Soggettività come responsabilità: la provocazione di Levinas

Si je ne réponds pas de moi, qui répondra? Si je ne réponds que de moi, suis-je encore moi?1

La filosofia di Levinas ci piomba addosso come un «discorso lancinante».2 Che ognuno sia responsabile di tutti davanti a tutti, ognuno più di tutti gli altri; che l’altro abbia tutti i diritti su di me, fino a poter contestare il mio «diritto d’essere»; che la soggettività sia esposizione e accoglienza passiva dell’altro, di quell’Altro che è già in-scritto nelle pieghe più intime dell’Io: queste intuizioni levinasiane si impongono alle nostre coscienze con un certo effetto di disorientamento, incrinando certezze già consolidate e aprendo a un modus vivendi altro che «eccede» le consuetudini della ragione, inaugurando un «sovrappiù di razionalità»3 dal linguaggio nuovo, forse mai udito, che nel momento stesso in cui promette una forma altra di libertà e di relazione, pone non pochi problemi proprio tra i termini di questo rapporto intersoggettivo.

L’esperienza concreta e continua dell’alterità, «che assilla ogni pagina di Levinas»,4 sembra diventare il luogo stesso della posta in gioco del soggetto, facendosi condizione del suo senso, apertura e compimento delle sue possibilità, appello e ingiunzione pre-anarchica a quell’«evento quotidiano e straordinario» della re-sponsabilità,5 così che, come da più parti è stato notato, l’irruzione dell’altro in quanto altro e l’interruzione del soggetto in quanto coscienza, o quest’avvento dell’ordine della responsabilità nel cuore stesso della relazionalità, costituiscono un intreccio indissolubile e il fulcro stesso del pensiero di Levinas. E più ancora, possiamo dire con Egle Bonan6 che l’originalità di questo pensiero consisterebbe proprio nel suo tentativo di pensare il grande tema dell’alterità, ovvero della relazione interpersonale, senza togliere riconoscimento e dignità al momento soggettivo,7 anzi ri-pensandolo, rilanciandolo in chiave utopica, non più radicato sulle certezze autofondanti del cogito di cartesiana memoria, ma rinnovato di un senso nuovo nella responsabilità che non viene «scelta» ma «ingiunge» già da sempre dall’altro.

Ma che rapporto c’è allora tra una siffatta responsabilità che non è mai auto-diretta e la libertà del soggetto? Cosa resta del soggetto e quale sarà la sua natura, se l’ingiunzione an-archica dell’altro sembra scavarlo fino a corroderne le antiche e rassicuranti fondamenta? Con che forza tale appello etico «intriga» e sembra soggiogare/assoggettare il soggetto pur senza farlo soccombere?

1. Dall’ontologia all’etica

Ingiunzione senza ingiunzione, legge senza legge, direbbe Derrida. Apertura che è più e meglio che pensare (non il pensare qualcosa o qualcos’altro ma semplicemente il pensare), l’«epoché del pensare».8 Questo è quello che accade: una sospensione del pensare, tuttavia non decisa dal soggetto, ma provocata dall’altro, da qualcun altro che incrociamo sul nostro cammino e che improvvisamente irrompe. E allora avvertiamo anche con un certo smarrimento, il «mistero» di un appello etico che si rimette alla finitezza del nostro esistere, che si consegna con l’umiltà del «se si vuole». In questi termini, e senza temere di perdersi in «incontinenze verbali di un idealismo che ha fatto il suo tempo»,9 Levinas non nasconde che il suo proposito sia restituire all’uomo «la sua più alta dignità»10: dignità tutta umana, «dignità della finitezza», come dice Palumbo, che è «apertura a richiami di alterità che sfuggono a criteri di dominio, rifiuto di ancorare lo status viatoris a garanzie di fondazione e di direzione che riflettano aspettative di possesso».11. E se nel richiamarsi a questioni di dignità c’è chi ammette esserci una «candida ingenuità»12 da parte del nostro autore, tuttavia a lui va riconosciuto il merito di aver fatto luce su quel secolare oblio che la filosofia avrebbe reiterato proprio nel rapporto con l’umanità dell’Altro13: nel nome di Narciso «la filosofia occidentale ha scelto più spesso la strada della libertà e dello Stesso», facendosi auto-nomia,14 mentre per sua natura la filosofia è apertura all’«assolutamente altro», sarebbe «l’eteronomia stessa»,15 e il mistero e la dignità dell’alterità sarebbero «la figura più preziosa di quello che chiamiamo bene e il fondamento più saldo di quello che chiamiamo dovere».16

Tuttavia, se Levinas ha fatto della «responsabilità personale dell’uomo, nella quale egli si sente eletto e insostituibile»,17 il fulcro del suo messaggio, e la condizione necessaria «per realizzare una società umana in cui gli uomini si trattino da uomini»,18 società che è il «senso della vita»19 stessa, sarebbe errato guardare alla questione della soggettività come costituita nella responsabilità per l’altro quale fondamento dell’agire morale,20 come se, prima di agire moralmente, si volesse garantire l’essere dell’uomo attraverso la capacità del pensiero di fornirne una definizione.21. Piuttosto infatti, si domanda Levinas, l’etica è davvero un corollario dell’ontologia? Essa «non dice forse qualcosa di meglio dell’identità di pensiero ed essere e di tutto ciò che, a partire da tale identità, si può dire dell’uomo?».22

In una delle sue ultime lezioni tenute alla Sorbona, nell’anno accademico 1975-1976 Levinas presenta «l’interrogativo radicale» del pensiero nei termini di una contestazione dell’autosufficienza dell’essere, e prese ormai definitivamente le distanze da Heidegger definisce la différance (verrebbe da dire con Derrida) del suo approccio23:

Essere: è forse questa la significanza del senso? L’umanità… in quanto senso o razionalità o intelligibilità, in quanto spirito, e la filosofia in quanto espressione dell’uomo, si riducono forse all’ontologia? […] Tutto ciò intorno a cui l’uomo si interroga si risolve forse nella seguente domanda: che cos’è l’essere? Oppure dietro a tale interrogativo vi è una questione ancora più interrogante, […] non si ridurrebbe al problema o alternanza essere-nulla?24

È illuminante, a tal proposito, il breve commento di Levinas sull’episodio biblico dell’uccisione di Abele: a Dio che gli domanda «Dov’è tuo fratello?» Caino risponde: «Sono forse il custode di mio fratello?» (Gn 4, 9). Commenta Levinas: «Non bisogna prendere la risposta di Caino come se deridesse Dio o rispondesse infantilmente. La risposta di Caino è sincera. In essa manca solo l’etica, vi è solamente ontologia: io sono io e lui è lui».25 Come se l’ontologia rimanesse intrappolata nel rischio di solipsismo dell’identità e nella sua solitudine:

Per mezzo della vista, del tatto, della simpatia, del lavoro in comune, noi siamo insieme con gli altri. Tutte queste relazioni sono transitive: io tocco un oggetto, io vedo l’Altro. Ma io non sono l’Altro. Sono da solo. È dunque l’essere in me, il fatto che esisto, il mio esistere che costituisce l’elemento assolutamente intransitivo, qualcosa ch’è senza intenzionalità, senza rapporto. Gli esseri possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l’esistere. In questo senso essere significa isolarsi per il fatto di esistere. Io sono monade in quanto sono.26

Ecco perché, incalza Levinas,

domandiamo se l’umanità dell’uomo si definisca esclusivamente attraverso ciò che egli è o se, nel volto che mi domanda una significanza diversa da quella ontologica — e più antica — non stia prendendo senso e risvegliando un pensiero altro dal sapere…27

…non nel senso che dell’ontologia egli pretenda farne a meno.28 Piuttosto, pur non essendo «un momento dell’essere»29 ma «altrimenti e meglio dell’essere», la relazione con l’Altro rimane al tempo stesso «un accesso all’essere»,30 anzi «la relazione ultima nell’essere»,31 una situazione in cui «l’essere è di fronte a me».32 Non si tratta di denunciare sommariamente la ragione, né semplicemente di sostituire l’atteggiamento teoretico con quello etico; l’anteriorità del rapporto etico non distrugge né il rapporto conoscitivo, né il pensiero, né la razionalità.33 Non si tratta di

… contestare il conoscere. L’essere umano si lascia certamente trattare come un oggetto e si consegna al sapere nella verità della percezione e alla luce delle scienze umane. Ma, trattato esclusivamente come un oggetto, l’uomo è anche maltrattato e misconosciuto.34

Per questo è necessario approcciarsi all’essere e pensare l’umano altrimenti, per verificare se il soggetto «è soltanto soggetto di saperi e soggetto di poteri», o accertare se esso «non si offre come soggetto in un altro senso».35. Se il soggetto fosse nella coscienza quell’«unità dell’io so e dell’io voglio»,36 niente potrebbe impedirgli «di invadere la realtà come una vegetazione selvaggia che assorbe o spezza o caccia tutto ciò che la circonda».37 Ma può «l’umano», dice Levinas, pensato «a partire dall’ontologia come libertà, come volontà di potenza […] o a partire dall’angoscia (sguardo immerso nell’abisso del nulla) che si proverebbe in ogni emozione e in ogni in-quitudine», può questo umano «essere considerato ancora all’altezza di ciò che, nella deficienza umana, coglie l’intelligenza moderna?».38. Lo stesso Heidegger, pur avendo presunto l’esserci come temporalità e quindi come passività, ne ha poi fissato l’identità nella sua capacità di dominare le sua possibilità, e perfino la possibilità dell’impossibilità, la morte, cioè anticipandola con una decisione eroica, in definitiva ha continuato a cogliere l’essere umano come «potere» e come «verità e luce»; il mistero della finitezza del Dasein, «deficienza umana», è da lui concepita ancora come «il rovesciamento del suo sforzo d’essere», identificato ancora come compito e destino dell’uomo, e parimenti le disposizioni affettive e l’«angoscia», nota Levinas, «sono tutte ontologie».39 La metafisica, invece, è «il primato dell’etica»,40 «entra in gioco là dove entra in gioco la relazione sociale — nei nostri rapporti con gli uomini… Altri è proprio il luogo della verità metafisica»,41 e in quel luogo si schiude l’umano, una nuova modalità dell’essere rispetto all’alterità che si ha «di fronte», un nuovo modus essendi per la soggettività. La «difesa» della soggettività che Levinas propone, infatti, compiendosi come superamento dell’io auto-fondato e «logocentrico» della tradizione occidentale, non si compie unicamente in quel movimento di derridiana critica della metafisica della presenza; si compie in un orizzonte che eccede ed è oltre, altrimenti «che essere», e più precisamente, dirà meglio Levinas nella sua seconda grande opera,42 la soggettività si trova già fondata «nell’idea dell’infinito», segnata da un’«esteriorità radicale», come Altro-nel-Medesimo.43

Dunque, affacciandosi delicatamente al di là dell’essere, ecco la necessità del ribaltamento del senso e del valore dell’ontologia e la necessità di volgersi altrove, per reperire un luogo possibile all’epifania del senso: è così che si aprono le figure fondamentali dell’altro, dell’esteriorità, dell’etica, tutte le figure che non fanno che reiterare un movimento di erosione dell’identità. In altre parole: una passività, sempre più chiaramente intesa come una positiva corrosione dell’io e come responsabilità, a fronte dello scandalo» che è il sopravvenire dell’altro.

2. La «meraviglia» dell’«esteriorità radicale»: l’altro-nel-Medesimo

Sostenere che l’«intrigo etico» sia la trama ultima dell’intelligibilità (o che l’etica è «filosofia prima»)44 vuol dire mettersi in ascolto di due annodate meraviglie: che l’alterità radicale di Altri restando tale ci riguardi e ci interpelli (tema portante di Totalità e Infinito) e che il «per-altro» sia «l’avventura più profonda della soggettività»,45 la sua «ultima intimità» (tesi chiave di Altrimenti che essere). Così l’esperienza46 dell’alterità si intreccia e si trova anzi già presente nel processo stesso della costituzione dell’identità soggettiva: l’alterità nel cuore del Medesimo, alterità come oltrepassamento del pensiero oggettivante, «fuoriuscita dal rapporto soggetto-oggetto e dal rapporto mezzo-fine».47. Concepito quale «via per rendere giustizia all’Altro», al «mistero» di quell’«Uno al di là dell’essere che ogni filosofia avrebbe voluto dire»48 e che rimane sempre assolutamente altro, il pensiero levinassiano nel momento in cui colpisce pieghe e tentazioni strutturali della metafisica tradizionale si riallaccia ad alcune intuizioni della stessa filosofia occidentale,49 quali l’affermazione di Platone secondo cui il culmine dell’ascesa filosofica è il Bene al di sopra dell’essere (Repubblica 517 b9, 518 d),50 la sua tesi che il vero discorso (concepito altrove come discorso interiore) è un discorso con gli dèi (Fedro 273-274), l’intuizione cartesiana dell’idea dell’infinito, il disegno kantiano dell’imperativo categorico e il primato della ragione pratica: tutte «spie», queste, che proprio all’interno di quella filosofia dell’Identico indicano la presenza di un’autentica (benché minoritaria e quasi sommersa, suggerisce Ferretti)51 «eteronomia», capace di rivendicare una relazione con l’Altro non improntata al conoscere come «possesso», «abbraccio dello sguardo» e «tematizzazione», né alla «fusione», alla «sintesi» dei termini, ma che lasci «aperte le sproporzioni tra soggetto e alterità»,52 che lasci intatta, nel suo mistero insondabile che sfugge ad ogni presa, l’esteriorità radicale.

Lasciati alle spalle Husserl e Heidegger, venuta meno la fiducia nelle capacità fondative dell’ontologia, la «svolta etica» levinassiana, volta a salvaguardare «l’alterità altrui… non riconducendola alle categorie del soggetto conoscente o all’orizzonte dell’essere quale orizzonte della coscienza»,53 sembra mirare a un rilancio della dimensione soggettiva ben oltre la disfatta del cogito e la critica della nozione stessa di intenzionalità, fino a far quasi saltare ed esplodere l’io nel suo fondamento «egologico»,54 in un processo di de-centramento, erosione, sradicamento, de-nucleazione, de-sostanzializzazione del soggetto, che tende come «pars construens» all’obiettivo stesso di Totalité et Infini: «una difesa della soggettività, ma non… al livello della sua protesta puramente egoistica contro la totalità, né nella sua angoscia di fronte alla morte, ma come fondata nell’idea dell’infinito».55. E, quasi riproducendo il paradigma etico ebraico dell’umano che scaturisce e si impone alla libertà del singolo a partire dall’esperienza della trascendenza-immanente di Dio, similmente Levinas giunge a scandire i passi di una soggettività ora intesa come responsabilità e pre-originaria «apertura alla trascendenza»56 proprio a partire dall’esperienza della separazione e dell’irriducibile alterità dell’altro, che «accade» primordialmente dinanzi all’io, prima di ogni sua «posizione» e di ogni autonomia e insieme sempre fondandosi sulla sua libertà; in questo senso «l’esperienza di Altri»57 è «esperienza per eccellenza»,58 esperienza radicale, nel senso dello scompiglio della progettualità e dell’interruzione di ogni movimento soggettivo; essa è l’«unica vera esperienza di alterità».59 Non è l’alterità del rapporto dell’io con il mondo o dell’io con un altro io, alterità che Levinas chiama «formale», in quanto l’io vi permarrebbe in posizione di potere e di mantenimento dell’iniziativa; non è nemmeno un’alterità che si esprime come resistenza di un altro potere al potere dell’io (o al potere del «Medesimo», dice anche Levinas), non è «sordamente apparentata al Me come il Non-Me di Fichte»,60 come afferma Tilliette, ma è “un’alterità anteriore ad ogni imperialismo del Medesimo”,61 che “batte nel cuore del medesimo”.62

Scrive il nostro Autore in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger:

Abbiamo chiamato la relazione che congiunge l’Io all’Altro «Idea di Infinito», […] rapporto che, pur mantenendo il più nel meno, non si trasforma in una relazione in cui, come affermano i mistici, la farfalla attirata dal fuoco si consuma nel fuoco… Pensando l’Infinito, l’io pensa immediatamente più di quanto non pensi.^[63]

Vale a dire, l’idea dell’infinito,63 presente in me come una realtà oggettivo-rappresentativa tale che essa va al di là di quanto io stesso possa comprendere con la mia mente finita, diventa il «disegno formale» del rapporto con l’altro come relazione asimmetrica e palpitante nella sproporzione. La relazione con l’Infinito, da intendersi non come «quella che collega il contenente al contenuto, poiché l’io non può contenere l’Infinito, né quella che collega il contenuto al contenente, poiché l’io è separato dall’Infinito»,64 è la «struttura formale«che opera la «rottura della totalità immanente del cogito»,65 come stupefacente apertura alla «meraviglia dell’esteriorità», ovvero la «struttura ultima dell’essere»66 come disegno formale della relazione metafisica tra il Medesimo e l’Altro, capace di scavalcare la logica identitaria della ragione e i limiti della corrispondenza fenomenologica noesi-noema, verso un «altrove» che oltrepassando il carattere originario dell’intenzionalità rappresentativa del conoscere si instaura e vive nella sproporzione: «l’idea dell’Infinito implica un pensiero dell’Ineguale… ciò che quest’idea ha di mira è infinitamente più grande dell’atto stesso con cui lo si pensa. C’è sproporzione tra l’atto e ciò a cui l’atto permette di accedere…67». L’idea dell’Infinito non parte assolutamente dall’io e non ha la funzione di misurare i suoi vuoti o di soddisfare i suoi bisogni; in essa «il movimento parte dal pensato e non dal pensatore. È l’unica conoscenza che presenti questo rovesciamento — conoscenza senza a priori. L’idea dell’Infinito si rivela, nel senso forte del termine».68. L’esplosione del pensiero ha positivamente un significato di apertura a ciò che trascende il pensiero: pensare l’infinito non è alla stregua del pensare un oggetto, significa in realtà «più» che pensare, dove il «di più» è tuttavia una traccia di assoluta dipendenza, che la coscienza si porta dentro. Come fa notare Currò, l’io è l’assolutamente separato ma allo stesso tempo l’assolutamente indipendente. L’infinizione, cioè la significazione positiva, dell’idea dell’infinito, si produce «con il fatto inverosimile nel quale un essere separato fissato nella sua identità, il Medesimo, l’Io contiene nonostante tutto in sé ciò che non può né contenere né ricevere in virtù della sua sola identità».69

Relazione in cui non accada che «la trascendenza della relazione tronchi i legami implicati da una relazione, ma senza che questi legami uniscano in un tutto il Medesimo e l’Altro»,70 il «miracolo dell’idea dell’infinito»71 mostra intatta l’altezza della trascendenza, relazione senza sintesi, inintegrante, non riconducibile al rapporto tra contenente e contenuto, né a quello tra conoscente e conosciuto. Non si tratta infatti di alcun tipo di fusione o di totalizzazione; il finito e l’infinito non potrebbero conservare la propria essenza, commenta Peperzak,72 se il loro rapporto non implicasse una separazione insuperabile, che nessuna mediazione mistica o teorica potrà mai abolire.

Relazione nell’indipendenza, «relazione con un’alterità totale, irriducibile all’interiorità e che, però, non fa violenza all’interiorità»,73 il rapporto con Altri è un «faccia a faccia che […] va più lontano della visione»74 (sempre adeguazione tra l’idea e la cosa), e in cui viene preservata l’eterogeneità, relazione in cui la divinità mantiene le distanze,75 il Dio non tematizzabile dal logos del pensiero;76 rapporto che si nutre del senso della distanza, i cui termini non formano una totalità, ma debbono essere in grado di «assolversi» dalla relazione stessa, in quanto né si costituiscono in virtù di essa, né in essa si risolvono, ma vivono la relazione positivamente «separati», l’uno nella «medesimezza del proprio io»,77 l’altro nell’alterità della propria assoluta esteriorità. Scrive Levinas: «La separazione non è soltanto, secondo il modo dialettico, correlativa alla trascendenza come suo rovescio. Essa si attua come un fatto positivo»,78 come per rispondere all’argomentazione così spesso ripetuta da Hegel, che il pensiero di una separazione assoluta di finito e infinito rinnega l’infinitezza dell’infinito, che risulterebbe così limitato dalla sua opposizione al finito; laddove presupponendo invece che l’infinito debba superare tutti i limiti e incorporare tutti gli esseri finiti, il finito diventa un momento dell’infinito, l’infinito decade a totalità che assorbe in sé l’insieme delle sue parti, fino a configurarsi come quell’identico che non ha più esteriorità, e soprattutto che non è in rapporto a ciò che lo trascende come autentico ab-solutus. In altro modo, invece, l’infinito mostra la sua esteriorità, la sua trascendenza e la sua altezza radicale. L’infinitezza positiva dell’infinito non è, infatti, definita dalla sua grandezza, dalla sua universalità o dal suo carattere totalizzante e illimitato, bensì dalla sua assoluta alterità. Si tratta di un’idea positiva di separazione, tanto congenita alla cultura ebraica, che non implica affatto una negazione dell’essere da cui si separa; Levinas ci mette in guardia dall’interpretare la separazione come una semplice diminuzione dell’infinito, una degradazione, una semplice «caduta dell’infinito»; e prendendo le distanze da ogni forma di teologia negativa, scrive:

L’alterità metafisica non si ottiene forse con l’enunciazione superlativa delle perfezioni la cui pallida immagine colma questa terra? Ma la negazione delle imperfezioni non basta alla concezione di questa alterità. Appunto, la perfezione supera la concezione, va al di là del concetto, delinea la distanza… L’idea dell’infinito designa un’altezza e una nobiltà, una transascendenza.79

La trascendenza, cioè, non sorge per semplice negatività dialettica; non è la negatività dell’io, la negazione della sua finitudine, la negazione delle sue imperfezioni. Non è la sommità di un Dio che si nega allo sguardo del profeta, né l’Essere Eterno cui ci si può avvicinare negandogli ciò che ai nostri occhi è perfetto, perché «la negatività è incapace di trascendenza»,80 «la non-presenza dell’Infinito non è una figura della teologia negativa».81 L’idea dell’infinito, «messa in noi» con gran scandalo per il mondo socratico della maieutica82 è segno di una passività senza paragoni, la passività del mettere in noi ciò che non può essere assunto. L’in-fini, letteralmente, pro-voca il pensiero chiamandolo, risvegliandolo, come se si trattasse di un’esigenza, di un ordine dato e irrecusabile. Nel finito senza poter essere contenuto, l’infinito è l’impossibile. Si tratta esattamente della caratterizzazione aporetica nella quale Derrida riconosce l’evento. Esperienza dell’impossibile che «si impone sempre in riferimento all’altro».83 L’inqualificabilità dell’altro, la sua «atopia», per dirla con Roland Barthes,84 non deriva da un segreto dell’interiorità che potrebbe pur sempre tradirsi e decifrarsi nei segni dell’espressione. La sua opacità è nella sua stessa evidenza: in essa, propriamente, «non c’è nulla da scoprire».85

La separazione riguarda proprio quell’indipendenza costitutiva, o per usare le parole di Levinas, quella «dipendenza eccezionale»,86 senza la quale non si darebbe la relazione stessa tra Medesimo e Altro, e in cui si tutela insieme la dignità del finito e l’indisponibilità assoluta dell’Altro.

Criticando sempre con decisione il concetto di rapporto con l’infinito o con Dio in termini di partecipazione mistico-estatica, Levinas parla di una «distanza tra me e Dio, radicale e necessaria»87 come condizione imprescindibile affinché l’idea di trascendenza, nel suo senso religioso e altresì nel suo essenziale senso filosofico, non sia contaminata dalle commistioni partecipative tipiche delle forme di culto sacrali e taumaturgiche. Ecco perché, come condizione per l’autentico rapporto con un Dio irriducibile ad idolo, un Dio che «si riveli kath’autò», Levinas invoca un «ateismo metafisico» che coincide con la creaturalità88 come status di separazione infinita, di dipendenza senza possibilità di emancipazione, e nello stesso tempo di autonomia, di «dignità assoluta, separazione innata che non è allontanamento e nostalgia, non è negatività, ma alterità»,89 che non comporti né il possesso oggettivante né l’immersione partecipativa della farfalla attirata dal fuoco che si consumi in esso:

non perché la nostra intelligenza sia limitata ma perché la relazione con l’infinito rispetta la Trascendenza totale dell’Altro senza esserne ammaliata e perché la nostra possibilità di accoglierlo nell’uomo va ben al di là della comprensione che tematizza ed ingloba il suo oggetto.90

E ancora: «Porsi di fronte all’assoluto da atei significa accogliere l’assoluto epurato dalla violenza del sacro… Solo un essere ateo può porsi di fronte all’Altro e subito assolversi da questa relazione».91 Relazione inevitabilmente affetta da disproportion e dénivellement, l’idea dell’infinito è il paradosso di un Infinito che sta in rapporto con il finito «senza smentirsi in questo rapporto»,92 che vive della separazione non nella direzione avvilente del solipsismo,93 ma come luogo in cui accade che «la sorte dell’io sia proprio quella di venire riguardato e investito da ciò che non resta affatto relativizzabile all’io».94

Altro-nel-Medesimo, l’alterità «mi intriga» senza che io possa nulla, senza che io possa sottrarmi: un’alterità nel medesimo, come incarnazione, come «essere-nella-propria-pelle»,95 come «aver-l’altro-nella-propria-pelle», anche in senso letterale: è il corpo a rendere l’io altro in termini di responsabilità ossessiva, a esporlo all’alterità, a diversificarlo come — accusativo assoluto — rispetto alla coscienza, e a impedire che l’avere coscienza di si risolva nell’auto-identificazione. È il corpo, insiste Augusto Ponzio, a «rendere la soggettività irriducibile alla coscienza e alla tematizzazione. Per esso è già dato da sempre, prima di qualsiasi impegno e iniziativa, un rapporto con l’altro al di là della visione, un rapporto di prossimità, di contatto. Ancor prima della distanza necessaria alla visione, alla tematizzazione… è data, nella passività corporea, la prossimità dell’altro».96 Dunque la sporgenza del Bene sull’Essere con cui già Platone aveva pensato in qualche modo l’alterità assoluta si dà come relazione asimmetrica, preesistente alla logica dello svelamento e al piano ontologico della verità come aequatio tra enti, e che si pone altrimenti, «come la sporgenza della relazione sociale»,97 come l’irrompere dell’infinito nel finito, il più che si ritrova nel meno, come relazione con una presenza che è presente nel modo dell’infinita separazione, e si fa appello affinché percorriamo in un modo inedito la distanza, tuffandoci nel movimento di trascendenza verso l’altro nell’impegno etico, nell’evento quotidiano e straordinario della responsabilità.

3. L’ingiunzione a rispondere: il volto

L’idea dell’infinito, aveva detto Levinas, «si rivela».98. Si dà di fatto già un rinvio dall’idea dell’infinito alla responsabilità etica e viceversa. «La responsabilità di fronte ad altri produce l’espressione del dì più di coscienza nella coscienza»;99 e d’altra parte, «l’idea dell’infinito, l’infinitamente di più contenuto nel meno, si produce concretamente sotto la specie di una relazione con il volto».100 E il volto, dice altrove, «parla».101. Resistendo cioè al «processo» di identificazione tematizzante e al movimento dell’intenzionalità coscienziale, la «relazione metafisica» indicata dall’idea dell’infinito si produce, in un modo altrimenti, concretamente nella «relazione etica» con l’Altro, «miracolo dell’etica prima della luce».102. «Esperienza per eccellenza», la relazione con l’assolutamente altro, ossia con «ciò che eccede sempre il pensiero»,103 spiega Levinas, si produce già in Totalité et Infini come Desiderio: «non come un Desiderio che è appagato dal possesso del Desiderabile, ma come il Desiderio dell’Infinito che è suscitato dal Desiderabile invece di esserne soddisfatto».104. Solo così il desiderio dell’altro, osserva Ciaramelli, diventa per Levinas la «congiuntura positiva» in cui la categoria dell’infinito- ossia la categoria che permette di aprire il discorso filosofico, oltre ogni chiusura nell’immanenza della totalità e del soggettivismo, alla trascendenza dell’alterità radicale — perde la sua astrattezza speculativa e diventa enucleazione del senso ultimo che emerge dall’umano.105. Movimento «abramico» verso la terra promessa, verso un «laggiù»che non è «un altro mondo dietro al mondo»,106 il «desiderio dell’invisibile» o «desiderio metafisico» viene descritto come tensione «verso una cosa totalmente altra, verso il totalmente altro»,107 richiamo che non nasce in chiave di indigenza ma come slancio che «nasce in un essere che non manca di nulla o, più esattamente, nasce al di là di tutto ciò che potrebbe mancargli o appagarlo»;108 esso non è quindi né nostalgia di ciò che era proprio e si è perduto, né il male del ritorno di un Ulisse peregrino sulla terra e alla ricerca di casa, né fame o bisogno che possa essere soddisfatto dall’oggetto che intende: «l’esteriorità, estranea ai bisogni, rivelerebbe quindi un’insufficienza, piena appunto di questa insufficienza e non di speranze, una distanza più preziosa del contatto, un non-possesso più prezioso del possesso, una fame che si nutre non di pane ma della fame stessa»;109 così, il Desiderato viene a caratterizzarsi proprio per la dismisura che fa scattare all’interno del rapporto che intrattiene con il desiderante: «Il Desiderio è desiderio in un essere già felice: il desiderio è l’infelicità del felice, un bisogno “di lusso”… È il Desiderio che misura l’infinità dell’infinito, infatti esso è misura proprio per l’impossibilità di misura».110

Come puntualizza Salvarezza,111 con Levinas si è oltre la «contabilità» del concetto con il quale l’io si certifica assimilando a sé l’ente straniero, appunto organizzando il desiderio nello schema della visione in ragione della sicurezza e della sua libertà. La sovrana identificazione dell’io è infatti proprio ciò che la struttura originaria del Desiderio ora interdice. Infatti, spiega Levinas, «il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura, che non è stato la nostra patria e nel quale non ci trasferiremo mai».112 Desiderio inappagabile, figlio di Pòros e Penìa, ha dunque come forza trainante non le mancanze e le pretese dell’io ma l’inattingibilità dell’altro, la dimensione di trascendenza che in nessun modo può essere riportata alla totalità del mio io o del mio mondo, quell’alterità che il desiderio intende e che sempre gli resta intoccabile: desiderio come intenzionalità affettiva, di natura non nostalgica, tesa a ciò che non può abbracciare:

La relazione con l’Infinito non è una conoscenza […] non ha più la struttura di una correlazione intenzionale […] E per poter sollecitare il Desiderio, pensiero che pensa più di quanto pensi, l’Infinito non può incarnarsi in un Desiderabile, infinito, non può essere racchiuso in un fine. Sollecita verso un volto […] un Tu si inserisce tra l’Io e l’Egli assoluto. La correlazione è spezzata.113

Eccedenza sempre inadeguata al suo oggetto, lungi dall’essere idea o concetto, l’alterità dell’altro, nella sua inviolabilità e santità,114 si incarna nel «volto», definito come «la modalità in cui si presenta l’Altro»,115 «l’unica apertura in cui la significazione del Trascendente non annulla la trascendenza per farla entrare in un ordine immanente, ma in cui, al contrario, la trascendenza si mantiene come trascendenza».116. Tema centrale del pensiero levinasiano, di continuo ripreso da Totalité et Infinie negli altri suoi saggi con un’inesauribile capacità di esplorare e di ri-dire il già detto in modo sempre rinnovato e arricchito, il tema del volto117 è la chiave di volta della proposta etica del nostro autore, luogo dell’oltrepassamento della logica dell’intenzionalità rappresentativa e della logica dell’altrove scaturente dalla negatio della finitudine umana, luogo in cui passa a descrivere «positivamente»118 la natura etica della relazione metafisica.

Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro, che supera l’idea dell’altro in me. Questo modo non consiste nell’assumere, di fronte al mio sguardo, la figura di un tema, nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altri distrugge ad ogni istante, e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del suo ideatum — l’idea adeguata. Non si manifesta in base a queste qualità, ma kath’auto. Si esprime.^[120]

Scompiglio agli schemi della pura visibilità, la relazione diretta con il kath’auto non può essere di conoscenza, è la relazione all’espressione del volto, nella nudità dello sguardo. È il rapporto diretto per eccellenza, in cui «la Parola sporge sulla visione»,119 «presenza viva», «già discorso, disfa la forma che offre»120 «presente nel suo rifiuto di essere contenuto»,121 disarciona lo sguardo che tematizza e svela l’unico e le differenze,122 ponendosi dinanzi all’io (prima di ogni sua mossa e prima di ogni sua scelta) non come svelamento «ma rivelazione».123. È nel linguaggio del volto che si ha dunque l’esperienza assoluta dell’alterità, linguaggio che si esprime, e si esprime come volto-nudo, come «appello etico», «resistenza assoluta» che «si oppone a tutti i miei poteri»,124 messa in forse della libertà auto-noma della coscienza, scacco sorprendente del suo tranquillo riposo presso di sé. Il volto parla, e si fa invocazione.

Crollo della buona coscienza, esposizione della libertà del singolo al «giudizio dell’Altro», la presenza del volto, nella sua epifania pre-anarchica, è anteriore ad ogni posizione dell’io, nel suo «logos: Non ucciderai»125 pone fine ai poteri dell’io, come «resistenza etica» che nella nudità totale e indifesa dei suoi occhi trascende ogni dimensione di potere, «resistenza di ciò che non ha resistenza — la resistenza etica.126». Luogo della trascendenza, l’epifania del volto interrompe, interpella e convoca il soggetto ora non più presente a sé ma scopertosi sub-jectus, sotto il peso dell’universo intero e chiamato a rispondere di esso, identità di «pura elezione» non come particolarità dell’«apax»127 fatta di meriti e di privilegi dell’io, ma elezione come «l’unicità del convocato»,128 ingiunzione a rispondere e a farsi carico della chiamata unica cui si è esposti senza possibilità di declinare o di farsi sostituire, «obbedienza anteriore ad ogni decisione volontaria che l’avrebbe assunta»129 e pertanto estranea a ogni forma di rivendicazione di meriti, e piuttosto interamente e primordialmente iscritta nell’orizzonte del gratuito e della Bontà radicale.

In Levinas, l’Altro è il luogo a cui l’io è ordinato dall’elezione del Bene e in cui, in forza di questa stessa elezione, egli ritrova la sua individualità. L’io è unico solo di fronte ad Altrui.130 Certo, afferma Levinas,

Altri si offre ad ogni mio potere, soccombe ad ogni mia scaltrezza, ad ogni mio crimine… Ma può anche- ed è in ciò che mi presenta il suo volto- opporsi a me, oltre ogni misura, attraverso la scoperta totale e la totale nudità dei suoi occhi senza difesa, attraverso la rettitudine, attraverso la franchezza assoluta del suo sguardo… la vera esteriorità è in questo sguardo che mi interdice ogni conquista… Noi chiamiamo volto l’epifania di ciò che può presentarsi ad un tempo direttamente ed esteriormente ad un Io.131

E ancora:

Ma l’epifania d’Altri comporta una significazione propria, indipendente da questo significato ricevuto dal mondo. Altri non ci raggiunge solo a partire dal contesto, ma senza mediazione egli significa per se stesso… La sua presenza consiste nel venire verso noi, nel fare un’entrata. Ciò si può esprimere così: il fenomeno che è l’apparizione d’Altri è volto.132

«Autosignificanza per eccellenza»,133 il volto non indica quindi semplicemente la presenza d’Altri,134 ma esprime la modalità secondo la quale tale presenza si dispiega, un certo modo di essere presente dell’altro; è precisamente ciò che rimane dell’altro una volta esauriti tutti i riferimenti al mondo esterno e alla stessa esperienza interiore dell’io, una volta esaurito l’ordine dei rimandi all’esistenza dell’io e a quella del mondo: «interruzione stessa della logica di ogni possibile semiosi»,135 il modo di manifestarsi del volto «supera l’idea dell’Altro in me»,136 è «visitazione».137. La riflessione di Levinas sul tema del «volto» è di fondamentale importanza perché esso specifica il senso della presenza d’Altrui: il nostro autore parla di «nudità», «rettitudine», «franchezza»; la presenza del volto è quell’irriducibile nei confronti del quale, caduta ogni potenza interpretativa, è possibile stare solo di fronte (di faccia), nei confronti del quale non c’è una terza via oltre l’arrendevolezza o la distruzione.138

La nudità del volto non è ciò che si offre a me perché io lo scopra, e che, da questo fatto, si troverebbe offerto a me, ai miei poteri, ai miei occhi, alle mie percezioni in una luce esteriore a lui. Il volto si è rivolto verso me, ed è questa la sua nudità stessa. Egli è per lui stesso e non affatto per il riferimento ad un sistema.139

La nudità è del volto. Ciò che è nudo, nella sua povertà, non permette più lo s-velamento, ma solo l’accoglienza o il rifiuto. In questo senso la nudità del volto chiama ad una decisione. La nudità è ciò che non è più in mio potere, ciò che certamente si offre anche all’offesa, ma in questa violenza non è annientata, bensì trasformata in sacrificio. “Nuda presenza”, il volto non si svela, piuttosto si esprime: «Svelare, a partire da un orizzonte soggettivo, significa già perdere il noumeno. Solo l’interlocutore è il termine di un’esperienza pura in cui altri entra in relazione, pur rimanendo kath’autò; in cui si esprime senza che lo si debba svelare a partire da “un punto di vista”».140. Così esso si dà, nell’espressione e sembra essere proprio un’autentica «“fenomenologia” del noumeno ciò che si compie nell’espressione»141: irriducibile alla visibilità, il volto nel suo apparire rivela un’estraneità, o un’eccedenza, rispetto all’ordine della manifestazione. L’altro è certamente colto a partire da uno sguardo che lo mira all’interno di una certa prospettiva, secondo un certo punto prospettico, ma ad avviso di Levinas «da questo punto di vista» egli non rivela mai il suo volto; il volto dell’altro appare, si esprime, solo in quanto residuo, solo quando ogni ermeneutica è finita. In tal senso, dice Petrosino, «non è l’io a cogliere, vedere il volto, ma è il volto a sorprendere l’io».142 E più ancora, spogliandosi della forma che tuttavia lo manifesta,143 il volto non si identifica con la figura che l’intenzionalità coglie, piuttosto esso «è astratto»,144 di un’astrattezza che si fa resistenza al processo di identificazione dell’intenzionalità e «resistenza totale alla presa», irriducibile a farsi contenuto afferrabile dal pensiero: esso è «l’incontenibile, ti conduce al di là»145 sul limite delle proprie possibilità, attivando la responsabilità-per-l’altro.

Ci si troverebbe a sperimentare un aldilà inafferrabile, un’impossibilità che si fa legame, una sorta di pervertimento dell’intenzionalità e di ogni «appetito di luce»,146 per il quale il dominio non costituisce più la risposta autentica. Dovremo domandarci, con Salvarezza,147 se la relazione istituita dal Desiderio non sia già questo modo radicalmente non-intenzionale di accedere all’incontro con Altri, «nel senso morale del termine», come tensione verso un oltre che deve restare estraneo e inaccessibile e a cui l’io si trova, senza sapere come, già legato. L’io cioè si trova già coinvolto in una comunicazione «senza frasi e senza parole», oltre ogni semiosi possibile, in cui l’uguaglianza della coscienza esplode, conservando nel fondo una presenza viva che la inquieta e la «risveglia»148: è l’interpellanza del prossimo, in cui consisterebbe secondo Levinas l’incognita originaria del pensiero. Al fondo di ogni sapere vi sarebbe infatti un’attitudine, una passività- passione da sempre obliata, così come rimossa e dimenticata è nel logos la relazione etica con il reale: si tratta della relazione di prossimità appunto istituita dal contatto del volto umano che penetra la coscienza:

Il contatto è l’ossessione di un Io “assediato” dagli altri. L’ossessione è una responsabilità. Ma la responsabilità dell’ossessione non scaturisce da una libertà […] La responsabilità, in quanto ossessione, è prossimità: come una parentela, un vincolo anteriore a ogni relazione scelta.149

Si tratta dell’evento di comunicazione per eccellenza, in cui il contatto con l’immediatezza del volto «resta prossimità senza farsi intenzione di qualcosa», in cui «non sarà detto nulla, eccetto questo contatto… complicità e alleanza senza contenuto»,150 in cui ogni carattere di rinvio dei segni è soppresso, e l’unica forma di approccio all’alterità sarà non più dell’ordine della comprensione, ma sarà già passione-passività-esposizione, nel rigore dell’esigenza morale.

4. Responsabilità come «liturgia»

L’etica diventa così il luogo della rivelazione stessa del volto dell’altro e di conseguenza della natura più profonda dell’io: il volto, la cui epifania etica consiste nel sollecitare una risposta, è il luogo stesso in cui l’Assoluto accade ed irrompe nel cerchio chiuso dell’identità dell’io, liberandolo dal solipsismo della coscienza ed elevandolo all’altezza della responsabilità. «Luogo stesso della verità metafisica»,151 non ramo della filosofia ma «filosofia prima»,152 non sia però da intendere come sporgenza generosa e orientata del Medesimo verso l’Altro nel senso di una «soggettività impegnata»,153 ma nel senso di una rifondazione dell’identità soggettiva come «l’Altro nel Medesimo»154 dove è l’Altro che interviene nella definizione del Medesimo, come «essere-nella-propria-pelle», come «avere-l’altro-nella-propria-pelle»,155 per cui dire «Io» non significa più posizione di un soggetto sovrano e presente a sé, ma significa «Eccomi», soggettività in quanto essere-soggetto-a-tutto, suscettibilità pre-originaria prima di ogni libertà. Soggetto «di colpo all’accusativo», libertà investita da una responsabilità che essa non arriva ad assumere, passività del Sé che precede l’atto volontario, la soggettività delineata da Levinas è sempre più radicalmente una coscienza spiazzata, scopertasi infinitamente ingiusta, scavata dal rigore dell’esigenza morale, responsabilità pre-impegno, l’«Eccomi, manda me» di Isaia 6, 8, dove «“Eccomi” significa “manda me”»,156 responsabilità e diaconia, «azione assolutamente paziente, [ovvero] liturgia… L’etica stessa».157

Così, nell’identità di pura elezione, nell’«unicità del convocato», si schiude la struttura etica dell’essere umano, nell’etica non intesa, commenta Ciaramelli, come una possibilità di esistenza offerta alla libera scelta dell’uomo, ma quale struttura profonda della soggettività,158 “modello della giustizia e… anima dell’etica”,159 che a partire da Levinas si propone all’umano.160. L’assolutamente altro, nella traccia dell’infinito, intrufolandosi «come un ladro» interrompe da sempre il tranquillo riposo presso di sé della coscienza, incrinandone la coincidenza con se stessa. Nel volto d’Altri la convocazione etica ha intaccato l’io prima che sia presente a se stesso o torni in sé:

La sua presenza è un’ingiunzione a rispondere. L’Io non prende solo coscienza della necessità di tale risposta, come se si trattasse di un obbligo o di un dovere rispetto a cui ci sarebbe possibilità di scelta. Nella sua stessa posizione, egli è integralmente responsabilità e diaconia, come nel capitolo 53 di Isaia.161

Ma l’uno-per-l’altro non è ciò che si intende per «soggettività impegnata». L’impegno presuppone già una coscienza teorica in quanto possibilità di assumere- preliminarmente o troppo tardi- assunzione che eccede la susceptio della passività. […] Come esito di una decisione liberamente presa o consentita, come esito di un capovolgimento della susceptio in progetto, l’impegno rinvia — è necessario ripeterlo? — ad un pensiero intenzionale, ad un’assunzione, ad un soggetto aperto su un presente, ad una rappresentazione, ad un logos.162

Mancanza di reciprocità, diacronia, anteriorità di un passato che non è mai stato presente, segnano un’apertura preliminare, un’accoglienza, un’ospitalità «incondizionate» che conducono a pensare «altrimenti» l’umanità dell’umano, non a partire da sé, non a partire dalla propria libertà o dalla propria iniziativa, ma a partire dall’altro, in un «movimento senza ritorno», che nell’ingratitudine dell’altro sublima il suo senso e valore, fino a farsi pazienza e liturgia.163 È questo essere-votato-all’Altro, prima ancora che a se stesso, che sancisce, finalmente, la coincidenza di soggettività e responsabilità: nel vis-à-vis non c’è tempo di «assumersi» responsabilità, si è responsabili senza poter «disporre di un’interiorità come nascondiglio in cui rientrare in sé»,164 senza potersi sottrarre alla responsabilità, andando «avanti senza preoccuparsi di sé»,165 senza cercare quella gratitudine che sarebbe proprio il ritorno del movimento alla propria origine: questo è l’evento dell’alterità che scompagina la coscienza e le sue accomodanti certezze, questo è l’evento della responsabilità che si reclama come il nome nuovo della soggettività, inaugurando la possibilità di «riportare l’essere all’ordine della giustizia».166


  1. Rabbi Hillel, Talmud di Babilonia, Trattato Abòt 6 a. ↩︎

  2. X. Tilliette, Il soggetto e l’alterità. Scoprendo l’esistenza con Emmanuel Levinas, in «Note», Bollettino del Centro Charles Péguy, Università degli Studi di Lecce, VIII 1988, n.16, pp. 11-19, p. 11. ↩︎

  3. E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982; trad. it. Di Dio che viene all’idea, a c. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983, p. 34. ↩︎

  4. X. Tilliette, Il soggetto e l’alterità, cit., p. 11. ↩︎

  5. Il termine «responsabilità» compare nel lessico filosofico nel corso del secolo XVIII, per indicare la responsabilità propria dei soggetti politici, del governo, dei ministri e dei funzionari dell’apparato statale. Una prima codificazione del significato del termine si rintraccia nei Lineamenti della filosofia del diritto di Hegel, in cui si parla di responsabilità in riferimento al problema del male, al tema della pena e soprattutto alla questione della possibile riparazione del danno prodotto. Dunque già nei passaggi hegeliani il concetto di responsabilità implica un riferimento e una proiezione al futuro. È interessante al riguardo osservare come la prospettiva del futuro sia già insita nell’etimologia stessa del termine: «responsabilità» deriva dal latino spondeo, che in primo luogo significa «prometto, do la mia parola, garantisco». Tale accezione compariva nella cerimonie matrimoniali: spondeo indicava l’impegno che il padre assumeva con il promesso sposo (ovvero lo sponsus), dandogli in sposa la propria figlia. Respondeo assume questi significati da spondeo, allargando la sfera degli impegni e delle garanzie: da parte dello sposo c’è a sua volta la volontà di fornire delle assicurazioni di fronte alle possibili incertezze del futuro, di ricambiare, di «rispondere» all’impegno del padre, rendendosi responsabile delle proprie azioni attraverso una «promessa solenne» (sponsum) riguardo alla futura vita matrimoniale. Un altro possibile significato del termine spondeo (vaticinare, presagire il volere degli dèi offrendo delle libagioni), è ugualmente proiettato verso la dimensione del futuro. Oltre a questo aspetto, è evidente il collegamento tra «responsabilità» e «risposta», presente a livello terminologico nella nostra lingua, ma anche per esempio in quella tedesca, con i termini Verantwortung (responsabilità) e Antwort (risposta). Tale collegamento spiega perché la responsabilità implichi un necessario riferimento all’altro (al quale si deve “ri-spondere”) e per questo si eserciti nell’ambito dei rapporti interpersonali; e spiega altresì perché tale termine abbia trovato una prima utilizzazione in ambito giuridico e politico. L’origine giuridico-politica consente di comprendere, poi, perché il termine “responsabilità«nel corso del Novecento entri a far parte a pieno titolo del lessico morale, da Max Weber che definisce l’”etica della responsabilità«come l’etica tipica dell’uomo politico che mentre agisce si fa carico delle conseguenze delle proprie scelte, a Karl-Otto Apel, che guarda alla responsabilità ancora in chiave politica ma come prerogativa che riguarda tutti gli uomini, fino a Levinas, che ha fatto dell’etica la stessa “filosofia prima”, intesa non quale etica della responsabilità, ma quale etica come responsabilità (Cfr. E. Baccarini, Soggettività e infinito, Studium, Roma1985, p. 164), se è vero che non vi è alcun senso etico al di fuori della responsabilità verso altri, né vi può esser etica che non sia una risposta alla richiesta dell’altro. (Per un maggiore approfondimento cfr. A. Da Re, L’etica della responsabilità. Weber, Apel, Levinas, in A. Da Re, Filosofia morale. Storia, teorie, argomenti, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 155-165). ↩︎

  6. Si confronti E. Bonan., Libertà, responsabilità e bene nel pensiero di E. Levinas, in C. Vigna (a c. di), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, Vita e Pensiero, Milano 2003, pp. 423-453, pp. 424-425, che insiste su questa duplice direttiva del pensiero di Levinas. ↩︎

  7. Lo stesso Levinas scrive: «L’alterità, l’eterogeneità radicale dell’Altro è possibile solo se l’Altro è altro rispetto a un termine la cui essenza consiste nel restare al punto di partenza, nel servire da ingresso alla relazione, nell’essere il Medesimo non relativamente ma assolutamente. Un termine può restare assolutamente al punto di partenza della relazione solo come Io.» (E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, a c. di Dell’Asta, introd. di S.Petrosino, Jaca Book, Milano 1980, p. 34). ↩︎

  8. S. Currò, Il dono e l’altro. In dialogo con Derrida, Levinas e Marion, LAS Editore, 2005, p. 52. ↩︎

  9. E. Levinas, Nomes Propres, Fata Morgana, Paris 1976; trad. it. Nomi propri, a c. di F. P .Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 5. ↩︎

  10. E. Levinas, Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1972; trad. it. Umanesimo dell’altro uomo, a c. di A Moscato, il melangolo, Genova 1985, p. 77. ↩︎

  11. G. Palumbo, Il tempo della responsabilità. Intrigo etico e temporalità in E. Levinas, in L. Samonà (a c. di), Linguaggi della temporalità, Fondazione Nazionale Vito Fazio-Allmayer, Palermo 2001, pp. 95-128, p. 96. ↩︎

  12. L. Sesta, La legge dell’altro: la fondazione dell’etica in Levinas e Kant, ETS editore, Pisa 2005, p. 40. ↩︎

  13. «Se è vero», fa notare Sesta (Ibidem), «che lo stesso Levinas impiega raramente la formula “dignità umana”, preferendo quella di “umanità dell’uomo”, è pur vero che forse nessuno, prima di lui, l’ha pensata con più rigore. La tesi sostenuta è semplice e classica, quasi ingenua: nessuno si può chiudere in se stesso: l’umanità dell’uomo, la soggettività, è responsabilità per gli altri». (Sesta fa riferimento a E. Levinas, Humanisme de l’autre homme, cit.; trad. it. Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 133). ↩︎

  14. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1974; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, a c. di F. Sossi, Raffaello Cortina, Milano 1998, p. 190. ↩︎

  15. Ivi, p. 189. ↩︎

  16. E. Levinas, Humanisme de l’autre homme, Fata Morgana, Montpellier 1972; trad. it. Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 133. ↩︎

  17. E. Levinas, Difficile Liberté. Essai sur le judaisme, Albin Michel, Paris 1963; trad. it. parziale Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, a c. di G. Penati, La Scuola, Brescia 1986, p. 223. ↩︎

  18. Ibidem. ↩︎

  19. Ivi, p. 199. ↩︎

  20. Nell’introduzione a Totalità e Infinito, Silvano Petrosino nota come sia utile distinguere tra morale intesa come concreto agire in atto dell’uomo ed etica intesa come riflessione filosofica tesa alla ricerca della struttura ultima e originaria di tale agire (Cfr. S. Petrosino, la fenomenologia dell’unico, Introduzione a E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. XVII.) A tal proposito osserva F. Ciaramelli: « [In Levinas] l’etica non deve essere intesa come una possibilità di esistenza offerta alla libera scelta dell’uomo (anche se non si può escludere del tutto ogni componente morale), ma concerne la struttura profonda della soggettività. L’etica non dipende puramente dai comportamenti umani, ma dall’apertura stessa del soggetto alla trascendenza» (F. Ciaramelli, Le rôle du Judaisme dans l’œuvre de Levinas, in «Revue philosophique de Louvain», 1983, n. 81, pp. 580-600, p. 590-591). ↩︎

  21. Sebbene sia stato definito «come uno dei più grandi, forse il solo, moralista del secolo» (G. Mura, La provocazione etica di Emmanuel Levinas, Introduzione a E. Levinas, Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, a c. di E. Baccarini, Città Nuova, Roma 1984, p. 5), lo stesso Levinas, più volte ripete: «Il mio compito non consiste nel costruire un’etica; tento soltanto di cercarne il senso. […] Si può senza dubbio costruire un’etica in funzione di ciò che ho detto, ma non è questo il mio tema specifico» (E. Levinas, Ethique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo, Fayard, Paris 1982; trad. it. Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, cit., p. 105.) Lungi dal voler edificare una qualsiasi filosofia morale, il pensiero levinassiano anzi ne tenta la sovversione, il rovesciamento: la sua pregnanza etica è pari unicamente alla radicalità con cui si impegna nella destituzione di tutti i termini che potrebbero ancora evocarla. E ancora scrive Levinas: «Innanzitutto il termine “esperienza morale” cerco di evitarlo; l’esperienza morale suppone un soggetto che è qui, che prima di tutto è e che, in un certo momento, fa esperienza morale, mentre è nel modo con cui è qui, con cui vive, che c’è etica; o più esattamente: il dis-inter-essamento dis-fa il suo esse. L’etica significa questo» (E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, cit.; trad. it. Di Dio che viene all’idea, cit., p. 114). ↩︎

  22. L. Sesta, cit., p. 43. ↩︎

  23. Come preciserà Levinas negli anni seguenti, la sua critica al concetto di essere non mira a «misconoscere l’essere» e neppure trattarlo, secondo una pretesa ridicola e sdegnosa, come un cedimento di un ordine o di un Disordine superiore (E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 19). Commenta Petrosino: «L’essere esprime l’infanzia del reale o il reale come infanzia, come indifferenziato e muto, privo di parola… il concetto di essere è incapace di nominare il reale nella sua più profonda natura, resta senza parole [di fronte ad esso]… L’altrimenti che essere o l’al di là dell’essenza che Levinas insistentemente si sforza di pensare e proporre non è quindi un contro l’essere, un senza essere o un non essere.. ma un sovrappiù, un’eccedenza, una meraviglia, una movenza che la parola dell’essere in quanto essere non è in grado di raggiungere e nominare» (S. Petrosino, La fenomenologia dell’unico, cit., pp. XXX-XXXI). ↩︎

  24. E. Levinas, La question radicale. Kant contre Heidegger, in Dieu, la mort et le temps, Grasset, Paris 1993; tr. It. Dio, la morte e il tempo, a c. di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1996, pp. 68-69. ↩︎

  25. E. Levinas, Entre nous. Essai sur le penser-à-l’autre, Gasset, Paris 1991; trad. it. Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, a c. di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, p. 128-129; 145. ↩︎

  26. E. Levinas, Le Temps et l’autre, Fata Morgana, Montpellier 1979; trad. it. Il Tempo e l’altro, a c. di F.P. Ciglia, il melangolo, Genova 1987, p. 21. ↩︎

  27. E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, cit.; trad. it. Di Dio che viene all’idea, cit., pp. 193-194. ↩︎

  28. A tal proposito è interessante il raffronto Levinas-Kant operato da Luciano Sesta in La legge dell’altro: la fondazione dell’etica in Levinas e Kant, in cui suggerisce di leggere il rapporto tra etica e ontologia alla stregua del rapporto kantiano tra ragion pratica e ragione speculativa, laddove «la questione non è quale delle due sia da affermare a spese dell’altra, ma a quale delle due spetti appunto il primato (KpV 120;147)». (Cfr. L. Sesta, La legge dell’altro: la fondazione dell’etica in Levinas e Kant, cit., p. 101). ↩︎

  29. E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982; trad. it. Di Dio che viene all’idea, cit., p. 92. ↩︎

  30. E. Levinas, Difficile Liberté. Essai sur le judaisme, Albin Michel, Paris 1963; trad. it. parziale Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, cit., p. 364. ↩︎

  31. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 45. ↩︎

  32. E. Levinas, Entre nous, cit.; trad. it. Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, cit., p. 45. ↩︎

  33. Spiega Sesta: «Che l’etica sia “irriducibile” al sapere significa… che non può essere ridotta ai parametri specifici del sapere e, di conseguenza, resa a esso omogenea nella forma e nei contenuti, e che non può essere ricondotta al sapere, sia nel senso di una derivazione […] sia nel senso di una fondazione, come se il suo carattere etico dipendesse dall’accertamento di un presupposto non-etico. Per Levinas è piuttosto il sapere che è riducibile all’etica, e può esserlo proprio perché […] l’etica non coincide con una smentita del sapere» (L. Sesta, cit., p. 94.) ↩︎

  34. Hors Sujet, Fata Morgana, Montpellier 1987; tr. It. Fuori dal soggetto, a c. di F.P. Ciglia, Marietti, Genova 1992, p. 42. ↩︎

  35. Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 253. ↩︎

  36. G. Lissa, Emmanuel Levinas: l’intreccio responsabilità-giustizia, in C. Vigna (a c. di), Libertà, giustizia e bene in una società plurale, cit., pp. 105-155, p. 108. ↩︎

  37. E. Levinas, Difficile Liberté. Essai sur le judaisme, cit.; trad. it. Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, cit., p. 23. ↩︎

  38. E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, cit.; trad. it. Di dio che viene all’idea, cit., pp. 83-84. ↩︎

  39. Ivi, p. 83. ↩︎

  40. Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 77. ↩︎

  41. Ivi, pp. 76-77. ↩︎

  42. Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, pubblicata nel 1974. Sulla continuità di intenti o piuttosto su una presunta «svolta» nel passaggio da Totalité et Infini ad Autrement qu’être gli studiosi non sono ancora d’accordo. In un ampio studio di S. Strasser, Jenseits von Sein und Zeit. Eine Einführung in Emmanuel Levinas Philosophie, «Phenomenologica», 78, Nijhoff, Den Haag 1978, in particolare pp. 220-251, egli scrive: «Dopo il 1963 Levinas inizia qualcosa di nuovo […] una “svolta”: mentre sul piano di Totalità e Infinito al centro stava l’opposizione tra metafisica e ontologia fondamentale, ora l’ontologia è rifiutata come insoddisfacente in tutte le sue forme, e ciò in nome di un’etica fondamentale […] Naturalmente ciò non significa che l’ontologia di un Hegel, di un Husserl, di un Heidegger sia messa da parte come insignificante e senza alcuno scopo. Ma se ne contesta la pretesa di sostenere l’intero edificio del pensiero. Il ruolo fondante è attribuito all’etica» (Ivi, p. 223). Tra gli altri invece, Ferretti sostiene che più che una vera e propria «svolta», sia meglio parlare di «radicalizzazione» delle posizioni precedenti, chiaramente non senza notevoli elementi di novità. (Cfr. G. Ferretti, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenbeng &Sellier, Torino 1996, pp. 171-173). ↩︎

  43. A proposito dell’incidenza del tema dell’alterità nel pensiero levinassiano, fino a poter dire con Tilliette che l’altro è l’ossesione di Levinas, è bene tuttavia chiarire che la riflessione di Levinas, lungi dal fare dell’alterità il suo «tema», è divenuta essa stessa un filosofare altrimenti; scrive Petrosino: «[essa in effetti] non è una filosofia dell’altro, dell’etica e neppure del volto, quanto semmai è una filosofia dell’unico,… che individua nell’etica il luogo per eccellenza di significazione, vale a dire di dicibilità e pensabilità, dell’unicità che emerge come volto dell’altro uomo. Da questo punto di vista, da quello levinassiano, se dell’unico non si dà scienza, allora si dà etica, e questo, tra l’altro, significa che, se non si vuole abbandonare la figura dell’unico all’indicibile, ad una ineffabilità di tipo estetico o mistico, allora è necessario ricorrere ad una grammatica e ad un lessico etici» (S. Petrosino, Derrida e Levinas, ma anche…, in AA.VV., Après coup. L’inevitabile ritardo. L’eredità di Derrida e la filosofia a venire, Bulzoni, Roma 2006, pp. 29-45, p. 39, nt. 6). ↩︎

  44. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité,cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 313. ↩︎

  45. E. Levinas, Entre nous. Essai sur le penser-à-l’autre, cit.; trad. it. Tra noi. Saggi sul pensare- all’altro, cit., p. 132. ↩︎

  46. Il concetto di experience è uno dei più complessi e problematici dell’opera levinassiana. Se il termine «esperienza» evoca il campo samantico della presa, del dominio, della padronanza dell’io in quanto opera di assimilazione e possesso, di fatto Levinas si adopera a destituirne i fondamenti. Ma egli procede oltre: egli vi aderisce profondamente nella misura in cui vi scorge una relazione con l’assolutamente altro, ovvero con ciò che sempre eccede l’io e il pensiero come rappresentazione. In modo non dissimile da Heidegger, ma con le dovute differenze, «fare un’esperienza» per il nostro autore significa il fatto che qualcosa per noi accade, ovvero «ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma», dove il «fare» è sempre un «soffrire», e dove l’esperienza non è mai un atto riconducibile all’iniziativa dell’io. ↩︎

  47. A. Ponzio, Responsabilità e alterità in E. Levinas, Jaca Book, Milano 1995, p. 14. ↩︎

  48. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 251. ↩︎

  49. In particolare, l’idea platonica del Bene al di là dell’essere, e l’idea d’Infinito della terza meditazione cartesiana sono, per dirla con Derrida, «gli unici due gesti filosofici che, escludendo i loro autori, siano completamente assolti, riconosciuti innocenti da parte di Levinas» (J. Derrida, L’écriture et la différence, Éditions du Seuil, Paris 1967; trad. it. La scrittura e la differenza, a c. di G. Pozzi, con un’introduzione di G.Vattimo, Einaudi, Torino 1971, p. 108) ↩︎

  50. E. Levinas, A. Peperzak, Etica e filosofia prima, a c. di F. Ciaramelli, Guerini e Associati, Milano 1989, p. 93. ↩︎

  51. G. Ferretti, cit., p. 103. ↩︎

  52. G. Palumbo, Inquietudine per l’altro. Crisi dell’ontologia e primato dell’etica in E. Levinas, Fondazione nazionale «Vito Fazio-Allmayer», Palermo 2001, p. 9. ↩︎

  53. G. Ferretti, cit., p. 13. ↩︎

  54. Cfr. G. Palumbo, Il tempo della responsabilità. Intrigo etico e temporalità in E. Levinas, cit., p. 98. ↩︎

  55. Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 24. ↩︎

  56. Cfr. F. Ciaramelli, Le judaisme dans l’œuvre de Levinas, cit., p. 591. ↩︎

  57. «Altri», nel linguaggio di Levinas, è «l’altro in quanto altro» o «l’assolutamente Altro» (E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 37). ↩︎

  58. E. Levinas, Difficile Liberté. Essai sur le judaisme, cit.; trad. it. Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, cit., p. 45. ↩︎

  59. S. Currò, cit., p. 55. ↩︎

  60. X. Tilliette, Il soggetto e l’alterità. Scoprendo l’esistenza con Emmanuel Levinas, cit., p. 13. ↩︎

  61. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., pp. 36-37. ↩︎

  62. S. Marzano, Jaspers, Levinas e il pensiero della differenza. Confronti con Derrida, Vattimo, Lyotard, Zamorani, Torino 1999, p. 72. ↩︎

  63. L’idea dell’Infinito, o di Dio, è l’idea che Cartesio trova nel cogito come idea non prodotta dal cogito stesso ma posta in esso necessariamente da Dio; alla luce della percezione dell’infinito Cartesio spiega lo stesso dubitare del pensiero: «Difatti, come sarebbe possibile conoscere che io dubito e desidero, cioè che mi manca qualche cosa e che non sono perfetto, se non avessi in me l’idea di un essere più perfetto di me, al cui confronto io conosco i difetti della mia natura?» (R. Descartes, Meditazioni filosofiche, Paravia, Torino 1946, p. 49.) E inoltre: «è perché abbiamo l’idea di Dio che possiamo conoscere le cose finite». Levinas, senza seguire lo sviluppo del pensiero cartesiano nella direzione della dimostrazione dell’esistenza di Dio, sottolineerà «la positività» dell’idea dell’infinito, «la sua anteriorità nei confronti di ogni pensiero finito e di ogni pensiero del finito, la sua esteriorità nei confronti del finito» (E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito.Saggio sull’esteriorità, cit., p. 202). ↩︎

  64. Ibidem. ↩︎

  65. G. Ferretti, cit., p. 104. ↩︎

  66. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 277. ↩︎

  67. E. Levinas, Ethique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo, cit.; trad. it. Etica e infinito, cit., p. 105-106. ↩︎

  68. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 60. ↩︎

  69. Ivi, pp. 24-25. In queste pagine di Totalité et Infini è centrale il tema della creaturalità, intesa come dipendenza assoluta (rapporto senza rapporto, rapporto di separazione) con l’esteriorità assoluta. È, detto in altro modo, «l’idea di creazione ex nihilo», che Levinas descrive più avanti, estendendo l’assoluta separazione anche ai rapporti tra gli uomini: «La creatura è un’esistenza che, certamente, dipende da un Altro ma non come una parte che se ne separa. La creazione ex nihilo rompe il sistema, pone un essere al di fuori di qualsiasi sistema, cioè là dove la sua libertà è possibile. La creazione lascia alla creatura una traccia di dipendenza, ma di una dipendenza senza simili: l’essere dipendente trae da questa dipendenza eccezionale, da questa relazione, la sua indipendenza stessa, la sua esteriorità al sistema […] L’essenziale dell’esistenza creata consiste nella sua separazione nei confronti dell’Infinito. Questa separazione non è semplicemente negazione. Attuandosi come psichismo essa si apre appunto all’idea dell’Infinito» (Ivi, p. 106). ↩︎

  70. Ivi, p. 46. ↩︎

  71. Ivi, p. 25. ↩︎

  72. Cfr. E. Levinas, A. Peperzak, Etica e filosofia prima,cit., p. 97. ↩︎

  73. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p 216. ↩︎

  74. Ivi, p. 299. ↩︎

  75. Ivi, p. 305. ↩︎

  76. E. Levinas, Ethique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo, cit.; trad. it. Etica e Infinito, cit., p. 24. ↩︎

  77. G.Ferretti, cit., p. 112. ↩︎

  78. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 176. ↩︎

  79. Ivi., p. 39. ↩︎

  80. Ivi, p. 38. ↩︎

  81. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, cit.; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 17. ↩︎

  82. E. Levinas, Dieu, le mort et le temps, cit.; tr. it. Dio, la morte e il tempo, cit., p. 289. ↩︎

  83. S. Petrosino, Jacques Derrida e la legge del possibile. Un’introduzione, Jaca Book, Milano 1997, p. 244. ↩︎

  84. R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, p. 38. ↩︎

  85. Ivi, p. 108. ↩︎

  86. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 106. ↩︎

  87. Ivi, p. 46. ↩︎

  88. Come fa notare Giorgio Palumbo, «la creaturalità prefigura l’inquietamento etico. Infatti l’ex nihilo esprime per Levinas sia il distanziante dono di novità grazie a cui la creatura resta capace di un partire da sè (che è sempre il contraccolpo del suo essere arrivata a sé non grazie a sè), sia l’impossibilità per la creatura di appropriarsi dell’iniziativa da cui dipende la sua separatezza. Questa impossibilità mette per principio in crisi il trasformarsi della separazione in rivendicazione di autosufficienza. In tal senso il pensiero della creazione custodirebbe insieme il senso della “novità assoluta dell’io” (unicità per via di creazione) e il senso parimenti originario che concerne “il suo essere rimesso in questione” (unicità per via di elezione)»(G. Palumbo, Il tempo della responsabilità. Intrigo etico e temporalità in E. Levinas, cit., p. 103.) ↩︎

  89. S. Petrosino, L’idée de création dans l’œuvre de Levinas, in A. Münster (a cura di), La différence comme non-indifférence, Kimé, Paris 1995, p. 106. ↩︎

  90. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 76. ↩︎

  91. Ivi, p. 75. ↩︎

  92. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, cit.; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 186. ↩︎

  93. Cfr. F. Marton., Il desiderio dell’altro nel pensiero di Emmanuel Levinas, in «Studia Patavina», 1970, pp. 494-542, p. 495. ↩︎

  94. G. Palumbo, Inquietudine per l’altro. Crisi dell’ontologia e primato dell’etica in E. Levinas, cit., p. 103. ↩︎

  95. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, cit.; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 143. ↩︎

  96. A. Ponzio, cit., pp. 17-18. ↩︎

  97. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité,cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 226. ↩︎

  98. Ivi, p. 60. ↩︎

  99. S. Currò, cit., p. 61. ↩︎

  100. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité,cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 201. ↩︎

  101. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger,cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 223. ↩︎

  102. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’ essence, cit,; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 55. ↩︎

  103. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 23. ↩︎

  104. Ivi, p. 48. ↩︎

  105. F. Ciaramelli, Levinas e la fenomenologia del desiderio, in A. Moscato (a c. di), Levinas. Filosofia e trascendenza, Marietti, Genova 1992, p. 144. ↩︎

  106. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 226. ↩︎

  107. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 31. ↩︎

  108. E. Levinas, Humanisme de l’autre homme, cit.; trad. it. Umanesimo dell’altro uomo, cit., p. 68. ↩︎

  109. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité,cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 184. ↩︎

  110. Ivi, p. 60- 61. ↩︎

  111. Cfr. F. Salvarezza, Emmanuel Levinas, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 121. ↩︎

  112. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 32. ↩︎

  113. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 251. ↩︎

  114. Cfr. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 200. ↩︎

  115. Ivi, p. 21. ↩︎

  116. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 231. ↩︎

  117. Il visage, luogo d’irruzione dell’alterità, non è un fenomeno, il volto «non appare», anzi è nell’asimmetria della prossimità che esso si s-figura (dé-visage). In un’intervista il filosofo ha anche precisato: «Il problema è se il volto sia semplicemente una forma plastica. Sicuramente no. In francese si dice: dévisager e significa guardare qualcuno, ma anche togliere il volto. Guardare il volto, come lo intendo io, non è guardare il colore degli occhi, osservare l’espressione del viso… In ogni caso l’idea che il volto sia visuale, non va, non è rappresentativo. Non è viso, è dévisage» (L. Ghidini, Dialogo con Emmanuel Levinas, Morcelliana, Brescia 1987, pp. 61-63). ↩︎

  118. Cfr. G. Palumbo, Inquietudine per l’altro. Crisi dell’ontologia e primato dell’etica in E. Levinas, cit., p. 144. ↩︎

  119. Ivi, p. 200. Altro punto di contatto con il pensiero derridiano: i temi della luce, della visione, della violenza dello sguardo, come metafore dell’atteggiamento all’essere perpetuato dalla filosofia occidentale tradizionale. ↩︎

  120. Ivi, p. 64. ↩︎

  121. Ivi, p. 199. ↩︎

  122. Cfr. Aristotele, Metafisica, a c. di G. Reale, Bompiani, Milano 2000, p. 3. ↩︎

  123. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 64. ↩︎

  124. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 198. ↩︎

  125. Ibidem. ↩︎

  126. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 204. ↩︎

  127. Cfr. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, cit.; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 131. La singolarità del soggetto non è l’unicità dell’apax. «Apax è termine intraducibile; è un’abbreviazione di hapax legomenon, parole greche che significano: cosa detta una volta; in linguistica, parola o espressione di cui non si conosce che un esempio». L’unicità del soggetto invece «non dipende […] da una qualità distintiva qualsiasi come le impronte digitali che ne farebbe un unicum incomparabile e che, principio di individuazione, procurerà da questa unità un nome proprio e, a questo titolo, un posto nel discorso […] L’identità del se-stesso è nell’unicità del convocato» (Ibidem). ↩︎

  128. Ivi, p. 66. ↩︎

  129. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, cit.; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 69. ↩︎

  130. Interessanti le osservazioni di Ciglia sul termine Autrui usato da Levinas per indicare l’alterità assoluta di Altri: «Il suo statuto di pro-nome indefinito, infatti, il suo rifiuto di qualsiasi aggettivazione e di qualsiasi articolo, sia determinativo che in determinativo, la sua invariabilità che lo sottrae a qualsiasi attribuzione di genere e di numero, sembrano parlarci di un alterità né determinata, né indeterminata, bensì indeterminabile, senza che questo implichi, tuttavia, lo sfumare del termine nel generale o nel generico o anche soltanto un’attenuazione della reale ed effettiva consistenza» (F.P. Ciglia, Un passo fuori dall’uomo. La genesi del pensiero di Levinas, Cedam, Padova 1988, p. 196). ↩︎

  131. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 173. ↩︎

  132. Ivi, p. 193, corsivo mio. ↩︎

  133. Ivi, p. 299. ↩︎

  134. Vi sono certamente segni dell’altro, l’io può riconoscere l’altro dai suoi segni e dal contesto dei suoi segni, ma questi segni non sono l’altro e questo riconoscimento raggiunge in realtà solo i segni e non l’altro. Il volto è ciò che contesta ed eccede il valore del segno. Il volto si esprime, è «kath’ autò». ↩︎

  135. S. Petrosino, La fenomenologia dell’unico, introduzione a E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. XLVI. ↩︎

  136. Ivi, p. 48. ↩︎

  137. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 223. ↩︎

  138. Cfr. S. Petrosino, La verità nomade. Introduzione a E. Levinas, Jaca Book, Milano 1980, p. 125. ↩︎

  139. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 219. ↩︎

  140. Ivi, p. 65. ↩︎

  141. E. Levinas, Liberté et commandement, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 1953, pp. 264-272, p. 270. ↩︎

  142. S. Petrosino, La fenomenologia dell’unico, cit., p. LII. ↩︎

  143. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 194. ↩︎

  144. Ivi, p. 197. ↩︎

  145. E. Levinas, Ethique et Infini. Dialogues avec Philippe Nemo, cit.; trad. it. Etica e infinito. Dialoghi con Philippe Nemo, cit., p. 101. ↩︎

  146. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 226. ↩︎

  147. Cfr. F. Salvarezza, cit., p. 121. ↩︎

  148. L’altro che batte nel cuore del medesimo, e «lo disubriaca, […] e lo spiazza« (E. Levinas, Dieu, la mort et le temps, cit.; trad. it. Dio, la morte e il tempo, cit., p. 199) è per Levinas «scandalo che inscrive un’inquietudine«(Ivi, p. 181), come un’«intenzionalità [che] si rivolta o si inverte in responsabilità per l’altro. Bisogna quindi pensare insieme il tempo e l’altro. La differenza è la non-indifferenza dello Stesso e dell’altro e, in qualche modo, è l’altro nello stesso» (Ivi, p. 197). A proposito dell’Altro come alterità assoluta che si trova in qualche modo già in-scritta nel Medesimo, Marzano scrive: «Da discutere, secondo Levinas, è questo nel, dans, che può distruggere la differenza ‘se lo stesso contiene e trionfa dell’altro’. Per Levinas ‘dans’ significa invece il risveglio (réveil) da parte dell’altro, senza che l’infinito sia mai stato presente. […] Si tratta di pensare, dice Levinas, l’eteronomia dell’altro nello Stesso, in cui l’Altro non domina più lo Stesso ma ‘lo disincanta’ in un risveglio che […] è più pensante del pensiero dello Stesso, è il modo in cui l’infinito può significare senza perdere il suo significato trascendente» (S. Marzano, op. cit., pp. 73-74). ↩︎

  149. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1974; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 272. ↩︎

  150. Ivi, p. 265. ↩︎

  151. E. Levinas, Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, cit.; trad. it. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, cit., p. 313. ↩︎

  152. Ibidem. ↩︎

  153. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, cit.; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 172. ↩︎

  154. Ivi, p. 32. ↩︎

  155. Ivi, p. 143. ↩︎

  156. Ivi, p. 183. ↩︎

  157. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 221. ↩︎

  158. Cfr. F. Ciaramelli, Le judaisme dans l’œuvre de Levinas, cit., p. 590. ↩︎

  159. L.Sesta, cit., p. 153. ↩︎

  160. Nell’etica, lo stesso Levinas, riconosce le condizioni preliminari dell’esperienza salvifica per l’uomo contemporaneo. Quel monoteismo che «è un umanesimo», umanesimo ebraico che da tratto «particolare» del popolo e della sua storia, Levinas giunge a indicare quale struttura universale della soggettività o dell’umano in generale; istituisce un ordine nuovo e rivisitato del messianesimo: ogni uomo deve essere Messia se vuole essere pienamente uomo, e può esserlo ogni volta che ascolta la voce del comandamento etico che lo destina a servire l’altro uomo: che lo «destina a servire l’universo»e ad instaurare la giustizia. Scrive Levinas: «il Messia è il giusto che soffre, che ha preso su di sé la sofferenza degli altri. Chi prende su di sé la sofferenza degli altri se non l’essere che dice “Io”? Il fatto di non sottrarsi al carico che impone la sofferenza degli altri definisce l’ipseità stessa. Tutte le persone sono Messia […] E concretamente questo significa che ciascuno deve agire come se fosse il Messia. Il Messianesimo non è dunque la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia. È il mio potere di sopportare la sofferenza altrui» (E. Levinas, Difficile Liberté. Essai sur le judaisme, cit.; trad. it. Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, cit., p. 120)↩︎

  161. Ivi, p. 225, corsivi miei. Il capitolo 53 di Isaia, comunemente noto come “quarto canto del servo”, è un testo che la tradizione neotestamentaria applica alla figura del Cristo sofferente. Infatti tale testo presenta la sofferenza del servo che viene portata fino al limite: la persecuzione, il processo, l’esecuzione, la morte. Insieme con questo annuncia la glorificazione del servo. Il tema è quello della salvezza attraverso la sofferenza, è quello della gloria attraverso la croce. ↩︎

  162. E. Levinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, cit.; trad. it. Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 172. ↩︎

  163. Scrive Levinas: «Vorrei definire l’opera dello Stesso in quanto movimento senza ritorno dello Stesso verso l’altro, facendo ricorso a un termine greco che nel suo significato originario indica l’esercizio di un ufficio che non soltanto è completamente gratuito, ma che implica, da parte di colui che lo esercita, un investimento a fondo perduto. Vorrei definirla con il termine di liturgia, allontanando però da tale termine, per ora, ogni significato religioso, anche se alla fine delle nostre analisi una certa idea di Dio dovesse mostrarsi come una traccia. Del resto, azione assolutamente paziente, la liturgia non viene annoverata come culto accanto alle opere e all’etica. È l’etica stessa» (E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger,cit.; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 221). ↩︎

  164. E. Levinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris 1974; trad. it. Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, cit., p. 226. ↩︎

  165. Ibidem. ↩︎

  166. G. Palumbo, Il tempo della responsabilità. Intrigo etico e temporalità in E. Levinas, cit., p. 97. ↩︎