente oltre i luoghi in cui giacciono le cose di cui attraverso di essi si parla. Ed è, forse, questa la ragione per la quale lo stile di Altrimenti che essere al di là dell’essenza, si colora di tropi, ovvero di figure retoriche, che possano rendere esplicito questa potenza del linguaggio che porta con sé, già nel detto, un «altrimenti detto». Anche Derrida, in un passo di Violenza e metafisica, evoca, come farà poi propriamente in Mythologie blanche24 del 1971, questa natura metaforica del linguaggio:
Che si debba dire nel linguaggio della totalità l’eccesso dell’infinito sulla totalità, che si debba dire l’altro nel linguaggio dello Stesso, che si debba pensare la vera esteriorità come non-esteriorità, cioè ancora nella struttura Dentro-Fuori e la metafora spaziale, che si debba abitare la metafora in rovina, vestirsi con i brandelli della tradizione e con gli stracci del diavolo, questo significa forse che non c’è logos filosofico che non debba innanzitutto lasciarsi espatriare nella struttura Dentro-Fuori. Questa deportazione dal proprio luogo verso il Luogo, verso la località spaziale, questa metafora gli sarebbe congenita.25
Si tratta precisamente di cercare in Altrimenti che essere, non tanto le parole adeguate per esprimere l’alterità, quanto piuttosto di rintracciare i temi che siano in grado di testimoniare, senza troppo tradirla, l’immediatezza e la concretezza del manifestarsi di questa alterità nell’epifania del volto.
3.La figura della sostituzione: etica e significazione
Il nucleo di Altrimenti che essere è espresso nelle riflessioni che, nel quarto capitolo, Levinas dedica al tema della sostituzione, punto in cui l’itinerario levinasiano sembra giungere al suo esito ultimo. La maggior parte di questo capitolo era già comparsa nel 1968 nella con il titolo di «La Substitution», ma è lo stesso Levinas che, respingendo l’idea secondo cui fosse solo una raccolta di articoli, nella «Nota preliminare», precisa che il libro in questione ha preceduto nella sua prima redazione i testi pubblicati e che proprio il capitolo quarto ne costituisce la parte centrale. La sostituzione rappresenta la vera risposta alla domanda sull’autenticità dell’umano, e infatti è in essa che la soggettività ritrova il suo senso ultimo: se in venivano individuati possibilità e limiti di una trascendenza verso cui il soggetto era in tensione, in la stessa trascendenza, situandosi nel cuore dell’umano, diviene fonte generatrice di senso capace di trasformare la soggettività in struttura etica.
«Prossimità», «responsabilità» e «sostituzione», sono le tre nozioni fondamentali attraverso cui si delinea la concezione levinasiana dell’alterità nel testo del 1974: il percorso che le tre nozioni prospettano asseconda il movimento di un pensiero capace di pensare al di là di ciò che esso può contenere nelle categorie tradizionali di sapere, verità ed essere. Per questo, Levinas tende a caratterizzare queste nozioni come etiche e bisogna quindi, in primo luogo, tener conto di questa accezione, direttamente precisata con estrema chiarezza, in particolar modo, in una nota di Linguaggio e prossimità:
Chiamiamo etica una relazione in cui i termini non siano uniti da una sintesi dell’intelletto, né dalla relazione tra il soggetto e l’oggetto e in cui, tuttavia, un termine pesi, o sia importante, o abbia significato per l’altro, i cui termini siano legati da un intrigo non esauribile né districabile dal sapere.26
Ora, è proprio la nozione di «sostituzione» che possiede la funzione di specificare il senso del carattere etico di questa relazione con l’alterità, la quale mi intrica senza che «io» possa fare nulla, un’alterità a cui non posso sottrarmi e che passivamente subisco.
In Totalità e infinito, era già emerso che il movimento dell’identificazione che giunge al culmine con il godimento non era in grado di cogliere intimamente la significazione del volto. Nella struttura della sostituzione etica descritta in Altrimenti che essere, invece, si presenta ciò che Levinas chiama propriamente responsabilità.
La responsabilità per autrui non è l’accidente che raggiunge il Soggetto, ma precede in lui l’Essence, non ha atteso la libertà dove sarebbe stato preso l’impegno per autrui. Io non ho fatto niente e sono stato sempre in causa: perseguitato. L’ipseità nella sua passività senza archè dell’identità, è ostaggio. Il termine Io significa eccomi, rispendente di tutto e di tutti. […] La responsabilità nell’ossessione è una responsabilità dell’io per ciò che l’io non aveva voluto, vale a dire per gli altri. […] L’Altro nel Medesimo è la mia sostituzione all’altro secondo la responsabilità, grazie alla quale, insostituibile, io sono assegnato.27
Dunque, bisogna pensare ad un’alterità nel Medesimo, in cui l’Io diviene costitutivamente e inevitabilmente altro; la soggettività è propriamente sostituzione: là dove il godimento era economia e appropriazione, la sostituzione è la posizione stessa, intima e mistica, della molteplicità a cui tutta la riflessione levinasiana tende a dar spazio attraverso la nozione di «esteriorità» che, a sua volta, in Altrimenti che essere diventa sinonimo di significazione. Forse, il passaggio ad Altrimenti che essere non si comprende appieno se si tralasciano le osservazioni che, nella lucida ricostruzione del pensiero levinasiano nel saggio Violenza e metafisica, Derrida espone per chiarire e discutere alcune problematicità che rendono difficilmente sostenibile il pensiero levinasiano dell’alterità, soprattutto se confrontato con l’alter-ego della Quinta Meditazione cartesiana di Husserl: «l’Altro non può essere assolutamente esterno […] allo stesso, senza smettere di essere altro e che, di conseguenza, lo stesso non è una totalità chiusa su di sé, una identità che gioca con sé, con la sola apparenza dell’alterità […]».28Sulla base di queste osservazioni, in Altrimenti che essere, Levinas coglie allora la soggettività come sostituzione all’altro. Sebbene il filosofo lituano non faccia menzione del saggio di Derrida, è innegabile l’influenza che quest’ultimo ha avuto nella stesura di questo testo: questo spiegherebbe, anche il cambiamento di linguaggio che intercorre tra Totalità e infinito e Altrimenti che essere, come il rafforzamento di alcune formulazioni e l’utilizzo di espressioni iperboliche.
Riconoscere nella soggettività un’eccezione che guasta la congiunzione dell’essenza, dell’essente e della «differenza»; percepire nella sostanzialità del soggetto, nel duro nucleo dell’»unico» in me, nella mia identità spaiata, la sostituzione all’altro; pensare questa abnegazione, come un’esposizione […].29
Non si è più al cospetto di un movimento che da me va verso l’altro ma è l’altro nella sua estrema esteriorità, che penetra nello stesso e va a colpire il suo nucleo fino a farlo esplodere. Qui nessuna identità è più qui accettata, nessun punto d’appoggio, ma avviene un’inversione che tramuta l’identità in un esilio in sé : nelle forme di un Io anacronisticamente sempre in ritardo, l’altro lo interrompe, lo ossessiona, lo incarna. Incarnazione, senza che questo termine richiami il concetto teologico-cristiano ma incarnazione intasa come ciò che germoglia già sotto la pelle, nello strato più profondo, come esposizione della carne.
Irriducibile alla coscienza, anche se essa lo sconvolge […] l’ossessione attraversa la coscienza controcorrente, iscrivendosi in essa come un’estranea: come squilibrio, come delirio, che si sbarazza della tematizzazione, sottraendosi al principio, all’origine, alla volontà, all’archè che si produce in tutto il bagliore della coscienza.30
È possibile, allora, sottolineare che la sostituzione si configura come il prodursi dell’esteriorità vera, la quale non è da intendersi come un accidente da recuperare in una totalità indifferenziata ma come produzione della molteplicità, come volto. È noto che il pensiero di Levinas riguardo alla molteplicità sia complice dell’idea di creazione: sopprimere il molteplice o vedervi in esso solo un accidente di un intero, significherebbe misconoscere e chiudersi davanti alla diversità che il volto dell’Altro, il quale somiglia a Dionella sua nudità ed espressione, in quanto traccia ci invita a riconoscere.In Altrimenti che essere, la significazione sembra imporsi come l’evento stesso dell’esteriorità del volto31, ma ancor più incisivamente si legge in Nomi propri del 1976:
Il segno, come Dire, è l’avvenimento extra-ordinario, in contro corrente alla presenza, dell’esposizione ad altri, della soggezione ad Autrui, vale a dire l’avvenimento della soggettività. Esso è l’un-per-l’altro. È la significazione che non si esaurisce in semplice assenza d’intuizione e di presenza. […] Noi domandiamo: da dove viene il segno di cui è fatta la presenza che manca a se stessa o la diacronia non ammissibile di cui è fatta la creatura? […] Sostituzione, supplenza, l’uno-per-l’altro, non è forse, nella sua decisiva sospensione del per sé, il per-altro della mia responsabilità per autrui? La differenza tra lo Stesso e l’Altro è la non indifferenza per l’altro della fraternità.32
Si è in grado ora di tornare con ben altra consapevolezza al tema che intreccia linguaggio, significazione e senso, ossia al volto levinasiano, in termini di incarnazione, come «essere-nella-sua-pelle», come avere l’altro nella propria pelle. Bisogna «essere-per-l’altro» affinché il senso si manifesti: questo essere-per precede ogni tematizzazione e, soprattutto, nell’«essere-per» le cose significano; «senza la prossimità d’autrui nel suo volto, tutto s’assorbe, s’affonda, si mura nell’essere, se ne va dalla stessa parte, tutto forma un tutto, assorbendo il soggetto stesso al quale si svela».33«Etica» e «significazione», due termini che nella filosofia di Levinas sembrano richiamarsi e così definirla: una filosofia in cui l’etica garantisce la solidità della significazione, annodandola alla concretezza del volto.
Sostituzione-significazione. Non rinvio di un termine all’altro- così come viene tematizzato nel Detto- ma sostituzione come soggettività stessa del soggetto, interruzione dell’identità irreversibile all’interno dell’incarico che mi incombe senza possibilità di rinuncia […].34
In Altrimenti che essere al di là dell’essenza, i temi dell’immediato e del concreto, quali quelli rinvenuti da Levinas sin da Totalità e infinito, vengono ora rimodulati e adeguati alla logica dell’immediatezza, di una pratica di pensiero che non neutralizzi ma anzi solleciti il pensiero e la significazione al dì fuori della staticità e della misura del detto della filosofia tradizionale, fino a giungere alla nozione di responsabilità per Altri.
La soggettività del soggetto è la responsabilità o l’essere in questione sottoforma di esposizione totale all’offesa, nella guancia tesa verso colui che percuote. Responsabilità anteriore al dialogo, allo scambio di domande e risposte […] La ricorrenza del sé nella responsabilità-per-altri, ossessione persecutrice, va al contrario dell’intenzionalità, tanto che la responsabilità per gli altri non potrebbe mai significare volontà altruistica […] È nella passività dell’ossessione — o incarnata- che un’identità s’individua come unica, senza ricorrere a nessun sistema di riferimento, nell’impossibilità di sottrarsi senza carenza alla convocazione dell’altro […] sotto l’accusa di tutti, la responsabilità per tutti arriva fino alla sostituzione. Il soggetto è ostaggio:35
La soggettività del soggetto è dunque originariamente etica, nel senso che risponde e obbedisce all’imperativo di responsabilità come un’esposizione all’altro involontaria (forse si potrebbe dire creaturale) poiché anteriore all’iniziativa della volontà.36 È, in altri termini, proprio in questa stessa mancanza di libertà del soggetto, che Levinas vede quella immediatezza imposta dall’etica, luogo della significanza dell’immediatezza del volto dell’altro, prima e al di là di ogni possibile mediazione. Dunque, volendo spingere l’argomentazione verso un passo ulteriore, Levinas affronta, qui, direttamente il rapporto tra immediatezza del volto e del Dire nell’etica e mediazione del logos e del Detto nella filosofia, mettendo in discussione più che la mediazione del logos in se stessa il suo primato.
[…] Perché sapere? Perché problema? Perché filosofia? […] Se la prossimità mi ordinasse solo ad altri nella solitudine, «non ci sarebbe stato problema»- in nessun senso, neanche il più generale del termine. […] La responsabilità per l’altro è un’immediatezza anteriore alla questione: precisamente prossimità. Essa è turbata e diviene problema a partire dall’entrata del terzo.37
4.La traccia dell’interruzione, il segreto e il tutt’altro
Inscrivere il tutt’altro nell’impero del medesimo […] Secondo me è la sua risposta; e questa risposta di fatto, per così dire, questa risposta in atto, in opera […] questa risposta non risponde ad un problema o ad una domanda, risponde all’Altro-per-l’Altro e abborda la scrittura disponendosi a questo Altro. È a partire dall’Altro che la scrittura dà luogo e fa evento, inventa l’evento, per esempio questo «Egli avrà obbligato».38
Dopo Violenza e metafisica, Derrida torna nel 1980 ad occuparsi di Levinas, misurandosi direttamente con il testo di Altrimenti che essere al di là dell’essenza, la cui:
singolare locuzione comparativa non costituisce frase, un avverbio (altrimenti) prevale oltre misura su un verbo (e che verbo: essere) per dire un «altro» che non può costituire, e nemmeno modificare, un nome o un verbo, né questo nome-verbo che ritorna sempre ad essere, per dire un «altro» che non è né aggettivo né nome soprattutto con la semplice alterità che metterebbe di nuovo l’altrimenti, questa modalità senza sostanza, sotto l’autorità di una certa categoria, di un’essenza, di un essere ancora. L’Al di là […], quest’al di là lascia una catena di tracce, un’altra symplokè, già «nel» titolo, al di là dell’essenza, senza tuttavia lasciarvi includere, piuttosto deformando, la curvatura dei suoi bordi naturali.39
Il saggio derridiano del 1980 è, dunque, dedicato alle nuove sfide che Altrimenti che essere di Emmanuel Levinas propone, permettendo a Jacques Derrida di mettere in campo aspetti cardini dei suoi scritti, introducendoci ad essi in una maniera davvero particolare. Sembra che lo scritto derridiano fotografi i termini di un colloquio — su particolari temi messi in opera in Altrimenti che essere — tra l’autore e un interlocutore anonimo ma chiaramente dai tratti femminili, il quale farà esplicitamente irruzione e interromperà il testo in un momento specifico. Ma la sua partecipazione alla trama dello scritto è fin dall’inizio un intervento determinante: «mi lascio dettare da te ciò che ti vorrei dare di me stesso».40 È forse in tal modo che Derrida lascia entrare nel testo le concezioni levinasiane di prossimità e sostituzione legate al tema del dono e della scrittura, nozioni centrali che edificano il rapporto chiasmatico tra Levinas e Derrida.
La prossimità è letteralmente qualcosa di sconcertante poiché rimane un contatto senza contatto con l’altro che però in questo modo mi assoggetta e mi detta quello che desidero dirgli e dargli. Dare viene qui ad assumere un nuovo significato poiché all’interno della logica della prossimità si instaura non più una dialettica della restituzione e del debito, ancorata alla circolarità del dono, ma dell’ingratitudine assoluta.
Dunque, «niente è più difficile che accettare un dono»41 nella logica della prossimità, dal momento che se si restituisce si è immancabilmente manchevoli. Pertanto, è nell’ingratitudine più radicale, confessa Derrida alla sua interlocutrice, che si assume il rischio e allo stesso tempo la chance di questa mancanza42 cercare di ri-dare nell’ingratitudine43 e consegnare ad un scritto manchevole il dare stesso senza presente, o meglio il «presente» dell’«eccomi» attraverso la scrittura. È l’«eccomi» levinasiano, che struttura la soggettività in Altrimenti che essere a far posto senza sede ad una sorta di «agrammaticalità del dono»: un’io all’accusativo. Inoltre, «eccomi» registra nel testo levinasiano, oltre ad un’estradizione della soggettività consegnata all’altro, una citazione biblica.44 Questa «citazione-presente» diventa per Derrida l’occasione di riflettere sulla funzione essenziale della citazionalità come struttura principale di ogni scritto e discorso. Una citazione, infatti, marca la presenza dell’altro nel testo come traccia che interrompe la lingua disegnando la legge di una negoziazione inscritta come necessaria nella lingua stessa del medesimo. La negoziazione passa inevitabilmente attraverso l’uso del linguaggio, indispensabile e necessario mezzo che permette all’Altro, in modo concreto, non solo di farsi levinasianamente volto, ma anche di rompere con un silenzio, che come viene evidenziato in Violenza e metafisica, corrisponde alla violenza più grave.
Il passaggio al di là della lingua richiede la lingua o piuttosto il testo come luogo delle tracce per un passo che non è (presente) altrove. […] (il logos) rimane indispensabile come piega che si piega al dono, e come la lingua della mia bocca quando ne tiro via il pane per darlo all’altro. È anche il mio corpo.45
Il corpo di un testo manchevole ha quindi luogo grazie ad una certa negoziazione insita nel linguaggio che costringe, dunque, la lingua stessa a cont (r) attare con l’estraneo, «con ciò che essa può solo incorporare senza assimilarselo».46 In definitiva, quindi, un testo è la marca della necessità di una «strettura» che concatena i momenti di una seriatura, mettendo così in pratica una metaforicità di fili annodati in una texiture, una tela che racconta l’interruzione come relazione tra il medesimo e l’altro nella forma di un récit: attraverso la citazionalità, il logos filosofico (re) cita e si riappropria nella tessitura di un testo e di uno scritto della storia di tutte le sue rotture proprio nel medesimo momento in cui si interrompe.47
(Levinas) ama evidentemente la lacerazione, ma detesta la contaminazione. Ora, ciò che mantiene la sua scrittura in esercizio è il fatto che bisogna accogliere la contaminazione, concatenando le lacerazioni, riprendendole regolarmente nel tessuto o nel testo filosofico di un racconto […] . Bisogna accettare regolarmente (in serie) il rischio della contaminazione per lasciare una possibilità alla non-contaminazione dell’altro da parte della regola dello stesso.48
Alla proposta del saggio del 1964 di una economia della violenza, corrisponde qui l’idea di un rischio della negoziazione obbligata insita nel linguaggio. «Egli avrà obbligato», queste le tre parole che risuonano e danno il taglio dell’intero saggio derridiano del 1980. In questa frase senza soggetto nominabile, senza passato né avvenire ma nel medesimo momento, si avverte dal di dentro della frase stessa che essa deborda infinitamente. L’«Egli» avrà immemorabilmente obbligato prima ancora di chiamarsi con qualsiasi nome. A che cosa «avrà obbligato»? Alla risposta: rispondere all’altro come passato che non sarà mai presente, «è» questa la responsabilità che mette in movimento il linguaggio. Non ci sarebbe linguaggio senza questa responsabilità etica.
Il va e vieni silenzioso di domanda e risposta, col quale Platone caratterizza il pensiero, si riferisce già ad un intrigo in cui si annoda — dall’Altro che comanda il Medesimo — il nodo della soggettività, perfino quando, rivolto verso l’essere nella sua manifestazione, il pensiero conosce se stesso. Il domandarsi e l’interrogarsi non sciolgono la torsione del Medesimo e dell’Altro come soggettività, ma rinviano ad essa. Intrigo dell’Altro e del Medesimo che non riconduce ad una apertura dell’Altro al Medesimo. L’altri a cui si rivolge la domanda della questione non appartiene alla sfera intelligibile da esplorare. Esso si mantiene nella prossimità. È a questo livello che la quis-sità del chi si sradica dalla quiddità ontologica del che cosa ricercato che orienta la ricerca.49
Il medesimo che vuole ricostruire il continuum della sua storia, intessendo la sua tela, sarà obbligato dall’altro a negoziare con l’interruzione, prima ancora di produrre il discorso della totalizzazione in questo medesimo momento, ossia nella «forma avviluppante, la tela di un testo che riprende senza posa in sé tutte le lacerazioni».50 È qui che si intrecciano propriamente etica e significazione; l’anticipo del momento responsabile e differenziale dell’interruzione è debordante rispetto al momento dialettico che pretende di ricucire il tutto del linguaggio.
Nella pratica stessa della sua scrittura, Levinas mette all’opera l’alterità ancor prima che diventi l’oggetto della sua opera e Derrida fa proprio leva, infatti, sull’esercizio di scrittura levinasiano di Altrimenti che essere, elogiandone la composizione testuale: «quasi sempre, ecco come egli fabbrica la sua opera: interrompendo il tessuto del nostro linguaggio e intessendo in seguito le interruzioni stesse, un altro linguaggio viene a sconvolgere questo. Esso non lo abita, lo ossessiona».51Strategia della lacerazione che la scrittura in generale mette in opera, tendendo spontaneamente a mettere fine all’autorità del Detto, del tematico, del dialettico, del medesimo, dell’economico, e immediatamente si muove verso l’Altro sempre già in atto:52
Che tagli o che riannodi, il discorso della filosofia, della medicina o dello Stato conserva suo malgrado la traccia dell’interruzione.53
L’involucro del testo è lacerato in anticipo e la ricucitura è in ritardo rispetto all’interruzione: in questo medesimo momento, la scrittura diventa così (tentando ancora una possibile decifrazione di questa dicitura) lo spazio della relazione tra il racconto dialettico dell’altro e l’anticipo della responsabilità, «fissione dell’io fino a me».^[54]«Nella presente opera si è allora presentato l’impresentabile […] La presente opera fa presente di ciò che può essere dato solo fuori dal libro».54È forse questo il segreto che attraversa l’accadere storico di ogni produzione segnica o iscrizione, segreto del concetto stesso di opera. L’insaturabilità dell’opera è, dunque, il suo segreto come eccedenza sempre celata, nascosta. È qui che si incrocia l’idea di resto della scrittura, del testo, del senso: resto che resiste, «res (is) tance», alle regole teoriche di composizione di uno scritto. Scrivere è una risposta pratica, etica, un certo modo di intrecciare il Dire al Detto: scrivendo, il Detto si presenta (come «presente», come dono) in nome di un Dire che lo deborda nell’anacronia assoluta di un tutt’altro, che per quanto incommensurabilmente eterogeneo alla lingua del «presente» e del discorso del medesimo, vi lascia pur tuttavia una traccia. Ma lasciar-la significa cancellarla e, qui lasciare «si fa carico di tutto l’enigma».55 «Fare opera» e «lasciar traccia» sono due azioni analoghe: l’opera (œuvre) che fa opera, cioè che è all’opera (ouvrage — ouvragée),56 lo fa nel ri-tirarsi del soggetto dell’operazione. La domanda che il testo derridiano del 1980 rilancia al Levinas di Altrimenti che essere sembra comporsi, allora, in questi termini:
Come scrive, quindi? Come ciò che scrive fa opera e Opera nell’opera? Cosa fa, per esempio e in modo eminente, quando scrive al presente, nella forma grammaticale del presente, per dire ciò che si presenta e non sarà mai stato presente, in quanto il (cosid) detto presente non si presenta che in nome di un Dire che lo deborda, al di fuori e al di dentro, infinitamente, come una sorta di anacronia assoluta, quella di un tutt’altro, che per quanto eterogeneo alla lingua del presente e del discorso del medesimo, vi lascia pur tuttavia una traccia: sempre improbabile ma ogni volta determinata, questa e non un’altra? Come fa a inscrivere o lasciarsi inscrivere il tutt’altro nella medesima lingua dell’essere, del presente, dell’essenza, del medesimo, dell’economia, ecc., nella sua sintassi e nel suo lessico, sotto la sua legge?57
Legato alla scrittura è, allora, il tema del tutt’altro, il quale si (im) pone, ribadendo nello stesso momento del suo imporsi sia l’impossibilità di uno spazio e di un tempo capaci di raccoglierlo, sia la possibilità di un ripensamento dello stesso spazio e tempo come, rispettivamente, traccia e assenza.Diviene più palese, allora anche cosa per Derrida significa accostarsi ad un’opera «letteraria»: leggere un testo non significa dunque affrettarsi a coglierne il contenuto ma accostarlo, appunto, porsi sui bordi, su quel bordo o orlo che è la scrittura stessa, dislocandosi verso l’Altro, in un movimento eteronomo e non circolare, ossia sottratto alla reciprocità sincronica del prodotto-produttore dello scritto: «l’opera lascia il medesimo per non farvi ritorno; e perciò l’altro che lo inventa».58 Ancor di più, è opportuno rimarcare che questa «invenzione» è affidata alla lettura: quest’ultima non è solo una lettura che decifra: come la scrittura, «essa ha un’iniziativa etica senza limiti»,59 ma in quanto gesto etico è anch’essa legata al «laccio dell’obbligo»:60 «sei l’autore del testo che qui leggi, certo, ma rimani nell’eteronomia assoluta: sei responsabile dell’altro — che ti rende responsabile».61Dunque, Altrimenti che essere al di là dell’essenza viene individuata da Derrida come lo scritto in cui si impone la presenza del tutt’altro che investe il soggetto nella sua presunta archia, nel suo presunto potere. La relazione che così viene a configurarsi tra il medesimo, l’altro e il tutt’altro, se per Levinas si orienta nei termini di una trascendenza, per Derrida si tratteggia come relazione differenziale: l’altro al di là del tutto, al di là di ogni possibile differenza, compresa quella sessuale, urta il soggetto stesso poiché svuota il suo presentarsi, al pari della traccia. Il nome del «tutt’altro», nozione centrale nel pensiero derridiano, è la cripta che ossessiona e assilla con il suo segreto, il quale porta con sé l’impossibilità della sua totale decifrazione e insieme la possibilità della sua traduzione.62 Nell’espressione «Egli avrà obbligato», dunque, «Egli» si caratterizza come pro-nome del tutt’altro pronto ad ogni sostituzione ma mai anonimo. «Egli», già da sempre passato, avrà però trascinato verso un’escatologia: l’anteriorità futura dell’«Egli» designa l’intreccio della «paradossia logica» che per-forma la fissione dall’economia del medesimo alla responsabilità dell’«eccomi»: «Egli» sottoscrive ogni firma e quindi è «Egli» come tutt’altro che fa l’opera nell’opera di E. L.
È a questo punto, sul finire, che l’interlocutrice interrompe il testo che finora sembra aver dettato per l’effetto della reciprocità della scrittura e della lettura e per l’anteriorità futura del tutt’altro che si è cercata di descrivere. Irrompe nella tessitura palesemente e la lacera creandosi un’asola, un passaggio che rilancia una inquietante provocazione, come ogni provocazione del tutt’altro. «— Sapevo. Ascoltando, mi chiedevo tuttavia si io ero compresa e come fissare questa parola: compresa».63Il pungolo è lampante e insieme fastidioso: esso riguarda il tema levinasiano dell’alterità che viene ora declinato all’interno della problematica della differenza sessuale. Alcune pagine di Totalità e infinito sulla Fecondità e sul rapporto padre — figlio, che trovano analogia nel rapporto autore — opera, danno spunto per introdurre la secondarizzazione della differenza sessuale, e dunque l’indifferenza di quest’ultima, nel pensiero di Levinas in riferimento al tutt’altro. In queste pagine, «il figlio» viene definito come al di là della «mia opera», caratterizzandosi come un’Opera con la maiuscola, poiché il figlio è «movimento senza ritorno verso l’altro al di là dell’opera».64 Ma:
Perché «figlio» sarebbe più o meglio della «figlia» (fille), di me, Opera al di là della «mia opera». Se non ci fosse ancora differenza da questo punto di vista, perché «figlio» rappresenterebbe meglio e prioritariamente questa indifferenza? Questa indifferenza non marcata?65
«Egli» è sessualmente non marcato, o meglio pre-differenziale, eppure «Egli», questo tutt’altro desessualizzato dice la differenza tra il medesimo, ossia il vir come soggetto filosofico per eccellenza e l’altro come femminilità, come donna. L’effetto di secondarizzazione diventerebbe allora la causa di un tutt’altro non più sessualmente neutro ma determinato come «Egli», al maschile. Da molti scritti levinasiani, è possibile rilevare — come fa R. Ronchi — che il femminile è una categoria dell’essere, dunque, ontologica66 eppure ci si potrebbe chiedere, come l’interlocutrice del saggio derridiano, se Levinas comprende la, femminilità contro una tradizione che gli avrebbe rifiutato tale dignità ontologica o se, più che mai, si ripete in questa stessa tradizione. Per comprendere meglio la portata di questa provocazione intessuta nel testo di En ce moment même, dans cette ouvrage me voici, è opportuno ripercorrere alcuni aspetti della caratterizzazione dell’alterità al femminile e del valore della relazione erotica tra il medesimo e l’altro come femminile nel pensiero levinasiano. A partire da Totalità e infinito, la relazione erotica ha il vantaggio di legare il soggetto (maschile) ad un ente il cui modo d’essere è il nascondersi, rifiutandosi all’orizzonte temporale della presenza del presente: la concezione della verginità e la sua profanazione è proporzionale all’inaccessibilità del suo segreto; «il nascosto — mai abbastanza nascosto — è al di là del personale ed è come il suo rovescio, refrattario alla luce, categoria esterna al gioco dell’essere e del nulla, al di là del possibile, in quanto assolutamente inafferrabile».67Il carattere di eccezionalità della relazione erotica è dato, allora, dalla possibilità di misurarsi con un mistero. L’eros permette di pensare la relazione con il mistero in un faccia a faccia paradossale con ciò che strutturalmente si sottrae: il volto del femminile, il suo sguardo, come gli occhi di Medusa, affascinano e impietriscono; ricambiare tale sguardo significa irrimediabilmente incontrare l’impenetrabile, l’assente, l’altro.
Il Femminile essenzialmente violabile ed inviolabile, «l’Eterno Femminino» è il vergine o continua ripresa della verginità, […] una fragilità al limite del non-essere; del non-essere in cui non trova un luogo soltanto ciò che si estingue e non è più, ma ciò che non è ancora. La vergine resta incomprensibile, muore senza omicidio, va in estasi, si ritira nel suo avvenire, al di là di ogni possibile promessa all’anticipazione.68
Tali considerazioni inducono a pensare che l’erotismo possa allora essere considerato come il prototipo del rapporto con l’altro, che eccede il potere del medesimo e dello stesso. La relazione etica tra il medesimo, l’altro e il tutt’altro allora si declina al femminile?69 In realtà, secondo Levinas, una sfumatura sottile ma capitale separa l’autentica relazione etica dalla sua impura simulazione erotica. «Nel volto femminile, la purezza dell’espressione è già turbata dall’equivoco del voluttuoso. L’espressione si muta in indecenza, già assolutamente vicina all’equivoco che dice mano di niente, già riso e beffa».70 Il faccia a faccia con il volto meduseo dell’amata, se rimane confinato nell’ambito della sola passione voluttuosa, diventa una perversione della relazione etica e il suo ingannevole simulacro. Il desiderio come «patetico» dell’erotico, è autentico desiderio solo se ha come termine il figlio e, dunque, solo nella dimensione della fecondità, esso si fa segno di trascendenza.
A fianco della notte come ronzio anonimo del c’è, si apre la notte dell’erotico, dietro la notte del nascosto, del clandestino, del misterioso, patria del vergine, che nello stesso tempo, è scoperto dall’Eros e sfugge all’Eros- per esprimere in modo diverso la profanazione.71
Nell’economia del pensiero levinasiano, dunque, l’epifania del volto femminile rappresenta un’esibizionistica nudità di un corpo che si offre alla carezza72 imitando, non senza scandalo, l’autentica trascendenza etica. L’erotico, dunque, nel volto femminile, al pari del poetico, del mistico e del sacro, rischia di sviare il virile amante dal suo cammino, mostrandogli un fantasma sterile della trascendenza etica.
In questa inversione del volto da parte della femminilità-in questa sfigurazione che si riferisce al volto- la non significanza si situa nella significanza del volto. Questa presenza della non significanza nella non-significanza del volto […] è l’evento originario della bellezza del femminile, di questo senso eminente che la bellezza prende nel femminile, e che però l’artista dovrà mutare in «grazia senza pesantezza» ricavandola dalla materia fredda del colore e della pietra […] . Ogni opera d’arte è quadro e statua, immobilizzati nell’istante o nel suo ritorno periodico. La poesia sostituisce un ritmo alla vita femminile. La bellezza diventa una forma che investe la materia indifferente e che non nasconde un mistero.73
Spostando lo sguardo ad altri scritti levinasiani come ad esempio, «Il Giudaismo e il femminile»74 in Difficile Libertà o «E Dio creò la donna»75 in Dal Sacro al Santo, che si inscrivono nella tradizione del commento alle Sacre Scritture, Levinas illustra i momenti in cui la donna è «grammaticalmente seconda all’uomo»;76 mentre viene affermata un’identità di natura tra l’uomo e la donna, viene anche sottolineata una subordinazione a livello della sessualità: una certa preminenza dell’uomo e una donna venuta «dopo», più tardi e in quanto donna un’appendice dell’umano.77 Quando Levinas si concede tali dichiarazioni lo fa, come si è detto, nel genere del commento. Ma le distanze dal commento non è mai così neutra: la posizione del commentatore corrisponde ad una scelta. Per questa motivo, una volta secondarizzata la differenza sessuale che ha prodotto un tutt’altro sessualmente non marcato, «Egli», in realtà, si trova ad essere già marcato come mascolinità, dominio della differenza che dà origine alla femminilità: il padre prima del padre/madre, il figlio prima del figlio/figlia, l’uomo prima dell’uomo/donna, «Egli», prima di egli/ella. L’espediente retorico che nel testo derridiano ha reso possibile questa digressione verso la direzione del problema dell’alterità declinato al femminile è individuato dalla sigla E. L., iniziali di Emmanuel Levinas, la cui pronuncia in francese richiama non solo quella del pronome femminile di terza persona elle, ma anche uno dei nomi biblici di Dio El. Dietro l’apparente intervento retorico, però, vi è sigillata l’intera posta in gioco delle pagine di En ce moment même, dans cette ouvrage, me voici: E. L. menziona il marchio e il luogo del legame fra etica (responsabilità) e significazione (inscrizione) dove i fili si intrecciano, si attorcigliano, si con-fondono per farsi opera, lavoro (ouvrage), ricamo, di-segno sempre infinitamente debordante di tutt’altro.
È a causa di una certa analogia silenziosa, la quale opera al livello retorico, che si negozia, non senza mancanza, l’eteronima assoluta del rapporto fra elle, il nome proprio e il tutt’altro. Tutt’altro come tertium (non) datur, come rottura della simmetria che restituisce resto, eccedenza, mediante un potente movimento e operazione di scrittura, tracciatura, segnatura.
Se il nome proprio, E. L., è al posto del Pronome (Egli/Il) che pre-sigilla tutto ciò che può portare un nome, […] dove allora la mia mancanza avrà preso corpo? […] Che cos’è il corpo di una mancanza in questa scrittura ove si scambiano, senza circolare, senza mai presentarsi le tracce del tutt’altro?78
Mancare, tracciare, «mettere in terra come un corpo», inumare, conservando fino in fondo il lavoro del lutto nella firma come traccia (signature), ossia un nome proprio. Questo intreccio semantico rende ragione della topica di uno scritto — sempre- manchevole, poiché testimone del suo resto in un cimitero teonimico,79 scavando per seppellire e inumare, inscrivendo per survivre: si fa così risuonare80 interminabilmente la firma come figura del tutt’altro. Altrimenti che firmare:81
Egli sarebbe il Pro-nome e il Pre-nome di ogni nome. Come vi è una «somiglianza» tra il volto di Dio e il volto dell’uomo (anche se tale «somiglianza» non è né una «marca ontologica» dell’operaio sull’opera sua, né «segno», né «effetto» di Dio), parimenti vi sarebbe un’analogia tra tutti i nomi propri e i nomi di Dio che sono a loro volta tra loro analogici. Quindi io (elle) trasporto per analogia su un nome proprio d’uomo o di donna ciò che si dice dei nomi di Dio. E della «mancanza» al corpo di questi nomi.82
Sulla scia di un riavvolgimento di voci intrecciate83 e indistinte tra l’autore e la sua interlocutrice, si consumano le ultime battute del saggio di cui qui si è cercato «immancabilmente» di tratteggiarne i suoi contorni sfumati e suoi toni policromatici. Ma quello tra Levinas e Derrida è un rapporto chiasmatico che non si chiuderà con En ce moment même, dans cette ouvrage me voici, ma continuerà anche dopo la scomparsa del filosofo lituano: è in Adieu a Levinas84 infatti, che Derrida troverà ancora «luoghi» testuali di ritrovo con Levinas, rilevando ancora la possibilità di incroci, dunque, incontri tra contaminazioni reciproche e innesti. Tali punti di ritrovo sul cammino complessivo della ricerca filosofica prestano tuttavia attenzione all’inevitabile impossibilità di muoversi sulle stesse strade, mostrando l’utilizzo di percorsi differenti, dissimili ma pur sempre ortogonali: la filosofia sembra proprio nutrirsi di momenti chiasmatici e svilupparsi in maggior misura particolarmente nei luoghi di crocevia, lì dove vengo messi a fuoco interstizi e contiguità dei diversi tragitti e ricerche.
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E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence,Martinus Nijhoff, La Haye, 1974; trad. it. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983. Da questo punto in poi, le citazioni relative a questo testo verranno indicate con la sigla AE, seguita dalla pagina della traduzione italiana. ↩︎
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In Nomi propri, è lo stesso Levinas a suggerire il suggestivo confronto tra la decostruzione e lo sfollamento del 1940: «All’inizio, è tutto a posto, nel giro di qualche pagina o di qualche capoverso, sotto l’effetto di una terribile messa in discussione, nulla è più abitabile per il pensiero. È questo, al di fuori della portata filosofica delle preposizioni, un effetto puramente letterario, il brivido nuovo, la poesia di Derrida. Ogni volta che lo leggo mi sembra di vedere lo sfollamento del 1940». (E. Levinas, Nomes Propres, Fata Morgana, Paris 1976; trad. it. e intr. di F.P. Ciglia, Nomi propri, Marietti, Casale Monferrato, 1984, p. 68). L’immagine dello sfollamento con la quale Levinas ritrae l’esito della decostruzione non è certo tra le più rassicuranti: in effetti, la scrittura di Derrida non tranquillizza e non rassicura affatto ma insinua e mette in questione ogni pacifico e rasserenante tentativo di sistemazione. ↩︎
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J. Derrida, Ho il gusto del segreto, in Il gusto del segreto, J. Derrida, M. Ferraris, Biblioteca di Cultura Moderna, Laterza, Roma-Bari 1997, p.101. ↩︎
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J Derrida, En ce moment même dans cette ouvrage me voici, in AA.VV., Textes pour Emmanuel Levinas,J.-M. Place, Paris 1980, pp. 21-60; ripreso in Psyché invention de l’autre,Seuil, Paris 1987, pp. 159-202; trad. it. di R. Balzarotti, «In questo medesimo momento in quest’opera eccomi», in Psyché invenzioni dell’altro, Jaca Book, Milano 2008, pp. 173-224. ↩︎
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È opportuno specificare sin da subito che il taglio di lettura che questo lavoro dà ad «Altrimenti che essere al di là dell’essenza» insiste su uno specifico uso del linguaggio che in questo scritto Levinas sembra adottare. Inoltre, anche l’attenzione che nei paragrafi successivi verrà data alle nozioni di «sostituzione» e «responsabilità» sarà, ad ogni modo, filtrata da una specifica inclinazione sulle conseguenze che queste stesse hanno sull’ idea di linguaggio e, dunque, sull’intreccio di etica e significazione. ↩︎
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J. Derrida, Violence et méthaphysique, essai sur la penseé de Emmanuel Levinas, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1964, nn. 3 e 4, poi pubblicato in L’écriture e la differènce, Seuil, Paris, 1967, trad. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino, 1971, pp. 99- 198. Da questo punto in poi, le citazioni relative a questo testo verranno indicate con la sigla VM, seguita dalla pagina della traduzione italiana. ↩︎
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E. Levinas, Totalité et Infini. Essais sur l’exterioritè,Martinus Nijhoff, La Haye 1961; trad. it. di A. Dall’Asta Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980. Da questo punto in poi, le citazioni relative a questo testo verranno indicate con la sigla TI, seguita dalla pagina della traduzione italiana ↩︎
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Tra il 1928-29, Levinas è a Friburgo come libero ascoltatore dei corsi di Husserl, che in quell’anno accademico vertevano sul tema della costituzione dell’intersoggettività. Il 23 e il 25 febbraio 1929 Edmund Husserl tiene a Parigi presso l’ Amphithéâtre Descartes all Sorbona, una conferenza che gli da occasione di esporre le linee fondamentali del proprio pensiero. Durante la conferenza venne distribuito un sommaire de leçons, ossia uno schema in cui venivano elencati, in francese, i punti cruciali dell’esposizione, dal momento che il relatore parlò in lingua tedesca. Fu successivamente predisposta una rielaborazione accresciuta dell’esposizione, che venne pubblicata nel 1931 col titolo Méditations Cartésiennes, la cui traduzione francese fu appunto curata da E. Levinas e G. Peiffer. ↩︎
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E. Levinas, De l’évasion, in «Recherches Philosophiques», V, 1935-36, 373-392, riedito in volume da J. Rolland, Fata Morgana, Montpellier 1982; trad. it di D. Ceccon, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008, p. 17. ↩︎
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VM, p. 99. ↩︎
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VM, p.196-197. ↩︎
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VM, p. 101. ↩︎
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VM, p. 105. ↩︎
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VM, p. 103. Cfr. anche M. Heidegger, Brief über den «Humanismus»,V. Klostermann, Frankfurt am Main 1976, trad. it. di F. Volpi, Lettera sull’«umanesimo», Adelphi, Milano 1995, p. 34 e 35: «Già da molto, anzi, da troppo tempo il pensiero si trova all’asciutto. Ora, si può chiamare «irrazionalismo» lo sforzo di portare si nuovo il pensiero nel suo elemento? […] L’elemento è ciò che propriamente può (das eigentlich Vermögende); il potere (das Vermögen). Esso si prende a cuore il pensiero e lo porta alla sua essenza. Il pensiero, detto semplicemente, è il pensiero dell’essere». ↩︎
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VM, p. 163, nota 1. ↩︎
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VM, p. 141. ↩︎
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Cfr. VM, p. 197-198. ↩︎
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Cfr. S. Petrosino, La scena umana. Grazie a E. Levinas e J. Derrida, Jaca Book, Milano, 2010, pag. 24. ↩︎
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VM, p. 197. ↩︎
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E. Levinas, Difficile libertè, Albin Michel, Paris 1963, trad. it a cura di S. Facioni, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, Jaca Book, Milano 2004, p. 379. ↩︎
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AE, pag.123. ↩︎
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AE, pag. 56. ↩︎
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AE, pag. 31-32. ↩︎
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J. Derrida, «La mythologie blanche. La métaphore dans le texte philosophique», in Marges - de la philosophie, Paris, Editions de Minuit, Paris 1972, pp. 247-324; tr. it. di M. Ioffrida, «La mitologia bianca. La metafora nel testo filosofico», in Margini - della filosofia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 273-349. ↩︎
-
VM, pag. 142. ↩︎
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E. Levinas, En découvrant l’esistence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1967; trad. it. di F. Sossi. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina Editore, Milano 1998, p. 287. ↩︎
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AE, p. 127. ↩︎
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Cfr. VM, p. 160 e segg. ↩︎
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AE, nota preliminare, pagina non numerata. ↩︎
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AE, p. 159. ↩︎
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Cfr. AE pag. 182. ↩︎
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E. Levinas, Nomi propri, op. cit., pag 88. ↩︎
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AE, p. 64. ↩︎
-
AE, p. 18 (corsivo mio). ↩︎
-
AE, p. 139-140. ↩︎
-
Cfr. AE, p. 143-148. ↩︎
-
AE, p, 196. ↩︎
-
J.Derrida, In questo medesimo momento, in questa opera, eccomi, op.cit., p. 182. ↩︎
-
Ivi, p. 183. ↩︎
-
Ivi, p. 177. ↩︎
-
Ivi, p. 179. ↩︎
-
Cfr. Ivi, p. 175, nota 5. Il termine «mancanza» è disseminato per tutto il testo e va letto con tutto il registro semantico che il termine francese «faute» mette in moto, dall’errore, alla colpa, dal crimine alla caduta, dal venir meno al mancare. ↩︎
-
Cfr. Ivi, p. 177 e cfr. E. Levinas, Humanisme de l’autre homme, trad. it. di A. Moscati, Umanesimo dell’altro uomo, Il melangolo, Genova 1985, p. 66: «L’Opera pensata sino in fondo esige una generosità radicale del movimento che nel Medesimo va verso l’Altro. E, per conseguenza, esige l’ingratitudine dell’Altro. La gratitudine sarebbe precisamente il ritorno del movimento alla sua origine». ↩︎
-
Cfr. I Samuele, 3, 4. «Eccomi» è in generale nel testo biblico la risposta tipica di chi è stato chiamato e interpellato da Dio. ↩︎
-
Ivi, p. 186. ↩︎
-
Ivi, p. 185. ↩︎
-
Cfr. Ivi, p. 188 e cit. E. Levinas, Altrimenti che essere, op. cit. p. 210-211: «Le loro stesse esplosioni si rac-contano […] In tal modo significa l’equivoco indemagliabile che tesse il linguaggio». ↩︎
-
Ivi, p, 194. ↩︎
-
AE, p. 31. ↩︎
-
J. Derrida, In questo medesimo momento, in questa opera, eccomi, op. cit. p. 188. ↩︎
-
Ivi, p. 168. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 196. ↩︎
-
J. Derrida, In questo medesimo momento, in questa opera, eccomi, op. cit. p. 204. ↩︎
-
Ivi, p. 210. ↩︎
-
Cfr. Ivi, p. 174, nota 3 e p. 205. ↩︎
-
Ivi, p. 181. ↩︎
-
Ivi, p. ↩︎
-
Ivi, p. ↩︎
-
Ivi, p. 200. ↩︎
-
Ivi, p. 193. ↩︎
-
Cfr. J. Derrida, Toute autre est tout autre, in Donner la mort, Edition Galiée, Paris, 1999; trad. it. di L. Berta, Donare la morte, Jaca Book, Milano 2002, pp. 115-144. ↩︎
-
Ivi, p. 212 ↩︎
-
Ivi, p. 213. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Cfr. R. Ronchi, Bataille, Levinas, Blanchot. Un sapere passionale, in Come pensare, collana diretta da Carlo Sini, Spirali Edizioni, Milano, 1985, pp. ↩︎
-
E. Levinas, Totalità e infinito, op. cit. p. 264. ↩︎
-
TI, p. 265. ↩︎
-
È questa una delle tesi sostenute da C. Chalier in Figures du féminin, La nuit surveillée, Paris, 1982. ↩︎
-
TI, pag. 267. ↩︎
-
Cfr. TI, La fecondità, pag. 275-277. ↩︎
-
Cfr. sul tema della carezza, sia TI, pag. 265, sia AE, pag. 96. ↩︎
-
TI, pag. 266. ↩︎
-
E. Levinas, Difficile liberté., op. cit. pp. 51-60. ↩︎
-
E. Levinas, Du Sacré au Saint: cinq Nouvelles Lectures Talmudiques, Minuit, Paris 1977; trad. it. di O. Nobile Ventura, Dal Sacro al Santo, Città Nuova, Roma 1985, pp. 112-132. ↩︎
-
Cfr. E. Levinas, Difficile libertà, op. cit. pp. 55-56. ↩︎
-
Cfr. E. Levinas, Dal Sacro al Santo, op. cit. pp. 126-127. ↩︎
-
J. Derrida, In questo medesimo momento, in questa opera eccomi, op. cit. p. 219. ↩︎
-
Ivi, p. 220 ↩︎
-
Cfr. J. Derrida, Glas, Edition Galilée, Paris 1974; trad. it. di S. Facioni, Glas, campana a morto, Bompiani, Milano 2006. In questo testo esclusivo vengono affrontate, tra le tante questioni, anche quella della firma, del nome proprio, e del loro legame con la vita la morte e, dunque, con la questione del survivre, problematiche che si disseminano lungo tutta la produzione derridiana. Vale la pena qui osservare quanto scrive S. Facioni, in «Cenere consumata nel primo mattino di una penombra», introduzione- se è possibile essere introdotti- a Glas, p. 16-17: «Forza della parola che — come una campana- risuona sempre a morto per annunciare uno sfiatamento, un’esalazione: incinerate, inumate, sepolte, interrate, deposte, sprofondate, […] le parole abbandonano la vita e la morte per sopra-vivere all’una e all’altra, per continuare a rintoccare oltre la vita la morte che si annuncia(va) in loro». ↩︎
-
J. Derrida, In questo medesimo momento, in questa opera eccomi, op. cit. p. 218. ↩︎
-
Ivi, p. 220. ↩︎
-
Cfr. Ivi, p. 223-224. Il saggio si conclude con una fusione delle voci dialoganti e con l’ultima (?) interruzione da parte dell’interlocutrice staccata dal testo e riportata a caratteri maiuscoli, quasi a sottolineare ancor di più il carattere di «invio», di testamento, di missiva che ogni scritto comprende in sé in quanto sempre inviato e consegnato alla lettura di un destinatario altro. Nel problema dell’ invio sul quale J. Derrida ha insistito molto e in più lavori (ad esempio, in testi quali, Télépathie o La carte postale) - ne va del — mittente e del destinatario catturati in una trama testuale che li comprende entrambi. ↩︎
-
J. Derrida, Adieu à Levinas, Éditions Galilée, Paris 1997; tr. it. Di S. Petrosino e M. Odorici, Addio a Levinas, Jaca Book, Milano, 1998. ↩︎