Sulla feconda ambiguità soggettiva. Levinas lettore di Descartes

Il filosofo avrà la forza di trascendere finalmente la stessa trascendenza e di cadere valorosamente nell’immanenza senza lasciare andar perduto il valore del suo sforzo di trascendenza? L’uomo è sempre al di là di se stesso. Ma questo al di là di se stesso deve avere coscienza finalmente che è lui stesso la sorgente di questo al di là e così la trascendenza s’incurva verso l’immanenza.1

Descartes rappresenta, dopo Husserl e Heidegger, Platone, Kant o Hegel, uno dei filosofi della tradizione occidentale più citati nell’intero corpus levinasiano. Come mostrano C. Ciocan e G. Hansel nel loro studio Levinas Concordance,2 in ben 21 opere sulle 28 recensite nel corso della loro ricerca, il richiamo a Descartes è costante e significativo: i riferimenti sono numerosi in Totalité et Infini (26 volte), per ridursi in Autrement qu’être ou au-delà de l’essence (6 occorrenze); negli scritti inerenti al metodo fenomenologico invece ricorrono con frequenza: da La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl (18 volte), a En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger (34 volte), così come nei testi che approcciano l’idea di Dio in quanto tale, come in De Dieu qui vient à l’idée (21 occorrenze).

Il rapporto levinasiano al pensiero del filosofo non è tuttavia lineare e coerente. In molti luoghi della sua speculazione il filosofo lituano riflette un pensiero abitato da una profonda rilettura del cogito cartesiano, sebbene questa a nostro parere non sia da intendere nei termini di una pedissequa riappropriazione della figura cartesiana, come vorrebbe per esempio J. Benoist.3 Da un lato, il filosofo francese è riconosciuto come il riferimento principale in tutta la tradizione filosofica occidentale — se non uno dei rari esempi, insieme alla formulazione platonica del Bene al di là dell’Essere — per l’indicazione di quella via eteronoma all’alterità già iscritta nel cuore stesso dell’identico),4 soprattutto per la III Meditazione e la tesi fondamentale del cartesianismo, ovvero la geniale iscrizione dell’«idea dell’infinito in noi», in cui Levinas intravede il ribaltamento della logica dell’intenzionalità. Dall’altro lato, emerge l’idea del «cogito» come paradigma del pensiero moderno, autocentrato e autofondantesi, chiuso all’effettiva dinamica d’eteroaffezione dell’alterità.

Il residuo di feconda ambiguità, che permarrebbe al fondo della riflessione cartesiana, viene valorizzato dal gesto interpretativo levinasiano e portato alla luce secondo una direzione di scavo ermeneutico volta a rilanciarne la doppia potenzialità di senso. Seguendo il pensiero di Levinas, si prenderanno dunque in considerazione le sue analisi dei passaggi cartesiani, con particolare riferimento al tema dell’«idea dell’infinito», mostrando la felice dialettica sussistente tra le due istanze, autoreferenziale ed eteroaffetta. Si mostrerà come, pur evidenziando le oscillazioni del pensiero cartesiano, Levinas tenda a metterne in risalto il versante dell’alterità, la «porta aperta»5 iscritta nell’io dall’idea dell’infinito. Attraverso l’analisi della efficace metafora della «porta» e degli echi suggestivi riprodotti da essa, si riattraverserà il senso dell’ambigua circolarità soggettiva che si riconosce in Descartes e che viene ripercorsa in Levinas: feconda ambiguità soggettiva esperita e come origine e come accoglienza, secondo la doppia significazione di quella «porta aperta» che «è tutto salvo che una semplice passività, ed è il contrario di un’abdicazione della ragione».6

1. A partire dall’ambiguità cartesiana

Se la riflessione filosofica levinasiana trova fonti e continue sollecitazioni per la maturazione e lo sviluppo delle sue intuizioni speculative proprio a partire da uno stretto quanto rivendicato radicamento nella cosiddetta «ontologia del libro»,7 i molteplici richiami a Descartes nel fitto tessuto della scrittura levinasiana attestano l’incidenza di questo autore e l’inesausta significatività del suo pensiero in un contesto contemporaneo che evidentemente non vede ancora esaurite le sue potenzialità di senso, né risolte definitivamente le questioni ermeneutiche insite nei suoi testi.8

Senza avere la pretesa di una presa in carico integrale della riflessione cartesiana, né di un’analisi esaustiva della sua presenza nell’interezza del corpus levinasiano, si intende qui mettere in rilievo alcune risonanze della figura cartesiana, affondando lo sguardo nella duplice direzione di lettura fattane dallo stesso Levinas, trovando in essa non una viziosa circolarità rea di mortificare e contraddire i fondamenti di questo stesso pensiero, quanto una compresenza geniale di istanze che ne attestano la fecondità ermeneutica.

Levinas scrive:

In Descartes è ancora presente una certa ambiguità, poiché il cogito che poggia su Dio è anche il fondamento dell’esistenza di Dio: la priorità dell’Infinito viene subordinata alla libera adesione della volontà, inizialmente padrona di se stessa.9

Com’è noto, il riferimento è alle due tesi cui aderisce il filosofo francese (nel corso delle sue Meditazioni filosofiche e nel Discorso sul metodo) che non sembrerebbero facilmente conciliabili. Egli sposta ambiguamente l’«evidenza prima» volta a volta nell’io e in Dio, in due fasi distinte: nella prima è innanzitutto l’io a conquistare autonomamente la certezza di sé, in quell’indubitabile auto-garantirsi di una coscienza che sembra poter fare a meno di qualunque misura di senso e di verità che venga da altro; dunque, fin dalla Seconda Meditazione, Descartes coglie la propria soggettività come indubitabilmente certificata dall’atto stesso del dubitare, affermando quell’Io sono, io esisto che è la prima sua scoperta: prima tanto in senso cronologico, perché è quella che viene scoperta per prima, quanto anche in senso epistemologico, perché emerge dalle ceneri di quel dubbio iperbolico che ha fagocitato ogni cosa, allorché il cogito realizza che quand’anche si ingannasse in tutto, rimarrebbe certificata dall’inganno l’esistenza di sé che si inganna, cioè che Io sono, io esisto, in quanto colui che si coglie esistente si accorge di non poter rimuovere da sé il pensiero, scoprendosi così «una cosa che pensa». Anche nella quarta parte del Discorso sul metodo Descartes aveva conquistato la stessa certezza, esprimendola in termini differenti, con la formula «je pense, donc je suis», tradotta in latino «cogito ergo sum»,10 che il filosofo francese, parlando tra sé e sé, ritiene «come il primo principio della filosofia» che cercava, ovvero come quel principio immediatamente evidente che si offre alla mente di chi pensa con ordine, come esige il terzo precetto del metodo poco prima formulato.11 Tuttavia, analizzando l’idea di Dio, idea «massimamente chiara e distinta», in cui nessuna perfezione «si trova solamente in potenza, ma tutto vi è realmente e attualmente», e che alla fine della Terza meditazione gli risulta nata e prodotta con l’io stesso da quanto è stato creato, Cartesio giunge alla constatazione che «io non sono solo nel mondo», e alla dimostrazione dell’esistenza di Dio come di quell’«essere sovranamente perfetto» che è «l’autore della mia esistenza», «essere differente da me» da cui «io dipendo».12

A partire dalla presunta ambiguità cartesiana, ovvero della presenza delle due istanze solo apparentemente in contraddizione, ciò che sembra interessante qui è mostrare come esse agiscano all’interno del pensiero levinasiano. È stato già messo in luce da più parti un certo parallelismo tra la circolarità sussistente nei testi cartesiani e l’ambiguità di fondo della proposta levinasiana .13

Più che proporre una lettura in parallelo della duplice intenzionalità di fondo, l’intento piuttosto è quello di mostrare come, proprio sulla scia di Descartes, vi sia in Levinas un’oscillazione tra i due poli del proprio e dell’altro, sebbene in due fasi e modalità diverse, che vedono in un secondo tempo il polo dell’io trascendersi in ospitalità e apertura alla presa in carico e alla responsabilità per l’altro, senza che vi sia tuttavia negazione del primo momento: il momento ontologico dunque permane in una prima fase, per essere poi trasceso nell’etica senza essere negato.

2. L’ io che si pone

Il primo movimento cartesiano da analizzare in relazione a Levinas è quello legato al «significato filosofico forte» del cogito, per dirla con Ricœur, nella sua ambizione di fondazione ultima.14

In alcuni scritti di fine anni Quaranta (De l’existence à l’existant, Le Temps et l’Autre) e nella seconda sezione di Totalité et Infini, la trattazione levinasiana della soggettività si orienta verso una aperta «difesa»15 del polo soggettivo, declinato secondo quei tratti di separatezza, solitudine e materialità che giustificano l’espressione di «ontologia del soggetto» come referenza dell’io incipiente all’elementale, alla materialità basica, nella fatticità necessaria dell’interiorità e dello psichismo.16 L’esigenza del filosofo lituano è quella di scandire una soggettività emergente non in uno spazio indifferenziato (anzi distaccandosi dall’uniformità anonima dell’il y a) ma radicata in un qui ed ora concreto: nella «separatezza» con cui si distacca dalla neutralità vischiosa dell’essere, nella «solitudine» con cui imprime all’esistenza un carattere personale e proprio, nella «materialità» equivoca che dischiude il godimento e si fa condizione della dimora e dell’ospitalità.17 Nella dinamica intensiva dello sforzo d’essere, il soggetto levinasiano si configura come «monade e solitudine»18 per effetto dell’identificazione, e soprattutto come atto di «posizione»: la frattura nella corrente continua e anonima dell’essere avviene attraverso la «localizzazione della coscienza» nello «spessore materiale» del corpo e la puntualità dell’istante dell’atto stesso.19 Il processo di soggettivizzazione può essere dunque descritto a partire da questi tre aspetti appena evocati, necessari e imprescindibili: la localizzazione, la materialità, la puntualità dell’atto. Il testo di riferimento è soprattutto l’ultima sezione di De l’existance à l’existant, dove non a caso i riferimenti a Descartes si moltiplicano nel corso di questa fenomenologia dell’io concreto:

Il pensiero che l’idealismo ci ha abituati a situare fuori dello spazio è — essenzialmente, e non a causa di una caduta o di una degradazione — qui. Il corpo escluso dal dubbio cartesiano è il corpo oggetto. Il cogito non perviene alla posizione impersonale — «c’è pensiero» — ma alla prima persona del presente: «Io sono una cosa che pensa». Qui la parola cosa è mirabilmente precisa.20

Al di là delle implicazioni più profonde, in seguito ribadite da Ricœur e da studi contemporanei ,21 per Levinas evidentemente non si tratta di indagare lo statuto dell’identità nel cogito cartesiano, né misurarne la portata concreta e storica, quanto apprezzarne il gesto di posizione e radicamento, declinando il pensiero come sostanza:

L’insegnamento più profondo del cogito cartesiano consiste proprio nello scoprire il pensiero come sostanza, cioè come qualcosa che si pone. Il pensiero ha un punto di partenza. Non si tratta solo di una coscienza della localizzazione, ma di una localizzazione della coscienza che non si riassorbe a sua volta in coscienza, in sapere. Si tratta di qualcosa che rompe con il sapere, di una condizione. Anche il sapere del sapere è qui, sorge, in qualche modo, da uno spessore materiale.22

Oltrepassando gli angusti limiti intravisti nel primato della rappresentazione, e degli scenari di «rovina»23 cui esso porterebbe, Levinas fa giocare Descartes contro Husserl stesso, nella direzione di una valorizzazione della sfera affettiva e materiale stessa, contro il primato asettico del theorein, da concepire non unicamente come sapere, ma proprio già localizzazione, posizione, coagulo materiale con tutto lo spessore del suo peso esistenziale. L’hicceità della coscienza costituisce la possibilità dell’io di avere una base, una «condizione»,24 una «relazione esclusiva con il luogo» che permette la posizione stessa del soggetto in quanto esistente, non secondariamente come in aggiunta, ma primordialmente come la condizione sine qua non: tuttavia anche contro Heidegger, poiché

Il qui della coscienza […] differisce in modo radicale dal Da del Dasein heideggeriano. Quest’ultimo implica già il mondo. Il qui da cui partiamo, il qui della posizione, precede ogni comprensione, ogni orizzonte e ogni tempo. È il fatto stesso che la coscienza è origine, che la coscienza parte da se stessa, che essa è esistente.25

La questione della localizzazione, stessa «soggettivizzazione della soggettività»,26 non è la semplice indicazione del peso della materialità come elemento aggiuntivo allo status dell’esistente, ma il luogo di un oltrepassamento dell’antica questione posta a Davos nel 1928, sull’alternativa tra l’idealismo e l’ontologia, tra il primato dell’essere e la prospettiva soggettiva.27 L’immagine del corpo ci restituisce la materialità della coscienza:

Il corpo, è una continua contestazione del privilegio attribuito alla coscienza di ‘dare senso’a ogni cosa. Esso vive in quanto è questa contestazione.28

Il qui indica piuttosto «il qui della posizione», l’origine e la partenza da se stesso, il cominciamento dell’esistente, il qui che precede ogni comprensione, ogni orizzonte e ogni tempo.

È il fatto stesso che la coscienza è origine, che la coscienza parte da se stessa, che essa è esistente […] Il corpo è l’avvento stesso della coscienza.29

Il filosofo lituano valorizza a modo suo il passaggio dal cogito alla res cogitans, radicalizzando la stessa concezione heideggeriana del Dasein: Il qui non è riconducibile al Da del Dasein heideggeriano. Quest’ultimo implica già il mondo.30 Nella misura in cui il soggetto è un esistente, e non puro spirito, il luogo è la condizione che rende possibile l’uscita dall’essere e l’evento stesso della soggettività. In contrappunto all’idealismo «che ci ha abituati a situare [il pensiero] al di fuori dello spazio»,31 Levinas tiene fermo il tema della localizzazione: «non a causa di una caduta o di una degradazione»,32 ma come «il modo in cui l’uomo si impegna nell’esistenza»; non quale strumento o simbolo della posizione, ma qui come la posizione stessa, come ciò in cui «si compie la stessa mutazione dell’evento in essere».

3. L’io infranto

Vi sarebbe tuttavia in opera in Levinas una doppia lettura del cogito cartesiano, per cui in modo emblematico in Totalité et Infini egli scrive:

Il cogito cartesiano mostra infatti di fondarsi, alla fine della terza meditazione, sulla certezza dell’esistenza divina, in quanto infinita e rispetto alla quale si pone e si concepisce la finitezza del cogito o il dubbio. […] Se in un primo momento Cartesio acquista una coscienza indubitabile di sé, autonomamente, in un secondo momento — riflessione sulla riflessione — si accorge delle condizioni di questa certezza. Questa certezza dipende dalla chiarezza e dalla distinzione — ma la certezza stessa è cercata a causa della presenza dell’infinito in questo pensiero finito che senza questa presenza ignorerebbe la sua finitezza.33

La lettura levinasiana, che qui, come in altri passaggi, non manca di evidenziare le oscillazioni del pensiero cartesiano, tende tuttavia a mettere in risalto il versante dell’alterità, la «porta aperta» iscritta nell’io dall’idea dell’infinito.

Com’è noto, la figura dell’«idea dell’infinito» costituisce la prima esperienza di alterità radicale e di eteroaffezione radicale sul soggetto, tema centrale e disseminato in quasi tutti gli scritti levinasiani ma soprattutto approfondito in Totalité et Infini, nel saggio La philosophie et l’idée de l’infini, in Dieu et la philosophie, e in Transcendance et intelligibilité.

Il debito a Descartes viene ripetutamente e costantemente riconosciuto, da parte del filosofo lituano, nel corso delle pagine in questione: la stra-ordinaria relazione intersoggettiva attuantesi nella separazione, nonché l’eccedenza dell’etica sull’ontologia, infatti, sembrerebbero attestarsi attraverso questa prima figura su un piano innanzitutto gnoseologico, mettendo in scena l’esplosione della correlazione noesi-noema come struttura formale del pensiero:

Questa relazione del Medesimo con l’Altro, senza che la trascendenza della relazione tronchi i legami implicati da una relazione, ma senza che questi legami uniscano in un tutto il Medesimo e l’Altro, è fissata, di fatto, nella situazione descritta da Cartesio nella quale l’io penso ha con l’Infinito, che non può affatto contenere e dal quale è separato, una relazione detta idea dell’infinito. […] l’idea dell’infinito è eccezionale in quanto il suo ideatum va al di là della sua idea.34

Levinas riprende la descrizione dell’idea dell’infinito di Cartesio, allontanandosi tuttavia dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio che questi fa nella terza delle Meditazioni.35 Riprendendo il disegno formale dell’idea cartesiana di Infinito, ciò che interessa Levinas non è ovviamente la dimostrazione dell’esistenza di Dio, quanto il gesto speculativo tracciatovi: l’aver pensato e trovato un’idea che il soggetto scopre non sua, non ‘prodotta’da sé, e che quindi in quanto attestazione di un’esteriorità radicale e irriducibile lo sospinge ad uscire da sé.36

Pensando ciò che resta sempre esterno al pensiero, eccedendo il pensiero che lo pensa,37 nell’idea dell’infinito, secondo la lettura levinasiana, si mettono in scena due distinti movimenti: non si tratta della relazione che collega il contenente al contenuto o il contenuto al contenente,38 poiché a) l’io non può contenere l’Infinito, b) l’io è separato dall’Infinito, la cui alterità non si annulla, non viene meno nel pensiero che lo pensa.

Sembrerebbe quindi che da un lato si registri un’inadeguatezza da parte dell’io, ovvero l’inadeguazione del pensiero a contenere qualcosa di cui non detiene la misura; dall’altro lato, l’Infinito, impossibile ideatum, eccede il suo pensiero rimanendone sempre esteriore e separato, come «l’assolutamente altro».39 Il pensare più di quanto non si possa pensare indica l’inadeguazione del pensiero, da intendersi però non come mera limitatezza degli strumenti conoscitivi della razionalità quanto come inadeguatezza di quest’ultima quale modalità di approccio alla relazione, che risulta appunto manchevole se mantenuta ancora sul piano gnoseologico.40

In secondo luogo, nella sproporzione costituitasi nella struttura formale dell’idea dell’infinito, così come l’incapacità — da parte del pensiero — di pensare l’infinito non è dovuta a un suo difetto ontologico, così la trascendenza dell’Infinito non si rivela per negazione, ma appunto per eccedenza: con l’idea dell’infinito ci si trova faccia a faccia con l’esteriorità radicale.41 L’infinitezza positiva dell’infinito, infatti, non è definita dalla sua grandezza, dalla sua universalità o dal suo carattere totalizzante e illimitato, bensì dalla sua assoluta alterità. Relazione inevitabilmente affetta da sproporzione e scarto, l’idea dell’infinito è il paradosso di un Infinito che sta in rapporto con il finito senza smentirsi in questo rapporto, che vive della e nella separazione come luogo in cui accade che la sorte dell’io sia proprio quella di venire «ri-guardato» e investito dal Non — sintetizzabile per eccellenza:

La particella in dell’Infinito non è una semplice negazione, ma tempo e umanità. L’uomo non è angelo decaduto che si ricorda dei cieli, egli appartiene alla significazione stessa dell’Infinito.42

L’in dell’infinito cioè non è la negazione del finito, o l’espressione di un cattivo infinito, ma è la presenza o meglio la discesa dell’Infinito nel finito, come stra-ordinario «Infinito nel finito», da considerare secondo due punti di vista. Innanzitutto, l’esteriorità assoluta dell’idea dell’infinito e la sua irriducibilità ad una qualsiasi forma di reminiscenza o di prodotto dell’io, sottolinea il fatto che «questa espansione, questa eccedenza, non deriva dall’interno», ma «è stata messa in noi».43 L’esteriorità radicale dell’Infinito comporta cioè — sul versante del soggetto — da un lato una dimensione di passività, per cui non è l’io a produrre l’idea dell’infinito, ma la trova in sé non per sua iniziativa, negli stessi termini di passività del soggetto cartesiano che con l’idea dell’Infinito si trova davanti al paradosso di non esserne l’origine. Trovandosi nel finito senza poter essere contenuto, l’infinito è l’impossibile, nei termini della caratterizzazione aporetica nella quale Derrida riconosce l’evento: esperienza dell’impossibile che si impone sempre in riferimento all’altro, nell’impossibilità logica del più nel meno. Dall’altro lato, pur mantenendosi in questa sproporzione, pur non rientrando nel pensiero che lo pensa e forzandolo piuttosto a pensare più di quanto possa pensare, l’Infinito agisce sul soggetto aprendo un varco nella sua autoreferenzialità, sollecitandolo a farsi ospitalità:44

L’idea dell’infinito non è una nozione che una soggettività possa forgiarsi […] Essa si produce con il fatto inverosimile nel quale un essere separato fissato nella sua identità, il Medesimo, l’Io contiene nonostante tutto in sé — ciò che non può contenere né ricevere in virtù della sua sola identità. La soggettività realizza queste esigenze impossibili: il fatto stupefacente di contenere più di quanto non sia possibile contenere. Questo libro presenterà la soggettività come ciò che accoglie Altri, come ospitalità. In essa si consuma l’idea dell’infinito.45

4. La porta aperta

Riprendendo il sopra citato passaggio di Totalité et Infini sulla duplicità del discorso cartesiano,46 si chiarisce il senso della ricezione levinasiana di Descartes e della valorizzazione operata dal filosofo lituano: le due tendenze intime al pensiero cartesiano, volte una all’autofondazione e alla ricerca di un criterio di certezza puntellato sul sé, e l’altra, più ancora, scopertasi come condizione di possibilità della prima, costituiscono un felice unicum che nel geniale equilibrio delle sue istanze configura puntualmente la dimensione soggettiva e il suo statuto esistenziale.

Proseguendo ancora nei passaggi di Totalité et Infini, la lettura levinasiana intende valorizzare e recuperare il messaggio cartesiano, portandone alla luce con fedeltà le più intime pieghe, anche oltrepassando il lascito ermeneutico husserliano:

Se Husserl vede nel cogito una soggettività che non ha alcun fondamento all’infuori di sé, […] la non-costituzione dell’infinito in Cartesio lascia una porta aperta.47

Come ha già fatto notare Derrida, non è affatto casuale che Levinas nomini qui la porta:48 essa indica l’apertura di un’esteriorità o di una trascendenza dell’idea dell’infinito, che raggiunge l’io appunto attraverso una porta. Nei passaggi già citati sulla presenza dell’idea dell’infinito che si ritrova «messa in noi», si è sottolineata questa ambigua passività del soggetto, che ha in sé qualcosa che non ha prodotto, che dunque scopre di averlo ricevuto ed accolto.

L’originalità di questo ricevere e di questo accogliere che avviene tramite quella porta aperta, è tutt’altro che passività: come dice Derrida, «questa porta aperta è tutto salvo che una semplice passività, ed è il contrario di un’abdicazione della ragione».49 Dall’altro lato, però, vi si riconosce la tendenza a cogliere il soggetto nella sua dimensione di origine, proposta come si è visto in alcune pagine di De l’existence à l’existant50 nella sua «paradossale sostanzialità fenomenologica».51

Le due istanze in opera nel pensiero cartesiano e rintracciabili nella riflessione levinasiana, tra una «difesa» del proprio e della sua «posizione» da un lato, e dall’altro la radicalizzazione di un’impari apertura in seno al soggetto, rivelatrice di una eccedenza che già «messa in noi» ci preserva da ogni chiusura solipsistica e da ogni ricaduta nell’egoismo primario, definiscono in modo articolato quanto concreto l’ambiguità «straordinaria» insita nell’avventura soggettiva.

Come riconosce lo stesso Levinas, da un lato la «contrazione» sul sé, condizione basica perché ci sia apertura e quindi etica; dall’altro lato l’iscrizione anarchica dell’Altro in me, descritta formalmente tramite l’analisi dell’idea dell’infinito nonché nelle successive declinazioni della soggettività etica.

Le due istanze, che si richiamano a Descartes e che sembrano altresì riprodurre il doppio movimento di transdiscendance / transascendance descritto da Wahl e rievocato dallo stesso Levinas — un movimento centripeto di contrazione sul sé e la tendenza che lo spinge ad essere «sempre al di là di se stesso»52 — suggellano la fecondità di questa duplicità ambigua iscritta nell’esperienza soggettiva. Se in qualche modo essa preserva, da un lato, il polo autoreferenziale come residuo che permane perché vi sia donazione di qualcosa, dall’altro canto esalta l’energica spinta propulsiva che oltrepassa ogni resistenza egoistica e si attesta già come esposizione aperta e incondizionata alla trascendenza e all’alterità, rivelandosi quale struttura ultima del soggettivo che non annulla il primo movimento, ma coesistendo con esso lo sublima in una donazione di senso inedita e salvifica per l’esistenza soggettiva.


  1. J. Wahl, Traité de Métaphysique, Payot , Paris 1953, p. 721. ↩︎

  2. Cfr. C. Ciocan - G. Hansel, Levinas Concordance, Springer, Netherlands 2005, p. 879. ↩︎

  3. Cfr. J. Benoist, Le cogito lévinassien: Lévinas et Descartes, in AA.VV., Positivité et transcendance. Suivi de Lévinas et la phénoménologie, Puf , Paris 2000, pp.105-122. ↩︎

  4. Cfr. E. Levinas, Scoprendo l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina Editore, Milano 1998, p. 189-190. ↩︎

  5. E. Levinas, Totalità e infinito. Saggio Sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1990, p. 232. ↩︎

  6. J. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1998, p. 88. ↩︎

  7. Cfr. C. Chalier, Lévinas. L’utopie de l’humain, Albin Michel, Paris 1993, p. 13-35. Negli stessi scritti autobiografici Levinas insiste sull’imprescindibile «riferimento ontologico dell’umano al libro» (E. Levinas, Etica e infinito, Castelvecchi Lit Edizioni, Roma 2012, p. 49): «si comincia a pensare» grazie a una preziosa quanto necessaria frequentazione dei «libri», capaci di incarnarsi in domande e problemi, fino a pungolare il pensare. Se ogni pensiero filosofico riposa su «esperienze pre-filosofiche» e a partire da queste prende avvio, il «ruolo delle letterature», così come quello dei grandi classici della filosofia e degli stimolanti contributi dei pensatori a sé contemporanei, si rivela essere dunque non secondario: queste ultime costituiscono il punto di partenza di ogni filosofare, il grande palinsesto di scritture, riserve di senso e di questioni metafisiche che in modo inesauribile e variegato attraversano e interrogano l’umano. Si tratta certo di una lettura che non si lascia esaurire in un rapporto meramente estrinseco e strumentale, ma di un «rapporto ontologico» dell’umano al libro capace di significare ben oltre, costituendo, anziché la fine e la saturazione di ogni interrogativo, piuttosto l’acuirsi della Domanda, lo scavo incessante del pensiero affinché non si acquieti nella fissità definitoria di qualsiasi tentativo di risposta. Cfr. anche M. Abensour - A. Kupiec (éd), Emmanuel Levinas. La question du livre, IMEC, Caen-Paris 2008. ↩︎

  8. Come ha ben messo in evidenza Dan Arbib, la lettura levinasiana di Descartes è peraltro di primo acchito condizionata dalla mediazione di Husserl e di Heidegger (cfr. D. Arbib, La lucidité de l’éthique. Etudes sur Lévinas, Hermann, Paris 2014, p. 191-220). Nonostante la critica husserliana al pensiero di Descartes, le Meditazioni cartesiane prendono le mosse dall’encomio a quest’ultimo, salutato come il più grande pensatore della Francia, senza il cui contributo non avrebbe potuto costituirsi la fenomenologia come filosofia trascendentale o neocartesianismo. Per quanto riguarda Heidegger, invece, soprattutto in § 6 e § 19-21 di Essere e Tempo, la critica a Descartes viene puntellata sulla insufficienza con cui la questione dell’essere sarebbe stata da lui posta, e sulla mancata presa in carico del fenomeno del mondo. ↩︎

  9. E. Levinas, Scoprendo l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 200 (corsivo nostro). ↩︎

  10. R. Descartes, Discorso sul metodo, La nuova Italia, Firenze 1963, p. 84. ↩︎

  11. Com’è noto, superando le molteplici obiezioni sollevate sulla legittimità dell’inferenza implicata dalla presenza di donc-ergo, la critica più recente sarebbe orientata a interpretare il cogito ergo sum come un’espressione performativa, una certezza intuitiva ricavata dalla ragione nell’atto stesso di ragionare, la scoperta compiuta dalla mente del meditante che si accorge che, quale precondizione di ogni dubbio, di ogni inganno, addirittura di ogni meditazione, ci deve essere un soggetto che è, che esiste. Il dubbio, l’inganno, la meditazione sono possibili solo se c’è un soggetto cui ineriscano, un io quale luogo a cui esclusivamente inerisce l’essere ingannato, l’errare, il meditare. Lo stesso Descartes, del resto, ha rivendicato il carattere intuitivo del suo enunciato, come pura constatazione, chiara intuizione della mente e non esito di un ragionamento della logica aristotelico - scolastica. ↩︎

  12. Dalla questione del «circolo», posta per la prima volta dal grande Arnauld, cartesiano convinto e legato al filosofo francese in un rapporto di grande rispetto e stima reciproca, com’è noto Descartes cercherà di divincolarsi nelle Risposte alle Obiezioni e nelle Meditazioni in sé, mostrando che, se si tiene conto dell’ordine analitico da lui seguito nell’iter metafisico, la presunta circolarità viziosa del suo argomentare non sussiste affatto. Il ricorso a Dio, una volta dimostrata la sua esistenza nella terza meditazione attraverso il principio dell’evidenza, interviene in un secondo momento per garantire le deduzioni o conclusioni la cui evidenza non è più in atto, perché passate nel dominio della memoria. A tale ricorso si sottrae il principio dell’evidenza e ancora prima il cogito, non solo perché raggiunto prima che risultasse l’esistenza di Dio, ma perché non è conclusione di una dimostrazione, come si è fatto notare, ma un’intuizione. ↩︎

  13. Un’analogia tra le argomentazioni levinasiane e quelle cartesiane è stato già notato da B. Forthomme, Une philosophie de la transcendance. La métaphysique d’Emmanuel Levinas, Vrin Paris 1979, le cui analisi ipotizzano un parallelismo tra i due pensatori su un piano puramente espositivo; anche Egle Bonan nel volume Soggetto ed essere si è soffermata sul debito cartesiano in Levinas, nell’intento di cogliere le falle della stessa struttura dell’etica levinasiana: la tesi dell’autrice è che, similmente al circolo vizioso che si potrebbe intravedere in Descartes, si può evidenziare in Levinas un cortocircuito tra ontologia ed etica, secondo cui il piano ontologico no viene in realtà mai superato (Cfr. E. Bonan, Soggetto ed essere, Piazza Editore, Treviso 2002. ↩︎

  14. Cfr. P. Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, pp. 14-16; 78-80. ↩︎

  15. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 24 ↩︎

  16. Per un approfondimento sulla cosiddetta «ontologia del soggetto» o «ontologia fondamentale», cfr. rispettivamente Cfr. R. Calin, Lévinas et l’exception du soi, Puf, Paris 2005; J. F. Courtine, La trama logica dell’essere, Hermann, Paris 2012, e Id., L’ontologie fondamentale de Levinas, in D. Cohen-Levinas et B. Clément, Emmanuel Levinas et les territoires de la pensée, Puf, Paris 2007, pp. 99- 119. ↩︎

  17. Per un approfondimento del tema della materialità e della carne in Levinas cfr. F. Nodari, Il pensiero incarnato in Emmanuel Levinas, Morcelliana, Brescia 2011, soprattutto alle pp.48-66. ↩︎

  18. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 25. In maniera simile, sempre in Totalité et Infini, Levinas ricorre al tema dell’ateismo creaturale per indicare la positiva separatezza dell’io, quella «separazione così completa che l’essere separato sta assolutamente solo nell’esistenza, senza partecipare all’Essere dal quale si è separato […] Si vive al di fuori di Dio, a casa propria, si è io, egoismo» (Ivi, pp. 56-57). ↩︎

  19. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Casale Monferrato 1986, p. 62. ↩︎

  20. Ibidem. Proprio in contrappunto all’idealismo, nel saggio Etica come filosofia prima, parallelamente all’argomentazione di Dall’esistenza all’esistente, i tratti di materialità dell’ontologia del soggetto vengono rimarcati in polemica ad esso. ↩︎

  21. Si ricorderà l’insoddisfazione di Ricœur rispetto all’osservazione che l’«io» del cogito che si salva dal dubbio è pura e semplice esistenza, del tutto disancorata dall’io concreto che parla, agisce, è soggetto di imputazione morale, ecc. (Cfr. Paul Ricœur, Soi.., p. 18; 82-83). Cfr per esempio anche U. Perone, L’identità del soggetto. Meditazioni su Descartes, in «Filosofia e teologia», n. 3, 1986, p. 499-532. ↩︎

  22. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 62. ↩︎

  23. Cfr. E. Levinas, Scoprendo l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., pp. 141-154. ↩︎

  24. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 63. ↩︎

  25. Ivi, pp. 64-65. ↩︎

  26. Ivi, p. 101; 63. ↩︎

  27. S. Malka racconta il rimorso espresso da Levinas per la preferenza che in quell’occasione aveva accordato ad Heidegger (cfr. Id., La vita e la traccia, Jaca Book, Milano 2003, pp. 62-63). ↩︎

  28. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 130. ↩︎

  29. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., pp. 64-65. ↩︎

  30. Cfr. Ivi, p. 104; 64. ↩︎

  31. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., p. 62. ↩︎

  32. Ibidem. Già il tema del corpo compariva in Quelques rèflexions sur la philosophie de l’hitlerisme, per introdurre la questione dell’incatenamento al biologico e la fatalità di un destino ineluttabile che la propaganda razzista stava concependo in quegli oscuri anni: «Che cos’è secondo l’interpretazione tradizionale il fatto di avere un corpo? È sopportarlo come un oggetto del mondo esteriore. Il corpo pesa a Socrate come le catene che costringono il filosofo nella prigione d’Atene; lo rinchiude come la tomba che gli è destinata. Il corpo è l’ostacolo. […] È il sentimento dell’eterna estraneità del corpo rispetto a noi che ha nutrito tanto il cristianesimo che il liberalismo moderno. […] L’importanza attribuita al sentimento del corpo, di cui lo spirito occidentale non ha mai voluto accontentarsi, è alla base di una nuova concezione dell’uomo. Il biologico, con tutta la fatalità che comporta, diventa ben più che un oggetto della vita spirituale, ne diviene il cuore. La voce misteriosa del sangue, gli appelli dell’eredità e del passato di cui il corpo è l’enigmatico portatore, perdono la loro natura di problemi sottoposti alla natura di un Io sovranamente libero. […] Da questa concretizzazione dello spirito deriva immediatamente una società a base sanguinea. E allora, se la razza non esiste, bisogna inventarla!» (E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 1996, pp. 31, 33-34). ↩︎

  33. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., pp. 215-216. In altri passaggi il filosofo scrive: «L’evidenza del cogito […] non può soddisfare l’esigenza critica, poiché l’inizio del cogito gli resta anteriore. Esso segna, certo, l’inizio, perché è il risveglio di un’esistenza che si appropria della propria condizione. Ma questo risveglio viene da Altri. Prima del cogito, l’esistenza può solo sognare di se stessa, come se restasse estranea a sé. Solo perché sospetta può sognare di sé e può svegliarsi. Il dubbio le fa cercare la certezza. Ma questo sospetto, questa coscienza del dubbio, presuppone l’idea del Perfetto. Il sapere del cogito rinvia così ad una relazione con il Maestro - all’idea dell’infinito e del Perfetto» (Ivi, p. 85). ↩︎

  34. Ivi, p. 46. ↩︎

  35. Parallelamente leggiamo in Descartes: «Come mi renderei conto infatti che dubito, che desidero, cioè che mi manca qualche cosa, che non sono del tutto perfetto, se non vi fosse in me l’idea di un ente più perfetto? […] Dico dunque che questa idea dell’ente sommamente perfetto e infinito è massimamente vera» (R. Descartes, Meditazioni filosofiche, in Opere Filosofiche, Vol. 1, Utet, Torino 1994, p. 692). ↩︎

  36. L’idea di Dio infatti è la sola idea il cui contenuto rappresentativo richiede una causa che non abbia una realtà adeguata, ovvero una causa perfetta che non può essere nel soggetto, e non potendo provenire dal soggetto, ne innesca l’uscita dal solipsismo e dalla sua autoreferenzialità. ↩︎

  37. Cfr. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., pp. 10; 23. ↩︎

  38. Cfr. E. Levinas, Scoprendo l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 197. ↩︎

  39. Ibidem↩︎

  40. Cfr. D. Arbib, La lucidité de l’éthique, cit., pp. 81-106. ↩︎

  41. Nella storia della filosofia, come fa notare Schnell, incontriamo questa figura dell’esteriorità già in Fichte: la formula levinasiana secondo cui l’«esteriorità assoluta dell’essere esterno non va persa puramente e semplicemente con il fatto della sua manifestazione; esso si “assolve” dalla relazione in cui si presenta» (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 48) caratterizza esattamente - nella Dottrina della Scienza del 1813 per esempio - il rapporto tra l’essere («assoluto») e il «fuori» che lo manifesta (e che Fichte chiama «fenomeno»). La dimensione manifestante e fenomenale è qui decisiva, in Fichte come in Levinas (cfr. A. Schnell, En face de l’extériorité. Levinas et la question de la subjectivité, Vrin, Paris 2010, p. 129). ↩︎

  42. E. Levinas, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1983, p. 73. ↩︎

  43. E. Levinas, Scoprendo l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 197. Detto altrimenti: «L’idea dell’infinito non parte dunque da Me, né da un bisogno nell’Io che misuri esattamente i suoi vuoti. In essa il movimento parte dal pensato e non dal pensatore» (E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 60). ↩︎

  44. Com’è noto, è attraverso questa categoria ermeneutica che si orienterà la lettura derridiana della riflessione di Levinas, da intendere come etica dell’ospitalità (cfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Levinas, Jaca Book, Milano 1998, pp. 79-81): Derrida prende le mosse commentando un passaggio di Totalité et Infini («Andare incontro ad Altri nel discorso significa accogliere la sua espressione nella quale egli va continuamente al di là dell’idea che un pensiero potrebbe portarne con sé. Significa dunque ricevere da Altri al di là delle capacità dell’Io; ciò che significa esattamente: avere l’idea dell’infinito», da E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 49) di cui mette in rilievo i termini «accogliere» e «ricevere», per indirizzare il suo lavoro proprio ad analizzare il gesto teoretico levinasiano di pensare l’apertura, «a partire dall’ospitalità» e «dall’accoglienza». ↩︎

  45. E. Levinas, Totalità e infinito, cit., p. 25. ↩︎

  46. Ivi, pp. 215-216. ↩︎

  47. Ibidem. In altri passaggi il filosofo scrive: «L’evidenza del cogito […] non può soddisfare l’esigenza critica, poiché l’inizio del cogito gli resta anteriore. Esso segna, certo, l’inizio, perché è il risveglio di un’esistenza che si appropria della propria condizione. Ma questo risveglio viene da Altri. Prima del cogito, l’esistenza può solo sognare di se stessa, come se restasse estranea a sé. Solo perché sospetta può sognare di sé e può svegliarsi. Il dubbio le fa cercare la certezza. Ma questo sospetto, questa coscienza del dubbio, presuppone l’idea del Perfetto. Il sapere del cogito rinvia così ad una relazione con il Maestro - all’idea dell’infinito e del Perfetto» (Ivi, p. 85). ↩︎

  48. Cfr. J. Derrida, Addio a Emmanuel Lévinas, cit., p. 88. ↩︎

  49. Ibidem↩︎

  50. Cfr. E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, cit., pp.62-63. ↩︎

  51. J. Benoist, Le cogito lévinassien: Lévinas et Descartes, cit., p. 109. ↩︎

  52. Jean Wahl (1953), Traité de métaphysique, p. 721. ↩︎