La mostra che si è conclusa il 15 settembre scorso con grande successo al Museum of Modern Art di New York e che aveva per tema il ritratto in Picasso, portava come sottotitolo, datole da William Rubin, grande studioso dell’Arte Moderna e direttore onorario del museo: Rappresentazione e trasformazione. Questo sottotitolo molto importante ha bisogno di essere bene inteso, poiché rischia altrimenti a nostro avviso di farci perdere la pointe dell’arte di Picasso, e magari proprio per quanto riguarda il ritratto. Infatti esso pone le cose come se avessimo da una parte un modo di concepire il ritratto come una rappresentazione della realtà, che sarebbe stato sia il punto di vista comune, che, fino ad un certo momento, anche il suo proprio; e poi, a partire da un certo punto della sua attività artistica, una concezione del ritratto come trasformazione della realtà rappresentata. Quando si sarebbe accorto che i moderni mezzi della fotografia servivano meglio a questo scopo, sarebbe occorsa una svolta nel suo modo di concepire il ritratto, e cioè sarebbe subentrata la volontà di trascendere la rappresentazione verso la visione individuale del rappresentato, ovvero verso la trasformazione. Rubin arriva a dire — e questo è in un certo senso molto giusto — che il pittore sarebbe stato ad un certo punto più interessato a se stesso che alla persona rappresentata. Ma questa trasformazione è intesa poi da Rubin ancora in modo «rappresentativo», in quanto Picasso sarebbe passato ad un ritratto che esprime, invece che la semplice realtà, la sua visione personale del rappresentato.
Ora, questa rappresentazione della visone personale è però sempre rappresentazione di qualcosa che si vede nella realtà rappresentata; la trasformazione è invece qualcosa di molto di più, poiché essa sembra dissolvere interamente la realtà rappresentata, anzi, lo stesso concetto di rappresentazione. Inoltre, una visone personale della persona rappresentata v’è in ogni ritratto, non solo di Picasso prima del suo periodo cubista, ma in tutta l’arte classica, in Leonardo e Piero della Francesca, in Rembrandt e Rubens, in Giorgione e Veronese, in Goya e in Velasquez, per parlare solo dei più grandi ritrattisti, e dei due ultimi che Picasso aveva particolarmente in mente. Non solo: anche nella stessa fotografia, che sarebbe quel che secondo il Rubin avrebbe spinto Picasso oltre la rappresentazione, v’è interpretazione, v’è un far vedere la realtà sotto un particolare aspetto, del tutto personale, in cui è coinvolta la personalità di colui che fotografa. Quindi, rappresentazione oggettiva non v’è mai; ogni rappresentazione è interpretazione, ed il passaggio dalla rappresentazione alla trasformazione deve avere altri motivi, deve essere qualcosa di diverso dalla semplice interpretazione «soggettiva» che è presente in ogni rappresentazione.
Il problema della identità del rappresentato e della alterità della interpretazione, e della conseguente identità nella alterità, molto dibattuto dalla estetica contemporanea, ci dice poco in proposito. È questa una tematica che appartiene ad un concetto classico di interpretazione, quella per cui si tratterebbe di ricostruire l’identità della cosa rappresentata ed interpretata partendo dalla alterità del soggetto interpretante; è questo un concetto troppo ristretto di interpretazione: esso sdoppia il rappresentato ed il rappresentante nella rappresentazione, per porre il problema della loro adeguazione, e finisce per interporre poi un terzo soggetto fittizio, quello di un lettore che giudica di questa adeguatezza, e che finirebbe, in questa posizione di giudice o garante, per non trovarsi in nessun luogo: un lettore utopico, e pertanto inservibile ed inutile, persino a se stesso, quello che si pone questo problema.
Ora bisogna invece vedere se la trasformazione ci dice qualcosa di più della interpretazione, e per intendere il nuovo concetto di interpretazione possiamo prendere come filo conduttore quanto è stato svolto non solo da Nietzsche, ma poi da Heidegger e da Gadamer, ovvero quel processo dell’intendere per il quale non solo la cosa non resta più quello che essa era prima, ma per il quale noi stessi non restiamo più quelli di prima, perché noi stessi veniamo trasformati nel nostro rapporto interpretativo.1 E forse, se riusciamo ad intendere in questo modo il concetto di interpretazione, possiamo riuscire a capire l’arte di Picasso in modo da intenderne la sua intrinseca dinamicità, il suo continuo evolversi in sempre nuovi mezzi espressivi. Certo, bisogna partire da quella interpretazione che è intrinseca ad ogni rappresentazione per vedere come essa finisce per diventare trasformazione. Ma bisogna tenere presente come questa trasformazione del rappresentato, che è frutto di una trasformazione dei suoi mezzi espressivi, sia radicata in una trasformazione che Picasso ha subito a contatto con le anime da lui ritratte, cioè che lo hanno più intensamente occupato.
Bisogna partire quindi dalla vita di Picasso, per rendersi conto del significato di questo passaggio dalla interpretazione alla trasformazione. Ora noi vogliamo svolgere delle nostre considerazioni su pochi ritratti, ma che riteniamo estremamente significati per osservare e capire questo passaggio. E questi ritratti sono in una relazione essenziale con la sua vita privata, con ciò che costituisce la radice della persona, e ciò vuol dire non solo l’amore, la sessualità, ma la passione che egli mette nel rapporto alle donne da lui amate, la forza con cui le ha amate, desiderate, osservate, il modo insomma in cui le sono entrate in lui stesso, e lo hanno trasformato e segnato proprio mentre più cercava di appropriarsi della loro anima, oltre che del loro corpo.
Una donna in particolare ha ritratto con maggior frequenza, e possiamo dedurne che lo abbia per un lungo periodo legato di più di tutte le altre a se stessa, Marie Therèse Walter, che egli ha conosciuto ormai divorziato e sulla soglia dei quarant’anni, allorché ella aveva appena diciotto anni. Era la figlia di uno svedese naturalizzato francese, ed aveva assunto tutte le caratteristiche fisiche del padre: era bionda, dagli occhi azzurri, con un viso dai lineamenti forti, e con un bellissimo corpo, alto e slanciato, dalle forme nordiche insomma, che per un latino come Picasso deve aver significato non semplicemente il più alto oggetto del desiderio sessuale, ma possiamo dire, piuttosto, della sua aspirazione estetica; cosa che un biologo può spiegare forse come l’istinto biologico al potenziamento di sé stesso, un antropologo come l’interiorizzazione psichica del messaggio genetico, un sociologo come l’aspirazione all’innalzamento nella scala sociale, o via dicendo; e che Platone spiega invece come la forza invincibile ed incostringibile dell’Eros, la divinità più segreta e folle, ma che costituisce la base di ogni impulso vitale. E Picasso tenne nascosta questa relazione, che durò per decenni, e da cui ebbe anche una bambina; è certo una delle donne che più ha amato nell’arco di tutta la sua vita.
Il primo ritratto che vogliamo considerare è quello in cui la trasformazione del soggetto rappresentato è già avvenuta, Marie Therèse leaning on the Elbow (Marie Therèse nell’arcobaleno, 1939, olio su tela, Collezione privata).
Che egli abbia voluto ritrarre il suo volto su di un arcobaleno, indicato dal lilla e dal verde che ricoprono e dividono a metà la parte superiore del quadro, vuol dire che egli ha sentito quello di cui parla Platone, il suo sentirsi spinto con lei fino al sommo del cielo, la dove per incanto vengono svelate le meraviglie della luce e dei suoi colori. Ma di fronte alla bellezza del viso di Marie Therèse impallidiscono anche i colori dell’arcobaleno; dove sono infatti gli altri colori dell’arcobaleno, oltre al lilla ed al verde? Dove sono il rosso, il giallo ed il blu? Essi sono nel viso di Marie Therèse, nel blu dei suoi occhi, nel biondo dei suoi capelli, nel rosso delle sue labbra; essi sono tolti all’arcobaleno, a cui rimane solo il rosso ed il verde, perché appunto nel suo viso splendono più che nell’arcobaleno. E nei suoi occhi blu, di un blu bello come quello del mare del Nord, e nelle sue labbra piene di rosso smagliante, si concentra tutta la bellezza del quadro. Il naso molto acuto di Marie Therèse è stato del tutto spostato al di fuori del suo viso, deformando in tal modo il suo volto: ma questo non sembra affatto renderlo meno bello. Qui Picasso non usa il sistema altrimenti da lui escogitato, e solitamente usato, di dividere in due il volto, tagliandolo a metà attraverso il profilo del naso, della bocca e del mento, in modo da contrapporre il profilo ed il volto, e far risaltare, in modo deformante, questa giustapposizione del profilo e dell’altra parte del viso, ed ottenere l’effetto di un volto che si interroga su se stesso, o di una terza dimensione che il pittore vorrebbe rappresentare a tutti i costi, per abbracciare tutta la realtà sfuggente della persona, nella molteplicità dei suoi aspetti. No, qui il naso di Marie Therèse è come trasportato fuori dal viso insieme all’occhio al di sopra di esso, che forma così un profilo privo della bocca; l’occhio guarda in una direzione completamente opposta all’altro occhio, e non, come avviene di solito, verso l’altra parte del volto: questo, naturalmente, per diversi scopi, uno dei quali è far risaltare il naso estremamente acuto, che costituiva per Picasso una particolarità indelebile della personalità psicofisica della donna amata. Evidentemente Picasso è stato spinto a questa trasformazione del volto da questa peculiarità di Marie Therèse, che gli si era impressa nell’anima, e da cui non poteva liberarsi nel pensare a lei e nel ritrarla; questa traccia lasciata nella sua anima, quasi una trasformazione da lui subita, lo ha portato alla trasformazione dei suoi mezzi espressivi, ed infine del ritratto di Marie Therèse.
Ma questo non è tutto quel che possiamo vedere da questo quadro; riprendiamo perciò a considerare il ritratto. L’ovale del viso, di un bel rosa incarnato, viene ad avere un solo, grande occhio, al di sopra della bocca; quest’occhio guarda nella direzione retta, e come si è detto in una direzione diversa dall’altro occhio che guarda a sinistra. Tutto questo, dal punto di vista estetico, serve ad aumentare lo splendore degli occhi di Marie Therèse, che possono diventare estremamente grandi in queste due diverse posizioni, e possono così «rubare» tutto il blu dell’arcobaleno; e lo stesso vale poi per il rosso della bocca. Questo aver trasportato il naso al di fuori dell’ovale del viso risponde dunque ad un interesse estetico, ovvero serve a rendere molto più bello il viso di Marie Therèse, anche se sembrerebbe, a prima vista, un orribile caricatura. Ma bisogna guardare bene, ed allora si vede come Picasso abbia voluto nascondere ed insieme far risaltare in modo più intenso del comune ritratto tutta la sua bellezza. Abbiamo infatti degli altri ritratti a matita di Marie Therèse, ove il suo viso ci appare stilizzato, bello come una Madonna del Quattrocento; ma è una semplice bellezza, che non ha nulla da nascondere, e perciò neanche nulla da dare. Se noi osserviamo questi ritratti a matita vediamo che il bell’ovale del volto è lo stesso di questo ritratto: solo che qui il naso è stato raddoppiato, e una metà è stata spostata al di fuori dell’ovale; questo ha permesso di ingrandire gli occhi e la bocca, e renderli più splendenti dell’arcobaleno. Questo elemento di disturbo qui introdotto serve dunque a rendere più problematica, meno usuale, la bellezza del volto della donna amata, ed insieme a conferirle quel carattere di bellezza che conviene solo a lei, e che costituisce il suo autentico ritratto.
Curiosità filosofica: non dobbiamo dimenticare che in uno dei più grandi dialoghi strettamente filosofici di Platone, il Teeteto, la definizione della conoscenza faticosamente ricercata per tutto il dialogo fallisce alla fine perché nella definizione di Teeteto, data dal punto di vista discorsivo, non si riesce ad includere la camusità particolare di Teeteto, che lo distingue da quella di Socrate!2 Questo per dire come la trasformazione non è semplice trasformazione dell’oggetto sulla base della propria interpretazione soggettiva, ma una trasformazione che risponde alla conoscenza essenziale del soggetto raffigurato.
Ma c’è un ultimo motivo di interesse in questo quadro. Perché, possiamo ancora chiederci, Picasso qui non sdoppia, o non raddoppia il volto nel profilo da un lato, e nel viso intero dall’altro, come di solito fa? Questo mezzo da lui incessantemente adoperato serve ad esprimere un motivo fondamentale del ritratto; negli occhi si esprime infatti la coscienza della persona, questo è quanto il ritratto aveva sempre cercato di realizzare, dal rinascimento in poi; ma Picasso vuol fare qualcosa di più con il suo nuovo mezzo espressivo: egli vuole, con lo sdoppiamento del volto, rappresentare non la coscienza della persona, ma la sua autocoscienza. Questo è estremamente chiaro in un ritratto che era presente alla mostra, Dora Maar seating (Dora Maar seduta, 1937, olio su tela, Musée Picasso, Parigi).
Questo ritratto ha naturalmente dei colori molto diversi da quelli dell’arcobaleno, con cui egli compone i ritratti di Marie Therèse: qui sono il nero, ed il giallo cromo, ed il lilla, con dei riflessi appena percettibili di verde a dominare, e questo naturalmente serve a far risaltare il carattere forte e vivo, o se vogliamo esplosivo della donna. Ma c’è un elemento di maggior interesse nel ritratto del viso, che qui è appunto diviso in due, e mostra il profilo separato e rivolto contro l’altra metà del volto. Dora Maar è la classica donna americana sicura di sé ed autocosciente, con cui Picasso passerà dei brevi periodi durante la guerra, mentre è ancora con Marie Therèse; questa diversità del carattere tra le due donne viene da lui non solo avvertita, ma tematicamente espressa nel ritratto di Dora Maar. Qui infatti non solo il profilo staccato dal volto è rivolto non in fuori, ma verso l’altra metà del volto, ma è l’occhio del profilo a guardare chiaramente verso l’altro occhio, che invece guarda in avanti. E come l’occhio è lo specchio dell’anima, cioè della nostra coscienza, così l’occhio che guarda nell’occhio è il simbolo fisico per la coscienza che guarda nella coscienza, ovvero per l’autocoscienza.3
Questo non avviene mai nei ritratti di Marie Therèse, ed è anche chiaro perché. Marie Therèse è una donna dall’animo spontaneo e semplice, una donna che vive della sua bellezza e dell’armonia dolce e quieta del suo essere, la donna europea degli anni venti, rispetto alla donna americana degli anni cinquanta. In nessun altro dei ritratti di Picasso è così chiaro come in questo ritratto di Sarah il guardare dell’occhio nell’altro occhio, o della coscienza nella propria coscienza. Questo non deve naturalmente essere un motivo di preferenza per una donna o per l’altra, per uno o l’altro tipo di educazione, o di personalità; l’artista guarda semplicemente le due donne, e nota la loro differenza. Se volessimo invece porci il problema, allora non ci sarebbe niente di meglio per esprimere un giudizio che la sentenza di Nietzsche rivolta a Lou Salomè: «diventa quello che sei». L’autocoscienza è il divenire della coscienza nella sua autenticità, l’acquisizione di sé; questo non implica necessariamente cambiamento oggettivo, ma solo la certezza interiore, che può essere la calma accettazione della propria essenza. Solo chi è sicuro di sé non ha bisogno di dimostrare questa sicurezza, non ha bisogno di «emanciparsi», o lottare per la propria emancipazione. Questa è solo la sua interiore presa di coscienza di sé, il divenire quello che si è.
Che cosa sia l’essere di Marie Therèse, ovvero cogliere la sua autentica personalità, è ciò che occupa ancora per molto tempo Picasso nei suoi ritratti. Ne avevamo, alla mostra, ancora uno molto bello, The Dream (Il sogno, 1932, olio su tela, Collezione privata).
Qui Picasso ha diviso il volto di Marie Therèse che dorme in modo che la parte posteriore del viso reclinato, che rimane bianca ed è divisa dall’altra parte del viso da una riga nera che parte dalla tende verde in alto, ci dà il profilo di un volto che dorme in un sonno profondo; ma se la prendiamo assieme alla seconda metà del viso, la parte superiore del capo reclinato, allora questa impressione scompare, ed il quadro nella sua totalità ci dà un volto beato di donna appena assopita e sognante. La maestria di Picasso sta nell’aver saputo staccare e fondere insieme le due parti del viso, tanto che possiamo percepire appena la differenza della prima parte di esso dalla seconda, se guardiamo il viso nel suo insieme; ma se facciamo attenzione alla riga che divide le due parti, allora vediamo due visi veramente diversi, uno quello della prima metà, che dorme un sonno profondissimo, l’altro quello dell’intero, che dorme invece di sonno beato e sognante.
Ma un altro elemento importante di questo quadro sono i colori. La seconda metà del viso è infatti di un coloro lilla, che lo stacca dalla prima metà ancor più della marcata riga nera che li divide; questo lilla, che continua ancora nel collo e nelle braccia, confina dalla parte del viso con la tende verde della finestra, e ci ricorda così, per l’accoppiamento con questo verde, i colori dell’arcobaleno del primo ritratto di cui abbiamo parlato. Marie Therèse non dorme semplicemente, secondo questa seconda metà del viso: ella sogna, ed il suo sogno la porta in alto nel cielo, nell’arcobaleno che l’artista sente di abitare insieme a lei, perché il loro essere assieme è un sogno, ed il sogno è essere in questo arcobaleno celeste che è l’amore. Sogno e realtà; realtà del sogno, l’arcobaleno. Non mancano infatti anche gli altri colori dell’arcobaleno; abbiamo ancora il giallo nei capelli, e nella poltrona su cui Marie Therèse è sdraiata; il rosso vivo nella poltrona e nella bocca; il blu in una striscia che stranamente circonda il collo ed il braccio destro, e poi in una specie di grembiule che ricopre l’addome di Marie Therèse. È lo stesso blu che nel primo ritratto si trovava negli occhi, ad essere passato nell’addome attraverso la linea blu che parte appunto dal viso con gli occhi chiusi; una chiara associazione degli occhi con il pube, come ad indicare la stretta affinità delle cose che Picasso ha più care. Si tratta di una associazione secondaria, scaturita dall’inconscio dell’artista, o di una associazione primaria, secondo la distinzione di Freud? Nell’arte, ed in particolare nell’arte moderna, non si può mai forse distinguere tra associazione primaria e secondaria. Le mani congiunte proprio nel pube, e la riga blu che circonda le dita, e da queste si diparte, per arrivare sino al collo, sembrano voler confermare questa associazione; dal quadro emana comunque una forte carica di sensualità.
Questa carica di sensualità anzi meglio, di sessualità, si trova in un altro ritratto di Marie Therèse, Sleeping nude (Nudo dormiente, 1932, olio su tela, Musée Picasso, Parigi).
Qui troviamo la donna sdraiata su di un letto (se riusciamo a mettere insieme le varie icone che li compongono), di fronte ad una finestra, dalla quale traspare una luna gialla e piena (anche queste debbono comunque essere indoviniate nell’insieme della composizione abbastanza surrealista). Il centro del quadro è formato dalle due sfere che rappresentano il seno di Marie Therèse, ed al di sopra delle quali si intravedono i suoi corti capelli biondi; ma essi sono staccati dal capo, che è costituito da un ovale, una specie di zucca in cui sono ritagliati appena il naso, un orecchio, e la bocca, e sono riportate due macchie di colore lilla e verde). Ma il vero centro, l’elemento dominante del quadro, è costituito dalle curve che rappresentano il sedere di Marie Therèse, che giace appunto reclinata su di un fianco. ed il cui volume è messo in risalto da sfumature di verde. Qui tutta la sensualità latina di Picasso esplode in un immortale canto alla bellezza, alla divinità dell’eros; il quadro è come un rimbombare di questa sensualità. Perciò esso non può essere semplicemente la rappresentazione del corpo di Marie Therèse, e tanto meno la rappresentazione classica. Ora la tesi di Rubin è che il quadro è a questo punto la trasformazione del soggetto rappresentato, e che in questa rappresentazione Picasso è più interessato a se stesso che al soggetto; il che vorrebbe dire semplicemente che Picasso esprime attraverso il linguaggio iconico solamente le proprie sensazioni, la propria sensualità. Ora tutto ciò è dir troppo poco, ovvero è restare a quanto la rappresentazione è sempre stata, espressione della propria soggettività.
Secondo la nostra interpretazione del quadro invece, e dell’arte di Picasso, la trasformazione è un passo ulteriore, che comporta anzitutto la trasformazione di se stesso e dei propri mezzi espressivi. Potremmo dire che questa trasformazione di se stesso è il risultato di una riflessione sui propri mezzi espressivi, e che questa riflessione lo porta a vedere l’inadeguatezza della rappresentazione usuale; ma questo ci porterebbe a dire che l’arte è un processo di esclusiva riflessione sui propri mezzi espressivi. O possiamo dire invece che Picasso è questa trasformazione è il risultato del fatto che Picasso è interessato semplicemente a se stesso, cioè a quello che sente; ma allora abbiamo perso del tutto il rapporto al soggetto rappresentato. Il quadro è invece in questa continua tensione tra il soggetto rappresentato, l’interesse che l’artista ha per esso, e la riflessione su di sé, cioè sul proprio sentire e sul modo in cui trovare i mezzi, o il linguaggio più appropriato per esprimere questa tensione tra se stesso e il soggetto rappresentato. È la presenza di Marie Therèse che costituisce il tema del quadro, e con questa presenza la tensione erotica in cui l’artista si trova. La volontà di rappresentare tutto questo insieme e la riflessione sul modo della rappresentazione mostrano a Picasso che egli deve trasformare se stesso per esprimere adeguatamente il tema dell’Eros, ovvero trasformare il proprio linguaggio, i propri mezzi espressivi; ed è il suo genio di artista che lo porta ad inventare questo nuovo linguaggio iconico, tramite il quale egli può aumentare enormemente l’effetto erotico del quadro senza cadere nel triviale o nel banale. Ma se egli ha trasformato non tanto l’oggetto, quanto il proprio modo di esprimere il soggetto rappresentato, questo non vuol dire che il quadro non sia dopo tutto ancora rappresentazione, e che la trasformazione del suo proprio linguaggio (ed il linguaggio richiede sempre educazione linguistica) non abbia come fine fondamentale la rappresentazione.
Un esame degli altri elementi del quadro in oggetto ce ne può facilmente convincere. Il quadro è, dicevamo, un rimbombare della propria sensualità attorno al corpo di Marie Therèse. Questo rimbombare è rappresentato da vari elementi, anzitutto la luna piena che risplende fuori della finestra, e che sembra coronare il sedere di Marie Therèse; poi l’accentuazione, il rimbombo continuo di questa sensualità ci è dato dalle braccia che circondano il corpo, in particolare il braccio sinistro che forma come un’aureola intorno al suo capo; quindi dal cuscino, anch’esso una nuova aureola del capo; poi dal braccio destro anch’esso chiuso a forma di ovale, e infine dalla forma ovale dell’addome. Le due sfere del seno, al centro, che brillano di rosso e di verde, i due colori della vita, sono come le due bombe che producono l’esplosione di questa sensualità, che si ripercuote in onde che continuamente sviluppano il suo rimbombare, e terminano poi in piccole onde al margine della figura, il mare tranquillo in cui esplode la sensualità di Marie Therèse nel resto della rappresentazione.
Ma altri particolare del quadro dimostrano l’interesse rappresentativo nel nuovo linguaggio iconico. La gamba destra, al di sotto del pube sembra un elemento a sé stante, staccata dall’altra parte del corpo da una foglia che sembrerebbe andare, come nella rappresentazione classica del nudo, a ricoprire il pube. Sembrerebbe, perché in realtà non avviene; questa gamba destra è poi reduplicata in parte nella rappresentazione della parte posteriore del corpo rigirata su di sé; ma questa rappresentazione della parte posteriore di Marie Therèse, rigirata sul fianco, è completamente sovrapposta alla posizione del corpo altrimenti giacente in modo frontale, senza alcuna reale connessione: ciò serve solo all’effetto erotico della rappresentazione. La foglia che stacca la gamba destra dalla sinistra è abbinata ad un’altra foglia, ed entrambe sono tenute in mano da Marie Therèse; ma la mano destra sembra trattenere anche un’altra cosa, una specie di pergamena arrotolata: sono forse le lenzuola arrotolate, che sono così stilizzate e portate al linguaggio iconico. Al di sotto delle foglie una mela ed una pera. L’associazione tra il lenzuolo arrotolato e la foglia tenuta in mano che arriva quasi a coprire il pube è un’allusione non solo al modo di coprire il sesso proprio della rappresentazione classica, ed al suo naturale pudore, ma, visto che la foglia non copre poi il pube ed il sesso, al fatto che la foglia è subentrata nella rappresentazione al posto del lenzuolo, ovvero che la natura, la foglia, non ha bisogno di essere pudica. Questa impressione è rafforzata dalla mela e dalla pera, icone della vita, poste sotto quest’ultima foglia. Non si tratta quindi di semplice trasformazione, come vediamo, ma di una trasformazione dei mezzi espressivi al fine di una potenziata rappresentazione del tema, ovvero della tensione (erotica, qui) tra il rappresentate ed il rappresentato.
Un altro stupendo quadro della mostra era Girl before a mirror (Ragazza di fronte allo specchio, 1932, olio su tela, Museum of Modern Art, New York).
Qui siamo di fronte ad una sconcertante vitalità di colori e di forme che si rincorrono, si richiamano, e si ricompongono, come in una esaltante sinfonia. La fantasia ed il genio di Picasso si lascia tentare da uno dei soggetti più noti della pittura, la donna di fronte allo specchio, che è ancora Marie Therèse. La figura allo specchio pone naturalmente il problema della riflessione, non solo della luce e dell’immagine, ma a un genio di artista-pensatore come Picasso, anche il problema della riflessione su di sé e della autocoscienza.
Nello specchiera ovale della fine degli anni venti, sostenuta da colonnine laterali, Marie Therèse, la figura reale, non soltanto vede, ma sembra voler abbracciare se stessa. In quel groviglio di forme e di colori che è il quadro vediamo, nel braccio sinistro di Marie Therèse levato in alto, che afferra l’estremità destra dello specchio, l’asta che sorregge l’ovale; questo braccio si riflette in una striscia color lilla, circondata di azzurro; l’azzurro è naturalmente là per simboleggiare la luce che si riflette nello specchio, ovvero il fatto che lo specchio incolore riflette il cielo, e lo troviamo anche abbondantemente in tutto lo specchio; ma è anche il blu dell’arcobaleno, che Picasso sempre associa a Marie Therèse. Questo blu circonda infatti il braccio color lilla, il volto color rosso e lilla e tutta la parte destra del corpo dell’immagine riflessa, fino all’addome. Ma, oltre al tema dell’arcobaleno, avvertiamo una strana corrispondenza di colori, oltre che di forme, tra l’immagine reale e l’immagine riflessa. Infatti al blu ed al lilla dello specchio, è mescolata una striscia verde che circonda il capo dell’immagine riflessa: sono i capelli di Marie Therèse, che nell’immagine reale sono biondi; questa striscia termina in una pera verde posata sul capo. Il lilla chiaro quasi bianco del braccio diventa lilla acceso nel quadro, e così pure il lilla quasi bianco del viso dell’immagine reale diventa lilla acceso e rosso nell’immagine riflessa. Nella riflessione dello specchio tutto è più acceso e più forte, più carico di rosso; per questo i capelli biondi diventano verdi, il lilla chiaro diventa fucsia o violetto, ma anche più cupo, per la presenza del blu. Il rosso ed il blu formano il tema dell’immagine riflessa, e si contrastano infatti palesemente nella parte inferiore dello specchio. E di tutto ciò dobbiamo chiederci il significato.
Ma passiamo ora alla corrispondenza delle forme. Al centro del quadro abbiamo un singolare incrociarsi del braccio destro della figura di fronte allo specchio con la figura riflessa nello specchio; il braccio destro è reduplicato nella figura reale; infatti esso è costituito anzitutto da strisce rosse verticali su fondo nero, come se nelle braccia Marie Therèse indossasse una maglietta a strisce. Ma in realtà, poiché questo braccio parte dal collo di Marie Therèse e sostiene il suo seno prosperoso, vediamo che queste strisce rosse sono le costole dello sterno, che si prolungano a forma di braccio fino allo specchio, e formando così come una lunetta che sostiene il seno; all’estremità di questa lunetta parte un’altra lunetta a strisce rosse, che dà l’illusione di essere l’immagine riflessa del braccio di Marie Therèse, una illusione nella illusione, poiché non si tratta del rispecchiamento del braccio, ma delle ossa dello sterno. In realtà nello stesso punto in cui queste due lunette si incontrano, inizia il braccio destro della figura reale, anch’esso in lilla chiaro, che afferra l’altra asta della specchiera, come il sinistro, ma sembra in realtà voler abbracciare la propria immagine riflessa. Questo braccio però è come tagliato a metà, e l’altra metà di esso, di un color lilla acceso, è il reale braccio della figura riflessa, che sembra a sua volta voler abbracciare l’immagine reale. Tutto sembra a prima vista estremamente sconnesso, come negli ultimi quadri di Cezanne, eppure tutto è estremamente connesso e studiato, fin nei minimi particolari delle linee e del colore, per formare un linguaggio iconico.4
Il braccio color lilla termina infatti in una striscia verde, che si protrae oltre lo specchio, e va quasi a raggiungere una sfera verde posta sopra il seno della figura reale: una mela? Un’immagine della vita che l’immagine riflessa non può raggiungere? Il seno dell’immagine riflessa è un seno cadente, al disotto del braccio, o delle ossa dello sterno. Ma dobbiamo ancora esaminare il resto della figura per poter dare un giudizio su queste corrispondenze. L’immagine reale è costituita poi dal corpo di Marie Therèse visti di profilo e tagliato in due, la parte superiore destra leggermente verde, a strisce orizzontali nere; queste rappresentano come risulta anche da altri quadri, le costole della schiena. La parte destra è in lilla chiaro, come il viso, e ritrae l’addome, abbastanza gonfio; una sfera al centro della parte inferiore, dallo spesso contorno nero sulla destra (sul lilla) e leggermente nero e verde sulla destra, è una chiara rappresentazione dell’embrione portato in grembo, della maternità. Questo viene ripetuto nella immagine riflessa, ma come il seno in questa sembra essere cascante, al di sotto delle ossa dello sterno, così qui anche l’addome in cui si riconosce chiaramente l’embrione materno, appare cadente.
Infine, guardiamo il viso di Marie Therèse reale; esso è visto di profilo, ed è circondato da una aureola chiara e dall’altra metà del viso che è di un giallo intenso con una macchia rossa; cioè, l’altra metà del viso, che Picasso cerca sempre di cogliere oltre il profilo, è come un sole splendente. Che cosa vediamo invece nell’altra immagine? Qui la fronte è dipinta di rosso, colore complementare al verde dei capelli, e del frutto che è posato sulla sua fronte, e corrisponde alla mela sul seno della figura reale; e questo rosso continua fin sull’occhio e sulla prima parte del naso, poi finisce in un segno circonflesso, come in una lacrima al di sotto dell’occhio. È questo rosso segno del pudore che Marie Therèse prova di fronte alla propria immagine nuda? Od è solo una corrispondenza del rosso fuoco del sole che troviamo nella seconda metà del viso della figura reale? È un riflesso del fulgore della vita e della maternità della donna, od è semplicemente una lacrima che le scorre sul viso, al pensiero della maternità? Un pensiero che implica certamente gioia, ma anche la fatica della maternità, e la conseguente messa alla prova del proprio corpo e della propria bellezza, che ora Marie Therèse vede riflessa nello specchio? È il pensiero che il suo corpo invecchierà e diverrà cadente dopo aver deposto il frutto della vita, a produrre questa lacrima, ed i toni marcatamente più violenti e più cupi dell’immagine riflessa vogliono indicare tutto questo? Così che mentre la figura reale si protrae ad abbracciare al figura riflessa, cioè il proprio futuro, la vita che verrà, riceve da questa indietro una lacrima di tristezza?
Il quadro ci lascia ben aperta, anzi secondo noi in modo abbastanza indicativo, queste possibilità di lettura, soprattutto per un particolare iconico: il frutto che è sopra il naso della immagine allo specchio, cioè nella sua testa, il bambino, corrisponde al frutto, la mela verde che si trova sopra il senso rigoglioso della figura reale di Marie Therèse: l’immagine riflessa è in realtà non la semplice riflessione dello specchio, ma la riflessione della nostra coscienza, che ci restituisce attraverso il pensiero, in questo caso il pensiero del futuro, l’immediatezza della realtà; ma quel che la riflessione ci restituisce è una realtà trasformata, carica di tutte le conseguenze future che il pensiero porta con sé, in questo caso le conseguenze della rigogliosità della vita e della bellezza di Marie Therèse, e cioè le conseguenze della maternità. Questo è quanto Picasso, a nostro modo di vedere, ci vuol significare, adoperando il tema tradizionale della donna allo specchio; e per farci intendere tutto questo egli deve adoperare dei nuovi mezzi espressivi, che parlino in modo più diretto, che significhino, come delle icone, quel che egli vuol dire nella rappresentazione, poiché il linguaggio di questa non ha un suo significato proprio, pari a quello del linguaggio fonico convenzionale. L’icona infatti indica in modo immediato, più direttamente della immagine simbolica, e quasi come il segno fonico, quel che essa vuol significare. Non si tratta dunque semplicemente di trasformazione del soggetto rappresentato, ma di trasformazione di sé, dei propri mezzi espressivi, che egli ritiene necessari per poter spiegare quello che il quadro tradizionale non avrebbe mai potuto esprimere, certo non in modo intellettualistico, ma con tutta la forza inventiva della sua fantasia e la ricchezza degli accordi di colore della sua sensibilità pittorica.
Nel tema della coscienza di sé rientra anche l’ultimo ritratto di Marie Therèse che si poteva ammirare alla mostra; il ritratto Woman on the Pillow (Donna sul cuscino, olio su tela, Museo Picasso, Parigi), datato 1969.
Picasso, se questa fosse la data reale della composizione del quadro, avrebbe avuto oltre ottant’anni, e Marie Therèse oltre sessanta. Che si tratti comunque del ritratto di Marie Therèse ci è testimoniato dal tratto robusto, inconfondibile, del suo naso (ed alla mostra era esibito infatti come ritratto di lei). Non possiamo dire comunque che il corpo di Marie Therèse sia distrutto dall’età; esso è forse segnato dall’età, ma si vedono ancora nelle forme estremamente plastiche i tratti di un bel corpo. Esso non è un corpo avvizzito, ma ripiegato su stesso. Il tema è ancora quello della coscienza di sé o della riflessione, e sembra che anche Marie Therèse sia diventata ormai una donna autocosciente; anche nel ritratto del suo volto abbiamo ormai un occhio che guarda verso l’interno, verso di sé. Solo che questo sguardo non è quello di Dora Maar, sprizzante attrazione, fascino, sicurezza di sé, giovinezza; per di più l’occhio che guarda verso di sé non è rivolto esattamente verso l’altro occhio, anzi non lo incontra affatto; quest’altro occhio guarda ancora in un altra direzione, ma non verso l’infinito, quanto piuttosto verso l’ignoto. E lo sguardo che guarda in sé è uno sguardo molto profondo, velato di tristezza forse, ma più che altro della rassegnata coscienza del proprio essere, della propria età, l’età in cui non si guarda più in avanti ormai, perché tutto si conosce, ma si guarda indietro, per prendere coscienza del vero significato della vita, ora che questa si sta per concludere; del significato che essa ha nel suo limite rispetto alla totalità della vita, ora che la visione e l’aspettativa della morte ci pone di fronte a questa impellente domanda sul senso del tutto.
Anche Picasso è vecchio, anzi molto più vecchio di lei; è lui, più che lei, a trovarsi immediatamente confrontato con la fine, la conclusione della vita, ed il significato della vita nel suo tutto. E qui sembra che dobbiamo dar ragione a Rubin: sembra che nel ritrarre Marie Therèse Picasso sia interessato a se stesso, o ponga in lei quei pensieri che sono i suoi pensieri, quei sentimenti che sono i suoi sentimenti. Ma egli trasporta questa domanda e questo stato d’animo in Marie Therèse, perché ella ha significato per lui l’amore della vita, in tutta la sua pienezza, forza, bellezza. Ed è il fatto che in Marie Therèse la bellezza della vita cominci essa stessa ad invecchiare che viene a ripercuotersi in lui ed a provocare in lui quella trasformazione interiore che egli vuol poi esprimere nel quadro. Ella è ritratta comunque in posizione fetale, il braccio destro sopra la spalla, ad abbracciare dal di dietro la testa. È la stessa posizione che appare in Gauguin, in infinite variazioni ed immagini, dalla Eva od ondina bretone in poi, come l’altra faccia o l’altro lato della donna giovane, che prima eleva in alto il suo braccio per tuffarsi nelle onde della vita, e poi lo ritrae e lo ripiega sulle spalle per recingere il capo e proteggersi dalla visone delle sue conseguenze; per nascondersi la visone della morte, o per meditare sul senso di essa. È la posizione fetale della mummia peruviana da Gauguin vista al Museo di antropologia del Trocadero, che fa la sua ultima apparizione nel quadro Donde veniamo, che cosa siamo, dove andiamo, e ci offre qui un classico esempio di intercontestualità, dato che Picasso conosceva bene Gauguin, fin da giovane, e lo amava.5
Dunque anche Marie Therèse ci appare, a sessant’anni suonati, il corpo ancora plastico, ma ritirato in se stesso, in questa posizione riflessiva; quello che l’immagine allo specchio le aveva predetto, le si sta ora rivelando in tutta la sua stringente inesorabilità. Un velo di blu passava sopra i colori dell’immagine allo specchio, e questo quadro non ha che il blu, nelle sue varie sfumature tra il grigio ed il bianco perla. È il colore, ed anche l’atmosfera del suo primo periodo blu, come se alla fine della sua vita Picasso volesse ritornare alla propria origine. Ma se credessimo che egli sta qui pensando solo a se stesso, e che nell’ultimo ritratto di Marie Therèse è interessato solo a se stesso, sbaglieremmo, o meglio perderemmo l’autentico interesse del quadro, il suo soggetto che ne forma il tema. Il rapporto a Marie Therèse è essenziale: è il ricordo della sua bellezza ed il pensiero di che cosa ella può ancora essere e pensare che forma il motivo del quadro. Picasso morirà dopo appena quattro anni, e prima di morire ha voluto ancora ritrarre la donna che per lui ha simbolizzato la gioia della vita, come donna che pone a lui l’ultima questione sul senso della nostra esistenza. Può la bellezza vincere la vecchiaia? Può la pienezza della vita andare oltre il suo limite, e vincere la morte? Questa riflessione forma il motivo del quadro, e per esprimerla Picasso deve trasformare ancora i suoi mezzi espressivi, e ritornare al suo periodo blu, congiungendo la fine con l’inizio, per aver in tal modo la totalità dell’esistenza. E la trasformazione agisce qui sul soggetto rappresentato in senso contrario: Marie Therèse non può avere, a sessant’anni suonati, ancora un corpo così plastico; ma questo è il modo in cui il pittore la ricorda, ovvero questo è il tema del quadro, la sua intrinseca riflessione, e per questo Picasso deve dipingerla ancora giovane.
Certo, neanche la bellezza può vincere la vecchiaia e la morte, anche la bellezza ha una fine. In questo volto di Marie Therèse vediamo tutta la sua rassegnata serenità, velata appena, ma comunque velata, da un velo di tristezza. Ma il volto è, come sempre, doppio: la tristezza appena velata è nel profilo, e nell’occhio che guarda in se stesso; ma Marie Therèse ha un altro occhio, che guarda, nel primo ritratto, in una direzione che dicevamo essere quella del lontano infinito. Qui questo occhio è posto al di sopra dell’occhio scrutante in se stessa, della riflessione; esso sembra guardare a sua volta l’occhio scrutante, ovvero la riflessione, dall’alto. La forza e le pienezza della vita immediata, che ha costituito l’essere di Marie Therèse, può guardare dall’alto la domanda triste ed inquieta sulla fine, e sul senso della nostra esistenza. Essa ha una fiducia in sé, una fiducia nella vita datale dall’amore, che l’occhio autocosciente, l’occhio che guarda nell’altro occhio (nel ritratto di Dora Maar), forse non può avere. La vita che guarda verso l’infinito ha un valore più alto della riflessione, anche se per attingerlo ha anche bisogno della riflessione. Ed essa fa sì che la trasformazione di noi stessi, così come la trasformazione dell’artista (dei suoi mezzi espressivi), possa alla fine terminare in questo ritorno all’origine, in una rappresentazione che è la più serena accettazione di sé.
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Cfr. in proposito F. Nietzsche, La gaia scienza, tr. it. a cura di F.Masini e M.Montinari, Milano, 1967; M. Heidegger, Essere e tempo, tr.it. a cura di P. Chiodi, Milano, 1953, §§ 31-34; H.G.Gadamer, L’attualità del bello, tr.it. a cura di R. Dottori, Genova, 1984; La persuasività della letteratura, tr.it. a cura di R. Dottori, Bologna-Ancona, 1988. ↩︎
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Cfr. Teet., 209 a-210 b; qui si mostra come la hermeneia tes diapherotates, ovvero la interpretazione della differenza ultima della cosa, in cui consisterebbe il suo Logos, o definizione, è una impresa che non può riuscire: perché è appunto questione della semplice percezione e del segno che ha lasciato impresso nella memoria. ↩︎
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Quanto a Picasso fosse chiara l’importanza fondamentale degli occhi per il ritratto ci è detto da lui stesso in colloquio con Brassai, a proposito dei volti che quest’ultimo ritraeva con due o tre fori ricavati su di una superficie di stucco: «Anch’io ho dipinto spesso delle facce simili. Chi le incide va diritto ai segni. Due fori sono il segno di un volto, bastano a evocarlo senza rappresentarlo. Ma non è strano che si possa evocare un volto servendosi di mezzi tanto semplici? Due fori sono una grande astrazione, se si pensa alla complessità dell’uomo. La più assoluta astrazione, forse, è il massimo della realtà.» Cfr. Brassai, Conversasions avec Picasso, Paris, 1964, pp. 290-91. Cit. da Jean Clair, Il nudo e la norma. Klimt e Picasso nel 1907, Milano 1988. Per un esempio di un volto costruito solo sulla base dei due occhi, uno del quale guarda nell’altro, pensiamo alla scultura donata da Picasso alla Università di Princeton, e colà esposta, nel Campus, di fronte alla Pinacoteca. ↩︎
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Di linguaggio iconico a proposito di Picasso, in particolare a proposito della rappresentazione della donna, parla lo stesso Rubin, cfr. W. Rubin, From narrative to “iconic” in Picasso: The Buried Allegory in “Bread and Fruitidisch on a Table” and the role of “Les Damoiselles d’Avignon”, in «The Art Bulletin», LXV, 1983, p. 615; cfr. anche la critica, in proposito, di W. Hofmann, Reflexions sur l’“Iconisation” à propos des “Demoiselles d’Avignon”, in: «La revue de l’Art», 1986, pp. 33-42. ↩︎
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Ho studiato il significato del continuo ritornare di questa immagine, sulla base della documentazione già esistente, nel mio saggio, Paul Gauguin: Il Contemporaneo ed il primitivo, Aesthetica-Preprint, Palermo, 1989. ↩︎