Claudio Tugnoli, Filosofia del dilemma, Mimesis, Milano-Udine 2019, pp. 331.
L’autore esamina in modo globale uno degli aspetti più incresciosi della vita umana, quello del dilemma. Accade infatti che talvolta non sia possibile scegliere tra un’azione buona e una cattiva, ma che si debba necessariamente optare per una di due azioni entrambe negative, gravide di conseguenze spiacevoli o addirittura devastanti. Vi sono film contemporanei che hanno reinscenato il dilemma posto da Aristotele nell’Etica Nicomachea: un criminale sequestra i figli di un uomo e gli impone l’alternativa di uccidere una persona e riavere salvi i suoi bambini, oppure non rivederli mai più se non straziati dalla morte. Fra due opzioni sgradite si sceglie in genere quello che si considera “il male minore”, ma nelle situazioni dilemmatiche il più delle volte è arduo stabilire quale sia il male minore. Ne abbiamo un esempio nelle situazioni in cui due coniugi sono ancora uniti da un profondo legame che non si sentono di recidere, ma al tempo stesso trovano insostenibile l’aria che respirano per la profonda avversione reciproca che si è instaurata. Se si separano, sanno o sentono di ritrovarsi amputati di una parte imprescindibile della loro vita; se restano insieme, il veleno che è penetrato nella loro unione rischia di farli impazzire o di giungere a gesti estremi di distruzione dell’altro. O ancora, e l’autore cita in proposito Brendel, un pompiere accorre per compiere il suo lavoro in un palazzo in fiamme: potrà salvare solo uno dei due bambini che si trovano il primo nell’ala est e il secondo nell’ala ovest dello stabile. Ciascuna delle due eventualità comporterà la morte di un bambino, ma dovrà decidersi per evitare che periscano entrambi. Kant e Schopenhauer hanno illustrato il dilemma in modo più generale, immaginando la condizione umana attraverso l’aneddoto dei due porcospini: è inverno, c’è un freddo intenso, e due porcospini decidono di avvicinarsi l’uno all’altro per scaldarsi. Gli aculei però feriscono e provocano un dolore tale da indurli ad allontanarsi. Poi però il gelo li spinge ad avvicinarsi di nuovo, e per tentativi ed errori alla fine trovano la giusta vicinanza per sopportare un po’ di dolore e ricevere un po’ di calore. Per gli esseri umani le cose vanno in modo simile. Senza far propria la sentenza di Jean-Paul Sartre secondo la sua pièce Huis clos («l’inferno sono gli altri»), è chiaro però che la quantità di stimoli graditi che si possono ricevere è limitata, e dunque si potranno coltivare innumerevoli relazioni in maniera superficiale (come quelle portate avanti sui social), oppure ridurne significativamente il numero per avere tutto il calore di cui hanno bisogno, come fanno gli innamorati. Il dilemma però di solito è veramente drammatico e mette con le spalle al muro o fa precipitare nella «claustrofobica perentorietà della sua narrazione». Erodoto per esempio narra la storia tragica di Candaule, re di Lidia, che esalta la bellezza della propria moglie parlandone con la sua guardia del corpo, Gige. Gli chiede di vederla nuda per verificarlo di persona, benché in realtà si tratti di un mezzo per vivificare un desiderio appassito attraverso il desiderio di un altro. Gige cerca di sottrarsi ma il re insiste e gli propone di ammirarla senza che lei se ne avveda. La regina però si accorge della presenza di Gige nella stanza e per vendicarsi pone a Gige il seguente dilemma: uccidere Candaule e impadronirsi sia della regina sia del regno, oppure essere ucciso affinché non veda più ciò che non si deve vedere. Trasforma cioè Gige e Candaule in doppi mimetici, nemici irriducibili, intercambiabili per la regina che vuole che uno dei due espella l’altro. In questo caso Gige uccide Candaule. Andromaca, dal canto suo, deve decidere se concedersi a Neottolemo per salvare il figlio avuto da Ettore, Astianatte, o sacrificarlo per non offendere la memoria dello sposo. L’autore sottolinea «che la giustizia è scissa tra due opposti in eterno dissidio. L’imperativo morale non è univoco, inequivocabile, ma bifronte, duale, antinomico, dilemmatico. Questo impedisce l’obbedienza completa e incondizionata alla coscienza morale» (p. 126). Si tratta quindi di dare soluzione al dilemma non in teoria bensì in pratica, sacrificando una parte della totalità per salvare il resto, in una dinamica sacrificale.
Nella filosofia anglosassone sono stati affrontati alcuni dilemmi morali, in cui non si può aggirare il problema e bisogna necessariamente sacrificare qualcosa. Nel dilemma del Ramo deviato si deve scegliere se far investire da un treno in corsa, senza freni, cinque persone legate sui binari, o azionare una leva di scambio e far morire invece una sola persona legata sul ramo deviato. In questo caso si provoca un male minore rispetto a un male maggiore. Intuitivamente è la scelta più sensata. La situazione però risulta sensibilmente diversa nel caso in cui in un ospedale ci siano cinque pazienti con la necessità urgente di un trapianto: due dei reni, due dei polmoni, uno del cuore e arrivi un giovane sano provvisto del gruppo sanguigno appropriato per una visita di controllo. Perché il medico non dovrebbe ucciderlo per salvare cinque persone? Ci si trova in una situazione ancora differente nel caso in cui, mentre siete su un cavalcavia, nel binario sottostante passa un carrello che schiaccerà cinque persone legate sulle rotaie a meno che voi non spingiate di sotto un uomo grasso che con la sua mole arresterà il carrello. Mentre nel Ramo deviato l’azione di uccidere è indiretta, nel caso dell’Uomo grasso sarebbe diretta. È diverso fare qualcosa per far morire qualcuno (Uomo grasso) dal fare qualcosa per lasciarlo morire (Ramo deviato). Si tratta di quella branca della filosofia morale, chiamata «carrellologia», che mette in luce «l’opposizione tra l’orientamento deontologico, per cui il valore morale di un’azione è l’obbedienza alla norma (divieto, obbligo), e l’orientamento consequenzialista dell’utilitarismo, che raccomanda di considerare le conseguenze dell’azione: la maggior felicità per il maggior numero di persone» (p. 146). E in questo ambito possiamo riflettere sulla prospettiva deontologica di Eichmann e dei nazisti o su quella pseudoconsequenzialista di Truman che fece sganciare le due bombe atomiche su un Giappone che in realtà era già pronto alla resa. A proposito della liceità della tortura, vediamo che i sostenitori della salvaguardia dei diritti umani ad ogni costo sono deontologici e non la ammetterebbero in nessun caso, mentre per gli utilitaristi si potrebbe, anzi si dovrebbe farvi ricorso nel caso di un bambino che rischiasse di morire (come quello di 11 anni, figlio di un ricco banchiere, sequestrato da un suo insegnante privato che nel 2002 in Germania si rifiutava di dire dove si trovasse il suo prigioniero) o per evitare l’esplosione di una bomba in un centro commerciale. Possiamo ricordare il caso dei quattro uomini su una scialuppa nell’Atlantico, in cui uno di essi, Dudley, convinse gli altri due a sopprimere il quarto, ormai agonizzante, per salvarsi, e il film tratto da un romanzo, La scelta di Sophie, in cui la madre deve decidere per ordine di un ufficiale nazista se sacrificare uno dei suoi due figli o farli morire entrambi. Lei sacrifica la figlia, ma la sua angoscia e la nostra di spettatori dimostrano che la coscienza è più kantiana che utilitarista. In ogni caso il dualismo rimane, e l’assenza di conflitto interiore non può non destare qualche sospetto: solo gli psicopatici e i robot, prigionieri di automatismi unilaterali, sanno perfettamente quel che devono fare, e in questo senso le neuroscienze che riducono gli attributi della mente alle caratteristiche del cervello non rendono un buon servigio né alla conoscenza autentica né all’umanità.
Bauman ha esaminato il dilemma che inceppa l’ordinamento delle società umane «per cui da una parte lo scopo delle norme deve essere quello di consentire agli individui di perseguire la massima felicità possibile esercitando una libertà di azione alla quale si sentono destinati per diritto di natura, dall’altra però la stessa società può esistere solo se sono fatte valere norme che impongono restrizioni il cui effetto è quello di costringere le persone a ribellarsi se vogliono realizzare l’obiettivo della felicità e del benessere personale» (pp. 301-302), e afferma che il dilemma fra libertà e sicurezza è insormontabile. Da ultimo, consideriamo un aspetto essenziale fin qui eluso visto che ci siamo occupati soltanto di dilemmi inaggirabili. L’inconfutabilità di un dilemma può essere solo apparente ed essere superata in tre modi: prendendolo per le corna, passandogli tra le corna o costruendo un controdilemma. Un dilemma del tipo «Qualunque cosa tu mi dica o non accresce la mia conoscenza oppure sarà per me incomprensibile», posto dal sapiente Nasreddîn nel Medio Evo per non tenere la predica nella moschea, si può confutare prendendolo per le corna: «Chi l’ha detto che non imparerò qualcosa se mi dici quello che già so e che se mi dici qualcosa che non so il tuo discorso mi sarà incomprensibile?». Nel caso in cui invece si affermi: «Se X ha ucciso per difendersi, allora non sarà punito; se X ha ucciso per grave errore di chi ha perso la vita, anche in questo caso non potrà essere punito; perciò in nessun caso X sarà punito», la confutazione può avvenire passando attraverso le corna del dilemma: X potrebbe aver ucciso con l’intenzione di uccidere o perché alterato dall’abuso di alcol o stupefacenti. Si tratta di un falso dilemma. Bisogna prestare attenzione a non confondere le qualifiche contraddittorie con quelle contrarie. Per esempio sapiente e ignorante, bello e brutto, buono e cattivo non si contraddicono, sono contrari che ammettono infinite sfumature e per questo vengono definiti graduabili. Diversi i casi in cui subentra il «non»: in questi casi o si è belli o non si è belli; si è sapienti o non sapienti. Falsi dilemmi sono quelli che indicano due sole opzioni ipersemplificando situazioni suscettibili di infinite altre possibilità, come la seguente: «Se non puoi permetterti di acquistare una Ferrari ultimo modello, dovrai rassegnarti a spostarti a piedi», oppure «O Roma o morte», o ancora «O lo Stato accetta la mafia, nel qual caso è complice, o non è in grado di combatterla, nel qual caso è impotente». La falsa dicotomia ha la struttura logica del dilemma mentre una vera dicotomia ricorre quando due eventi o stati di cose sono in rapporto mutuamente esclusivo e congiuntamente esaustivo, per esempio «Una porta deve essere aperta o chiusa», non c’è una terza possibilità. Veniamo infine al controdilemma: «Per confutare un dilemma se ne costruisce uno opposto utilizzando le stesse proposizioni contenute nel dilemma originale, in modo da mettere in luce un lato nascosto del dilemma iniziale» (p. 60). Per esempio, alla domanda se fosse meglio rimanere celibe o sposarsi, un saggio osservò: «Se ti sposi, sposerai una donna bella o brutta; se bella dovrai dividerla con altri; se brutta, sarà per te un castigo. Perciò è meglio che non ti sposi». Gli venne però risposto con un controdilemma: «Se sposo una donna bella non sarà un castigo, se una brutta ne godrò solo io». In realtà al presunto saggio era sfuggito che esistono anche donne né bellissime né bruttissime, e in realtà sono la maggior parte. L’autore spiega con dovizia di esempi l’uso che si è fatto nell’arte oratoria di sofismi o falsi dilemmi, e mette in guardia dall’uso che si continua a farne ingannando i cittadini. Dedica infine due avvincenti capitoli al libero arbitrio e al Panopticon. Un libro esaustivo, scritto con sapienza e passione, capace di farci guardare le cose con occhi nuovi.