Darwin e la sfida di Platone. Annotazioni in margine al Cratilo e all’Origine delle specie

1. Introduzione

In una sintetica presentazione del significato e del ruolo delle classificazioni e degli altri sistemi di ordinamento, Ernst Mayr e Walter J. Bock (2002) rimproverano ai filosofi di non occuparsi abbastanza dei sistemi di ordinamento e delle classificazioni scientifiche: «Il chiarimento di termini come classe, classificazione, somiglianza, relazione, convergenza, filogenia, gerarchia, ognuno dei quali è importante per un sistema o l’altro di ordinamento, è di interesse filosofico». Naturalmente, vi sono ottime ragioni perché i filosofi si interessino a quei sistemi che si preoccupano di «etichettare le cose con i loro nomi», siano essi i sistemi generali di gestione dei flussi di informazione provenienti da un mondo sempre più inondato di dati, o siano, più in particolare, le classificazioni scientifiche. È tuttavia sorprendente che Mayr e Bock rivolgano ai filosofi questo rimprovero dato che proprio loro negli ultimi sessant’anni sono stati fra i protagonisti di una stagione (in particolare gli anni 1960-1990) che ha visto la filosofia della scienza entrare a gambe tese sulla sistematica biologica, sia per discuterne le basi filosofiche come «scienza», sia per articolarne alcuni termini, a partire da quello di «specie», sia nella discussione di alcuni metodi, come il cladismo o il fenetismo, e principi come quello di parsimonia o quello bayesiano. I loro dibattiti con Popper su questi temi sono molto noti e il fallimento, riconosciuto da loro stessi, del tentativo di applicare alla sistematica i principi popperiani è, in qualche misura, paradigmatico.1 Da qui il dubbio che la filosofia abbia qualche utilità per la sistematica biologica. I tentativi, proposti di recente, di «rendere automatici», lasciando ai programmi di un computer, i criteri di assegnazione di un organismo a un taxon,2 e l’adesione pragmaticamente rassegnata a un pluralismo di modelli e di categorie come quella teorizzata, per esempio, da E. O. Wilson (2005) nella costruzione di eol,3 sembra tagliar fuori del tutto la filosofia dai problemi posti dalla pratica tassonomica reale. Del resto gli stessi Mayr e Bock (2002: 171), frustrati dal fallimento dei primi tentativi di basare la classificazione degli organismi su alcuni principi filosofici, hanno infine deciso per «un approccio largamente pragmatico». Il pragmatismo sembra così essere diventato l’atteggiamento dominante dei sistematisti, ed esso spesso si accompagna ad un’altra concezione, positivista, secondo la quale classificare gli organismi viventi è compito esclusivo degli scienziati, mentre ai filosofi è assegnato semplicemente il compito di chiarire e valutare i metodi e i criteri impiegati dagli scienziati: in altre parole di «lucidare gli ottoni». A differenza di quanto sembrano pensare Mayr e Bock, che danno per scontata la visione di «un mondo caratterizzato da una eterogeneità di cose e processi pressoché caotica», queste posizioni sono ben lungi dall’essere scevre di presupposti filosofici. Il fatto è che l’interesse dei filosofi per i sistemi di ordinamento e classificazione è sollecitato, sì, sul piano epistemologico, dagli approcci e dai metodi delle scienze, ma prima di tutto e soprattutto sul piano ontologico, cioè dalla possibilità di evidenziare le connessioni tra i sistemi di ordinamento e le cose del mondo. Come osserva Michael T. Ghiselin (2007): «le classificazioni giocano un ruolo epistemologico, ma la base del loro contenuto è ontologica: esse ci ragguagliano attorno alla struttura e al funzionamento del mondo così come noi lo conosciamo». Ma, ovviamente, solo se si ammette che là fuori vi è un mondo, e che ha senso dire che noi lo conosciamo. Preliminare a ogni discorso filosofico sulle classificazioni è quindi la messa in luce dei presupposti ontologici che le sostengono, perché il discorso sulle classificazioni non riguarda soltanto i metodi di «messa in ordine» di «un mondo caratterizzato da una eterogeneità di cose e processi pressoché caotica», ma concerne anche l’esistenza stessa di questo mondo ed è strettamente connesso anche ad altri problemi generali, come quelli relativi al rapporto tra linguaggio e realtà e tra conoscenza e verità. Su questo piano, dove in passato si sono incontrati e scontrati realismi, idealismi, scetticismi ed empirismi di vario tipo, non si può certo rimproverare ai filosofi di aver trascurato i problemi relativi al «dare il nome alle cose», perché, da questa prospettiva, tutta la storia della filosofia, a cominciare da Platone, non è stata altro che il tentativo di chiamare le cose con un termine esatto.

2. La fuga da Platone e la diatriba Mayr-Kitts

Purtroppo, la storia della filosofia della biologia ha talvolta rappresentato Platone e Aristotele nella veste di nemici della biologia, perché le loro filosofie sembrano nutrire il grave difetto di non essere consistenti con le teorie evoluzionistiche. Questa rappresentazione va imputata soprattutto al fascino esercitato su alcuni dei primi e più influenti storici e filosofi della biologia (Ernst Mayr,4 David L. Hull, Michael T. Ghiselin) dalle tesi storiografiche ed epistemologiche di Karl Popper e alla visione della storia della scienza di Thomas Kuhn fatta di piccole e grandi «rivoluzioni», uno schema storiografico nel quale la «rivoluzione darwiniana», posta accanto a quella «copernicana», diviene appunto una «rivoluzione» antiplatonica e antiaristotelica.

L’argomento attorno al quale è stato inizialmente concentrato il contrasto tra Platone e Aristotele da un lato e Darwin dall’altro è l’estenuante dibattito sull’essenzialismo/antiessenzialismo delle specie che, proposto nell’articolo che ha imposto David L. Hull all’attenzione degli studiosi, ha in particolare puntato il dito sul ruolo di pars destruens svolto dall’opera di Darwin nei confronti del pensiero tradizionale. In questo articolo Hull (1965) sostiene, sulla scorta della celebre (e infelice) tesi storiografica di Popper secondo la quale il grado in cui le varie scienze sono state capaci di fare progressi dipende dal grado in cui sono riuscite a liberarsi dalle sbarre del dogmatismo aristotelico, che a bloccare per duemila anni lo sviluppo della tassonomia scientifica, sia nella definizione dei nomi dei taxa sia nella definizione della categoria di specie, è stato proprio il modello di «definizione» proposto da Aristotele, perché il suo concetto di «essenza» di una specie richiederebbe, secondo questa lettura, l’individuazione di caratteri immutabilmente necessari e sufficienti che sono in contrasto con i cambiamenti inerenti all’evoluzione biologica. Tuttavia, mentre l’accusa di essenzialismo nel caso di Aristotele, almeno nella sua forma più tradizionale, è stata ben presto rigettata (Balme, 1987), o comunque rianalizzata, e non ha inciso significativamente sulla considerazione e sugli studi relativi alle opere biologiche di Aristotele, ma in qualche misura ne ha incrementato l’interesse e l’attualità (Charles, 2000),5 la «fuga dai greci», nella quale sola George Gaylord Simpson (1963) vedeva la possibilità della nascita della scienza, è stata in realtà, soprattutto, la «fuga da Platone» perché la sua filosofia sembra essere potentemente «antibiologica».

I motivi di questa particolare avversione nei confronti di Platone sono diversi, ma si riportano tutti alla convinzione che la dottrina platonica delle idee abbia fornito la base metafisica alle teorie idealiste e tipologiche di strutturalisti predarwiniani come Cuvier ed Owens, secondo i quali i caratteri strutturali di un organismo sono dovuti alle «leggi naturali della forma» che implicano una serie di archetipi originari (l’«unità del tipo»), e anche alle teorie dei primi strutturalisti postdarwiniani, come St. George Mivart, che pur accettando l’evoluzione ritenevano che essa fosse «una realizzazione successiva e aperta di “archetipi”».

Quanto questa convinzione che mette insieme Platone, platonismi e idealismi di varia provenienza abbia fondamento storico è ancora da stabilire (Levit et al., 2006); ma dagli storici della biologia della linea popperiana era dato per scontato che queste teorie, considerate ferocemente antievoluzioniste, avessero ritardato, in combinazione con il creazionismo della teologia naturale e le spiegazioni teleologiche, lo sviluppo di teorie funzionaliste come quella di Darwin. Vi è un episodio, molto noto, che illustra questo antiplatonismo.6 Nella sua storia del pensiero biologico Ernst Mayr (1982), attribuendo a Platone (sulla scorta di Popper) l’origine dell’essenzialismo, rivolge al filosofo un’accusa antibiologica particolarmente colorita: «Senza mettere in dubbio l’importanza di Platone per la storia della filosofia, devo dire però che per la biologia egli è stato un disastro. I suoi concetti inappropriati hanno influenzato la biologia per secoli». I concetti biologici «inappropriati» di Platone sarebbero secondo Mayr sostanzialmente quattro: l’essenzialismo e la costanza assoluta del mondo; il concetto di un cosmo animato, un insieme vivente e armonioso, che avrebbe reso difficile in seguito spiegare come l’evoluzione abbia potuto verificarsi, dato che ogni cambiamento disturbava questa armonia; la sostituzione dell’origine spontanea del mondo con l’introduzione di un potere creatore, un demiurgo; gli influenti dogmi antibiologici di Platone con la sua sottolineatura dell’anima, che è stata una delle principali fonti del dualismo e che ha dominato la filosofia e la teologia sino al diciannovesimo (se non al ventesimo) secolo.

La risposta a queste affermazioni è arrivata qualche tempo dopo in un articolo di David B. Kitts (1987), che senza troppi giri di parole accusava Mayr (ma anche Ghiselin e Hull che avevano espresso opinioni simili a proposito di Platone) di essere molto vaghi e di non fare citazioni precise a sostegno delle loro tesi antiplatoniane. In realtà, sottolineava Kitts, se si leggono attentamente i dialoghi vi sono numerosi motivi per ritenere del tutto false queste tesi: non è possibile infatti applicare la teoria platonica delle forme a una tipologia biologica, dal momento che l’uso che Platone fa dei nomi di animali non è mai inteso a fondare una teoria delle specie animali; gli animali vengono infatti citati come esempi, per analogie, similitudini, o miti, ma mai con finalità sistematiche; inoltre, le classificazioni degli animali che Platone fa nelle celebri divisioni dicotomiche, con le quali cerca di trovare una definizione di sofista, quella della pesca con la lenza e quella della caccia alle ricchezze (dove gli animali sono distinti in terrestri e non-terrestri, quelli terrestri a loro volta in domestici e non-domestici e quelli non-terrestri in aquatici e volatili), oppure in quella del Politico (dove gli animali terrestri sono divisi in quelli con le corna e quelli senza corna) difficilmente possono essere intese come una sistematica biologica, dato che è molto plausibile che si tratti di folkclassificazioni in uso al suo tempo.

In realtà, lo strumento diairetico non ha lo scopo principale di classificare, ma quello di chiarire separando il simile dal simile e di purificare separando il migliore dal peggiore. La conclusione di Kitts è che nei dialoghi di Platone non vi è alcuna teoria che riguardi propriamente la biologia.

Per quanto riguarda la concezione dell’anima, è vero che per Platone essa è ciò che muove e dà la vita al corpo, da cui pur essendo unita è separata, ma, come dimostra il mito della trasmigrazione delle anime, l’anima non è, come per Aristotele, la forma del corpo, ma qualcosa che, pur restando la stessa, può vivificare corpi di forma diversa. Da questo punto di vista la nozione di anima di Platone non può essere intesa come antibiologica.

Infine, per quanto riguarda il rapporto tra la forma (o l’uno) e il molteplice, Platone non ha dato una soluzione costantemente univoca ai problemi suscitati dalle loro relazioni. Né, in ogni caso, risulta che Platone abbia mai distinto la partecipazione di un animale alla forma del suo tipo come «essenziale» o «accidentale». Da tutto ciò si deve concludere, secondo Kitts, che non esiste nei dialoghi una qualche consistente teoria delle specie biologiche e quindi chi vuole esaminare l’influsso di Platone nella storia della biologia deve tenerne conto.

La reazione degli interessati all’articolo di Kitts non si è fatta attendere. Ernst Mayr (1988) e Michael T. Ghiselin (1988), accusati di non conoscere abbastanza Platone, si sono difesi scagliandosi con ancora più veemenza contro Platone, il primo ribadendo che Platone per la biologia «è stato un disastro», il secondo che vi sono essenzialismi che possono essere più o meno dannosi, alcuni anche innocui, ma che quello di Platone come quello dei suoi seguaci Oken e Owen è stato particolarmente nocivo. Questo attacco, soprattutto in Mayr, suona così viscerale che sembra dare qualche supporto alla tesi di Mary P. Winsor (2006) secondo la quale Mayr ha promosso la storia canonica dell’essenzialismo e dell’antiessenzialismo, soprattutto negli anni tra il 1953 e il 1968, proprio per la sua personale avversione per Platone (oltre che per l’influsso delle idee di Popper e di Hull). In realtà l’avversione di Mayr nei confronti delle idee di Platone era mossa principalmente dagli esiti che la filosofia platonica delle essenze sembrava aver avuto nel trascendentalismo della Naturphilosophie schellinghiana e dagli influssi che questa aveva avuto nella sistematica pre- e postdarwiniana. A chiudere la vicenda in favore di Kitts è alla fine intervenuta Marjorie Grene (1989) che non solo ne ha appoggiato l’interpretazione di Platone, ma ne ha approfittato per esprimere un giudizio tagliente sul Popper de La società aperta e soprattutto sull’entusiasmo acritico del popperismo nordamericano: «Se invece di considerare soltanto il contesto politico in cui il libro è stato scritto si considera The Open Society come un documento di storia della filosofia, allora l’aggettivo più cortese con cui definirlo è «spregevole»; quindi, se non fosse per la prevalenza anche in questo lato dell’Atlantico, ahimè, di ciò che van Valen così appropriatamente chiama «popperismo», il libro non sarebbe degno di alcuna considerazione».

Questo piccolo scontro polemico ha avuto due conseguenze principali: la prima è che da allora essenzialismo e antiessenzialismo sono diventati i due poli di una dicotomia storiografica che contrappone l’essenzialismo predarwiniano all’antiessenzialismo darwiniano e postdarwiniano, con due risultati: un problema storiografico connesso alla visione canonica della storia dell’essenzialismo nelle scienze biologiche; e un consenso (per lo più acritico) della grande maggioranza dei biologi e dei filosofi della biologia attorno all’affermazione che non solo l’essenzialismo tradizionale di derivazione platonico-aristotelica, ma qualunque altro essenzialismo è incompatibile sia con le teorie darwiniane, sia con le moderne pratiche tassonomiche. Questo ha significato anche la messa al bando del cosiddetto pensare tipologico ed essenzialistico a favore esclusivo del pensare popolazionale, e ha portato a guardare con sospetto, da parte dei biologi dell’evoluzione, persino l’evocazione delle cosiddette «leggi della forma» da parte dello strutturalismo dei processi nell’ambito della biologia subcellulare, dell’autorganizzazione, della teoria della complessità ecc., perché l’uso talvolta improprio di queste prospettive per contrastare sul piano teorico la tesi darwiniana della selezione naturale come principale meccanismo di evoluzione li ha messi in odore di collateralismo con l’ID.

La seconda conseguenza è che da allora Platone è stato praticamente ignorato dagli storici e anche dai filosofi della biologia, dato che, secondo il suggerimento di Grene, Platone va considerato un bravo filosofo e non un cattivo biologo.

3. Platone e le folkclassificazioni

A ben guardare, però, queste tesi, sia quella che afferma che Platone è stato un disastro per la biologia sia quella che sostiene che Platone non si è mai occupato di classificazioni biologiche, sono entrambe false. Infatti è vero che Platone, a differenza di Aristotele, non era né portato né interessato alle scienze naturali, come lui stesso ammette nel celeberrimo brano del Fedone.7 L’entusiasmo per la ricerca delle spiegazioni causali empiriche dei fenomeni biologici, che pur da giovane aveva nutrito, era via via venuto meno, sostanzialmente per due ragioni: la prima perché lo stato delle conoscenze di coloro che a quel tempo parlavano dei fenomeni biologici era tale che invece di chiarire i problemi li rendevano ancora più oscuri; la seconda è che ben presto si era reso conto che, in fondo, gli organismi biologici sono effimeri, nascono e muoiono, mentre i suoi interessi volgevano verso l’ontologia, la gnoseologia e la metafisica e ciò che era eterno come i fenomeni celesti e i numeri. È anche vero però che risale a Platone l’uso tecnico di nozioni come quelle di forma o specie (eidos), essenza (ousia), diairesi (diairesis), generazione, genere (genos), definizione (logos, orismos), limite, confine (peras) ecc., che, pur modificando il loro significato nel corso della storia, hanno avuto grande fortuna in seguito, ad esempio in Aristotele, e sono entrate e ancora restano nel bagaglio culturale dei tassonomisti moderni. Ma soprattutto non è vero che Platone, da filosofo, non si è mai occupato di classificazioni, perché risale a lui quello che può essere considerato il primo trattato di filosofia delle classificazioni, il Cratilo.

Nell’ultimo secolo, soprattutto in concomitanza con lo sviluppo della linguistica e della filosofia del linguaggio, il Cratilo ha goduto di parecchia attenzione e di una copiosa letteratura critica sia da parte di filosofi sia da parte di linguisti.8 Oggi viene concordemente riconosciuto come il più antico (sopravvissuto) testo di storia e di filosofia del linguaggio, e come la prima esposizione delle teorie etimologiche. Tradizionalmente si distinguono nel Cratilo tre parti. Nella prima, Ermogene espone le tesi dei sofisti, secondo i quali non vi sono nomi giusti o sbagliati perché i nomi sono frutto o di scelte individuali o della sola convenzione sociale e non hanno niente a che fare con la natura delle cose. Non vi è nulla, ad esempio, che impedisca ad uno di chiamare «cavallo», ciò che un altro chiama «uomo», così come non c’è niente che impedisca a uno di dare a suo figlio il nome che vuole. Ovviamente bisogna tenere conto dell’uso privato e pubblico dei nomi perché ne va della comprensibilità reciproca, ma come tesi generale questo significa che non vi sono nomi più giusti di altri, essendo i nomi nient’altro che etichette applicate per volere individuale o per pura convenzione sociale. Da questo punto di vista il linguaggio è un’invenzione del tutto arbitraria di singoli individui e di comunità. La seconda parte del Cratilo è costituita da una lunga serie di spiegazioni ricavate dalle etimologie dei nomi ed è anche la parte il cui significato è più difficile da capire e che rimane la più discussa ma anche una delle più affascinanti. Per qualcuno (cfr., ad es., Keller, 2000) con questo lungo elenco di spiegazioni Platone intende mettere in burla il modo di filosofare di alcuni filosofi che pretendevano di ricavare il significato delle cose dalle etimologie dei nomi; per altri, invece,9 non vi è alcuna prova che Platone stesse facendo della satira dato che nessuno degli antichi commentatori ha inteso le etimologie in questo senso e quindi c’è da ritenere che Platone ritenesse valide queste spiegazioni anche se a noi oggi risultano in qualche caso piuttosto comiche. Le etimologie in realtà sono il tentativo (molto istruttivo anche se fallito) di Platone di dimostrare che vi è una analogia tra la forma delle parole e l’essenza delle singole cose, dando ragione, in qualche misura, al naturalismo. Non a caso la terza parte del dialogo inizia con l’approvazione entusiastica delle spiegazioni etimologiche di Socrate da parte di Cratilo, sostenitore della dottrina eraclitea del fluire universale. Portando all’estremo il suo naturalismo Cratilo, a questo punto, avanza la tesi che se una parola è un «nome» deriva causalmente da una cosa e quindi descrive necessariamente la natura di quella cosa, ne è cioè una «descrizione» in miniatura; altrimenti non è un nome. Caratterizzare in breve il Cratilo, però, non è facile, dato che il suo obiettivo dichiarato è quello di indagare se esistono nomi «giusti», ma attorno a questo nucleo vengono esposte tutta una serie di questioni che vertono sull’origine e la natura del linguaggio, sul riferimento diretto dei nomi ai nominati, sull’esistenza in natura di essenze, sulla relazione dei nomi con la conoscenza e la verità, ecc. Particolarmente rilevante è poi la connessione molto stretta instaurata da Platone nel Cratilo tra il piano epistemologico e quello ontologico dell’atto del nominare e del classificare, una connessione che costituisce l’orizzonte profondo entro il quale, come dimostra Platone con le sue critiche alle teorie del flusso, si giocano diverse, e spesso alternative, visioni della natura, dell’uomo e della società.

Non vi sono state fino ad ora, a conoscenza di chi scrive, proposte di lettura del Cratilo come il primo e più antico trattato di filosofia delle classificazioni. Eppure le ragioni per leggere il dialogo di Platone anche da questo punto di vista non sono poche. La prima, fra le tante, è che molte delle tesi avanzate da Platone nel Cratilo hanno una sorprendente e straordinaria aria di famiglia con alcune conclusioni che si ritrovano negli studi sulle cosiddette folkclassificazioni. Sviluppatisi soprattutto a partire dagli anni cinquanta del Novecento in ambito etno-antropologico, gli studi sui modelli cognitivi folk (che, cioè, non fanno esplicito riferimento a una metodologia «scientifica» e che comprende sia i sistemi cognitivi delle popolazioni a livello etnologico, sia quelli delle culture popolari, sia quelle infantili e adolescenziali) hanno trovato il principale campo di indagine nello studio delle folkclassificazioni. Per quanto riguarda le folkclassificazioni biologiche (folktassonomie) queste indagini hanno trovato una prima sistematizzazione, in ambito linguistico, negli anni settanta con le ricerche seminali di Brent Berlin e Paul Kay (1969) come estensione dei loro studi sui termini base di colore. Nella classificazione dei colori e in quella degli organismi biologici, infatti, si riscontrano numerose analogie: centrale in entrambe è il ruolo della percezione visiva, un fenomeno molto complesso nel quale confluiscono gli stimoli fisici dell’ambiente esterno, i processi fisiologici propri della retina e del cervello, l’interpretazione psicologica e la rappresentazione linguistica e culturale. Non si può non notare che anche l’eidos (come si specificherà più avanti) è secondo Platone un’espressione del «vedere» anche se si tratta di una percezione sensibile che rimanda all’intuizione di qualcosa di invisibile.

Dai lavori sulle folktassonomie risulterebbe che mentre le diverse culture hanno modi diversi di concettualizzare gli animali e le piante, nella loro classificazione molte lingue (se non tutte) seguirebbero invece un certo numero di regole fisse pressoché generali. Questi principi generali sono stati riassunti da Berlin et al., 1973, in pochi punti: il primo è che in tutte le lingue oggi conosciute si possono isolare, dal punto di vista linguistico, gruppi riconosciuti di organismi più o meno inclusivi (taxa generici) identificati con termini-base, come sarebbero in italiano, ad esempio, quercia, pino, coniglio, cavallo, ecc. Questi taxa sarebbero ulteriormente raggruppati in un piccolo numero di classi gerarchicamente sotto o sopra il taxon generico che possono essere considerate «categorie tassonomiche». Queste categorie tassonomiche sarebbero, secondo gli autori, caratteristicamente cinque: il progenitore comune (per es., pianta e animale; da notare che i termini generali corrispondenti alla partizione «animali» e «piante» sono assenti in diverse lingue); la forma di vita (per es., alberi, erba, mammiferi, pesci, uccelli, ecc.); il taxon generico (appunto: quercia, pino, coniglio, cavallo); il taxon specifico (identificato da lessemi secondari come: abete rosso, quercia bianca, ecc.); la varietà (come: fagiolo borlotto, fagiolo cannellino, ecc.). Il lessema centrale di questa categorizzazione, rinvenibile, praticamente, in quasi tutte le lingue umane conosciute, sarebbe il termine-base del taxon generico (cane, gatto, cavallo ecc.), cioè quella che nel parlare quotidiano si considera una «specie». Alla base di questo modo di ordinare gli organismi viventi vi sarebbe, secondo Berlin, 1992, la percezione intuitiva da parte dell’uomo comune di alcuni livelli fondamentali della realtà biologica.

Nel Cratilo manca qualunque tentativo di proporre quello che è il tratto più caratteristico delle folkclassificazioni, la gerarchizzazione; manca anche la distinzione di base tra «animato» e «inanimato», che sarà presente negli altri dialoghi attraverso il metodo diairetico e che qualificherà poi tutta la Fisica di Aristotele. Un tratto comune al Cratilo e a molte folkclassificazioni (Berlin, 1992) è invece l’idea che «dare il nome» significhi inserire il nominato in una classe o classificarlo e quindi che i primi nomi siano stati nomi comuni o, in termini molto generali, nomi di «specie». Nel Cratilo Platone non fa distinzione tra nomi propri e nomi comuni, né tra i nomi individuali e quelli di specie: «Ermogene» e «cavallo» vengono trattati allo stesso modo e la cerimonia di battesimo da parte dei coniatori di nomi vale per entrambi. Né Platone fa distinzione tra il nominare e il classificare: il nominare, anche con i nomi propri, infatti, è per il Platone del Cratilo un classificare. Astianatte ed Ettore, sostiene Platone, pur sembrando nomi molto diversi, appartengono entrambi, come molti altri, alla classe «re e difensori di città»; altri nomi appartengono alla classe «strateghi», «medici» e così via. Il nomenclaturismo, cioè l’idea che le lingue sono fatte essenzialmente di nomi, la cui origine Tullio De Mauro attribuisce ad Aristotele, è in realtà presente anche nel Cratilo e si giustifica proprio con il fatto che i nomi consentono le classificazioni.

Accennando alle tesi sulle origini del linguaggio (che evidentemente già allora suscitavano delle domande) Platone sembra anticipare l’idea che in fondo il linguaggio si può definire umano solo quando compaiono i nomi e che i primi nomi devono essere stati nomi di specie, dato che, come scrive Scott Atran (2005), «non sembra importante quale singola mela puoi mangiare, o se è Leo o Larry la tigre che ti può mangiare». Da qui il rifiuto della tesi dei naturalisti del suo tempo secondo cui il linguaggio umano avrebbe un’origine onomatopeica, nascerebbe cioè dall’imitazione dei suoni, dei movimenti e dei colori delle cose. Anche per Platone l’imitazione è un fattore importante, ma non è dall’imitazione dei suoni naturali che origina il linguaggio umano. Se immaginassimo di essere muti, osserva il filosofo, e volessimo mostrarci l’un l’altro le cose non avremmo altra possibilità che quella di usare il corpo, le mani e i gesti: così per indicare una cosa alta e leggera alzeremo le mani, per indicare una cosa pesante e bassa le abbasseremo e così via. Ma, quando si usa la voce, bisogna distinguere l’imitare dal nominare: imitare il verso della pecora o quello del gallo è molto diverso dal nominarli e infatti i nomi «pecora» e «gallo» non derivano dai rispettivi versi. Lo stesso vale per i suoni musicali o per i disegni che imitano le cose, ma non danno loro un nome. Vi è una profonda differenza, sostiene Platone, tra i suoni e i gesti imitativi da una parte e i nomi dall’altra: i primi danno poche informazioni, indicano semplicemente le cose, i secondi invece sono ricchi di informazione, le fanno cioè «conoscere».

L’affermazione che il nominare è connesso al conoscere deriva secondo Platone dalla natura stessa del nome. Nel Cratilo Platone si trova di fronte a due teorie linguistiche che, sullo sfondo della opposizione di nomos e physis, delineata da Democrito, già allora avevano affilato le armi e che si sarebbero contese il territorio lungo tutta la storia della filosofia. Con terminologia che risale agli anni settanta del Novecento, forse non molto precisa ma ormai entrata nell’uso, a queste due teorie vengono applicate le qualifiche di «convenzionalista», intendendo con questo termine generale una teoria per la quale i nomi vengono assegnati in virtù di una semplice convenzione o accordo fra parlanti e non per il loro valore descrittivo; e «naturalista», anche in questo caso in senso molto generale, a indicare una teoria secondo la quale i nomi, in qualche misura, derivano da, e descrivono la, natura del nominato. Si è discusso molto se il Platone del Cratilo propenda più per il naturalismo (come sostiene, per esempio, Joseph, 2000) o per il convenzionalismo, ma in realtà la confutazione da parte di Socrate di entrambe le tesi, quella convenzionalista e quella naturalista, è fondata su due assiomi, che hanno alla base una profonda convinzione realista. Il primo, contro l’arbitrarietà sottesa alla tesi della nascita convenzionale del linguaggio, afferma che le cose esistono prima dei nomi e a prescindere dai nomi: non sono i nomi a «creare» le cose, al contrario, è la natura delle cose il metro su cui si misura la «giustezza» o meno di un nome; la conoscenza che i nomi possono dare è quindi una conoscenza in qualche modo derivata e incerta dato che i nomi possono essere anche «sbagliati».

Non è quindi soltanto dai nomi che, secondo Platone, si possono conoscere le cose, ma al contrario, per conoscere le cose bisogna ad un certo punto abbandonare i nomi e rivolgersi direttamente alle cose stesse; da qui la dura presa di posizione di Socrate contro coloro che, come i sofisti, danno se stessi e la loro anima in pasto ai nomi e a coloro che li hanno coniati. Con il secondo assioma, contro la tesi naturalista che i nomi derivano direttamente dalle cose, Platone afferma che il nome è un «utensile», esattamente come sono utensili creati dall’uomo una spola o un trapano. Il nome non è, quindi, né un prodotto naturale e spontaneo come ritengono i naturalisti, né una creazione sociale arbitraria, come ritengono i convenzionalisti. Esso è un «utensile» e come tale è «costruito», ma non può essere costruito «arbitrariamente» dato che la sua forma, come quella del trapano o della spola, deve rispondere a una precisa funzione. L’idea che i nomi sono «strumenti» non è originale di Platone. Anche per Protagora, per Gorgia e gli altri sofisti, il linguaggio era un utensile e anzi uno strumento potentissimo. Il punto di divergenza è sullo scopo a cui il linguaggio serviva o doveva servire.10 Per Protagora e gli altri sofisti il linguaggio era solo uno strumento di «comunicazione sociale», un mezzo straordinariamente potente sul piano educativo, politico, legale, che però non aveva niente a che fare con la conoscenza: uno strumento moralmente ed epistemologicamente neutro, proprio come un trapano o una spola, che quindi non andava valutato con il criterio della verità, ma soltanto per la sua efficienza. Da qui la necessità di studiare e insegnare i meccanismi e le tecniche che lo rendevano efficace nei rapporti interindividuali evidenziandone l’ambigua capacità di nascondere e svelare, di mentire e di dire il vero, di apparenza e realtà. Per Platone invece «il nome è un utensile per l’insegnamento e per distinguere le essenze», è cioè un utensile cognitivo e la sua funzione è quella di «far conoscere» e di trasmettere accuratamente la conoscenza dell’essenza delle cose.

Che vi sia un legame stretto tra il dare il nome e il conoscere o, meglio, il «riconoscere» una cosa, viene sottolineato da Platone con la figura dei «legislatori». In quanto strumenti di conoscenza i nomi sono coniati dagli uomini, ma non tutti i singoli individui sono in grado di dare i nomi giusti, come non tutti sono in grado di costruire dei trapani o delle spole perfette. Soltanto alcuni uomini, che Platone chiama, appunto, «i legislatori» o anche «i coniatori di nomi», sono in grado di dare i «nomi giusti» alle cose e «il dare il nome» è, in qualche misura, un «atto legislativo». I nomi vengono attribuiti in una specie di cerimonia alla stregua di quello che Saul Kripke ha chiamato «battesimo», che avviene via via che gli uomini sono messi di fronte alle cose, come gli esploratori battezzano le terre nuove o gli astronomi i corpi celesti appena individuati. Questo atto legislativo si svolge in due momenti: il primo consiste nell’identificazione dell’essenza della cosa cui dare il nome. L’individuazione dipende dalla capacità dei singoli «coniatori di nomi» di «riconoscere» ciò che le cose sono in sé, al di là delle loro varianti. Questo comporta, da parte dei legislatori, una specie di conoscenza preliminare, o meglio la capacità di vedere, o di intuire, ciò che una cosa è nella sua essenza. Il secondo consiste nel giudizio e nella conferma della giustezza dei nomi assegnati, non da chiunque, ma da parte di utilizzatori esperti, i dialettici, cioè coloro che sanno porre domande e dare risposte. Il nome così inteso risulta un utensile che deriva dalla tradizione, deliberatamente costruito e criticamente assunto da due tipologie di esperti. Una volta confermato esso diventa un designatore rigido molto più simile a quelli di un linguaggio artificiale che ai designatori vaghi del linguaggio ordinario. Pur senza spingere troppo in là l’analogia, la concezione del nominare espressa nel Cratilo può rievocare alcuni elementi (il ricorso alla tradizione, il battesimo da parte di conoscitori, l’uso e il controllo da parte di esperti, ecc.) presenti nelle regole di alcuni codici internazionali, soprattutto botanici e zoologici, finalizzati a evitare il caos della sistematica e a facilitare gli scambi tra parlanti diversi.

4. Platone e Darwin sull’origine del linguaggio

La diatriba tra convenzionalisti e naturalisti sull’origine e la natura dei nomi, e più in generale del linguaggio, è arrivata senza modifiche sostanziali sino ai nostri giorni: è sufficiente pensare alla contrapposizione tra la teoria saussuriana dell’arbitrarietà dei segni e quella di Chomsky sulla grammatica universale. Il fatto è che quando si parla dell’origine e della natura del linguaggio umano si entra in un territorio che, nonostante i ripetuti e accaniti tentavi di esplorazione, rimane quasi del tutto sconosciuto. La lussureggiante complessità fonologica, sintattica e semantica delle lingue, la loro duttilità da un lato e la loro conservatività dall’altro, la loro velocità di modificazione e di trasmissione orizzontale e verticale ben superiore a quella dei genomi, che coinvolge sia la biologia (geni, cervello, organi di fonazione, comprensione ed elaborazione) sia l’ambiente sociale e naturale, hanno rappresentato, lungo tutta la storia del pensiero e della scienza occidentale una sfida insieme eccitante e frustrante. L’idea che il nome è un utensile è anche oggi universalmente condivisa, ma sulla natura e sulla funzione di questo strumento vi sono ancora opinioni decisamente contrastanti. L’idea di Platone che tra i suoni della natura (compresi i versi degli animali) e i nomi vi è un «salto qualitativo», dovuto alla differenza di informazione in essi contenuto che, a sua volta, è determinata dal fatto che il nome è un utensile creato specificamente dall’uomo, ha trovato una forte opposizione, tra gli altri, anche da parte di Darwin, che scrive: «Oggi nessun filologo suppone che ciascun linguaggio sia stato deliberatamente inventato, esso si è lentamente e inconsciamente sviluppato attraverso molti gradi… Riguardo all’origine del linguaggio articolato… non posso dubitare che il linguaggio debba la sua origine all’imitazione e alla modificazione dei vari suoni naturali, delle voci di altri animali e delle grida istintive dell’uomo, aiutato dai segni e dai gesti».11 Come è noto le tesi di Darwin sul linguaggio vengono esposte all’interno del lungo capitolo dell’Origine dell’uomo (2006, 81-86) nel quale egli tenta di dimostrare che anche le facoltà intellettuali più proprie dell’uomo, tra cui, appunto, il linguaggio articolato, derivano da capacità già presenti negli animali inferiori attraverso una evoluzione lenta e graduale guidata dalla selezione naturale senza alcun salto qualitativo, convinto com’era che se non si fosse potuto dimostrare che anche queste facoltà più caratteristicamente umane si sono sviluppate attraverso un meccanismo lento e graduale e che quindi l’uomo differisce dagli altri animali non per qualità ma solo per grado, tutta la sua teoria sarebbe crollata. Il gradualismo, un’idea debitrice alla Geologia di Lyell diventata uno dei pilastri centrali della teoria darwiniana dell’evoluzione, viene giocato da Darwin, in questo contesto, per opporsi alle tesi che puntavano sulla straordinaria perfezione e unicità del linguaggio sintatticamente articolato per individuare una discontinuità tra animali inferiori e uomo e rinforzare le prospettive creazioniste. Nei fatti però l’applicazione del gradualismo all’origine e alla formazione del linguaggio umano ha sollevato subito, non solo tra i creazionisti, ma anche da parte dello stesso Lyell, l’obiezione che il linguaggio umano è un utensile talmente perfetto da escludere che si possa spiegare con un processo lento e graduale come quello darwiniano della selezione naturale. Anche Wallace, coautore con Darwin della teoria dell’evoluzione per selezione naturale, sosteneva, più in generale, che le straordinarie dimensioni e le capacità intellettuali del cervello umano erano assolutamente esagerate rispetto alle necessità della sopravvivenza, dato che all’uomo, per sopravvivere, sarebbe stato sufficiente sviluppare un cervello poco più grande di quello di un orango, e quindi non potevano essere spiegate dalla sola selezione naturale; una terza obiezione infine, di Max Müller (che aveva soprannominato sarcasticamente le teorie naturaliste come quella di Darwin «teorie del pu-pu e del bau bau»), dal versante filologico idealista, sottolineava che l’uso delle parole senza pensiero è impossibile così come è impossibile pensare senza le parole e ne concludeva che pensiero e parole dovevano aver fatto la loro comparsa contemporaneamente e istantaneamente e non con una evoluzione graduale. Queste obiezioni, benché non condivise, erano state prese in seria considerazione da Darwin, perché avevano reso evidente che si incontravano molte difficoltà a spiegare l’origine e la formazione del linguaggio umano, con il ricorso al solo principio della selezione naturale e dell’adattamento. Da qui l’idea di Darwin che la selezione che avrebbe portato alla formazione del linguaggio umano non sarebbe stata direttamente la selezione ambientale, ma quella sessuale, orientata cioè alla fitness riproduttiva. Scrive Darwin:

Trattando della selezione sessuale vedremo che gli uomini primitivi, o piuttosto qualche primo progenitore dell’uomo, probabilmente usò prima la sua voce per produrre vere cadenze musicali, cioè per cantare, come fanno oggi alcuni gibboni. Possiamo concludere, da un’analogia ampiamente estesa, che questa facoltà sarebbe stata particolarmente esercitata nel corteggiamento fra i sessi; avrebbe espresso le varie emozioni come l’amore, la gelosia, il trionfo; e sarebbe servita come sfida ai rivali. Perciò è probabile che l’imitazione dei suoni musicali con suoni articolati possa aver dato origine a parole esprimenti varie e complesse emozioni.

Per Darwin quindi la funzione più originaria del linguaggio non è quella cognitiva, né quella di riconoscere e orientarsi nell’ambiente naturale per esempio dando il nome ad animali e piante e di trasmettere questa conoscenza ai discendenti; la sua funzione è prima di tutto l’espressione delle emozioni e in particolare delle emozioni nella competizione verso l’accesso alle risorse sessuali. In realtà l’idea di Darwin che la complessità del linguaggio umano possa essere spiegata attraverso l’apprezzamento estetico e la selezione sessuale è oggi del tutto abbandonata (così, ad es., Deacon, 2010). La selezione sessuale infatti sembra in grado di spiegare molti tratti del dimorfismo sessuale, ma nel linguaggio umano non esiste alcun dimorfismo, ovvero nessuna differenza tra maschi e femmine nella capacità di apprendimento e uso del linguaggio. Inoltre la concezione di Darwin riflette ancora l’antropologia ottocentesca secondo la quale la cultura umana è stata costruita essenzialmente da maschi eterosessuali; è invece molto probabile che un ruolo fondamentale sia stato svolto dalle donne, e dalle madri in particolare, nella loro lunga relazione di allevamento ed educazione della prole. In questo caso il concetto platonico del nominare come strumento educativo acquisterebbe nuova luce. In tempi recenti vi sono stati diversi tentativi neodarwinisti di rivedere il ruolo della selezione naturale nell’origine del linguaggio umano ma non è mai stato provato che vi sia stato un percorso guidato dalla selezione naturale che ha portato dall’istinto di imitazione dei rumori naturali e dei versi degli animali allo sviluppo di sistemi di segni prima onomatopeici e infine alla formazione di un linguaggio.12 Ancora meno sembra plausibile spiegare con la selezione naturale le regole che reggono le grammatiche, ad esempio, dei linguaggi svo.13

Questo non significa tuttavia che la selezione naturale non abbia giocato alcun ruolo nella formazione e nell’uso di parole e nomi. Qualche anno fa, in occasione di un intervento presso la American Philosophical Society, Edward O. Wilson introduceva una sua breve lettura con questa considerazione: «Sembra ragionevole presumere che tra le prime parole comparse nel periodo di formazione del linguaggio umano vi fossero i nomi di piante e di animali. Questo evento, che probabilmente è avvenuto durante la transizione tra Homo erectus e Homo sapiens intorno a mezzo milione di anni fa, può essere considerato un primo blocco di partenza per l’avvio della scienza. L’accuratezza e la ripetibilità della comunicazione a proposito dell’ambiente era allora, come ora, necessaria per la sopravvivenza. Come afferma una massima cinese, etichettare le cose con i loro nomi giusti è il primo gradino verso il sapere» (E. O. Wilson, 2005). Con questa affermazione Wilson iniziava un ragionamento il cui scopo era quello di sensibilizzare l’uditorio sulla necessità di procedere velocemente a una catalogazione globale delle specie viventi ai fini di formulare una corretta strategia per la conoscenza e la conservazione della biodiversità sulla Terra, missione alla quale il padre della sociobiologia ha dedicato tutti i suoi sforzi negli ultimi trent’anni. Tuttavia la sua ipotesi che l’introduzione e l’uso di nomi di piante e animali, sin dalle prime fasi di formazione del linguaggio umano, sia stato un fattore competitivo per la sopravvivenza di alcuni gruppi umani, ha qualche ragionevolezza. Come per Platone, anche per Wilson i nomi sono il primo gradino verso la conoscenza: l’uso di nomi appropriati può aver favorito la sopravvivenza di individui e gruppi che si trasmettevano queste conoscenze.

5. L’essenza come categoria ontologica e categoria psicologica

Per Platone il nome, in quanto utensile cognitivo, è connesso anche al giudizio vero/falso, ed è tanto meno ingannevole quanto più svolge in maniera efficiente il compito per cui è stato costruito: avvicinarci alla conoscenza delle cose, quali sono e come sono, sino a imitarne l’«essenza» (423b-424a). Le cose infatti non dipendono per Platone dalla nostra immaginazione, ma «posseggono in sé stesse una loro propria e stabile essenza (ousía) che è data loro per natura e che non possono cambiare (386e). Nel Cratilo il termine ousía, che trova poi diverse sfumature in altre opere di Platone, non viene definito in maniera troppo rigorosa, per cui il significato di «essenza» sembra rimanere piuttosto vago (Baxter, 1992). Quando i biologi e gli psicologi evoluzionisti parlano di essenza platonica hanno in mente soprattutto l’allegoria della caverna, dove Platone sembra dire che si vedono solo le ombre del mondo, ma che la realtà vera è fuori dalla caverna, e anche fuori dalla portata della nostra conoscenza. In realtà, nel Cratilo Platone fa derivare ousía da Estía, la dea della casa e del focolare domestico e cittadino, il cui nome, a sua volta, è connesso a estín, cioè alla terza persona dell’indicativo presente del verbo essere, è (401c-e).

L’essenza, secondo questa interpretazione, evidenziata come è noto anche da Heidegger, è semplicemente l’essere delle cose, il loro carattere di stanzialità in questo mondo, il loro essere presenti allo sguardo. Essa è connessa all’eidos, a ciò che si vede, alla forma, all’idea visibile. Nel Cratilo (389b) Platone chiarisce il rapporto tra l’eidos e l’oggetto con un esempio concreto: supponiamo che al falegname si spezzi una spola mentre la sta facendo; per farne un’altra a che cosa guarderà? Alla spola che si è rotta, oppure alla idea di spola, alla spola in sé, a quella a cui guardava anche quando ha fatto la prima spola? È evidente, secondo Platone, che il falegname si ispirerà all’idea di spola, cioè alla forma-funzione che qualunque spola, per essere tale, deve avere. L’essenza è quindi, per il Platone del Cratilo, un predicato comune a tutte le cose delle quali indica la stabilità, la fermezza, il permanere nell’essere. È proprio questa presenza e questa stabilità che permette di dare alle cose un nome che, quando è coniato correttamente, è giusto, riflette cioè la forma-funzione della cosa, la sua identità e la sua verità, al di là dei cambiamenti ai quali appare essere soggetta.

Per il Platone del Cratilo l’essenza non sembra essere anzitutto un carattere diagnostico-classificatorio; nel Cratilo «imitare l’essenza» indica la capacità di vedere, al di là di tutti i cambiamenti ai quali appaiono essere soggette le cose, un qualcosa che «rimane lo stesso»: più vicino all’identità personale che rimane costante anche nei cambiamenti più radicali che ai caratteri comuni a un gruppo di individui. È soltanto nei dialoghi successivi, in concomitanza con la definizione attraverso il metodo dialettico che consiste nel riconoscere l’uno nella molteplicità e la molteplicità nell’uno, che la dottrina delle forme assume una caratterizzazione più precisa attraverso la nozione di idea definita come «l’unità di un molteplice». In quanto unità di un molteplice, l’idea o forma diventa, secondo Platone, il criterio che permette sia di raggruppare gli enti, giacché essa indica che tra i componenti di quel molteplice esistono relazioni di compatibilità che li rendono unità, sia di suddividerli secondo una o più variazioni, così che risultano molteplici (cfr., ad es., Fil., 14c-15c; Sof., 253d).

Numerose ricerche svolte negli ultimi decenni da antropologi cognitivisti e da psicologi evoluzionisti sembrano convergere sull’affermazione che la gente comune ordina il mondo naturale in categorie come se animali e piante possedessero una «essenza» che, pur non essendo visibile, sarebbe responsabile dell’identità degli organismi. Secondo Sousa et al. (1999; 2002), questa intuizione spiegherebbe l’assunto del senso comune secondo il quale alla base di ciascuna specie generica vi sarebbe una «causa naturale» responsabile della morfologia, del comportamento e delle preferenze ecologiche di una specie. Sarebbe questa «causa», nascosta ma ben attiva, a garantire l’integrità dell’organismo e nello stesso tempo a promuovere la sua crescita, i cambiamenti di forma e la riproduzione. Il fatto che nel pensare comune un girino rimanga lo stesso individuo pur mutando la sua morfologia in quella di una rana, o un bruco in quella di una farfalla, sarebbe attribuito alla sua essenza che, pur essendo la causa dei cambiamenti, rimane sempre la stessa. Sarebbe ancora l’essenza condivisa (l’essenza di specie) a permettere di trarre inferenze sui caratteri e sui comportamenti degli organismi viventi e quindi di inserirli in classi naturali. A risultati analoghi sono giunti anche alcuni studi su bambini in età prescolare, le cui inferenze (per esempio la distinzione maschio/femmina) sarebbero consistenti, secondo Susan Gelman (2003), con il «pensare per essenze». Il pensare essenzialistico sarebbe, secondo questi studi, un modo di pensare «innato», una predisposizione virtualmente universale, comune a bambini e adulti (anche i botanici e gli zoologi, nel loro discorrere quotidiano, si comportano come se animali e piante avessero delle essenze). Il pensare per essenze sarebbe una forma di riduzionismo monista che si è dimostrato estremamente efficace dal punto di vista euristico, perché consente di dedurre molte informazioni intorno alle cose del mondo che possono essere usate nella vita di tutti i giorni. Questi studi suggeriscono anche che quello che oggi viene chiamato «realismo del senso comune» è profondamente radicato nella biologia dell’uomo. La presenza di questi universali linguistici, che, come quelli dei colori, sembrano in grado di respingere il relativismo linguistico del tipo Sapir-Whorf, ha trovato sostanzialmente due proposte di spiegazione: la prima, di carattere strutturale-linguistico, rimanda alla grammatica universale e all’apprendimento delle lingue, la seconda, di carattere psicologico-evoluzionistico, si basa sui cosiddetti moduli mentali.14 Più di recente vi sono stati anche tentativi di individuare attraverso le immagini della risonanza magnetica funzionale (fMRI), i correlati neuronali della grammatica universale nell’area di Broca (Musso et al., 2003) e la rappresentazione delle classi biologiche come continuum di stimoli dal dominio delle cose animate, centrato nel giro fusiforme laterale, al dominio delle cose non-animate della corrente ventrale mediale (Connolly et al., 2012).

Letto nella prospettiva degli studi folkbiologici, il Cratilo sembra essere quindi nient’altro che l’esposizione, elevata a dignità filosofica, del pensare comune, al tempo di Platone, attorno al tema del nominare. Vi è tuttavia una profonda differenza tra la concezione dell’essenza di Platone e quella proposta dagli studi di folkbiologia. Per il primo l’essenza è una categoria ontologica, per i secondi invece l’essenza è una categoria psicologica. Questa differenza è sostanziale perché riguarda i rapporti tra conoscente e conosciuto: per il realismo di Platone la distinzione ontologica tra conoscente e conosciuto è netta e necessaria; per gli psicologi evoluzionistici invece, come per i sofisti, non lo è, perché l’essenza non sarebbe nient’altro che una «disposizione mentale» solidificatasi durante il lungo percorso evoluzionistico che ha portato alla comparsa dell’uomo anatomicamente moderno. Ma forse le due prospettive non vanno viste come alternative, perché se è vero che è l’uomo che ha creato lo strumento «linguaggio», è anche vero che il linguaggio sintatticamente articolato ha contribuito in maniera sostanziale a creare (almeno) l’uomo anatomicamente moderno.

6. Un esperimento mentale di Platone

Alla fine della prima parte del Cratilo (393b e sgg.) Platone propone un interessante esperimento mentale. Di solito, nota Socrate, è corretto chiamare con lo stesso nome comune (o assegnare alla stessa specie) due individui che hanno un rapporto di discendenza e quindi chiamare leone chi nasce da leone e cavallo chi nasce da cavallo. Ma supponiamo che, contro ciò che avviene di solito in natura, da un cavallo nasca, in forma di mostro, un organismo che ha i caratteri morfologici e il comportamento di un vitello. Come lo dobbiamo chiamare? La domanda è meno banale di quanto può sembrare a prima vista, perché riproduce in breve quello che oggi è conosciuto come problema del taxon (ovvero la domanda: in virtù di che cosa un organismo, diciamo un uomo, viene assegnato al particolare taxon [linneano] Homo sapiens e non, per esempio al taxon Canis familiaris?); inoltre essa introduce il tema della comparsa delle «novità» biologiche, un tema che, sotto il termine «mostri», ha conosciuto una lunga storia in epoca predarwiniana, e ha trovato qualche attenzione anche di recente nel puntuazionismo e nel ritorno di un certo saltazionismo. Il problema si pone, secondo Platone, perché non sembra affatto corretto chiamare cavallo un organismo che ha tutte le caratteristiche di un vitello, come non sembra corretto chiamare pio un uomo empio solo perché è nato da un uomo pio.15 Nei suoi termini generali questo esperimento mentale di Platone pone sul tavolo, per la prima volta, il problema della possibile incompatibilità tra i due criteri di classificazione degli organismi viventi che hanno tenuto banco in tutta la storia del pensiero occidentale: quello della discendenza e quello della somiglianza di forma. La domanda che Platone si pone può essere così sintetizzata: il nesso causale naturale che lega il generante al generato (la discendenza) è l’unico criterio diagnostico valido per dare il nome o (se si vuole) per classificare un nuovo nato?

Secondo Platone le classificazioni non devono usare necessariamente come unico criterio le relazioni causali tra enti naturali come la relazione di discendenza. La distinzione secondo natura/contro natura, dove il «secondo natura» rappresenta la regola generale o statistica degli eventi, mentre il «contro natura» è l’eccezione rappresentata dai «mostri» o dalle «nascite mostruose», sottolinea secondo Platone che è necessario un approccio pluralistico per classificare gli organismi biologici. Un organismo può essere classificato tra i cavalli sulla base del fatto che discende da un cavallo, ma soltanto se ha anche la forma di cavallo, cosa che in natura avviene normalmente. Ma nel caso che vi sia un trasferimento orizzontale delle forme, da una specie a un’altra, e quindi che tra i due criteri vi sia contrasto (oppure non si conosca la discendenza) come si deve procedere? In questi casi, per Platone, il metodo corretto di classificare è quello di fare riferimento alla forma, non alla discendenza. Un’idea che in qualche misura non solo anticipa i dibattiti attorno ai criteri della somiglianza complessiva introdotti dal fenetismo, ma anche, pur senza spingere troppo in là l’analogia, i problemi connessi alla classificazione dei procarioti nei quali il trasferimento orizzontale dei geni (HGT) assume un ruolo rilevante.

Le due più importanti reazioni suscitate dai problemi posti dalla domanda di Platone sono state, come è noto, quella di Aristotele e quella di Darwin, le quali hanno in comune il fatto di negare i presupposti biologici dell’esperimento mentale di Platone (da un cavallo non può nascere un vitello), ma per motivi e con conclusioni molto diverse sulle quali vale la pena di soffermarsi.

7. Aristotele e il problema del mulo

In realtà Aristotele non affronta in maniera diretta la questione epistemologica posta dall’esperimento mentale di Platone. Il passo di Fisica 191b 20-25: «se un cane si generi da un cavallo» non sembra suggerire un esempio analogo a quello di Platone, anche perché molti studiosi lo considerano corrotto. Le sue osservazioni naturalistiche, la sua teoria sulla Generazione degli animali e le considerazioni in proposito svolte nella Fisica e nella Metafisica contribuiscono tuttavia a inquadrare il problema in una cornice zoologica molto più precisa di quella di Platone. Nei suoi termini generali, e con qualche semplificazione, la teoria della generazione di Aristotele viene presentata, di solito, come una teoria della trasmissione verticale (da una generazione a quella successiva) di forme costanti e permanenti, lungo la linea paterna. In questa rappresentazione vi è ovviamente molto di vero, perché nella teoria aristotelica della generazione la nascita (ghenos) e la forma (eidos) sono strettamente connesse: generazione e somiglianza, almeno nel caso della riproduzione sessuale, sono strettamente connesse attraverso la trasmissione della stessa forma, anche se più o meno perfetta: «È evidente che chi genera è simile a ciò che è generato… ma solo per forma» (Met., 1033b 28) perché il generante non può che trasmettere al generato la sua forma, cioè la sua identità di specie. «Un uomo genera un uomo» ripete di continuo Aristotele e, si potrebbe aggiungere, per restare nell’esempio platonico, «un cavallo genera un cavallo» e «un toro genera un vitello». Perciò immaginare che da un cavallo possa nascere, per via naturale, un vitello, è come sostenere che i fulmini possono avere la forma dei tuoni. Per quanto riguarda le nascite mostruose Aristotele è tagliente: chi afferma cose del genere (la polemica è diretta soprattutto contro Empedocle che ha disegnato una visione della natura nella quale tutte le parti si possono mescolare a caso e quindi possono nascere pecore con la testa di bue o bambini con la testa di caprone, ma più in generale contro tutti coloro che, come Democrito, adottano una visione meccanicistica per la quale gli enti naturali si costruiscono attraverso processi di aggregazione spontanea) non solo non capisce la generazione, ma giunge a eliminare tutta la natura e gli enti naturali (Fis., 199b), perché la differenza tra gli enti naturali viventi e quelli artificiali è proprio che i primi hanno all’interno di sé stessi il principio della generazione.

Le difficoltà che impediscono che si produca una simile anomalia, che un animale di una specie si formi naturalmente in un animale di un’altra specie, sono, secondo Aristotele, di due ordini. Le prime sono anatomo-fisiologiche e nascono dalla semplice osservazione delle barriere prezigotiche alla riproduzione (che ovviamente Aristotele non poteva conoscere), costituite dalla diversa taglia degli animali e soprattutto dalle eterocronie relative ai periodi di fertilità, alla gestazione e al parto (De gen. an., 769b); da notare che per Aristotele questi caratteri sono correlati perché ad animali di dimensioni maggiori corrispondono anche tempi di gestazione più lunghi e che le barriere anatomo-fisiologiche non sembrano, neanche ad Aristotele, del tutto insuperabili: animali di taglia simile e con tempi di fertilità e di gestazione vicini possono talvolta superarle. Le altre difficoltà sono di ordine teorico, perché se il processo di generazione avvenisse a caso e disordinatamente non raggiungerebbe quello che è il suo fine naturale. Il fine prossimo del processo generativo, infatti, non è, per Aristotele, quello di generare un organismo qualunque, o un organismo «nuovo», ma un organismo della stessa forma di quello che lo ha generato. In altre parole. lo scopo del generare non è la creazione di forme nuove, ma la ri-produzione delle forme esistenti. Questo fine prossimo, interno, sarebbe diretto, a sua volta, a un fine remoto, esterno, quello della eternizzazione delle forme che, trovandosi in organismi contingenti, soggetti alla nascita e alla corruzione, sarebbero altrimenti condannate a sparire: attraverso la generazione, cioè attraverso la trasmissione verticale da una generazione a quella successiva, le forme arriverebbero invece a partecipare dell’eternità degli dèi (De gen. an., II, 1).

Va oltre i limiti di queste annotazioni addentrarsi nella secolare disputa circa la natura della forma in Aristotele e se essa sia universale (di specie) o individuale. Non ci si può però esimere dal fare qualche osservazione circa gli indirizzi presi negli ultimi quarant’anni attorno a questi temi, perché, come ha evidenziato Samir Okasha (2002), si è verificata una curiosa situazione. Infatti, mentre la maggior parte dei filosofi della biologia e dei biologi a partire dagli anni settanta del Novecento portavano avanti in maniera radicale la loro battaglia contro l’essenzialismo platonico e aristotelico proponendo, con la cosiddetta tesi dell’individualità, un aperto bionominalismo, alcuni filosofi «realisti metafisici» come Saul Kripke, Hilary Putnam, David Wiggins e altri, riproponevano, anche per gli organismi biologici, l’esistenza di un’«essenza», in grado di garantire l’identità (la «stessità») sia dell’individuo, sia della specie. Questa essenza sarebbe stata fornita dalla singolarità individuale e dalla condivisione nella specie dello stesso DNA.

Lungo questa linea, Max Delbrück (1971), in un breve articolo giocato in chiave ironica, è giunto a paragonare la causa formale di Aristotele a un «piano di sviluppo» o a un «programma» che contiene una serie di istruzioni comparabile in qualche misura all’informazione contenuta nel «codice genetico». Questa correlazione è stata ripresa anche da Enrico Berti (2007) che l’ha estesa, giungendo a paragonare il dualismo aristotelico di forma e materia a un (presunto) dualismo tra sequenza delle basi nei genomi e composizione chimica delle medesime (2010). In realtà pochi genetisti oggi sarebbero entusiasti di fronte a queste considerazioni. Esse nascono infatti da una concezione scientifica che considera deterministico il rapporto tra «genotipo» e «fenotipo» e che considera almeno alcune proprietà genetiche come «essenziali», cioè condivise da tutti e soli i membri della stessa specie.

In realtà le scoperte degli ultimi decenni sulla grande quantità di variazioni geniche intraspecifiche, il sequenziamento e la comparazione di genomi di numerose specie, l’intervento di fattori epigenetici (silenziamento e/o espressione dei geni), di effetti materni, di rapporti ambientali e culturali hanno mutato questo panorama ponendo il rapporto tra genoma e fenoma all’interno di un modello probabilistico. Questo ovviamente non significa negare che tra i membri di una singola specie vi sono importanti somiglianze genetiche, ma soltanto evidenziare che queste somiglianze non sono né necessarie né sufficienti per garantire l’assegnazione di un organismo a una specie. Ad esempio, la stragrande maggioranza degli umani possiede 23 paia di cromosomi, mentre gli scimpanzé, i nostri parenti geneticamente più stretti, ne posseggono normalmente 24. Ma neanche questo tratto è essenziale e necessario per definire un essere umano, dato che non tutti gli esseri umani hanno 23 paia di cromosomi: gli affetti da sindrome di Down (trisomia 21) e da altre malattie genetiche ne hanno 24 come gli scimpanzé, ma non di meno si tratta senza alcun dubbio di esseri umani. Il genoma da solo quindi non può costituire l’essenza di un individuo o di una specie. L’idea di «essenza» viene caratterizzata meglio dal punto di vista biologico se si tengono presenti quattro elementi: se vi è un’essenza essa è solo parzialmente intrinseca a un organismo (Devitt, 2008); questa parte intrinseca non è rappresentata dal solo genoma ma dall’insieme dei processi omeostatici (Homeostatic property clusters, HPC; Boyd 1999); una parte dell’essenza è estrinseca all’individuo ed è costituita dall’insieme delle sue relazioni (Okasha, 2002) con gli altri organismi, (tra cui il flusso genico, ma non solo) e l’ambiente (costruzione di nicchie); e in ogni caso è necessaria una attenuazione, in senso probabilistico, dei criteri tradizionali definiti nei termini di «necessario e sufficiente» (Wilson et al. 2007). Per una critica a questa impostazione si può vedere Ereshefsky (2010b).

Come ha mostrato parecchi anni fa David Balme (1962) la generazione o nascita (ghenos), la forma (eidos), l’essenza sostanziale (tò tin en einai) e le cause (aitia) sono in Aristotele strettamente connesse; e tutte queste si riportano al problema della definizione (logos, orismos). Tuttavia il fatto che la definizione sia propria soltanto degli universali (nel nostro caso delle specie) e non dei singoli individui pone in Aristotele una frattura tra il definire e il classificare. Questa frattura è molto ben illustrata dallo schema definitorio che dal Medioevo ha preso il nome di «albero di Porfirio».16

Non è il caso di dilungarci qui nel sottolineare che la logica definitoria esibita dall’albero di Porfirio (fondata sostanzialmente su un sistema binario rigido [materiale/immateriale; animato/inanimato; razionale/irrazionale] che però utilizza designatori vaghi come i termini del linguaggio ordinario) presenta parecchie difficoltà. Si consideri, ad esempio, la definizione «l’uomo è animale razionale» secondo la quale solo l’uomo è razionale, mentre tutti gli altri animali non lo sono. Nella realtà questa distinzione non ha alcun significato perché se gli altri animali fossero del tutto irrazionali probabilmente sarebbero già scomparsi dalla faccia della Terra. Bisogna invece pensare che vi è una razionalità specie-specifica e in secondo luogo che all’interno della stessa specie vi sono individui che sono più o meno razionali. Il termine razionale ha infatti confini molto vaghi, non indica quanta razionalità un individuo deve possedere per essere definito razionale, così come il termine calvo non dice quanti capelli uno deve possedere per essere definito non-calvo. Ovviamente sembra legittimo ritenere che un filosofo come Socrate abbia molta più razionalità di quanta ne abbia un bambino appena nato, o un malato di mente, ma dire che l’uomo è un animale razionale non sembra avere molto più significato di dire che l’uomo è un animale calvo.17

Quello che preme evidenziare attraverso questo schema è invece la grande scoperta di Aristotele che del singolo individuo, in quanto tale, non è possibile né dare una definizione né una dimostrazione (Met., 1039b-1040b) dato che si dà dimostrazione solo di ciò che è necessario (mentre il singolo individuo è contingente) e che la definizione appartiene al campo della scienza (mentre il singolo individuo a quello dell’opinione). Da una parte Aristotele sembra sostenere che tutti gli individui appartengono di necessità a una specie e che la definizione di un individuo è quella della sua specie, dall’altra però evidenzia che tra la definizione (o identità) della specie e quella dell’individuo sembra esserci uno iato incolmabile. Come è possibile dunque classificare Socrate nella specie Homo? La grande intuizione di Aristotele è che sono la «generazione» (ghenos) e la forma (eidos) a collocare un organismo nella sua specie naturale:18 la classificazione di un organismo dipende dalla specie del suo genitore maschio. Il fatto che Socrate sia «uomo» non dipende dalla sua definizione, ma dalla sua genealogia: Socrate è uomo perché generato da un uomo («un uomo infatti genera un uomo») da cui ha ricevuto la forma «uomo» e non quella «cavallo». Dire «Socrate è uomo» non serve a identificare Socrate rispetto ad altri uomini come Alcibiade, Platone o Callia con i quali ha in comune l’identità di specie, perché anch’essi sono nati da uomini (e questo, per esempio, rende difficile identificare la forma aristotelica con l’anima individuale, come oggi si tende a fare), ma serve per classificarlo. D’altra parte però non si può definire Socrate attraverso le sue proprietà personali (magro, grasso, alto, basso, chiaro, scuro, capelluto, calvo ecc.) sia perché queste non sono universali e rispondono al criterio del «più o meno» sia perché sono contingenti, cioè possono cambiare nel tempo e Socrate che prima era magro ora è grasso, prima era alto e ora è basso, prima aveva molti capelli e ora è calvo, ecc. Così di Socrate (come di «Sole» o di «Luna»), in quanto singolo individuo, cioè un unicum spazio-temporale, non si può dare, secondo Aristotele, alcuna definizione.

Come è noto, queste considerazioni di Aristotele sono state riprese ai nostri giorni dai sostenitori della tesi dell’individualità, per i quali la singola specie (taxon), in quanto «individuo», cioè unicum storico, risulta, appunto, indefinibile. Secondo Ghiselin nella classificazione gerarchica linneana (come nell’albero di Porfirio) il singolo organismo, diciamo Socrate, non è un taxon formale, per cui l’affermazione «Socrate è un Homo sapiens», strettamente parlando, sarebbe falsa. Socrate infatti non sarebbe un «esemplare» di Homo (genere) e di Homo sapiens (specie) più di quanto il papa non sia un esemplare di Chiesa cattolica (Ghiselin, 2007). Socrate sarebbe invece una «parte», un componente organismico della specie Homo sapiens, così come il papa è un componente, una «parte» (e non un «esemplare») della Chiesa cattolica. La differenza fondamentale tra il concepire le specie come «classi» e «specie naturali» e il pensarle invece come «individui» consisterebbe essenzialmente nell’introduzione del fattore spazio-tempo. Come individui, le specie sono «entità storiche», sono cioè entità limitate nello spazio e nel tempo: la specie Homo sapiens che c’è oggi non c’era dieci milioni di anni fa. Se però si accetta che le specie sono individui, allora secondo Ghiselin bisogna ritenere che non vi sono leggi generali relative ad esempio a Homo sapiens o a Socrate esattamente come Aristotele dice che non ve ne sono per Sole e Luna. Le leggi di natura si riferiscono infatti alle categorie, cioè alle classi di individui (generi, specie [al plurale], organismi) non a qualcuno di essi in particolare. Da qui una delle conclusioni di Ghiselin (1987) più volte ripetuta e ripresa anche da alcuni psicologi evoluzionisti: «se le specie sono individui la «natura umana» è una delusione metafisica». Ma si tratta di una conclusione la cui logica è per lo meno traballante, poggiando sulla proposta nominalistica di una dislocazione di senso: ciò che tradizionalmente era considerato classe (il taxon) viene considerato individuo e ciò che tradizionalmente veniva ritenuto individuo (l’organismo) viene considerato classe. Questa dislocazione dei piani ontologici comporta una «svolta logica» che costringe a ripensare le tradizionali categorie di specie e di individuo e i loro rapporti, ma mette anche in luce un paradosso: mentre ci sono pochi dubbi che un gruppo di insetti che iniziano come uovo, divengono bruchi, si trasformano in pupa e diventano farfalla, sono sempre gli stessi organismi, pur costituendo una «classe», secondo Ghiselin, un taxon, che è considerato un «individuo», a mano a mano che cambia, perde con i cambiamenti la sua stessa identità (non è più la stessa specie).

Come fanno notare Okasha (2002) e Devitt (2008) tutto questo sforzo di rovesciamento delle categorie tradizionali non sembra in realtà avere ripercussioni rilevanti nei confronti della domanda fondamentale del taxon: dire che Socrate non è un Homo sapiens ma fa parte di Homo sapiens non cambia molto, dato che rimane il problema di capire in virtù di che cosa fa parte di Homo sapiens e non di Canis familiaris. L’approdo più significativo al quale il grande sforzo del bionominalismo sembra condurre è il fatto che la ricerca dello statuto ontologico della nozione di specie (sia essa classe, specie naturale o individuo) sembra essere neutrale (Okasha, 2002) rispetto alla domanda fondamentale del taxon, cioè all’individuazione dei criteri o delle proprietà per le quali un organismo viene assegnato a un taxon e non a un altro.

A un naturalista acuto, quale Aristotele si dimostra nelle sue opere zoologiche, non poteva sfuggire che, nella realtà, la teoria della generazione come ri-produzione di specie costanti e permanenti doveva ammettere almeno qualche eccezione. Negli ultimi paragrafi del secondo libro della Generazione degli animali, dopo aver ribadito che gli accoppiamenti naturali sono quelli che avvengono fra animali della stessa specie, Aristotele ammette che vi possano essere casi di unione anche fra animali di specie affini. Citando un detto diffuso al suo tempo secondo il quale «dall’Africa scaturisce sempre qualcosa di nuovo» Aristotele riporta la credenza che siccome in Africa tutte le specie animali vanno ad abbeverarsi alle stesse pozze d’acqua, c’è da supporre che in queste occasioni avvengano accoppiamenti fra animali di specie diversa e che da questi incroci possa nascere prole anche fertile. Si tratterebbe però di eccezioni, di casi di generazioni «contro natura» dovute a «violenze» ambientali che non danno origine a forme nuove, ma soltanto a forme imperfette19 che non raggiungono cioè i fini della generazione.

All’interno della generalità dei processi naturali Aristotele sembra attribuire un’importanza del tutto marginale a queste generazioni «contro natura». Nei fatti però la teoria della generazione di Aristotele sembra entrare in crisi sia sul piano biologico sia su quello della definizione quando viene messa di fronte alla necessità di giustificare e classificare la nascita «contro natura» degli ibridi. Nel caso degli organismi generati dall’incrocio di due specie distinte, infatti, il semplice modello aristotelico della trasmissione verticale della forma lungo la linea paterna sembra del tutto inadeguato sia sul piano biologico sia su quello della classificazione.

Non a caso Aristotele ha dedicato una particolare attenzione ai problemi suscitati dal mulo, un animale che godeva di notevole considerazione già nei poemi omerici e che, probabilmente, aveva occasione di osservare molto di frequente. Se si prende sul serio l’affermazione aristotelica che «un uomo genera un uomo», è necessario prendere sul serio anche l’affermazione che «un cavallo genera un cavallo» e «un asino genera un asino». Il cavallo e l’asino sono simili fra loro, ma sono due specie diverse: se il cavallo si accoppia con la cavalla dà vita a puledri e così l’asino quando si unisce con l’asina dà vita ad asinelli. E questa è generazione secondo natura, dato che il generante e il generato hanno la stessa forma.

Ma come si spiega il fatto che se un asino (forma maschile perfetta) si accoppia con una cavalla (forma femminile imperfetta) non nasce né un asino né un cavallo ma un organismo diverso da entrambi, appunto il mulo?20 E cosa pensare del fatto che, a differenza dell’asino e del cavallo, «un mulo non genera un mulo», non trasmette cioè la sua forma ed è necessario il concorso di altre due forme perché la sua forma si perpetui? A differenza di Platone, il quale non aveva una teoria della generazione come trasmissione verticale delle forme e quindi riteneva il mulo frutto di un incrocio «secondo natura» tra specie diverse (Pol., 265e) la sterilità dei muli, cioè l’incapacità di una forma di trasmettersi attraverso le generazioni sembrava in grado di mettere in crisi l’intero modello aristotelico della generazione come trasmissione verticale di forme che si rinnovano eternamente. La soluzione del dilemma del mulo da parte di Aristotele (secondo il quale gli organismi ibridi, come il mulo, sono qualcosa di generato contro natura e la combinazione di forme diverse fa sì che il mulo sia «un essere imperfetto, e questa è la ragione per la quale un mulo non deriva da un mulo» [Met., 1034b, 1-3]), e, più in generale, la spiegazione che la sterilità degli ibridi discenderebbe dal fatto che essi sono «specie imperfette», sembra del tutto sbrigativa e non convincente.

Ancora più insoddisfacente, sul piano delle classificazioni, la tesi di Aristotele che la difficoltà di definire le forme ibride, come quella del mulo, ha solo due possibili risposte: o perché questa forma non ha mai ricevuto un nome di specie; oppure perché l’asino e il cavallo, pur avendo differenze specifiche, possono appartenere a un genere comune, qualcosa come il genere dei muli. Questa soluzione, troppo facile, in realtà non elimina il problema epistemologico del nominare avanzato da Platone con il suo esperimento mentale, anzi sembra in qualche misura acuirlo perché il rifiuto che possano comparire novità biologiche appiattisce Aristotele, oggettivamente, su un’accettazione acritica delle (folk) classificazioni del suo tempo. Anche per Aristotele il «nome» è un utensile, ma mentre per il Platone del Cratilo il nome era utensile di conoscenza, per Aristotele il nome in quanto tale non ha un grande significato teoretico, ma una funzione eminentemente pratica. È infatti evidente che nei nomi c’è una certa arbitrarietà e che alcuni danno il nome di «uomo» a ciò che altri chiamano «non uomo»; è anche vero però, per Aristotele, che se si vuole poter discorrere e pensare è necessario che i nomi abbiano un significato (o un referente) univoco. Dare un significato univoco a un nome vuol dire passare dal nome di una cosa alla sua definizione: si tratta di un passaggio cruciale perché mentre si può dare un nome diverso alla stessa cosa non è invece possibile dare la stessa definizione di due cose contrarie, come, ad esempio, uomo e non uomo. E tuttavia l’importante passo compiuto da Aristotele dal dare i nomi al trovare definizioni ha avuto, secondo alcuni studiosi, conseguenze anche sul piano tassonomico: la sottovalutazione del ruolo dei nomi, infatti, sarebbe stata una delle cause del fallimento di Aristotele, già propenso a un certo conservatorismo linguistico e restio a introdurre neologismi «scientifici» nel linguaggio ricevuto dalla tradizione, nel proporre una classificazione degli organismi viventi (cfr., Pellegrin, 1982).

8. Il canguro di Darwin

Come per Aristotele anche per Darwin l’idea che da un cavallo possa nascere un vitello è, dal punto di vista biologico, assurda. Ma le sue ragioni nascono da una visione della natura e da una concezione della generazione che in linea generale sembra opposta a quella di Aristotele. Nel tredicesimo capitolo della prima edizione (1859) dell’Origine delle specie, parlando delle affinità di discendenza, Darwin riprende, dal punto di vista della formazione delle specie, un esperimento mentale analogo a quello proposto da Platone. Dopo aver affermato che una stessa specie comprende le mostruosità e le varietà, non solo perché sono strettamente simili alla forma parentale, ma perché discendono da quest’ultima, continua:

Però si potrebbe chiedere: che cosa dovremmo fare se si potesse provare che una data specie di canguro è derivata da un orso attraverso una lunga serie di modificazioni? Dovremmo classificare questa specie insieme con gli orsi? E allora cosa dovremmo fare delle altre specie? Naturalmente si tratta di un’ipotesi assurda ed io potrei ribattere con l’argumentum ad hominem, chiedendo che cosa si dovrebbe fare nel caso vedessimo un perfetto canguro uscire dal grembo di un’orsa? Secondo tutti i criteri analogici, lo dovremmo classificare come orso, ma in tal caso è certo che anche tutte le altre specie della famiglia dei canguri dovrebbero essere classificate nel genere degli orsi. Questo è un caso assurdo, perché se vi fosse una stretta comunanza di discendenza, sicuramente vi sarebbe una stretta rassomiglianza e affinità (2006: 379-380).21

Nella seconda edizione (1860) dell’Origine delle specie il brano succitato è sparito. Come mai? Ovviamente i motivi di ordine teorico o pratico possono essere tanti, e il più semplice è che considerando Darwin assurda tutta la questione, abbia deciso che non era il caso di riformulare il problema negli stessi termini. Più maliziosamente però si potrebbe anche supporre che Darwin abbia eliminato questo brano proprio perché, alla luce dell’evoluzione darwiniana, queste domande non erano affatto assurde, ma tendevano a evidenziarne alcuni paradossi, a partire dall’affermazione che nella natura opera uno stretto nesso causale tra «discendenza» e «somiglianza», e che questo è il legame «forte» che connette il piano ontologico della natura a quello epistemologico della classificazione. A prima vista l’argomento principale di Darwin contro l’esperimento mentale di Platone è, anche in questo caso, quello della gradualità. Secondo Darwin il principale meccanismo che opera nell’evoluzione è la trasmissione ereditaria dei caratteri dai genitori ai generati; in questa trasmissione le variazioni tra le due generazioni sono estremamente piccole, permanenti e si accumulano gradualmente:22 questo significa che la differenziazione delle specie non può avvenire di colpo attraverso la comparsa di mostruosità.23 Le mostruosità per Darwin esistono, ma, proprio in quanto tali, non sopravvivono e in ogni caso, dal punto di vista classificatorio, vanno assegnate alla specie della quale sono progenie. In altre parole, è impossibile che un vitello nasca già perfetto da un cavallo come è impossibile che un canguro nasca già perfetto da un orso, o un’automobile già perfetta da un carro da buoi. Le considerazioni sulla gradualità consentono quindi a Darwin, almeno in prima battuta, di neutralizzare l’argomento di Platone, liquidandolo come assurdo. Tuttavia, il gradualismo assunto leibnizianamente come principio operativo generale della natura (natura non facit saltus), ha contribuito a introdurre, nel darwinismo, attraverso il problema dei confini, la cosiddetta «resa scettica».24

9. Darwin e il problema dei confini

Nel secondo capitolo dell’Origine delle specie, dove affronta la questione della possibilità di definire le specie attraverso i criteri diagnostici della somiglianza/differenza, Darwin si trova davanti allo spinoso problema di distinguere tra «variazioni individuali», «varietà» e «specie». Dopo aver sottolineato, con enfasi, le difficoltà che i naturalisti del suo tempo hanno trovato a distinguere fra variazioni individuali, di varietà e di specie, per cui alcuni classificano come varietà ciò che altri classificano come specie, Darwin rileva che nessuno ha fornito criteri oggettivi che permettano di distinguere tra varietà e specie. Le singole specie biologiche (taxa) sono costituite da varietà «strettamente simili fra loro». Ma anche le varietà sono costituite da individui strettamente simili fra loro. La nozione «strettamente simili» risulta quindi piuttosto vaga e sembra prestare il fianco ad ampi margini di discrezionalità per cui in numerosi casi è praticamente impossibile distinguere, nel continuum delle variazioni e delle somiglianze, se ci si trova di fronte a una varietà o a una specie. Il fatto è, osserva Darwin, che «l’entità della differenza, ritenuta necessaria a conferire a due forme la dignità di specie, è assolutamente indefinita» e «indefinibile» dato che le varietà non sono altro che specie con caratteri meno distinti e più fluttuanti e le specie non sono altro che varietà più definite e costanti (valutazioni che, ovviamente, sono piuttosto idiosincratiche). Queste affermazioni non riguardano evidentemente la sola difficoltà di definire i confini che separano ciò che si indica come varietà e ciò che si indica come specie. Tale difficoltà era ben presente nelle classificazioni tradizionali, dove questa indeterminatezza era attribuita alla insufficienza di conoscenze e di strumenti diagnostici; nell’universo eracliteo evocato dall’evoluzione darwiniana sembra invece indicare una indeterminatezza ontologica della realtà naturale. La impossibilità di distinguere le varietà fra di loro e dalle specie sembra essere una impossibilità che deriva dal continuum stesso della evoluzione darwiniana della vita.

L’insistenza di Darwin sulla difficoltà o impossibilità di distinguere tra varietà e specie e quindi l’idea che i loro confini siano arbitrari ha come bersaglio preciso la tesi, ancora molto diffusa presso gli studiosi del suo tempo, secondo la quale le specie sono creazioni dirette di Dio (la Bibbia afferma che Dio creò ogni animale «secondo la sua specie») mentre le varietà sono prodotte da effetti secondari (o cause accidentali, come il clima, l’alimentazione, ecc.). Si tratta della tradizionale tesi della creazione separata delle singole specie. Ora, osserva Darwin, se le specie fossero state create ognuna separatamente e le varietà invece fossero state originate da fattori secondari si dovrebbero poter individuare delle linee di demarcazione nette tra le varie specie e tra le specie e le varietà (2006: 415); ma questo non avviene perché in realtà i meccanismi che sostengono la formazione delle specie, la discendenza con variazioni e la selezione naturale, sono esattamente gli stessi che promuovono le variazioni individuali al rango di varietà. I principi di gradualità e uniformità hanno fornito a Darwin uno strumento euristico molto potente contro la tesi che Dio ha creato separatamente i singoli taxa, ma nello stesso tempo hanno reso molto più problematica la nozione di «specie». È infatti nel contesto del graduale passaggio da varietà a specie che Darwin formula la sua celebre definizione di specie come categoria arbitraria:

… si dedurrà da queste considerazioni che io ritengo il termine specie come una definizione arbitraria che, per motivi di convenienza, serve a designare un gruppo di individui strettamente simili fra di loro, per cui la specie non differisce gran che dalla varietà, intendendosi con questo termine le forme meno distinte e più fluttuanti. Inoltre anche il termine varietà viene applicato arbitrariamente e per pura praticità nei confronti delle semplici variazioni individuali (2006: 78).

In realtà non è chiaro a che cosa Darwin intenda qui attribuire i caratteri dell’arbitrarietà, se ai soli confini tra varietà e specie, o, come di solito si intende, alle stesse categorie di varietà e specie nel loro insieme. Il punto è delicato perché la definizione darwiniana di «specie» evidenzia, dal punto di vista teorico, una tensione tra due poli, quello realista e quello convenzionalista, che percorre tutta l’Origine delle specie e rimane irrisolta suscitando numerosi interrogativi. Nel periodo postdarwiniano questa oscillazione ha anche alimentato, sul piano teorico, la disputa tra coloro che ritengono che la categoria di specie sia in qualche misura reale e quindi avanzano la necessità di individuare un concetto unitario di specie (monisti) e coloro che invece, considerando la categoria di specie, come le altre categorie della gerarchia linneana, una griglia artificiale imposta alla natura, ritengono importante adottare differenti punti di vista (pluralisti). Da un punto di vista generale il pluralismo dei metodi, delle teorie, e delle ipotesi è, nelle scienze, una ricchezza. Per coloro che, ad esempio come Popper, ritengono che le teorie scientifiche si confermino attraverso un processo di selezione purificatrice, il pluralismo, al pari delle variazioni in biologia, è un fattore assolutamente necessario. Ma vi sono tipi diversi di pluralismo scientifico e i modi in cui il monismo e il pluralismo sono intesi varia a seconda degli studiosi e degli argomenti (cfr. ad es., Kellert et al., 2006). Nel caso delle classificazioni biologiche quello che risulta difficile è coniugare il pluralismo con il realismo. Nel caso delle tassonomie l’idea che le classificazioni abbiano alla loro base un contenuto ontologico si scontra infatti con il semplice fatto che non esiste una classificazione biologica unica. Il cosiddetto «problema delle specie», il fatto cioè che nelle pratiche delle tassonomie biologiche vengano attualmente utilizzati una trentina di concetti diversi di specie, alcuni dei quali alternativi o mutualmente esclusivi, rende evidente che le diverse tassonomie possono avere alla loro base non solo delle ontologie diverse, ma talvolta anche delle ontologie fra loro incompatibili. In alcuni casi esse scaturiscono da una specie di corto circuito perché l’individuazione dei criteri per assegnare un organismo a una specie sembra strettamente dipendente dalla nozione di specie che si assume; d’altra parte la nozione di specie che si assume viene considerata strumentale agli obbiettivi che il ricercatore si pone.

Da questa prospettiva le classificazioni biologiche delle specie assomigliano spesso molto di più a folkclassificazioni che a classificazioni scientifiche. Il presupposto ontologico di questo pluralismo è quello dell’indeterminatezza della realtà biologica che sembra poter essere suddivisa in gruppi di tipo diverso a seconda degli obbiettivi e dell’area praticata dal singolo studioso. Ora è probabilmente vero quello che suggerisce Dupré (1993: 6) che «vi sono molti modi ugualmente legittimi di dividere il mondo in classi» e si possono adottare diverse definizioni di specie, ma quando esse sono tra loro incompatibili, o forniscono risultati del tutto eterogenei, non possono essere tutte ugualmente vere perché forniscono visioni alternative della struttura del mondo. In questi casi il pluralismo non è la soluzione, ma un problema.

Diverse ragioni storiche hanno concorso probabilmente a far sì che Darwin giungesse a una definizione convenzionalista della nozione di specie: lo stato di grande confusione in cui si dibattevano le tassonomie del suo tempo; la scarsità delle conoscenze biologiche, la sua erronea concezione dell’ereditarietà (pangenesi). Tuttavia, secondo alcuni autori della cosiddetta Sintesi moderna, la ragione principale del suo fallimento nella definizione di specie è stata l’adozione della tradizionale nozione «morfologica». In effetti la forma (non nel senso platonico di eidos, ma in quello di morfé) e la comparazione morfologica fenotipica rimane l’unico criterio del sistema di classificazione darwiniano e forse non poteva essere diversamente, dato che la genetica era appena agli albori e Darwin, non del tutto incolpevolmente, era all’oscuro delle ricerche di Mendel sui caratteri ereditari. In realtà il grande cambio di paradigma (dalla forma al gene) effettuato dalla Sintesi moderna ha permesso notevoli scoperte ma (con la proposta del cosiddetto «concetto biologico» di specie) non ha fornito alcuna soluzione al problema della specie avanzato da Darwin. tanto che Dolph Schluter (2009) ha proposto di cambiare la dicitura di «Sintesi» moderna in quella di «Frattura» moderna. Nell’Origine delle specie il termine «forma» ritorna molto di frequente ed è plasticamente rappresentato dalle parole che chiudono l’opera25 dove «forma» ricorre ben due volte: la prima (o le prime) forma che ha portato la vita e le infinite forme che l’evoluzione ha creato e continua a creare in un gioco combinatorio senza fine. Come ha osservato Massimo Pigliucci (2007; 2010) il fatto che la prima versione moderna delle teorie dell’evoluzione nasca come «teoria delle forme» non è, al di là fatto storico, priva di significato. La recente ripresa delle ricerche attorno all’evoluzione delle forme organismiche nel processo dello sviluppo dall’embriogenesi alle forme adulte (Amundson, 2005), abbreviata nella formula evo-devo, ha già proposto all’attenzione temi come quelli dell’evolvibilità, della plasticità fenotipica, di selezione interna, ecc., che seppure non sono ancora in grado di sostenere una nuova Sintesi estesa. per lo meno contribuiscono a sanare la frattura del genecentrismo.

In realtà l’argomento considerato più forte da Darwin per l’adozione convenzionalista è quello della mancanza di confini tra varietà e specie ed è anche all’interno di questo argomento che, secondo alcune interpretazioni recenti, trova giustificazione la strategia del realismo darwiniano. dato che in tutta l’opera Darwin non solo si dimostra scettico sulla possibilità di distinguere le varietà dalle specie, ma basa alcune delle sue prove contro le creazioni separate proprio su questa impossibilità. Secondo queste interpretazioni la resa scettica di Darwin andrebbe collocata all’interno di un disegno strategico nel quale il significato della teoria darwiniana dell’origine delle specie consisterebbe proprio nel dimostrare l’inconsistenza teorica della «categoria specie». Secondo Ghiselin (1969) il primo passo di Darwin sarebbe stato quello di distinguere nella nozione di specie due significati: la specie come taxon (Homo sapiens, Canis lupus familiaris, ecc.) e la specie come categoria tassonomica (cioè come insieme di taxa). Secondo John Beatty (1985) questa distinzione farebbe parte di una strategia, perché mentre ai singoli taxa Darwin sembra propenso ad attribuire una consistenza reale, sarebbe stato invece scettico nei confronti della realtà, in natura, della «categoria specie». In altre parole avrebbe sacrificato la realtà della categoria specie facendone una categoria arbitraria, per salvare la realtà naturale dei singoli taxa. Così si spiegherebbe la sua apparente continua oscillazione tra un polo realista e un polo convenzionalista.

Si tratta di un’interpretazione che deriva da una lettura molto attenta, ma forse eccessivamente centrata sui suoi Notebooks, perché nell’Origine delle specie, come nota anche Mayr (1982), vi è un totale cambio di prospettiva e la distinzione tra specie come categoria e specie come taxon non è chiaramente delineata, cosicché in alcuni passi questa distinzione sembra ravvisabile, ma in altri meno. In ogni caso questa distinzione, se anche fosse, non avrebbe molta originalità, dato che equivarrebbe a dire che esistono Socrate, Platone e Aristotele ma non esiste «l’uomo», un tema, quello dell’esistenza dei sortali, che ha una lunghissima tradizione filosofica, almeno a partire dall’oscura sentenza di Eraclito secondo cui le cose sono contemporaneamente una e molte. In realtà l’argomento dell’arbitrarietà dei confini non è un buon argomento a sostegno della tesi della non esistenza di specie naturali, per due ragioni: a) il fatto che per motivi pratici o conoscitivi (Darwin dice «per motivi di convenienza») i confini vengano tracciati arbitrariamente non esclude che vi siano confini naturali; b) il fatto che i confini siano tracciati arbitrariamente non comporta necessariamente che l’«oggetto» racchiuso da quei confini sia arbitrario, come il fatto che il confine tra pianura, collina e montagna sia arbitrario non esclude che si possano riconoscere pianure, colline e montagne. Quando Darwin, nel secondo capitolo, definisce la specie come arbitraria non si riferisce alla «categoria specie» ma alle «specie taxa»: «il termine specie… serve a designare un gruppo di individui strettamente simili fra di loro», come, appunto, il taxon Homo sapiens. Non sono soltanto i confini a essere vaghi, sono proprio i taxa a essere vaghi perché ininterrottamente connessi da forme intermedie. Per Darwin sono gli stessi taxa a essere indefinibili non soltanto la categoria specie. Ma indefiniti o anche indefinibili non vuole dire necessariamente «irreali». Per Darwin la specie sembra indefinibile ma non irreale; così i taxa possono essere indefiniti, ma non irreali. Il fatto che si considerino più o meno naturali (o più o meno artificiali) non dipende dalla loro realtà o meno, ma solo dalla quantità di caratteri che vengono presi in considerazione nella loro classificazione. Darwin tratta come «naturale» sia la categoria generale-specie, sia il taxon Homo sapiens.

10. I livelli della realtà

Nel capitolo tredicesimo dell’Origine delle specie, dove sintetizza lo sfondo filosofico generale su cui costruisce la sua nozione di systema naturae ponendolo a confronto con le due posizioni opposte del realismo metafisico e del nominalismo, Darwin sembra perfettamente consapevole che la sua posizione si colloca nel solco di una lunga tradizione. In questa circostanza, Darwin sembra opporsi con la stessa forza, anche se con ragioni diverse, sia al nominalismo di Locke, secondo il quale il sistema gerarchico di classificazione degli organismi è un sistema del tutto artificiale, dovuto al modo di operare della mente, che non riflette alcuna realtà naturale avendo un’esclusiva utilità pratica: a) perché è uno schema che serve per accorpare (più o meno arbitrariamente) gli organismi più simili fra loro separandoli da quelli che sono più dissimili, b) perché consente di esprimere concisamente proposizioni di carattere generale; sia al realismo metafisico di Linneo e dei postlinneani secondo i quali la classificazione per generi e specie non solo descrive accuratamente l’ordine gerarchico della natura, ma è anche una ricostruzione abbastanza fedele anche se imperfetta del piano presente nella mente di Dio al momento della creazione. L’opposizione di Darwin al nominalismo di Locke è però solo parziale. Il rifiuto di idee innate e l’osservazione che tutte le nostre conoscenze derivano dall’esperienza, infatti, avevano portato Locke a distinguere due tipi di essenze: a) quelle che costituiscono la tessitura interna dei singoli individui; b) quelle che si riferiscono alle idee astratte come i generi e le specie. Ora, sostiene Locke, le prime sono essenze reali, ma sono inconoscibili, poiché è impossibile conoscere la natura di un singolo individuo (dovremmo avere tante idee e tanti nomi quanti sono i singoli individui); le seconde sono conoscibili, ma non sono reali, perché non sono altro che collezioni di individui o modi di classificarli. Scrive Locke: «la dottrina dell’immutabilità delle essenze prova che esse non sono altro che idee astratte e […] che tutta la grande faccenda dei generi e delle specie nonché delle loro essenze assomma solo a questo: gli uomini formano idee astratte e le stabiliscono nel loro spirito con i nomi annessi e così facendo si pongono in grado di considerare le cose e di discorrerne, per così dire, a fasci, affinché la comunicazione delle loro conoscenze migliori facilmente e rapidamente» (Locke, 1971: 491-492). Il sistema gerarchico di classificazione degli organismi è, secondo Locke, un sistema del tutto artificiale, perché generi e specie semplicemente non esistono nella realtà. Ciò che esiste è soltanto l’individuo.

In realtà è lo stesso Darwin a segnalare nel suo sistema una specie di discrasia tra il piano della realtà e quello delle classificazioni quando osserva: «Io giudico sommamente importanti per noi le differenze individuali, anche se di scarso interesse per i cultori della sistematica» (2006: 77-78). Le variazioni individuali sono estremamente importanti perché è solo a livello dell’organismo che, per Darwin (che, come è noto, è restio ad ammettere una selezione di gruppo, e quando lo deve fare, come nella spiegazione dell’altruismo umano, lo fa con evidente imbarazzo), si può esercitare la selezione naturale. Anche le variazioni delle varietà e delle specie sono in realtà variazioni di singoli organismi all’interno di varietà e specie. Da un lato Darwin non può accettare il nominalismo pena il venir meno dell’oggetto centrale della sua teoria, appunto le specie (in fondo la sua opera principale porta come titolo L’origine delle specie).26 Se le specie biologiche vengono considerate soltanto raggruppamenti artificiali fatti per comodità linguistica è evidente che esse non possono avere né un’origine né una durata e che ciò che propriamente ha origine e durata non sono le specie, ma, eventualmente, le loro classificazioni. Esattamente il contrario di quanto intendeva sostenere Darwin con la sua insistenza sul fatto che la classificazione delle specie biologiche «non è arbitraria come il raggruppamento delle stelle in una costellazione» (2006: 371) e con la decisa affermazione che la classificazione «genealogica» è una classificazione «reale». Dall’altro le specie biologiche sembrano strutturalmente diverse dalle specie naturali (natural kinds) perché risultano costituite da singoli organismi che differiscono gli uni dagli altri e caratteristica cruciale di tali organismi sembra essere proprio la variabilità. Come è possibile che le specie mantengano una integrità interna sufficiente a farle ritenere un qualcosa di unitario (una specie naturale) se gli organismi di cui sono fatte cambiano continuamente? Nei suoi termini generali questa domanda ha condotto i filosofi classici a paradossi, come, ad esempio, il fiume di Eraclito, il sorite di Zenone e la nave di Teseo di Plutarco, che hanno spalancato la porta a correnti antirealiste. E anche Darwin, nonostante il suo rifiuto del nominalismo lockiano nei confronti delle specie, non solo rimane profondamente radicato in, e intriso di, una tradizione, quella empirista, che considera concretamente reale solo il singolo organismo, ma si spinge oltre suggerendo che solo l’organismo è reale perché solo su di esso si può esercitare la selezione naturale adombrando il principio generale che è realtà soltanto quella su cui può operare la selezione naturale. Molte discussioni degli ultimi decenni del Novecento sui livelli di selezione sono propriamente discussioni sui livelli della realtà.

11. Platone e le teorie del flusso

Nella discussione sull’etimologia di ousía (essenza) attraverso le varianti doriche essía e osía, Platone si trova di fronte a coloro che fanno derivare ousía non da essía ma da osía, che a sua volta è fatto derivare da othoun, otheo, il cui significato generale, spingo, urto, ecc., contiene l’idea di movimento. Platone attribuisce questa ricostruzione filologica ad Eraclito e agli eraclitei. La grande partita del Cratilo si gioca proprio su questo tema, sul terreno dello scontro tra l’antirealismo di Eraclito (401d-402a) e in particolare la dottrina del flusso continuo di tutte le cose (e quella che Platone considera la sua conseguenza epistemologica, il relativismo antropocentrico di Protagora [386a])^[27] e la tesi platonica della stabilità essenziale delle forme. Secondo la tradizione dossografica,27 Eraclito è stato uno dei primi pensatori greci a mettere in relazione il fatto che la natura si presenta opaca con il fatto che la natura diviene.28 Nei frammenti gnomici di Eraclito si possono rinvenire gli abbozzi di due problemi la cui analisi avrebbe occupato, in seguito, gran parte della storia del pensiero occidentale. Il primo riguarda l’osservazione che le cose sono contemporaneamente una e molte; il secondo che le cose, pur restando le stesse (ma, forse, non identiche) mutano continuamente. La dottrina centrale di Eraclito che le cose sono contemporaneamente una e molte ha, probabilmente, un significato metafisico e religioso. Nel celebre frammento 67 (Diels-Kranz) Eraclito afferma che il dio è contemporaneamente giorno e notte, estate e inverno, guerra e pace, sazietà e fame e che le singole cose non sono altro che i nomi dati alla divinità mescolata negli individui transitori. Ma la dossografia tradizionale, proprio a partire da Platone e Aristotele, ha dato enfasi soprattutto agli aspetti ontologici del suo pensiero. L’espressione più conosciuta di questa ontologia è stata codificata da Platone nella popolare dottrina del flusso continuo di tutte le cose. Scrive Platone, parafrasando il celebre fr. 91 D.-K.: «Dice Eraclito che “tutte le cose si muovono e nessuna sta ferma”; e al fluire d’un fiume paragonando gli enti dice che “due volte nello stesso fiume non potresti entrare”» (Crat., 402a). Come ha osservato un discepolo di Eraclito, forse proprio Cratilo, a essere radicalmente coerenti, nel fiume in realtà non ci si può entrare neanche una volta (cfr. Aristotele, Met., 1010a, 10-15) o, forse, ragionando all’opposto, non si può far altro che bagnarsi sempre nella stessa acqua. Qual è infatti il confine tra un’acqua e l’altra se ogni goccia di inizio coincide con ogni goccia di fine? Il grande principio eracliteo dell’unità degli opposti, nel loro divenire sembra puntare direttamente al cuore della determinatezza stessa del reale. Dal punto di vista dell’uno, della ragione (logos), il vivente e il morto, il giovane e il vecchio, lo sveglio e il dormiente sono la «stessa cosa» (fr. 88 D.-K.). La natura inestricabilmente opaca della realtà nascerebbe proprio dal fatto che gli opposti tendono a coincidere: il giorno scivola insensibilmente nella notte e ricorsivamente la notte diventa insensibilmente giorno, l’estate diviene senza interruzioni inverno e l’inverno senza interruzioni estate, la fame diviene sazietà e la sazietà nuova fame. L’indeterminatezza della natura non sembra porre confini naturali a separare gli enti: «comune è infatti il principio e la fine nella circonferenza del cerchio» (fr. 103 D.-K.). Si trovano mescolate nella tradizione dossografica riferita a Eraclito due concezioni del divenire: un movimento circolare in cui gli opposti coincidono e un movimento lineare di cambiamento continuo per cui non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume. Entrambi questi movimenti presuppongono l’unità di inizio e fine di una natura concepita come continuum, una unità del tutto dove uno è molti e molti sono uno, resa evidente dalla coincidenza degli opposti. La coincidenza degli opposti permette di ricondurre tutte le cose all’uno e di ritrovare l’uno in tutte le cose come tutto nasce dal fuoco e ritorna al fuoco, ma pone anche un problema di confine. Qual è il confine tra la notte e il giorno, l’inverno e l’estate, la sazietà e la fame? Secondo Eraclito questo confine non esiste: vi è un punto in cui giorno e notte, estate e inverno, sazietà e fame si uniscono, sono cioè contemporaneamente l’uno e l’altro, così come nella circonferenza della ruota e nei moti circolari ogni punto è insieme inizio e fine. Una concezione, questa della realtà come continuum dinamico che, secondo Platone, spalanca inevitabilmente la porta al nominalismo convenzionalista e mette a rischio qualunque possibilità di fare scienza. Da qui, secondo Platone, la necessità di mettere a fuoco alcuni termini di una sfida alle «teorie del flusso continuo» che hanno attraversato tutta la storia del pensiero occidentale e sono ancora correnti, sotto traccia, nei dibattiti contemporanei.

La differenza tra Platone ed Eraclito nel declinare l’etimologia di ousía mette in luce un conflitto profondo tra due concezioni della realtà che vengono presentate, già da Platone, come alternative e mutualmente escludentisi. Non per niente in questa occasione Socrate abbandona l’usuale misurata ironia per assumere i toni di un greve sarcasmo, sostenendo apertamente che gli eraclitei sono ignoranti e che le teorie di Eraclito sono come uno «sciame di sapienza». Nel confronto tra Platone ed Eraclito si assiste al confronto tra una concezione della realtà costituita da enti discreti che, pur nella opacità dei sensi, attraverso la forma-funzione rivelano la loro natura, e quella invece di una natura che proprio per il suo scorrere continuo, per la sua continuità senza soluzione che si rinnova sempre uguale e sempre diversa, risulta qualcosa di inestricabilmente opaco. Per Platone «l’essenza» indica quel rapporto tra struttura e funzione che rappresenta la parte costante e immutabile delle cose rispetto al loro divenire e alle loro variazioni (401c-e). Così l’essenza di un trapano è il rapporto costante e universale che vi deve essere tra la struttura e la funzione di quell’oggetto, al di là delle varianti che esso può assumere, perché possa essere detto trapano; se questo rapporto viene meno non si può più chiamare «trapano». Secondo l’interpretazione platonica, Eraclito e gli eraclitei sosterebbero invece che le cose non hanno alcun legame con il verbo «essere», cioè nessuna «essenza», nessuna forma stabile, nessuna permanenza, ma, al contrario, esse contemporaneamente sarebbero e non sarebbero, in un flusso senza posa, e in questo scorrere diverrebbero continuamente diverse e talvolta opposte. Non vi sarebbe quindi nessuna essenza «trapano», e il fatto che qualcosa venga chiamato «trapano» sarebbe dovuto solo all’uso e alle convenzioni linguistiche delle singole comunità.

Gli argomenti portati da Platone contro le dottrine di Eraclito non affrontano tuttavia, nel Cratilo, il problema ontologico. È significativa a questo proposito la sospensione del giudizio manifestata da Socrate nei riguardi della teoria del flusso continuo nel finale del dialogo. Dopo aver sostenuto che l’impressione del cambiamento continuo non deriva dalle cose ma da chi le guarda e aver paragonato la dottrina di Eraclito e degli eraclitei a un uomo malato di catarro, Socrate deve tuttavia ammettere di non sapere come stanno le cose sul piano ontologico, se le forme siano effettivamente stabili e permanenti, oppure, come dicono Eraclito e gli eraclitei, se le cose siano tutte prese dalla frenesia del cambiamento continuo.29 La difficoltà dell’argomento in realtà fa sospendere a Socrate il giudizio: può darsi che le cose stiano così come dice Eraclito, ma può anche darsi che non stiano così. Da questo punto di vista tutta la questione merita ancora uno studio attento e rigoroso e a questa ricerca voi che siete giovani (l’invito è rivolto da Socrate a Ermogene e Cratilo) dovete dedicarvi con passione e audacia e qualora perveniate a risultati sicuri, aggiunge Socrate con forte sottolineatura ironica, vi pregherei di venirli a comunicare anche a me. L’interesse di Platone nel Cratilo è in realtà focalizzato sulle conseguenze epistemologiche dell’eraclitismo. La dottrina eraclitea dell’unità degli opposti e del flusso continuo viene infatti combattuta da Platone soprattutto perché, sembrando in irriducibile contrasto con la nozione di conoscenza e di verità, avrebbe fornito un supporto ontologico alle dottrine convenzionaliste e relativiste di Protagora.

12. La sfida di Platone

È nel contrasto tra una visione della natura basata sul permanere della verità e della conoscenza e una visione della natura nella quale le cose fluiscono, divengono e cambiano senza fine e senza confini che Platone lancia la sua sfida alle teorie del flusso continuo: a quella di Eraclito, ma anche, perché no, al gradualismo di Darwin e alle più recenti tesi dell’indeterminatezza. Questa sfida viene formulata esplicitamente alla fine del Cratilo: se si accetta la dottrina di Eraclito del flusso continuo di tutte le cose, afferma Socrate, non c’è conoscenza, dato che si dovrebbe ammettere che anche la forma della conoscenza dovrebbe essere continuamente mutevole e variabile. Ma «cambiare», per la conoscenza, significa diventare «non-conoscenza». Quindi, conclude Socrate lanciando una sfida alle tesi del fluire delle forme, se le cose davvero fluiscono e cambiano continuamente e in ogni direzione, dobbiamo rinunciare alla possibilità di conoscerle e alla stessa distinzione tra conoscente e conosciuto.30 Se non si ammette che le cose, compresi gli organismi viventi, hanno una natura propria, un’essenza che rimane la stessa nonostante tutti i cambiamenti e che permette di giudicare giusto o sbagliato ciò che i nomi dicono delle cose, l’approdo inevitabile è il nominalismo e la conseguente impossibilità di avere «conoscenza» (che, come Socrate preciserà nel Teeteto [201-202], è «opinione retta accompagnata da ragione») il cui ideale resta, per Platone, il modello fornito dalla matematica. Se si ritiene che tutte le cose sono soggette a uno scorrere e cambiare continuo, non solo non è possibile metterle in rapporto con la verità ma è anche impossibile, per descriverle, utilizzare un linguaggio formale di designatori rigidi e metterle in rapporto fra loro e con il conoscente.

La sfida di Platone (se tutte le cose cambiano continuamente e in tutte le direzioni è impossibile avere conoscenze formali [i. e. di forma o di «formula»],31 cioè conoscenze tout court) ha trovato un formidabile campo di verifica nella biologia contemporanea e in particolare nelle teorie dell’evoluzione che, per lo più, riconoscono il loro padre nobile in Darwin. La rappresentazione più plastica della teoria darwiniana, il celeberrimo diagramma «albero della vita» inserito nel quarto capitolo dell’Origine delle specie, illustra le due tesi fondamentali della sua concezione: l’ancestralità comune di tutti gli organismi; la continua e dinamica differenziazione morfologica della biosfera attraverso l’azione della selezione naturale. Da notare che per Darwin l’albero della vita è anche l’«albero della conoscenza» dato che esso con «le ramificazioni maggiori divise in grandi rami che, a loro volta, si suddividono in rami sempre più piccoli… può ben rappresentare la classificazione di tutte le specie estinte e viventi in gruppi subordinati ad altri gruppi» (2006: 131) e, per analogia, può anche illustrare il modello di come si sono differenziate le lingue nel mondo. Nell’albero della vita di Darwin, tuttavia, compare un dualismo epistemologico che è critico per la teoria darwiniana e che ancora oggi non ha trovato soluzione nelle scienze dell’evoluzione: da una parte esso sembra affermare che la biologia, nelle sue spiegazioni ultime, è una scienza storica; dall’altra però afferma che nell’evoluzione esiste un meccanismo biologico, quello della selezione naturale, che sembra operare al di fuori dei cambiamenti della storia, come una «legge naturale», alla stregua di quelle della fisica e della chimica. La tensione all’interno di questo dualismo ha diviso gli studiosi delle scienze della vita tra coloro che, privilegiando nella teoria darwiniana le spiegazioni storico-narrative, pongono particolare enfasi sulla ancestralità comune, da quelli che invece, ritenendo che le spiegazioni storiche non abbiano solidità senza una spiegazione nomologica, accentuano nell’opera di Darwin il ruolo della selezione naturale (Bock, 2010).

Nella tensione tra l’ipotesi darwiniana dell’antenato comune di tutti i viventi e quella della selezione naturale, Elliott Sober (2011), ha individuato una «asimmetria esplicativa». Come è noto, per Darwin i tratti dovuti all’adattamento individuale sono quelli più importanti per l’esistenza di un organismo che per sopravvivere e riprodursi deve adeguarsi alle condizioni ambientali e, dato che questi tratti sono prodotti dalla selezione naturale, quest’ultima è per Darwin «la principale, anche se non la sola, causa» dell’evoluzione. Secondo Sober tuttavia la caratterizzazione della teoria di Darwin semplicemente come «evoluzione per selezione naturale» non è una buona caratterizzazione, così come non lo è quella di «discendenza con modificazioni». Entrambe queste definizioni infatti trascurano il ruolo centrale giocato, nella teoria darwiniana, dal riferimento all’ancestralità comune. Senza questo riferimento, illustrato dal diagramma dell’albero della vita, la spiegazione della evoluzione per la sola selezione naturale perde molta della sua forza euristica perché mentre risulta in grado di spiegare le piccole modificazioni interne a una specie, fa molta più difficoltà a spiegare i grandi cambiamenti da una specie all’altra. Se però si mette da parte, per un istante, la selezione naturale e si considera l’idea darwiniana di ancestralità comune, allora, secondo Sober il quadro si chiarisce a sufficienza per vedere che le insuperabili barriere fra le specie sono un mito, perché se è vero che le differenti specie hanno un antenato comune, allora bisogna ammettere che durante la loro evoluzione non hanno incontrato queste barriere (incidentalmente notiamo che questa osservazione contraddice quanto contenuto nel brano citato e poi espunto nel quale Darwin sostiene che un canguro non può uscire da un orso).

A questo punto resta da chiarire la relazione che intercorre tra la selezione naturale e l’ancestralità comune, dato che, secondo Sober, quest’ultima non sembra dipendere dalla selezione naturale. Per Sober questa relazione è messa in evidenza dal diverso significato dato da Darwin ai tratti adattativi e a quelli non adattativi presenti in specie diverse. Formalizzando queste osservazioni è possibile, secondo Sober, trarre la regola generale per cui le probabilità che due specie che condividono uno stesso tratto (come l’osso caudale nell’uomo e nelle scimmie e le fessure branchiali nei feti umani e nei pesci) discendano da un antenato comune è tanto maggiore quanto più questo tratto non è adattativo per nessuna delle due specie; e viceversa: nel caso di due specie che condividono lo stesso tratto le probabilità che esse discendano da un antenato comune sono tanto minori quanto più questo tratto è adattativo per entrambe le specie. Questo principio di Darwin ammette, secondo Sober, alcune eccezioni, come ad esempio nel caso dei «pennacchi» (gli spandrels di Lewontin e Gould) che, pur non essendo direttamente adattativi, non consentono di trarre conclusioni sull’antenato comune; d’altra parte se è vero che i tratti adattativi di due specie presi singolarmente non sono buoni indicatori di ancestralità comune, quando questi tratti adattativi sono numerosi le probabilità di un antenato comune delle due specie possono aumentare in maniera rilevante. Pur con questi limiti, secondo Sober il principio darwiniano che i caratteri non adattativi spesso rappresentano testimonianze di antenato comune e i caratteri adattativi invece no ha una sua ragionevolezza. Se però si tiene presente che i caratteri adattativi derivano dalla selezione naturale, mentre quelli non adattativi derivano dall’ancestralità comune, nella teoria evoluzionistica di Darwin vi sarebbe all’opera, secondo Sober, una asimmetria evidenziale: l’ancestralità comune provvederebbe un quadro all’interno del quale le ipotesi fornite dalla selezione naturale possono essere testate: è a partire dall’ancestralità comune che gli eventi storici della selezione naturale diventano comprensibili. D’altra parte invece la selezione naturale non sembra necessaria per ipotizzare un’ancestralità comune: tutto ciò di cui c’è bisogno per difendere l’ipotesi di un antenato comune è la presenza di tratti che non possono essere attribuiti alla selezione naturale.

Vi sono stati diversi tentativi di risolvere il dualismo che nella teoria evoluzionistica di Darwin separa le spiegazioni storico-narrative e le spiegazioni nomologico-deduttive. Uno dei più interessanti è stato proposto da Stephen Jay Gould che nell’ultimo paragrafo della sua monumentale e lussureggiante Struttura della teoria dell’evoluzione (2003 [2002]: 1668 ss.),) colloca questo «apparente» paradosso di Darwin nel problema più generale dell’interazione fra legge generale e contingenza storica, proponendone una lettura che, anche per il consueto stile turgido, risulta piena di fascino (anche se tutt’altro che convincente). Il punto di partenza di Gould è il celeberrimo paragrafo del naturalista sulla riva del fiume con cui Darwin chiude l’Origine delle specie (da notare la simmetria, certamente non casuale, per cui l’ultimo paragrafo dell’opera di Gould, dopo una navigazione di oltre milleseicento pagine, si congiunge all’ultimo paragrafo dell’opera di Darwin). In questo brano (che giustamente Gould invita a non leggere, come si fa di solito, come «metafora poetica intesa solo a ornare una rivoluzione con una coda di bontà ecumenica», ma come documento che riassume in maniera precisa il pensiero di Darwin) viene a galla, più evidente che in altre parti dell’opera, da una parte la contingenza della presenza e della forma dei singoli organismi e dei taxa, dall’altra il ruolo delle leggi universali. Il significato di questo contrasto irrisolto, è stato interpretato da Gould come una affermazione, da parte di Darwin, della struttura ontologicamente complessa e probabilistica della realtà e il riferimento alla legge della gravitazione di Newton come un rifiuto ironico e critico delle rivendicazioni avanzate dalle scienze fisiche.

Si tratta però di un’interpretazione che, in linea con alcune applicazioni contemporanee del neodarwinismo, rende tuttavia difficile la collocazione storica di Darwin all’interno di una ontologia realista e di una epistemologia che adotta la nozione newtoniana di verae causae (cioè cause delle quali, come la gravitazione universale, vi è evidenza al di là dei fatti ch’esse sono chiamate a spiegare), alla quale lo stesso Darwin sembra convintamente aderire. Non è da sottovalutare la circostanza che, sin dalla prima edizione, Darwin ha fatto precedere il frontespizio del suo capolavoro da due citazioni, una di Bacone, le cui parole-chiave sono «progresso nella conoscenza», e una di William Whewell, sulle «leggi naturali». Il termine legge/leggi (Laws o espressioni equivalenti come «regole universali») ricorre molto di frequente nell’Origine delle specie, anche se Darwin osserva che gran parte di queste leggi, come quelle della variazione, quelle delle correlazioni e quelle dell’ereditarietà sono misteriose o ancora sconosciute. Che cosa intenda per «leggi» è lo stesso Darwin a chiarirlo in un passo aggiunto nella sesta edizione per rispondere alle obiezioni di quanti gli rimproveravano di aver antropomorfizzato la nozione di selezione naturale e di natura. Osserva Darwin: «è difficile evitare di personificare la parola Natura; ma con natura io intendo soltanto il complesso dell’azione e del risultato di molte leggi naturali e, per leggi, intendo la sequenza degli eventi che noi possiamo osservare» (2006: 132; corsivo mio). Questa definizione rientra nel bagaglio epistemologico del clima induttivista in cui Darwin operava, secondo il quale partendo dalla base più ampia dei fatti osservati e attraverso successive generalizzazioni si poteva arrivare a una «legge generale».32 Il modello che Darwin aveva in mente quando scriveva la sua definizione di legge naturale era, come è chiaramente richiamato dalle ultime righe del paragrafo, quello della legge della gravitazione di Newton. Questa legge ritenuta da Darwin immutabile, in quanto sganciata dalla variabile spazio-tempo, presentava il fascino di una legge che permetteva di fare previsioni. Ma si trattava di un modello connesso a una visione deterministico-strutturale del divenire del mondo fisico che, per quanto riguarda la storia della vita, doveva entrare in contrasto con quella storico-narrativa delineata da Darwin nell’albero della vita, le cui spiegazioni possono essere date soltanto dopo che i fatti sono accaduti. Così lo sforzo di Darwin di trarre dall’osservazione di una sequenza causale di eventi la storia della vita sulla Terra e la modificazione delle sue forme, delle «leggi naturali», in particolare la legge della selezione naturale, che, come la legge della gravitazione universale, in quanto atemporale, non apparterebbe alla spiegazione storica, sfocia nell’idea di un’evoluzione della biosfera che risponde ai caratteri della fisica newtoniana: in breve, le forme viventi evolverebbero, le leggi dell’evoluzione no, o, in altre parole, per Darwin, non ci sarebbe evoluzione dell’evoluzione.

Forse è stata questa stabilità a suggerire ad alcuni neodarwinisti il tentativo di liberare quello che essi considerano il core33 del darwinismo (lo schema: riproduzione-variazione-selezione) dalle sue componenti biologiche per farne un principio astratto, formale, ed estenderlo come principio interpretativo generale a tutte le attività umane, compresi gli aspetti più simbolici della cultura. Paradigmatico è l’uso fatto da Maynard Smith, che ha abbinato questo schema formale alla teoria dei giochi per spiegare il sorgere evoluzionistico della cooperazione. Il tentativo di trovare nel darwinismo la legge generale capace di rappresentare una specie di TOE (Theory of everything) si è scontrato però ben presto con una serie di questioni, le più rilevanti delle quali nascevano, paradossalmente, proprio sul versante della biologia, dove molte nuove acquisizioni scientifiche tendevano a mettere in seria discussione lo schema darwiniano sia dal lato della «discendenza con modificazioni», sia da quello della «selezione naturale».34 A partire: a) dal rifiuto del gradualismo, proposto da varie recenti forme di saltazionismo (compresi gli equilibri punteggiati) indotte sostanzialmente da una riconsiderazione delle serie paleontologiche (ad esempio la cosiddetta «esplosione del Cambriano») e da una rivalutazione del ruolo evoluzionistico degli «hopeful monsters» (Theißen, 2009), come anche dalla considerazione della conservatività dei piani corporei e dei «geni regolatori» e l’osservazione che è sufficiente una modifica in uno o pochi di questi geni per avere grandi modificazioni fenotipiche; a differenza di quello che pensava Darwin anche l’evoluzione evolve (Newman, 2011); b) dal rifiuto delle «specie» come unità di evoluzione, poiché nelle specie in realtà si osserverebbe solo un «rumore di fondo» dato che l’evoluzione «vera» avverrebbe nei taxa superiori con la comparsa dei diversi tipi morfologici; c) dal rifiuto che la filogenesi di tutti gli organismi viventi possa essere descritta da un unico modello, appunto l’albero darwiniano; questo rifiuto è fondato soprattutto sulla riflessione relativa al significato evoluzionistico dei procarioti che hanno mostrato una inattesa, fino a pochi anni fa, estensione dei flussi genici attraverso processi come il trasferimento orizzontale (HGT) sia di geni omologhi all’interno dei taxa sia di geni omologhi e non omologhi fra taxa anche molto lontani dal punto di vista filogenetico (Doolittle, Baptest, 2007; Doolittle, Zhaxybayeva, 2009). Da qui la proposta di ammettere una pluralità di modelli (non più quindi la struttura ad albero come unica immagine della storia della vita sulla Terra, ma accanto ad essa anche strutture orizzontali «a rete», «a hubs», o, se si vuole in qualche modo conservare l’immagine dell’albero, «a foresta»); né è da trascurare il fatto che non di rado gli alberi dei geni e dei genomi entrano in conflitto tra loro e con gli alberi costruiti sugli organismi e sulle specie (Haggerty et al., 2009). Per quanto riguarda la selezione, i dibattiti sui «livelli» (Okasha, 2006) hanno reso evidente che, a differenza di quello che pensava Darwin che era restio, come è noto, ad ammettere la selezione al di fuori degli organismi, la selezione naturale è in grado di produrre forme e taxa a diversi livelli di organizzazione della vita. Infine le ipotesi dei modelli neutralisti di evoluzione sia a livello molecolare (a partire da Kimura, 1983) sia su quello della biodiversità (Hubbell, 2001) e, più di recente, l’adozione nella teoria dell’evoluzione di approcci ai sistemi complessi e all’autoorganizzazione hanno limitato la forza esplicativa della selezione naturale, che sembra in grado di spiegare l’adattamento, ma non sufficiente a dare conto anche di altri fenomeni della storia della vita, come la distribuzione geologica dei fossili, la distribuzione geografica delle specie, le estinzioni di massa, ecc.

I panorami evoluzionistici che si aprono dopo oltre centocinquant’anni di studi modificano in maniera rilevante quello disegnato da Darwin nell’Origine delle specie.35 La selezione è ancora una delle principali spiegazioni dell’evoluzione, ma accanto ad essa si pongono anche altri fattori come, a livello genetico, le mutazioni sulle quali si può esercitare la selezione, i processi stocastici della deriva genetica, le ricombinazioni, e, a livello fenotipico, le proprietà autoorganizzative dei sistemi complessi, i vincoli interni ed esterni, la costruzione di nicchie, ecc.

Quella che sembra definitivamente tramontata in biologia è la cosiddetta «invidia della fisica», cioè lo sforzo di individuare «leggi universali» in grado di dare una descrizione unica del passato, del presente e del futuro della biosfera, come, forse, si erano illusi in passato alcuni genetisti di popolazioni (esemplare in questo senso l’analogia posta da Fisher tra il suo «teorema fondamentale» e il secondo principio della termodinamica) e più di recente alcuni ecologi. La biosfera, concepita come una «complessa miscela di stabilità strutturale continuamente cangiante ed emergenza di sempre nuovi fenotipi, nicchie, ecosistemi» (Longo et al., 2012) con le loro interazioni, intrinsecamente indeterminate e imprevedibili, rappresenterebbe così la rivincita della visione eraclitea del mondo e nello stesso tempo la conferma della sfida di Platone che se tutto si muove allora non è possibile una conoscenza universale.

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  1. Un breve resoconto critico si può trovare in: Helfenbein, DeSalle, 2005. ↩︎

  2. Cfr. ad es., MacLeod, 2007. ↩︎

  3. Encyclopedia of Life, www.eol.org ↩︎

  4. Bisogna però notare che Mayr ha modificato successivamente la sua posizione e in Mayr, 1982, dimostra una maggiore simpatia verso le tesi di Aristotele. ↩︎

  5. Anche la consapevolezza che non è possibile fare la storia della filosofia della biologia senza partire da Aristotele, come affermano Grene, Depew, 2004, è ormai generalmente diffusa. ↩︎

  6. Questo episodio è stato narrato, ma in una prospettiva opposta a quella qui assunta, anche da Stamos, 2003. ↩︎

  7. «Io, Cebète, quando ero giovane ero straordinariamente attratto da quel sapere che chiamano indagine della natura mi sembrava splendido conoscere le cause di ogni cosa, perché ciascuna cosa nasce, perché muore e perché esiste. Spesso mi dibattevo in su e in giù nell’esame in primo luogo di questioni come queste: «i viventi si generano, come dicono alcuni, quando il freddo e il caldo producono una certa putrefazione? È il sangue ciò con cui pensiamo o l’aria o il fuoco? O non è nessuno di questi, ma è il cervello che procura le sensazioni dell’udito, della vista, dell’odorato dalle quali nascerebbero la memoria e l’opinione? E dalla memoria e dall’opinione divenuta stabile nascerebbe la scienza?» D’altra parte, esaminando il venir meno di queste cose e quanto accade nel cielo e nella terra, finii per credere di essere inadatto come nessun altro a questa ricerca… Ché quello che io prima sapevo con chiarezza secondo quanto pareva a me e agli altri ecco che allora per effetto di queste ricerche, mi si abbuiò totalmente cosicché disimparai anche quello che credevo di sapere… e cerco di farmi da me, alla meglio, un altro metodo visto che a questo non so adattarmi in alcun modo» (Fedone, 96a-97b). ↩︎

  8. Un breve excursus bibliografico commentato soprattutto nella prospettiva linguistica si può trovare nella Introduzione di Joseph, 2000. ↩︎

  9. Per un’approfondita interpretazione di questa parte si può vedere Sedley, 2003. ↩︎

  10. Non è intenzione di questo breve scritto di esaminare l’annosa questione storiografica di quanto sia attendibile la dossografia tradizionale su Protagora e i sofisti, la cui interpretazione relativistica si basa in gran parte proprio sulle testimonianze polemiche di Platone. ↩︎

  11. L’affermazione di Darwin («nessun filologo…») è, evidentemente, iperbolica, dato che non mancavano filologi convinti del contrario. Una breve analisi dei rapporti tra Darwin e alcuni filologi si può trovare in Richards, 2002. ↩︎

  12. Benché suggestiva e ricca di informazioni è poco convincente la tesi di Mithen, 2005. ↩︎

  13. Soggetto-verbo-oggetto. Cfr. Gell-Mann, Ruhlen, 2011. ↩︎

  14. Per alcune discussioni sulla modularità a livello cognitivo e neurale si può vedere il numero speciale di «Cognitive Neuropsychology» 28, 3-4, 2011 dedicato appunto a: The specialization of function: Cognitive and neural perspectives on modularity↩︎

  15. «È giusto, dunque, mi sembra, chi nasce da leone chiamarlo leone e chi da cavallo, cavallo e così per ogni progenie, eccetto il caso che si generi un mostro. Né intendo parlare di nascite mostruose come se nasca da cavallo altro essere che cavallo, bensì di ciò solo che nasca dal suo proprio genere secondo natura: questo intendo dire. Ché se un cavallo generi, contro natura, un vitello — che è secondo natura progenie di bue — non puledro bisognerà chiamarlo, ma vitello; e così, credo, se da uomo non nasca ciò che nasce da uomo, codesto nato non si dovrà chiamare uomo. Ugualmente si dica degli alberi e di ogni altra cosa… Che se un cavallo genera progenie di bue, questa, dicevamo, non da chi l’ha generata deve prendere il nome, bensì dal genere cui appartiene» (393b e seg.). ↩︎

  16. Lasciamo agli storici della filosofia la messa a punto dei reali rapporti storici tra la definizione aristotelica e la sua elaborazione nel cosiddetto albero di Porfirio. A noi qui serve solo come esempio per evidenziare alcuni problemi connessi alla definizione dell’individuo. ↩︎

  17. Queste brevi considerazioni mi sono state suggerite dalle riflessioni di Achille Varzi sul tema dei confini. ↩︎

  18. Sull’idea di ghenos come «materia» rispetto all’eidos come «forma» si può vedere la discussione tra Richard Rorty e Marjorie Grene in Grene, 1974. ↩︎

  19. In Aristotele, ovviamente, non vi è una teoria della speciazione attraverso l’ibridazione, né attraverso alcun altro meccanismo. ↩︎

  20. Da notare che Aristotele usa il termine hemionos e non distingue, come i greci del suo tempo, tra mulo e bardotto. ↩︎

  21. «But it may be asked, what ought we to do, if it could be proved that one species of kangaroo had been produced, by a long course of modification, from a bear? Ought we to rank this one species with bears, and what should we do with the other species? The supposition is of course preposterous; and I might answer by the argumentum ad hominem, and ask what should be done if a perfect kangaroo were seen to come out of the womb of a bear? According to all analogy, it would be ranked with bears; but then assuredly all the other species of the kangaroo family would have to be classed under the bear genus. The whole case is preposterous; for where there has been close descent in common, there will certainly be close resemblance or affinity». ↩︎

  22. L’idea che le variazioni ereditarie dovevano essere permanenti e cumulative nasceva in Darwin dall’esigenza che su esse potesse operare la selezione naturale. ↩︎

  23. Non è qui il caso di approfondire il tema, molto dibattuto e stimolante, dei «mostri» e tanto meno di inoltrarci nel discusso argomento degli hopefull monsters↩︎

  24. Questa affermazione non è condivisa da Sober (2011) secondo il quale Darwin non ha usato l’argomento dei confini per sostenere il suo scetticismo sulla «categoria specie»; invece per Ereshefsky (2010a), che ha abbandonato questo argomento privilegiando quello relativistico della «eterogeneità dei sistemi di classificazione», Darwin avrebbe utilizzato proprio l’argomento dei confini. ↩︎

  25. «There is grandeur in this view of life with its several powers, having been originally breathed into a few forms or into one; and that, wilst this planet has gone cycling on according to the fixed law of gravity, from so simple a beginning endless forms most beautiful and most wonderful have been, and are being evolved.» (Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue molte capacità, che inizialmente fu data a poche forme o a una sola e che mentre il pianeta seguita a girare secondo la legge immutabile della gravità si è evoluta e si evolve, partendo da inizi così semplici, fino a creare infinite forme estremamente belle e meravigliose). (Corsivo mio). ↩︎

  26. Ereshefsky (2010a) suggerisce, probabilmente a ragione, di non «leggere troppo» nella presenza del termine «specie» nel titolo del capolavoro di Darwin. E tuttavia non vi si può leggere, scetticamente, come lui suggerisce, neanche troppo poco. Sober (2011) nota che benché l’obbiettivo esplicito di Darwin sia quello di risolvere il «mistero dei misteri», cioè l’origine delle specie, in realtà quello di specie non è il concetto centrale della teoria di Darwin che sarebbe descritta più adeguatamente come teoria dell’«origine della diversità per mezzo della selezione naturale». ↩︎

  27. Va oltre gli intendimenti di questo scritto (e le competenze di chi scrive) affrontare la complessa questione storico-filosofica della attendibilità delle testimonianze platonico-aristoteliche nella presentazione della dottrina di Eraclito, o distinguere quella che è la dottrina originale di Eraclito da quelle di eraclitei come Cratilo. Questa questione è segnata soprattutto dal fatto che nei frammenti di Eraclito che ci sono pervenuti il perno della riflessione è costituito dal principio dell’unità degli opposti (tanto che da circa un secolo a questa parte per caratterizzare la sua dottrina si usa l’espressione cusaniana di coincidentia oppositorum) mentre la teoria del flusso continuo di tutte le cose sembra marginale. Nella presentazione che ne fa Platone invece questa preminenza è rovesciata. ↩︎

  28. Platone indica Esiodo e Omero come propugnatori di una dottrina occulta sul divenire globale del mondo da cui Eraclito avrebbe derivato la sua. ↩︎

  29. «Ora se queste cose stiano così o al modo che dicono Eraclito e gli eraclitei e molti altri, io temo sia difficile giudicare; e credo sia anche da uomo poco assennato dedicare e dare in pasto sé medesimo e la propria anima ai nomi e, fidando in essi e in coloro che li posero, ostinarsi a credere di sapere qualcosa e se stessi e le cose condannare, quasi non ci sia nulla di sano in nulla, perché tutte le cose fluiscono come vasi di creta; e credere che, proprio come gli uomini ammalati di catarro, così siano anche le cose le quali da flusso e da catarro siano prese tutte quante. E dunque o Cratilo può darsi che sia così ma può anche darsi che non sia così» (Crat., 440a-440d). ↩︎

  30. «Non è lecito dire che esiste conoscenza, o Cratilo, se tutte le cose mutano e nessuna sta ferma. Infatti se questa stessa cosa, la conoscenza, non muta dal suo essere conoscenza, la conoscenza rimarrà sempre ferma e sarà conoscenza; ma se anche la specie stessa della conoscenza si muta dovrà pur mutarsi al tempo stesso in un’altra specie di conoscenza e non sarà più conoscenza; e se sempre si muta sarà sempre non conoscenza; e con questo ragionamento non ci dovranno essere più né chi dovrà conoscere né ciò che dovrà essere conosciuto. Se invece il conoscente esiste sempre, e esiste anche il conosciuto, ed esistono il bello e il buono e insomma ciascuno degli enti, è evidente che questi enti di cui ora stiamo parlando non sono affatto simili né al flusso né al movimento». ↩︎

  31. La possibilità di tradurre eidos con «formula» mi è stata suggerita da uno scritto di Enrico Berti. ↩︎

  32. Con ciò non si vuole dire che Darwin era un induttivista, ma soltanto che il clima dominante in cui operava era quello induttivista. Sembra che, al dire di Ghiselin, Hull e Mayr, nonostante questo clima, Darwin abbia adottato principalmente il metodo ipotetico-deduttivo. ↩︎

  33. Un altro termine per indicare quello che Gould invita a non avere paura a chiamare «essenza» del darwinismo. ↩︎

  34. Per una breve sintesi si può vedere: Gayon, 2009. ↩︎

  35. Se si tratti di un’«espansione», come sostiene Gould con la metafora del Duomo di Milano, o se invece si tratti soltanto di «cooptazioni», come sostiene Hull, è argomento che merita una ben più ampia trattazione. ↩︎