La morte: enigma e paradosso

Molti sono i prodigi e nulla è più prodigioso dell’uomo, che varca il mare canuto sospinto dal vento tempestoso del sud fra le onde penetrando che infuriano d’attorno, e la più eccelsa fra gli dei la Terra imperitura infaticabile, consuma volgendo l’aratro anno dopo anno e con l’equina prole rivolta. Degl’ilari uccelli la specie e le stirpi delle bestie selvagge e la prole del mare accerchia e cattura nelle spire attorte delle reti astutamente l’uomo; e doma con la sua arte la fiera che ha il silvestre covile fra i monti e piega al giogo il collo del cavallo dall’irsuta criniera e dell’infaticabile toro montano. E apprese la parola e l’aureo pensiero e impulsi civili e come fuggire i dardi degli aperti geli e delle piogge. D’ogni risorsa è armato, né inerme mai verso il futuro si avvia solo dall’Ade scampo non troverà.1

Come testimonia Sofocle, l’uomo è sempre stato considerato la specie astuta per eccellenza, la specie che grazie al suo intelletto ha saputo adattare il mondo che lo circonda alle sue esigenze imparando a coltivare, a navigare, a catturare gli animali e a servirsene per i suoi bisogni; l’uomo sembra, dunque, essere l’animale che più si avvicina all’onnipotenza divina.

In Sofocle si legge, infatti, che l’uomo è essere terribile e prodigioso a causa della sua astuzia, a causa di quella temibile sagacia che consiste nell’essere «pantóporos», nell’essere, cioè, ricco di risorse, nell’avere la capacità di trovare nuove strade da percorrere. Proprio questa specie, dunque, che si differenzia dalle altre per l’abilità nello scovare soluzioni, per l’inarrestabile capacità di procedere oltre sfidando qualsiasi condizione fisica e morale, si deve, anch’essa arrendere di fronte alla somma aporía (lett. senza strada), al più radicale dei vicoli ciechi, alla definitiva impasse: la morte.

Fin dalle origini della cultura occidentale, quindi, la morte è sempre stata considerata come qualcosa di coappartenente alla natura umana, un evento non solo ineliminabile ma addirittura caratterizzante l’essere dell’uomo anche in positivo: non solo annichilimento bruto ma condicio sine qua non proprio di quell’impulso vitale di cui, ad un primo sguardo, sembra l’esatto opposto.

Si delinea, dunque, già da queste prime battute, un orizzonte dove l’uomo non solo è definitivamente e necessariamente mortale, ma dove lo stesso diviene, grazie alla sua coscienza di esserlo, «il mortale», concezione avallata, tra l’altro, anche filologicamente dall’utilizzo del termine brotói (mortali) come sinonimo di «uomini».

La specie umana è, quindi, l’unica ad essere veramente mortale perché l’unica ad avere gli occhi costantemente puntati verso quell’attimo fatale.

1. Le origini di un enigma

A pensarci bene, tuttavia, tale considerazione, tanto ovvia razionalmente, non sembra tranquillizzarci nella vita di tutti i giorni e nemmeno, alla luce di questo, potremo garantire un comportamento tranquillo e distaccato di fronte al sommo istante della nostra esistenza. Per capire la causa dello scandalo della morte, perché vera e propria scandalosità è quella che ci offende di fronte alla vista di un cadavere completamente pietrificato, bisogna, dunque, muoverci al di sotto di quel piano razionale che abbiamo visto non offrirci nessuna effettiva spiegazione e consolazione. Questo piano non può che essere rappresentato, quindi, che da quel nucleo di primitivismo irrazionale, o meglio pre-razionale, che permane in ognuno di noi; il piano, cioè, degli impulsi istintivi. Potremo dunque, chiaramente, interrogare chi più di chiunque altro ha meditato su tali aspetti della psiche umana. Mi sto riferendo a Sigmund Freud il quale in alcune sue opere2 ha messo in luce magistralmente l’importanza di tali forze inconsce che si riveleranno essere, almeno in questo caso, un vero e proprio conflitto psicologico.

Secondo Freud l’uomo primitivo, che in quanto a pulsioni e istinti non differisce assolutamente dall’uomo contemporaneo, ha radicata dentro di sé una forte tensione alla distruzione e all’odio, forse legata a quell’aspetto concorrenziale e agonistico che caratterizzava sicuramente la selezione naturale. Anche tralasciando ulteriori passioni altrettanto forti che possono complicare tale impulso, come il complesso edipico per esempio, l’uomo primitivo non trova particolari difficoltà a concepire la morte dell’Altro, né gli crea particolare imbarazzo il constatare come il cadavere si riveli alla fine nient’altro che carne soggetta, anch’essa, alle leggi naturale della degenerazione.

Per quanto riguarda, invece, la propria morte non si fatica a comprendere come fosse, già allora, caratterizzata da quell’estrema irrappresentabilità nella quale ci imbattiamo ancora oggi quando pensiamo all’attimo in cui saremo noi a spegnerci.

C’era, però, un caso in cui la morte dell’Altro, coincidendo con quella del sé, poteva offrire una rappresentazione di tale evento; tale situazione era quella in cui, a morire, era l’amata, il figlio, il padre o chiunque altro fosse particolarmente legato a questi. L’uomo primitivo faceva, così, esperienza di una sensazione nuova, di un profondo paradosso radicato dentro di sé: se da un lato

doveva apprendere che anche noi stessi possiamo morire, e tutto il suo essere si rivoltava contro questa possibilità; giacché ogni uno di questi esseri amati era pure una parte del suo stesso diletto Io. Dall’altra parte questa stessa morte gli stava bene, giacché ciascuno di queste persone amate era pure per un certo verso estraneo. La legge dell’ambivalenza emotiva, che domina ancor’oggi i nostri sentimenti verso le persone che amiamo di più, valeva certamente in forma anche più illimitata nei tempi primordiali.3

L’uomo primigenio, dunque, di fronte al cadavere della persona amata non prova più quel senso di potenza e di vittoria che assaporava di fronte alla morte del nemico ma gli si pone davanti un enigma, un conflitto di passioni, il dramma di dover giustificarsi e spiegarsi tale morte.4 L’uomo dovette così immaginare un’alternativa a quella degenerazione del corpo che osservava nella morte degli altri, doveva trovare una via d’uscita a quel macabro spettacolo, perlomeno nel caso della morte di un suo caro, che alla fine era solo un pretesto per pensare la propria morte altrimenti inimmaginabile. Tale scorciatoia, e ritorna così il «pantóporos» anticipato da Sofocle, lo trovò nell’invenzione dello spirito. Lo spirito offriva, infatti, l’occasione per separare l’essenza della persona amata da quel desolante spettacolo di putrescenza che assaliva il corpo del defunto e permetteva, così, una non rassegnata visione della morte rendendo possibile addirittura un universo parallelo, una vita ulteriore dove potesse esistere tale spirito separatosi ormai dal corpo. «Divenne allora logico prolungare la vita anche nel passato, immaginando le esistenze anteriori, la trasmigrazione delle anime e le reincarnazioni: tutto allo scopo di togliere alla morte il significato di annullamento della vita».5

Con questo, Freud, delinea psicanaliticamente la nascita di quel conflitto che, non solo viene ad essere fondamentale per l’interpretazione di ogni forma di totemismo — riscontrabile sia nelle primitive società ancestrali che in alcune moderne pratiche religiose, come l’eucaristia per esempio — ma viene definita addirittura da Freud come il cardine, il crocevia di ogni teoria o diagnosi psicanalitica. Non solo; l’impossibilità di guardare in faccia la morte nella sua nudità viene, dunque, ad essere anche causa della nascita del concetto di religione.

2. Kierkegaard: un approccio più intimistico

Eppure, se a questo punto riusciamo a capire il significato e l’origine di gran parte dei nostri atti morali, come ad esempio l’imperativo «non uccidere», nato proprio da quel senso di colpa di fronte al cadavere e che sorge dallo stesso conflitto descritto in precedenza, dobbiamo ammettere che anche queste spiegazioni alla fine servono a ben poco e dentro di noi permane quell’inquietudine, quelle incertezze riguardo l’attimo estremo. Si ha come l’impressione che, alla fine, il problema sia ancora sfocato, si sia spostato verso l’Altro, non abbia centrato completamente l’obiettivo e non sia riuscito, così, ad attrarre completamente il nostro interesse, forse, proprio perché in Freud sembra sfuggire il nostro vissuto esistenziale.

A questo punto la nostra ricerca sembra già finita, sembra segnare come esito l’impossibilità di fissare lo sguardo in un problema tanto radicale, l’incapacità di parlare sensatamente di un evento che lascia letteralmente senza parole — non a caso anche nel mondo moderno la parola «morte» si è cercato di sostituirla con eufemismi e modi di dire codificati dalla società come, ad esempio, «essere passato a miglior vita», «essere dipartito», «essere mancato»… come se, alla fine, queste frasi fatte e tutta una serie di rituali, dalle condoglianze alle prediche rassicuranti quanto fataliste delle religioni, volessero offrirci delle risposte prefabbricate, cercando in tutti i modi di distoglierci da una riflessione autonoma.

Superando Freud dobbiamo, dunque, ammettere che

è vero e proprio dolore quello che si prova quando lo scomparso era carne della tua carne, sono le doglie del parto della speranza immortale quelle che si provano quando la morta era la tua amata, è l’esplodere sconvolgente della serietà quella che si trova quando il defunto era la tua unica guida e la solitudine ti assale. Ma fosse anche tuo figlio, fosse anche la tua amata e fosse anche la tua unica guida, è pur sempre uno stato d’animo […] Serietà è pensare veramente la morte, pensarla cioè come la tua sorte, e comprendere così ciò che la morte non può farti comprendere: che tu sei e che la morte parimenti è.6

Grazie alle parole di Kierkegaard si illumina allora un’altra strada che possiamo, a questo punto, intraprendere ed è quella strada che vede e vuole la morte come mia possibilità, come l’evento più intimo e personale di tutta la mia vita, rivelandosi, così, già ad un primo sguardo, un percorso molto più impegnativo di quelle distaccate considerazioni che abbiamo svolto in precedenza per investirsi e per problematizzarci in toto.

Da un approccio così personalistico ed intimistico alla morte non può che emergere, quindi, una condizione assai difficile da sopportare, un orizzonte completamente votato alla negatività di definizioni come l’inspiegabilità, l’indeterminabilità, l’imprevedibilità, l’irrappresentabilità.

3. Digressione storico-filosofica

È nostro dovere però sottolineare, anche, che tale desolante condizione, benché la morte sia rimasta sempre costantemente presente nella vita dell’uomo, è stata soggetta a grandi variazioni e, a questo punto, mi sembra fondamentale per capire il significato dell’Evento, ripercorrere almeno nelle linee essenziali tali cambiamenti.

Il periodo dove sono decisamente più abbondanti le riflessioni sulla morte, tanto da farle uscire dalla tradizionale nicchia filosofico-letteraria per andare ad investire non solo le arti ma la vita stessa e la quotidianità delle persone, è il medioevo. In questo periodo era tanta la confidenza con la morte, e con i morti, che uno storico come Philippe Ariès la definisce una «morte addomesticata».7 La morte è vista, infatti, come qualcosa di normale e da accettare serenamente: alla morte non c’è via di scampo.

Tali considerazioni sono evidenti in numerose opere letterarie e pittoriche di quel tempo, e non a caso è proprio nel medioevo che nasce l’arte macabra, la danza macabra, il tema del trionfo della morte, e così via. Un quadro che rappresenta magistralmente tale concezione è Il trionfo della morte di Pieter Bruegel il Vecchio (1562 circa).

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In un panorama di distruzione, di disfacimento totale la morte torna nel mondo dei vivi; entra irruenta sorprendendo la vita nelle sue azioni quotidiane, ed è già scenario da Apocalisse: fumo nero e fuoco all’orizzonte anticipano l’avanzare inarrestabile di qualcosa di tremendo, dell’annichilimento totale, della distruzione più completa. La morte si fa annunciare da rulli di tamburi e rintocchi di campane, ma è già troppo tardi per scappare: attraversa la folla, sopra un cavallo scheletrito, e con la sua falce miete vittime senza far differenza tra giovani o vecchi, poveri o ricchi e ogni tentativo di rivolta si rivela una vana speranza. In basso a sinistra la morte sorregge beffardamente un ecclesiastico: non vuole salvarlo, ma rialzarlo per farlo morire alle sue condizioni; accanto, uno scheletro mostra la clessidra ad un imperatore ricordandogli quanto il suo potere sia vano di fronte a tale inarrestabile forza, mentre un altro affonda le mani scheletrite in botti colme di monete d’oro e d’argento. In questo angolo, dunque, la morte ci vuole insegnare come nulla ci potrà salvare da tale momento e come si dimostreranno inutili fedi religiose, potere politico, potere economico mentre ogni classe, ogni ceto, ogni personalità verranno appianate e livellate da questa ineluttabile quanto crudele massificazione. All’angolo opposto vengono, poi, vanificati anche i piaceri più mondani: il tavolo da gioco è rovesciato; i due amanti, intenti a cantare e amoreggiare, vengono anch’essi sorpresi da una morte quasi divertita dalla sua crudeltà.

Non solo, tali temi si ritroveranno perfettamente inalterati anche nella letteratura, nelle tante elaborazioni del tema dell’incontro tra i vivi e i morti dove si legge:

Io son per nome chiamata morte ferisco a chi tocca sorte, non c’è uomo così forte che da me possa scappare […] Nella giustizia ho fatto il mio fondamento, né oro né argento né regalo mi potrà far pentire della mia via di verità […] (Il vivo:) Cosa vale a me la bellezza, castelli, oro o fortezza, avessi pure il mondo in mia potestà per te ogni cosa mi converrebbe lasciare […]8

La morte, nella psicologia collettiva medievale, è, allora, l’«evento certo» per eccellenza, la livella che pareggia ogni divisione, un avvenimento che, per la sua normalità, bisogna aspettare sereni, al punto che, nella letteratura contemporanea, questa era sempre annunciata da simboli, da segni naturali e ci si disponeva a morire attraverso rituali ben codificati.

La morte era «addomesticata», conosciuta ed accettata, quasi volentieri; così a Roncisvalle Orlando «sente che la morte lo prende tutto. Dalla testa scende verso il cuore […] sente che il suo tempo è finito»,9 Tristano «sentì che la sua vita si perdeva, comprese che stava per morire»;10 non solo, «A Roncisvalle l’arcivescovo Turpino attende la morte stando disteso, sul petto, bene al centro, ha incrociato le sua bianche mani, così belle. È l’atteggiamento delle statue di giacenti a partire dal XII secolo. Nel cristianesimo primitivo, il morto era rappresentato con le braccia tese nella posa di chi prega. Si aspetta la morte stando distesi, giacendo»,11 e «il moribondo dev’essere sdraiato sul dorso, affinché il suo viso guardi sempre il cielo».12

Come si può immaginare i rituali, l’accettazione e la considerazione della morte sono decisamente cambiati nel corso dei secoli e soprattutto in un secolo come il Novecento la cui caratteristica fondamentale è stata la messa in discussione di ogni categoria, di ogni sistema tradizionale e la sperimentazione verso nuove ed alternative strade. A questo dobbiamo poi aggiungere che, sicuramente, la caduta di ogni idealismo passato, il crollo di qualsiasi sistema tradizionalmente accettato e la nascita e lo sviluppo di una società di massa, come la nostra, altamente globalizzata e contaminata, accentua paurosamente quello smarrimento che ci prende di fronte ad un evento tanto tragico.

Oggi la morte è decisamente vista come una rottura, come una deficienza della nostra struttura originaria, è vista come una malattia da combattere (e d’altra parte ci spingono a tali illusioni alcune posizioni eccessivamente positiviste ed ottimistiche di certi scienziati decisamente poco professionali). Non solo, da un lato la società massificata ci fa perdere qualsiasi punto di riferimento, qualsiasi gruppo sociale in cui riconoscersi, dall’altro la scienza e la tecnica hanno reso noto come la morte possa venire a noi dal mondo dell’invisibilmente piccolo (virus, batteri, …) o dell’invisibilmente lontano (bombe, proiettili, …). Tutto questo ha fatto in modo che la nostra visione della morte, comunque trasformatasi anche tra medioevo ed età contemporanea, subisse un’accelerazione verso le categorie dell’ignoto, dell’imprevedibile, dell’insopportabile.

Proprio a causa di questa nostra testarda quanto illusa incapacità di una serena accettazione ci troviamo, così, di fronte a due atteggiamenti fondamentali nei confronti di tale evento: da una parte si tende a minimizzare, a nascondere ogni dolore, a mentire per continuare a far parte di quella «società del benessere» caratterizzata dalla felicità, dalle capacità personali, che non può quindi tollerare il dolore e le debolezze di ognuno di noi. Non solo, ma verso tale atteggiamento siamo, anche, spinti dalla distanza del luogo di morte (l’ospedale e non più la casa) e dallo sfaldamento del concetto stesso ora scisso in una morte cerebrale, cardio-circolatoria, respiratoria […] Dall’altra parte, in alternativa a questa «morte proibita»,13 caratterizzato, inoltre, dall’usanza della cremazione come metodo più semplice e veloce per far scomparire il dolore ed il lutto, ci troviamo di fronte ad un’eccessiva e quasi nevrotica attenzione per il ricordo e la memoria caratterizzata da un’esplosione, soprattutto ottocentesca, di tombe monumentali (esempio paradigmatico sicuramente il Père Lachaise), dalla pratica dell’imbalsamazione del cadavere, frequente ancora oggi nei paesi anglosassoni, ma soprattutto da un ritorno di certe dimostrazioni di eccessivo attaccamento che spesso sfociano in una sorta di «lutto isterico» esemplificato magistralmente dal film di F. Truffaut La camera verde.

Oggi la morte è un male, un virus, che acquista inoltre la temibilità del sommo «e-vento», di qualcosa, cioè, che viene da un punto incommensurabilmente lontano e buio ed è proprio da questa sua caratteristica che ne dipende il suo giungere sempre e comunque inaspettato.

Il carattere imprevedibile della morte dipende dal fatto che essa non si situa in alcun orizzonte. Non si lascia prendere. Mi prende senza lasciarmi la possibilità che lasci la lotta, infatti, nella lotta reciproca, io riesco ad afferrare chi mi prende. Nella morte sono esposto alla violenza assoluta, all’omicidio nella notte […] la morte mi minaccia dall’al di là.14

La morte viene dunque ad acquistare quei caratteri di cui si parlava prima di questo excursus storico-filosofico quali l’indeterminabilità, l’inspiegabilità, l’imprevedibilità, l’irrappresentabilità.

Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde.15

4. Serietà e consapevolezza nella finitudine

Giunti, così, di fronte a tale risultato aporetico, costretti ad una quasi completa afasia davanti a questo sommo paradosso possiamo trovare la forza di proseguire solo sforzandoci di vedere la positività della morte nella sua capacità di dare forma e significato. Recuperando la parola di Kierkegaard dobbiamo dunque ammettere che serietà è vivere la vita tenendo presente che la morte può giungere da un momento all’altro: ora, tra un mese, tra ottant’anni e la paradossalità più grande sta proprio nel pensare che pur passando il tempo ed avvicinandosi, di conseguenza, il momento della dipartita tale evento resta sempre inevitabilmente incalcolabile ed imprevedibile. Serietà è, dunque, la presa di coscienza della precarietà nella quale viviamo e riuscire, anzi, ad apprezzarla proprio perché casualità irripetibile. Serietà è riconoscere, infine, che la finitudine che ci circonda, non solo a livello fisico, non è una limitazione ma caratteristica principale di quella precarietà nella quale siamo letteralmente immersi; oltre all’evento della morte c’è ben poco di certo nella vita di un uomo ma dobbiamo renderci conto che è proprio la limitatezza di questo essere sempre e costantemente insicuri che rende unico un tramonto, un’emozione, una giornata altrimenti tanto banali quanto monotona.

Contestai però al poeta pessimista che la caducità del bello comporti uno svilimento. Al contrario, un aumento di valore! Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento ne aumenta la preziosità.16

Poiché tale considerazioni diventino ancora più chiare basta, allora, confrontare la nostra condizione di finitudine, di limitatezza con un’ipotetica immortalità. Facilmente si comprende che, se fossimo immortali, la nostra vita si spegnerebbe: si potrebbero rimandare costantemente certi appuntamenti, si potrebbero fare e rifare centinaia di volte esperienze altrimenti uniche ed irripetibili, si perderebbe quella ebbrezza che ci prende di fronte alla scelte più importanti, dato che in un tempo infinito si avrebbe la possibilità di percorrere e ripercorrere ogni strada.

Tutto tra i mortali ha il valore dell’irrecuperabile e del casuale. Tra gl’immortali, invece, ogni atto (e ogni pensiero) è l’eco d’altri che nel passato lo precedettero […] o il fedele presagio di altri che nel futuro lo ripeteranno fino alla vertigine.17

Ritorna, dunque, quella significatività della morte di cui avevamo parlato già all’inizio: la morte non è solo la dimostrazione di una nostra scarsezza, di una nostra indigenza ma come ogni limite svolge anche la funzione di delineare, di dare forma alla nostra vita che resterebbe, altrimenti, un’accozzaglia disordinata di eventi ed azioni (a titolo d’esempio dobbiamo tener presente come il confine non sia soltanto la fine di un territorio, di un campo da gioco, di una forma geometrica ma anche quella delimitazione che dà forma e fa emergere tale oggetto da un piano altrimenti muto e monotono permettendogli così d’esistere).

L’essere umano viene, infatti, definito dal maggior filosofo del secolo appena conclusosi, Martin Heidegger, come un essere-per-la-morte (Sein zum Tode) dove la morte viene ad essere quel sommo evento che pende su di noi fin già dalla nascita e che viene a concretizzarsi come «la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci». La morte viene, così, ad essere la stasi assoluta, il definitivo e inevitabile blocco di qualsiasi mia possibilità e l’irrimediabile trasformazione di quella caotica concrezione di scelte, eventi, azioni e reazioni, che caratterizza la nostra vita, in materia muta ed immobile. La scandalosità della morte, e torno a ripeterlo, sta proprio nel vedere un essere, fino a pochi istanti prima indaffarato tra le infinite possibilità che la vita dischiude ad ogni istante, ormai divenuto cosa, reificato, incapace di qualsiasi genere di azione, passivo quanto il più banale dei nostri oggetti quotidiani. Lo sguardo fisso del cadavere ci da la misura proprio di questa sua incapacità nel mettere a fuoco uno qualunque dei suoi possibili; la rigidezza del suo corpo è dimostrazione dell’impossibilità di qualunque scelta, di qualsiasi presa di posizione. Si capisce facilmente, così, perché oggi si sia costantemente dispersi nelle urgenze quotidiane, perché la routine delle occupazioni sembri fornirci un’oasi di tranquillità: la morte, oggi, non è più tollerata e qualsiasi stasi che possa, anche solo vagamente, assomigliare ad una, seppur temporanea, immobilità è severamente bandita dalla «società del benessere» di cui si parlava in precedenza. Non solo, la massificazione quotidiana ci offre, inoltre, un accogliente riparo ospitandoci sotto l’ala protettiva del «si» impersonale che ritroviamo ogni giorno nel «si deve», «si muore» …

5. Sartre: la morte come evento sociale

A questo punto per prendere ancora più coscienza di tale evento non ci resta che cercare di immaginarcelo in qualche maniera e, vista la palese impossibilità della sua rappresentazione su un piano teoretico, non possiamo che tentare tale impresa volgendo il nostro sguardo, questa volta, verso l’orizzonte etico ed interpersonale che, abbiamo visto, esserci già venuto in aiuto durante l’analisi freudiana. Tutto dev’essere, dunque, volto a fare in modo che io possa comprendere la morte come mia inevitabile e personalissima possibilità:

la morte così recuperata non resta solamente umana, diventa mia; interiorizzandosi si individualizza; non è più un grande sconosciuto che limita l’umano, ma è il fenomeno della mia vita personale che fa di questa vita una vita unica, cioè una vita che non ricomincia, dove non si può mai tornare indietro. Con ciò divento responsabile della mia morte, come della mia vita. Non del fenomeno empirico e contingente del trapasso, ma del carattere di finitezza che fa sì che la mia vita, come la mia morte, sia la mia vita.18

La morte, dunque, come si può comprendere da tali considerazioni è il mio evento per eccellenza e mai, nella mia vita, ci sarà un episodio tanto personale ed intimo. Approfondendo queste considerazioni, però, ci ritroviamo ancora una volta di fronte a quel carattere paradossale ed enigmatico, non solo ad un primo livello quando mi rendo conto che l’evento più personale della mia vita è proprio la cessazione di tale esistenza ma anche, proseguendo, comprendendo che tale «possibile annullamento dei miei possibili» esce completamente dalle mia possibilità, cioè, che tale eventuale stasi delle mie scelte e delle mia azioni non è, a sua volta, una scelta che io posso compiere. L’evento, anche sotto questa luce interpretativa, mantiene intatto, dunque, quel suo carattere di trascendenza radicato nel termine stesso (ex-venio, venire da…). La morte, cioè, può cogliermi ad ogni istante, paralizzando così ogni mia possibilità, ma ciò che è veramente paradossale è il fatto che tale eventualità non è una mia possibilità: io posso, cioè, compiere delle scelte che mi possono provocare, o mi potranno provocare, la morte, ma, di questa, io non potrò mai averne esperienza; né mi potrò mai vedere o sentire tanto reificato da non riuscire più a dar significato alcuno ai possibili che mi circondano: la Morte, l’ultima, inappellabile sentenza non è una mia esperienza.

Abituati a pensare che la morte per noi è nulla: perché ogni bene e ogni male risiede nella possibilità di sentirlo: ma la morte è perdita di sensazione … Il male, dunque, che più ci atterrisce, la morte, è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, e quando c’è la morte noi non ci siamo più. Pertanto essa è nulla per i vivi e per i morti, perché per quelli non c’è, e questi non sono più.19

Oltrepassando il piano fisico, nel quale tali considerazioni sembrerebbero tanto ovvie quanto opinabili, diventa chiaro come, di fronte al mio corpo senza vita, è l’Altro che diviene arbitro di me stesso, è l’Altro che esperisce personalmente la mia morte, ed è, infine, l’Altro che stabilisce se recuperarmi ogni giorno nella mia individualità o condannarmi all’oblio della massificazione (i grandi dittatori del novecento, gli idealisti del romanticismo piuttosto che Hitler o Lenin, Hegel o Schelling…). L’Altro viene, dunque, ad occupare quel ruolo di giudice della nostra vita che nei quadri medievali è spesso interpretato da piccoli angeli o demoni intenti a soppesare su una bilancia a due piatti le buone e le cattive azioni:

La nostra vita non è che una lunga attesa: attesa della realizzazione dei nostri fini, dapprima (essere impegnato in un’impresa significa attenderne la conclusione) attesa di noi stessi soprattutto (anche se questa impresa è realizzata, anche se ho saputo farmi amare, ottenere la tal onorificenza, il tal favore, resta da determinarsi il posto, il senso ed il valore di questa impresa stessa nella mia vita). Ciò non proviene da un difetto contingente della «natura» umana, da una nervosità che si impedirebbe di limitarci al presente e che potrebbe essere corretta dall’esercizio, ma dalla natura stessa del per sé che «è» nella misura in cui si temporalizza.20

L’Altro, in definitiva, è proprio quell’estensione che manca strutturalmente al per sé e che valuta, dà senso e significato in maniera definitiva, essendosi già compiuti tutti gli istanti di quella vita.

Possiamo dire, quindi, che, mentre se fossimo i soli abitanti di questo pianeta, o non conoscessimo l’esistenza di altri individui simili a noi, la morte sarebbe il definitivo cessare, non solo della nostra vita, ma di tutto quello che ci circonda, di tutto il creato; essendo inseriti, al contrario, in una società di nostri simili, ed intrattenendo costantemente con loro rapporti spesso anche molto complessi, «meditare sulla mia vita considerandola a partire dalla morte, sarebbe come meditare sulla mia soggettività prendendo su di essa il punto di vista dell’altro».21

Si ripropone, così, il carattere sociale di un’esperienza come la morte che ci spinge, quindi, ad incontrare nuovamente la paradossalità di tale evento che, ora, si presenta contemporaneamente come la manifestazione dell’assoluto individualismo più personale ed intimo e come l’esperienza che più di ogni altra, non solo ci accomuna con i nostri simili andando a creare un «noi» caratterizzato dalla condivisione della stessa inevitabile condizione, ma che ci pone, inoltre, alle dipendenze dei nostri compagni di sventura sia ad un livello prettamente psicologico di elaborazione del lutto (la morte dell’altro dove Altri ci consola, ci comprende, ci racconta la sua esperienza, …) che ad un livello più profondo e propriamente tanatologico (la morte di me medesimo).

6. La morte come ermeneutica del quotidiano

A questo punto, però, mi preme far notare anche un altro atteggiamento nei confronti della morte che, se da un lato è un’elaborazione per la maggior parte delle volte inconscia, dall’altro si presenta a noi con una regolarità stupefacente. Se abbiamo visto, in un’ottica prettamente esistenzialista, come la vita sia una costante scelta tra dei possibili che mi circondano e che si offrono gratuitamente al mio agire, se, dunque, la vita viene ad essere una costante lotta tra azioni e reazioni, molto spesso l’uomo sembra anche desiderare quel possibile capace di congelare i suoi possibili, sembra sognare, cioè, una via di fuga a tale costante responsabilizzazione così come il dormire continuo e sforzato sembra essere il miglior rimedio per persone colpite da certi stati psicologici alterati (quali la depressione, per esempio, consistente, appunto, in una cronica svogliatezza di fronte all’agire quotidiano). Ancora una volta, dunque, la morte, questo enigma insolvibile, ci offre il suo lato paradossale e, infatti, la ritroviamo abbondantemente nella letteratura, non solo non temuta ma addirittura desiderata.

Come corre, danza e si ritorce senza ragione la Vita, chiassosa ed impudente, sotto una luce scialba! Poi, appena la notte sale voluttuosa all’orizzonte e placa tutto, anche la fame, e cancella tutto, anche l’onta, il Poeta si dice: «Finalmente! Il mio spirito e il mio corpo ardentemente invocano il riposo; col cuore pieno di funebri sogni mi stendo supino e mi avvolgerò nei vostri veli, rinfrescanti tenebre!».22

Sembra, dunque, che in certi momenti l’uomo per immortalare alcuni pensieri, alcune sensazioni, per sfuggire alla costante temporalità progettuante, non abbia trovato modo migliore che anticiparne la morte: nasce, così, l’arte mnemonica che tenta di rendere eterne frasi, esperienze, sensazioni, proprio estrapolando queste dal continuo moto vitale, e così, a sua volta, la scrittura, la pittura e più recentemente la fotografia. Non è forse ovvio intendere la scrittura, dalla manifestazione più elementare dell’incisione del proprio nome sul banco di scuola alle scritte sui muri delle città o alle composizioni dei poeti, come il modo per eternizzare la mia esistenza, il mio amore, il mio pensiero proprio astraendolo da quella caotica impetuosità della vita stessa e sottolineando, così, quella peculiare staticità e incapacità di redimersi, perché già conclusasi perfettamente, tipica della morte?

Allo stesso modo il pittore che desidera immortalare, cioè rendere immortale, quel particolare sentimento che vede riflesso così bene in quel panorama o che vuole rendere eterno il volto di tale regina o tale amata non può fare a meno che immobilizzare tutto anticipatamente, togliere alle cose la loro capacità di cambiare, di cambiarsi. Ugualmente la fotografia, che ci permette, alle preste, di prendere coscienza di un’emozione, di un sorriso ormai morto in noi, di una parte del nostro carattere, di un nostro modo di vestire e di atteggiarsi ormai scomparso. E tutto questo proprio allo scopo di immortalare, di far scivolare tali episodi al di fuori di quella costante variabilità caratterizzante la vita, costretti proprio per questo alla loro uccisione, colpevoli, così, della loro morte prematura.

Di fronte ad un nostro scritto, ad un nostro ricordo, ad una nostra foto possiamo capire l’importanza attribuita da Sartre a l’Altro; ci facciamo, infatti, terza persona e giudichiamo su azioni, comportamenti ormai compiuti prendendo coscienza di quelle infinite micromorti individuali: sembra morta, infatti, quella parte di me che scopro leggendo una lettera della mia adolescenza, sembra morta quella parte di me che mi voleva vestito ed atteggiato in quella particolare maniera (esempio paradigmatico quando ci capita di rileggere le imbarazzate lettere d’amore della nostra adolescenza e tra vergogna e incredulità stentiamo e riconoscerci). Così, come nei rituali magici lo specchio e l’immagine hanno il potere di rubare l’anima, la fotografia, come la scrittura e la pittura, ha la capacità di oggettivarci e mostrarci in terza persona interpretando così il ruolo che svolge l’Altro di fronte alla nostra morte (parte chiaramente da qui quel fastidio che molte persone provano nell’essere fotografate o registrate che psicologicamente spesso si risolve in una vera e propria paura di morire).

Sembra, dunque, che non solo certe particolari manifestazioni più o meno artistiche abbiano in sé il concetto della morte, ma che in generale ogni azione, ogni pensiero dell’uomo, e soprattutto di quegli uomini conosciuti soltanto attraverso le loro opere ed il loro pensiero, sia un costante memento mori. Ciò che stupisce veramente è cercare di convincerci che personaggi come Nietzsche, Van Gogh, Chopin, Leonardo, Napoleone… siano vissuti realmente con le loro debolezze e paure, tra le grandi opere e le piccole banalità del quotidiano ma soprattutto che anche loro siano morti, che anche questi, che oggi sembrano salvati dall’eternità dei loro successi, siano giunti al cospetto di tale evento e che neanche dall’alto delle loro capacità siano riusciti a sottrarsi a tale fatalità.

7. La tragicità dell’incompiutezza

Avviandomi ormai alla conclusione, non mi sento decisamente in grado né di offrire una soluzione, né un imperativo, né un consiglio. La morte è un problema, come abbiamo visto, non solo tanto angoscioso quanto ignoto proprio perché collocato sul limite, a cavallo tra il tutto e il nulla, ma altrettanto complesso vista la paradossalità con cui si presenta nella nostra vita e l’infinità di approcci che riesce a supportare. La morte è l’evento limite, al confine tra il noto e l’inconoscibile e penso che mai e poi mai si potrà dire qualcosa di definitivo su tale evento, cosa che sarebbe già logicamente impossibile vista la nostra strutturale incapacità di esperirlo. Di fronte alla morte, inoltre, penso siano rari gli atteggiamenti lucidi e calcolanti; la maggior parte delle volte si hanno sensazioni ed emozioni né razionalmente spiegabili, né retoricamente persuasibili. Ogni individuo sente, in cuor suo, quindi, la paura di tale evento, il timore di soffrire, lo struggimento nel lasciare i suoi cari oppure la fiducia in una vita ultraterrena, la sicurezza che sarà un evento tanto repentino da non permetterci di rendercene conto, la rassegnazione verso un appuntamento che, come il respirare o il mangiare quotidiano, è caratteristica ineluttabile della nostra esistenza, ma sempre e comunque le spiegazioni di tali atteggiamenti saranno tanto ovvie quanto inconvincenti ed opinabili. Proprio per questo non voglio stabilire una linea di demarcazione tra il comportamento giusto e quello sbagliato, perché qualsiasi disposizione è lecita; ho solamente voluto ricordare alcune tra le posizioni, riguardo tale problema, che mi sembrano più significative. Siamo, dunque, di fronte ad un argomento che nessun libro potrà mai trattare in maniera esaustiva, un argomento infinito sia a causa dell’enorme mole di materiale prodottosi nei secoli che a causa della costante variazione di tale concetto nella psicologia delle persone.

La morte è, dunque, un argomento di fronte al quale non solo sarà impossibile giungere ad una conclusione definitiva e valevole per tutti, ma davanti al quale bisognerà anche riconoscere una nostra strutturale limitazione conoscitiva che ci permette di parlare con sicurezza solo dei fenomeni di cui abbiamo esperienza, costringendoci alla più completa incertezza soprattutto nei confronti di problemi tanto radicali. Desidero concludere, quindi, riportando un passo dal Faust di F. Pessoa23 tratto dall’ultimo atto, dove il protagonista, Faust, incarnante il libero intelletto, la speculazione spregiudicata, si trova davanti ad un insolvibile enigma quale la morte, costretto così a proclamare la sua, cioè la nostra, strutturale indigenza gnoseologica:

L’animale teme la morte perché vive, anche l’uomo e perché gli è ignota. Solo a me è dato di temerla con orrore perché conosco tutta la sua estensione e il suo mistero, perché misuro la sua infinita oscurità. Non che la conosco, certo, o la capisco; ma come nessun altro io misuro e so tutta l’estensione del suo mistero negro. Non furon fatte per questo mio dolore parole che lo esprimono, né sentimento che lo senta in quanto tale. Pena che trascende verbo e sentimento di cui Orrore è soltanto l’apparenza dell’esterno pensabile e sensibile. Indefinibile profondo sentimento che mi scappa quando io mi appresto ad analizzarlo e lascia solo un’ombra della fantasmatica luce fatta di buio alla quale devo chiudere gli occhi del mio animo. Perfettamente entra l’orrore nell’animo, ma un animo non può essere contenuto in questo orrore. oltre la banale paura del supremo annullamento c’è l’accettazione epica della morte, e al di là di entrambe, questo smarrimento d’anima in un oscurato e lucido terrore. … Il segreto del Cercare è che non si trova. Eterni mondi, infinitamente, gli uni negli altri; senza fine decorrono inutili. Noi, Dei, Dei di Dei; in essi intercalati e perduti neppure noi stessi nell’infinito troviamo. Tutto è sempre diverso, e sempre avanti agli uomini e agli Dei va l’incerta luce della verità suprema.24


  1. Sofocle, Antigone, tr. it. Franco Ferrari, Rizzoli, 1982, p. 83. ↩︎

  2. Per citare solo le più celebri, Totem e tabù, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, L’interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana↩︎

  3. Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, Bollati Boringhieri, 1994, p. 41. ↩︎

  4. Una descrizione esemplare di quella particolare empatia che si prova di fronte alla morte di una persona cara la si ritrova nell’episodio della morte di Socrate: «… E così dicendo, tutto d’un fiato, senza dar segni di disgusto, piacevolmente, vuotò la tazza fino in fondo. E i più di noi fino a quel momento erano riusciti alla meglio a trattenersi dal piangere; ma quando lo vedemmo bere, e che aveva bevuto, allora non più; e anche a me, contro ogni mio sforzo, le lacrime caddero giù a fiotti; e mi coprii il capo e piansi me stesso; che certo non lui piangevo, ma la sventura mia, di tale amico restavo abbandonato! E Critone, anche prima di me, non riuscendo a frenare il pianto, s’era alzato per andar via. E Apollodoro, che già anche prima non aveva mai lasciato di piangere, allora scoppiò in singhiozzi; e tanto piangeva e gemeva che niuno ci fu di noi li presenti che non se ne sentisse spezzare il cuore…» (Platone, Fedone, tr. it. Manara Valgimigli, 115a-118a, in Opere complete, vol. I, Laterza, 1988. ↩︎

  5. Sigmund Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, op. cit., p. 43. ↩︎

  6. Søren Kierkegaard, Accanto a una tomba, il Melangolo, 1999, p. 41. ↩︎

  7. Philippe Ariès, Storia della morte in occidente, Rizzoli, 1978. ↩︎

  8. «Io son per nome chiamata morte», Laudario sec. XVII. ↩︎

  9. La Chanson de Roland, Bédier, 1922, cap. CLXXIV, CLXXV, CLXVIII. ↩︎

  10. Le Roman de Tristan et Iseult, Bédier, 1946, p. 233. ↩︎

  11. Philippe Ariès, op. cit., p. 22. ↩︎

  12. G. Durand de Mende, Rationale divinorum officiorum↩︎

  13. Philippe Ariès, Storia della morte in occidente, op. cit. ↩︎

  14. Emmanuel Levinas, Totalità e infinito, a cura di S. Petrosino, Jaca Book, 1980, p. 239. ↩︎

  15. Gb 38, 11. ↩︎

  16. Sigmund Freud, «Caducità», in S. Freud, A. Einstein, Perché la guerra?, Bollati Boringhieri, 1990, p. 54. ↩︎

  17. Jorge Luís Borges, «L’immortale», in L’Aleph, Feltrinelli, 1999, p. 21. ↩︎

  18. Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. Giuseppe del Bo, Il Saggiatore, 1997, p. 593. ↩︎

  19. Epicuro, «Lettera a Meneceo», in Lettere. Sulla fisica, sul cielo e sulla felicità, tr. it. di Nicoletta Russello, Fabbri. ↩︎

  20. Jean-Paul Sartre, op. cit. , p. 598. ↩︎

  21. Ibidem, p. 606. ↩︎

  22. Charles Baudelaire, «La fine del giorno», in I fiori del male, tr. it. di C. Rendina, Newton & Compton, 1990. ↩︎

  23. Il cui titolo completo sarebbe in realtà Fausto. Tragédia Subjectiva↩︎

  24. Fernando Pessoa, Faust, Einaudi, 1991. ↩︎