Recensione ad Adriano Bompiani, Consiglio d’Europa, diritti umani e biomedicina. Genesi della Convenzione di Oviedo e dei Protocolli

Adriano Bompiani, Consiglio d’Europa, diritti umani e biomedicina. Genesi della Convenzione di Oviedo e dei Protocolli, Studium, Roma 2009, pp. 375, ISBN 978-88-382-4073-7, Euro 32, 50

L’urgenza delle questioni e dei temi posti dal rapporto tra la biomedicina e i diritti umani è testimoniata dalla presenza ineludibile di tali temi e questioni nel dibattito pubblico. Se, tuttavia, questa massiccia presenza è segno dell’interesse suscitato, d’altra parte proprio tale capillarità di discussione diviene anche il tallone d’Achille delle molteplici conclusioni, spesso sommarie, su temi cruciali, quali il testamento biologico, la protezione dell’embrione, i trapianti d’organo, le biobanche, la protezione del patrimonio genetico, la clonazione umana, per citare solo alcuni dei più complessi problemi a proposito dei quali, proprio a scapito della loro complessità, tutti — e non senza ragione — sono chiamati a esprimere un’opinione e a difenderla pubblicamente. Ciascuno, infatti, è potenzialmente soggetto o «oggetto» rispetto all’ambito della biomedicina, che abbraccia ormai la totalità della vita del singolo essere umano, in un arco di tempo la cui paradossalità è data dal comprendere il non-tempo prima della nascita (si pensi ai test genetici prenatali o pre-impianto) e il non-tempo di quello spazio indecidibile che si apre tra la vita e la morte (espianto degli organi, conservazione dei propri tessuti, dei propri ovuli, spermatozoi, o embrioni — conservazione in cui anche la sfera del «proprio» assume connotati labili e ambigui). Rispetto a questo potenzialmente infinito e sempre debordante ambito, Adriano Bompiani invita a un paziente lavoro di conoscenza, per giungere a una comprensione più obiettiva e quanto più possibilmente condivisa, visto che su questo orizzonte inevitabilmente si affaccia ormai l’intera società europea e globale.

Bompiani — già presidente del Comitato Nazionale di Bioetica nel 1990 — parla e scrive da un punto di osservazione privilegiato, essendo stato membro, dal 1993, del Comitato Redazionale preposto alla stesura di una Convenzione su diritti umani e biomedicina, costituito in seno al Comité directif de Bioétique (CDBI), voluto dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che già dagli anni ’80 lavorava, attraverso «raccomandazioni», all’armonizzazione delle legislazioni nazionali europee che riguardano la protezione dei diritti umani nel campo della biomedicina. Sarà proprio il Comitato Redazionale che porterà a compimento la difficile stesura di quella che è comunemente conosciuta come Convenzione di Oviedo — dalla città in cui si è tenuta la cerimonia di apertura delle sottoscrizioni degli Stati europei, il 18 aprile 1997 — e il cui nome effettivo è Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Convention for the protection of human rights and dignity of the human being with regard to the application of biology and medicine: convention on human rights and biomedicine — Oviedo 4. 4. 1997) , nonché dei Protocolli addizionali e delle Raccomandazioni, che, insieme ad essa, costituiscono ormai un «ben definito «sistema» etico-giuridico per l’attività medica, operante in sede europea secondo condivisi «principi», nella promozione del coordinamento delle normative nazionali» (p. XIX).

Questo corposo volume è attento anche alla storia che ha preceduto la Convenzione di Oviedo e che ha, in un certo senso, determinato la necessità della sua redazione, a causa dei progressi diagnostici, dell’affermarsi della tecnologia e della burocratizzazione della sanità; in esso gli spazi e i tempi della riflessione svoltasi nell’iter di redazione vengono dispiegati fin nelle loro più intricate scansioni, con una relazione minuziosa delle varie fasi di discussione, delle sedute in cui i singoli argomenti sono stati messi all’ordine del giorno, dibattuti, modificati, proposti in forma definitiva attraverso un’estenuante, quanto presumibilmente stimolante, lavoro di mediazione. E, in effetti, al di là dei singoli e ultraspecialistici problemi trattati, la storia raccontata in questo libro di Bompiani costruisce un inconsapevole monumento a quella pratica, così difficile e così profondamente umana, che è la capacità di dialogo, inscindibile nei suoi due termini costitutivi di parola-e-ascolto. Come lo stesso autore sottolinea, «le sedute nei Gruppi di lavoro e nelle Assemblee Plenarie del Comitato rappresentano, infatti, occasioni di accaniti dibattiti sia per l’impostazione teoretica delle soluzioni, ma anche in merito alla appropiatezza di espressione delle formulazioni giuridiche, che riflettono anche i limiti che ciascuno Stato intende dare all’applicazione dei pur condivisi «principi». […] Si comprende come, in queste condizioni, il lavoro di elaborazione primaria, poi di emendamento ed infine di lima giuridica nelle due lingue ufficiali (francese e inglese) per ogni articolo del testo proceda con grande lentezza» (pp. XIX-XX). Dunque, il lavoro di Bompiani non è strumento per il lettore che, frettolosamente, voglia giungere a capire quali ricadute giuridiche immediate abbiano i testi prodotti, ma, piuttosto, per coloro che amino seguire la fatica del concetto, comprendere pensieri e convinzioni che sono stati messi, di volta in volta, in gioco nella redazione di un testo condiviso che, al di là del suo scopo precipuo, si propone il raggiungimento «di una finalità più alta e diffusa, cioè la costruzione dell’Europa anche nel campo del «diritto alla salute» della persona» (p. XX).

In virtù di questa finalità più alta, non si può che condividere quella certa amarezza che traspare dalle parole di Bompiani, il quale sottolinea la singolarità della situazione dell’Italia, dove — nonostante nel 2006 si sia proceduto alla revisione del Codice Deontologico alla luce della Convenzione di Oviedo e dei Protocolli — manca, a tutt’oggi, sia una ratifica definitiva della Convenzione con il completamento dell’iter delle procedure necessarie, ma anche una normativa nazionale di adeguamento alla Convenzione, che, con un quadro organico complessivo, renderebbe più semplice «la esatta comprensione anche per il medico, il giurista, il magistrato e l’utente — cittadino italiano — delle conseguenze legali che derivano dai deliberati della pur tempestivamente «sottoscritta» Convenzione» (p. XXI).

Bastano i soli titoli dei Protocolli addizionali e delle Raccomandazioni per intuire la portata etica, giuridica e politica delle questioni: Protocollo sul divieto di clonazione dell’essere umano; sui trapianti d’organo e tessuti di origine umana; sulla ricerca biomedica; sull’impiego dei test genetici per finalità mediche. Raccomandazione sugli xenotrapianti; sui Diritti dell’uomo e della dignità delle persone affette da disturbi mentali; sulla tutela dei dati e dei campioni di origine umana — per citare anche solo gli apparati addizionali alla Convenzione, ritenuti necessari per quei temi che, dentro la sintesi estrema dei suoi articoli, non avrebbero trovato adeguata esplicazione, a causa delle loro numerose e particolarmente delicate sfaccettature. Ma altri e gravi problemi trovano spazio nei 38 articoli della Convenzione, divisa in 14 capitoli e un Preambolo, a partire dal primato dell’essere umano sul solo interesse della società e della scienza; a quello dell’accesso alle cure sanitarie; agli obblighi professionali e alle regole di comportamento del personale sanitario; al grande tema del consenso informato alle cure o ai casi in cui tale consenso non può essere dato, qualora, cioè, ci si trovi di fronte a persone legalmente incapaci (ad esempio i minori) o psichicamente incapaci, con la relativa necessità di tutela nei loro confronti; all’atteggiamento da tenere nel caso di desideri precedentemente espressi, questione che ha scosso già più volte la società italiana; alla ricerca e agli obblighi di tutela delle persone coinvolte in essa; alla protezione del Genoma umano.

Con acribia e limpida argomentazione Bompiani si sofferma sulla genesi di ciascun articolo della Convenzione, dei Protocolli e delle Raccomandazioni, ma, soprattutto, sulle questioni più spinose che ciascuno di essi solleva in termini filosofici, con una particolare attenzione alle scelte linguistiche attuate. Proprio in quest’ambito, infatti, ogni parola assume un peso determinante e le discussioni interminabili si concentrano spesso intorno alla scelta di una proposizione, o finanche di un termine, che consentirebbe certe interpretazioni piuttosto che altre. Questione che, teoreticamente e giuridicamente, diviene davvero decisiva, già a partire dall’utilizzo duplice dei termini human being (essere umano) e person (persona) che, come spiega Bompiani, è stata una scelta meditata e deliberata dopo ampie discussioni, visto che una minoranza avrebbe auspicato l’utilizzo dell’unico termine persona, nel quale includere anche l’embrione. La Convenzione non definisce, in realtà, i significati specifici di essere umano e persona e prende atto, come si legge nel Rapport explicatif, che è principio generalmente accettato il rispetto della dignità dell’essere umano dall’inizio della vita intrauterina, mentre, secondo l’accezione di persona in uso nell’ambito del diritto, l’integrità degli altri diritti e libertà fondamentali rispetto alle applicazioni mediche e biologiche è garantita solo dopo la nascita. Nella discussione, tuttavia, è emerso che perfino lo stesso concetto di essere umano in alcuni Paesi era utilizzato solo per i già nati. Non è un caso, dunque, che le discussioni in merito siano tutt’ora vivaci e, per certi versi, irresolubili, in quanto mettono in gioco quelle zone di confine tra scienza e credenza religiosa difficilmente conciliabili. Se dal punto di vista cattolico, con il suo concetto di sacralità della vita, ci si spinge a spostarne le frontiere risalendo fino al vibratile movimento dello spermatozoo che feconda l’ovulo o a estenderle all’organismo tenuto in vita artificialmente e che rimane sospeso in una zona di indistinzione tra la vita e la morte, d’altra parte, il non riconoscimento dell’essere umano in queste forme di vita liminari aprirebbe la possibilità non solo all’eutanasia, sulla quale in Europa ci sono posizioni discordanti, ma anche alla loro disponibilità per finalità sperimentali. Una discussione tutt’altro che risolta, dunque, che la Convenzione lascia, ovviamente, aperta.

Questione di linguaggio è ancora quella in base alla quale, nell’articolo 2, si preferisce il termine primacy (primato) dell’essere umano, a quello di bene dell’essere umano, essendo quest’ultimo un termine etico che avrebbe avuto valore solo nell’ambito della specie umana, mentre il termine primato ha valenza inter-specie. Tuttavia, al di là delle pur importanti questioni terminologiche, occorrerebbe seriamente prendere in considerazione l’aspetto delle ricadute pratiche di alcuni articoli della Convenzione; ad esempio, davvero molto ci sarebbe da cambiare nella pratica medica, in particolare italiana, se ci si conformasse fedelmente a quanto scritto nell’articolo 5 sul Consenso, in cui si prevede che il paziente sia informato in modo chiaro e comprensibile sugli scopi, la natura, le conseguenze e i rischi dell’atto medico. Il consenso è, infatti, «uno «strumento» polivalente adeguato a «guidare» una relazione terapeutica medico-paziente fatta di interrelazionalità» (p. 251). Invece, esperienza comune in molti ospedali italiani — certo non in tutti, ma al Sud in modo particolare — è quella di trovarsi, soprattutto in situazioni di emergenza, di fronte ad un testo (raramente ad una persona che ne aiuti la comprensione, anche nel caso in cui vi siano scarsi strumenti culturali posseduti dagli interlocutori), scritto in un linguaggio tecnico, indecifrabile, che associa termini medici e termini giuridici i quali, sommati alla situazione difficile del paziente o dei familiari, spesso inducono a una firma «emotiva» e pressoché inconsapevole, in ogni caso facilmente suggestionabile. Spesso si ha l’impressione che il personale medico consideri le pratiche del consenso informato solo come un impedimento fastidioso, una perdita di tempo ed un intralcio all’esercizio della propria professione. In quei casi avere accanto un geloso custode della pratica burocratica o un medico educato ad una sensibilità relazionale può davvero fare la differenza. Perché non riflettere, allora, a livello europeo, anche sull’obbligatorietà per i medici di un curricolo comprendente un certo numero di ore di filosofia, psicologia e bioetica? Ma questa è solo un’ulteriore questione che nasce leggendo lo stimolante testo di Bompiani.

È, ovviamente, impossibile rendere conto di tutte le questioni che tale lettura risveglia e, perciò si rimanda decisamente al testo, per altro corredato da una vasta appendice comprendente i documenti in inglese. Solo un’ultima parola su quelli che Bompiani stesso definisce aspetti positivi, opinabili e valutazioni dissenzienti, che si rilevano nella letteratura critica sulla Convenzione di Oviedo. Tra le critiche, alcune riguardano l’astrattezza di certi assunti; altre l’incapacità di assegnare in modo deciso una totale autonomia all’individuo, soprattutto in merito al testamento biologico; altre lo statuto dell’embrione, che resta piuttosto incerto; o l’aver promosso eccessivamente i diritti individuali a scapito della compatibilità economica dei bilanci sanitari, anche se, in realtà, riguardo quest’ultimo punto, c’è da dire che i diritti sociali restano sempre di competenza degli Stati, per cui la Convenzione ha solo un valore orientativo. Bompiani nota che tali critiche non tengono conto del fatto che «ogni articolo, o espressione all’interno dello stesso articolo, nasce dalla necessità di raggiungere un consenso ampiamente maggioritario (i 2/3 dei voti); il testo finale è dunque meticolosamente calibrato sino al raggiungimento di un accettabile punto di incontro» (p. 254).

Non si può, invece, che concordare sulla valutazione ampiamente positiva rispetto alla stessa iniziativa della redazione della Convenzione di Oviedo, che ha avuto il merito di «colmare il gap legale che deriva dal rapido sviluppo delle scienze biomediche […] . Positivo è stato il «parlare» — sia pure non esaustivamente su ogni possibile materia da esaminare — con una voce ampiamente condivisa dai delegati europei» (p. 244). È stato anche importante che i diritti individuali siano stati messi in primo piano rispetto agli sviluppi tecnologici della medicina e dell’assistenza sanitaria, ma che, tuttavia «l’autonomia dell’individuo venga considerata — nel sistema giuridico prodotto — inseparabile dalla responsabilità verso gli altri e verso la comunità di vita nella quale l’individuo vive e agisce» (p. 246). Non a caso Bompiani ribadisce che «la Convenzione non ha accolto una interpretazione dell’autonomia come principio assoluto autoreferenziale, impermeabile al contesto in cui si agisce o alla situazione «oggettiva» che si verifica» (ibidem). Forse un passo ulteriore verso una meta che ritengo sempre più importante per una convivenza umana meno violenta e meno barbarica, cioè il riconoscimento dell’importanza di quell’essere obbligati che già nel 1942 Simone Weil, ne l’Enracinement, aveva indicato al mondo post-bellico come pilastro per la costruzione di una nuova civiltà, in cui i diritti fossero solo l’altra faccia degli obblighi verso l’essere umano e non espressione unica di una soggettività autoreferenziale e di una società retta sulla mera rivendicazione di essi. Un passo verso quella responsabilità per l’altro che Emmanuel Lévinas ha scelto come cardine del suo pensiero.

Non si può, dunque, che essere lieti anche dell’apporto politico della Convenzione di Oviedo, che è «uno degli strumenti con i quali la «politica sociale Europea» può fruttuosamente intervenire con dimensioni di approccio comune» (p. 265), ma anche un contributo essenziale, per giungere alla redazione di «uno strumento giuridico unitario che stabilisca un modello unico adottato dalle varie Nazioni europee, per la definizione più ampia dei diritti/doveri dei pazienti e diritti/doveri dei curanti» (p. 267).