In questo nostro breve articolo desideriamo suggerire un paragone tra un’opera del tardo Medioevo, Sant’Antonio tentato da una grande quantità d’oro, ed una celebre opera dell’arte espressionista, l’Urlo, mostrando come anche in epoca medievale alcune esperienze o situazioni, spesso considerate prerogativa esclusiva della contemporaneità, siano state esperite appieno. Il Medioevo ci si mostra, in tal modo, come un’epoca ricca e poliedrica capace di stimolarci in molti modi e sotto vari aspetti, rivelando un’attualità sorprendente.
L’Urlo di Munch è, senza dubbio, uno dei quadri più famosi al mondo, al pari della Gioconda di Leonardo, della Venere del Botticelli, della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer, delle vigorose spirali di colore di Van Gogh, della Marylin multicolore di Warhol. Una sorta di icona pop che si presta a molteplici caricature, spesso foriere di ilarità più che di angoscia.
Preludio della notte e dell’oscurità quel cielo infiammato all’orizzonte che sembra comprimere il paesaggio sul mare delle livide colline e della piaggia diserta dove si insinua il mare riflettente il cielo di un dorato fiammingo, quasi in una miscela dove tutto si mischia e, scivolando, si dissolve. Su di esso, arrivate quasi a riva, due barche, inconsistenti e scheletriche come carcasse. È un paesaggio che, liquido, scivola verso il basso, cola, carambola e si abbandona verso l’esito della propria transitorietà.
Il ponte sulla sinistra e la paratia, in modo simile anche se lineare, hanno lo stesso destino, sono un piano inclinato che in basso si precipita quasi superando il confine del quadro medesimo. La rigida paratia, dritta come un palo energicamente conficcato nel terreno, sembra perentoriamente indicare l’inesorabile direzione dell’intera transitorietà del tutto.1 Due figure, anonime, scure e slanciate, attraversano il ponte, anch’esse rigide come chiodi sulla tavola.
In primo piano una figura terrificante, ciò che resta di un uomo, uno spettro, un fantasma della nostra anima, espressione di un immaginario terrorizzato e angosciato, che sfoga urlando il suo terrore. La sua bocca è una O, onomatopea di un urlo di terrore, del terrore dell’uomo che precipita dal centro verso la X. Si stringe icasticamente con le mani le tempie, icona eloquente di terrore.
Nichilismo significa qui ciò che esso significa per Nietzsche nell’appunto che sta all’inizio della vecchia edizione del Wille zur Macht: la situazione nella quale l’uomo rotola via dal centro verso la X. Ma nichilismo in questa accezione è anche identico a quello definito da Heidegger: il processo nel quale, alla fine, dell’essere come tale non ne è più nulla. La definizione heideggeriana non concerne solo l’oblio dell’essere da parte dell’uomo, come se il nichilismo fosse solo la vicenda di un erramento, di un inganno o autoinganno della conoscenza, contro cui si possa far valere la solidità pur sempre attuale e presente dell’essere stesso, dimenticato ma non dissolto né scomparso. Ne la definizione nietzscheana né quella heideggeriana riguardano soltanto l’uomo, su un piano psicologico o sociologico. Anzi: che l’uomo rotoli via dal centro verso la X è possibile solo perché dell’essere come tale non ne è più nulla.2
Esprime per non comunicare, esprime l’incomunicabilità del proprio terrore, un terrore inesorabile dal quale non c’è via di fuga. Si va in rovina, ci si manda in rovina e il mondo stesso è scivoloso e viscoso, questa è l’unica terribile certezza, indicata dall’indirizzo, stavolta rigido, fisso, certo e perentorio, delle rette della paratia del ponte. Il busto dell’uomo medesimo si squaglia, non è conatus, nè morte eroica di Gericault, ma è transitorietà, cera che si squaglia sotto quel cielo infiammato non certo d’amore, ma quasi flusso di magma, fiume infernale. Presagio di tormenti futuri, come il Ritratto del poeta di George Grosz? Corpi anchilosati e nodosi che riflettono un uomo mostruoso e sofferente, echi di fisiognomiche durheriane e anticipazioni di tragedie annunciate?3 La fisiognomica umana prende plasticamente la forma del suo tormento, deformando il reale sulle tonalità esistenziali dell’animo attraverso il potere simbolico dell’immaginario.4
È una delle massime espressioni del Nichilismo, di un’interpretazione del mondo senza senso, in cui dell’essere non ne è più nulla in quanto l’uomo ha perso ogni certezza metafisica, e conoscere l’origine metafisica, così come insegnava Proclo, è conoscere veramente se stessi:
Infatti, se l’anima conosce se stessa, se d’altro lato tutto ciò che conosce se stesso si rivolge verso se stesso, se infine ciò che si rivolge verso se stesso né è un corpo (perché qualsiasi corpo non è in grado di rivolgersi verso se stesso) né è inseparabile dal corpo (infatti ciò che è inseparabile dal corpo non può per natura rivolgersi verso se stesso, perché nel farlo si separerebbe dal corpo), ne consegue che l’anima né è un’essenza corporea né è inseparabile dal corpo. Ora, che conosce se stessa è cosa evidente, perché, se conosce ciò che sta al di sopra di lei, a maggior ragione conosce per natura se stessa, ricavando la conoscenza dio sé dai principi causali che le sono anteriori.5
Perdendo la Verità dell’essere, l’uomo ha, pertanto, perso se stesso e si dissolve di fronte al proprio mistero, il quale non è più orizzonte luminoso, bensì abisso infondato. Quest’abisso infondato non è colmato dalla fonte della vita, dall’infinito amore, ma è inghiottito dal gorgo del nulla. La stessa morte di Dio può esser seriamente considerata come la mancanza di quel Valore Supremo di riferimento, in virtù del quale si generano tutti gli altri supremi valori. La metafora, archetipologicamente fondata, del Sole, che viene utilizzata sia da Platone che da Nietzsche, chiarisce bene il ruolo fondante di Dio: il valore supremo, Dio, stabilizza in una gerarchia tutti gli altri supremi valori. Il punto di riferimento nel divenire continuo, la stella polare dei viaggianti rassicura e dà senso e sapore all’itinerare umano.6
Con l’eclissi di questo principio supremo tutti i valori si svalorizzano, relativizzandosi non più all’interno di una stabile gerarchia, ma in un insensato ed amorfo divenire; nell’epoca del nichilismo non esiste più un fine, una determinazione stabile dell’essere, che permetta un’articolazione sensata del divenire e che realizzi una feconda armonia.7 Tutto si dissolve esattamente come il paesaggio dell’Urlo, in cui l’essere si scioglie assieme all’uomo che urla e, urlando, precipita verso il nulla.
La radice del Nichilismo, come ha acutamente sottolineato Vattimo, si mostra essere la mancanza di un fondamento supremo e la conseguente consumazione del valore d’uso in valore di scambio: l’essere è dissolto nel discorrere del valore di scambio, nel suo trasformarsi e convertirsi vertiginosamente. E la vertigine è quel gorgo del nulla in cui noi stessi affondiamo.8
A questo convertirsi del valore d’uso in valore di scambio ha tentato di rispondere in vari modi la cultura del Novecento, mostrandosi però debole nei confronti di tale inesorabile compimento del Nichilismo. Il valore di scambio, che si trasforma in continuazione, dilaga in un divenire continuo: le cose perdono il loro valore intrinseco e stabile, nonché il loro rinvio a cause supreme, e vengono sopraffatte dalla relatività delle circostanze; ogni darsi dell’essere diventa un valore di scambio, nel circolo vertiginoso in cui essere ed uomo perdono ogni carattere metafisico, stabile e positivo.9
Ma il Nichilismo, più che essere un’epoca e un destino ineluttabile, è una modalità del pensiero, un pensiero dimentico delle radici trascendenti dell’uomo e incurvato nel fluttuare temporale, nella transitorietà e mortalità delle cose, in cui l’uomo stesso diviene cosa tra le cose e perisce con esse.10
Simile all’Urlo è il Sant’Antonio tentato da una grande quantità d’oro, opera di un autore noto del primo Quattrocento di ambiente senese: il Maestro dell’Osservanza. Del maestro dell’Osservanza sappiamo poco, sembra originario del senese; un polittico con la Natività della Vergine lo abbiamo ad Asciano nel Museo Diocesano, in cui si nota un ambiente intimo, ameno, sospeso dal tempo. Quest’ambiente, dalla tenerissima intimità, è spazioso, lascia trapelare gli spazi delle retrostanti alla stanza del concepimento ed immaginare ambienti ulteriori. Così è anche la Messa di Sant’Antonio Abate, oggi alla Gemalde Galerie di Berlino, in cui gli ambienti spaziosi e luminosi sono dettagliatissimi e assai ricchi di particolari. Le colonne a strisce orizzontali bianche e nere, di stile gotico tipicamente italiano, si accordano, se bene si nota, con la appena accennata scrittura a nastro del messale, bellissima gotica rotunda italiana. Straordinario, oltre che per bellezza anche per il senso notturno, onirico e magico che suggerisce, il bellissimo cielo dipinto nelle volte a crociera in alto in fantastiche e favolose architetture gotiche. Il pavimento con romboidali motivi geometrici, nonché i gradini dell’altare ampliano il piano prospettico e fanno immaginare ciò che dietro le architetture si nasconde e non è dato alla vista. In secondo piano, fissato come in una nicchia tra le due colonne c’è un religioso che fissa un altare in profonda preghiera, questi stimola l’immaginazione e la asseconda nel suo immaginare ciò che non è dato alla vista, ma lasciato al sogno ed alla fantasia. Poesia, ricercatezza, eleganza delle forme allungate e gotiche, lirismo e magia si alleano in un melodico alternarsi in cui intimismo, intensità spirituale, magia dell’evento, luminosità, architetture gotiche irreali, ma sospese nel vagheggiamento dell’evento spirituale che ci eleva in una dimensione irreale, più che reale.
Nel Sant’Antonio tentato da una grande quantità d’oro, oggi al Metropolitan Museum of Art di New York, notiamo una straordinaria somiglianza con l’Urlo, e una profonda capacità di penetrare nei drammi dell’intimo umano. Quegli alberi spogli, senza vita né segno di rinascita, parvo germoglio, quasi pali conficcati nel terreno come croci di un improvvisato cimitero, che si replica laggiù nei monti in lontananza oltre il fiume, dove un piccolo vascello sembra riposare su un’acqua poco cristallina e melmosa, simile ad una palude stigia.11
Nel paesaggio domina un sentimento di spegnimento: la luce va scemando, proviene dal sole di un pallido tramonto invernale, che incombe minaccioso su spettrali torri medievali in lontananza. Le striature delle nubi, splendido particolare di un inverno tutto italiano, sono come un velo squarciato che apre allo scenario della luce diurna che si spegne e, con essa, si spegne anche l’anima.
Sgarbi opera un brillante parallelismo tra quest’opera e l’opera romantica di Friedrich Due uomini innanzi alla luna:
In opere come questa, il Maestro dell’Osservanza sembra dipingere in uno stato di grazia, che si estende a tutto il gruppo delle tavolette con le Storie di Sant’Antonio, in particolare in particolare in quella con il santo tentato da un mucchio d’oro in un paesaggio rarefatto, con gli alberi rinsecchiti interminabile per la proterva stagione invernale, sotto un indimenticabile cielo striato di nuvole al tramonto.12
Pittore di idilli romantici, qui il Maestro dell’Osservanza, nell’atmosfera di una terra stregata e favolosa, ci offre un’impressionante premonizione di Caspar David Friedrich, e ci disorienta, ci porta fuori dai confini della sua irriducibile sensibilità gotica.13
E il rosseggiante cielo striato, curva e striscia come il fiume in lontananza e come la strada che, costeggiando il fiume, scende verso il basso, colando oltre il quadro, come un sentiero scosceso che frana e sembra trascinare un attonito e terrorizzato anacoreta, che è in atto di ritrarsi dalla tentazione dell’oro. I due monti in primo piano sono come due quinte che aprono al paesaggio immenso verso il quale fugge lo sguardo, ma ne è come respinto dal movimento medesimo dell’intero cosmo che precipita verso il basso, colando liquefatto come il paesaggio dell’Urlo che precipita nel vuoto.14 Gli oggetti fissi come gli alberi secchi, rigidi e perentori, sono trascinati anch’essi in basso, attoniti come dei morti, in quanto legni senza resurrezione. Nulla in essi germoglia, sono spogli e senza vita, suggerendo il sordo rumore di rami spezzati, allorquando si cerca il calore del fuoco nelle rigide giornate d’inverno. Essi suggeriscono, come lo struggente Gennaio di Wols, tutto il rigore dell’inverno, richiamando metonimicamente varie sensazioni tattili, sonore ed olfattive. Tutta la realtà diviene, così simbolica, cioè espressione sensibile e coloristica di una tensione spirituale che rinvia all’insondabilità del nostro mistero, ad un livello spirituale superiore che si esprime in immagini simboliche, in cui è racchiusa la differenza di livello tra significante e significato, anche se interamente espressa in un modo plastico e dinamico, che stimola l’atto ermeneutico nella forma suprema della grande opera d’arte.15
Il carattere fortemente onirico dell’opera, solca così i confini delle epoche, gettando una luce su quel mistero che è l’uomo e su quell’abisso che costituisce il nostro io, il nostro stare di fronte a noi stessi. Se l’Arte contemporanea, in generale, nelle proprie provocazioni, rappresenta il tentativo dell’uomo di gettare una luce sul proprio mistero, il Maestro dell’Osservanza anticipa questo lume, giacché è conscio del mistero e traspone in immagini spettrali e in un gusto gotico il profondo tormento dell’uomo. Il tema della tentazione di un monaco asceta ed eremita, nel culmine della propria battaglia esistenziale e spirituale è adeguatissimo a pro porsi come archetipo del travaglio ineludibile, necessità interiore ineliminabile, che il percorso dell’autoconoscenza autentica comporta. In quest’esperienza di turbamento si addensano le nostre paure e i nostri più minacciosi interrogativi su quell’insopprimibile enigma che è l’umano esistere, su quell’ultima scommessa che concerne il senso fondamentale della vita. Il perché la nostra esistenza sia fondamentalmente qualcosa piuttosto che il nulla non si riduce al piano meramente ontico di ciò che è transitorio, ma investe la transitorietà nella sua totalità di significato, interrogandone l’esito e l’orizzonte ontologico. Quest’orizzonte ontologico è determinante nel momento in cui si trova di fronte al bivio tra il nulla e l’essere eterno. In questo bivio vi è lo spavento supremo, giacché il senso dell’esistenza non dipende da noi, ma ci vede in esso piuttosto gettati, o meglio, dipendenti da una realtà che ci trascende e ci supera. A riguardo ritornano illuminanti le parole di Gadamer nella sua ultima intervista tenuta con Riccardo Dottori:
Quando ognuno comincerà a sentire il pericolo su di sé, allora si può forse sperare che scocchi negli uomini una scintilla di ragionevolezza che li porti a comprendersi tra loro, sulla base di un concetto di trascendenza che conduca a interrogarsi sul perché noi nasciamo, senza che nessuno ce lo chieda, sul perché moriamo, senza che nessuno ce lo chieda, e così via.16
Tutta la poetica del Maestro dell’Osservanza è onirica, né propriamente medievale, né ancora rinascimentale, ma mondo a sé, che simbolicamente esprime i tormenti della nostra anima, lontana, e ciò in continuità con la mistica tradizione senese, da quell’opulento realismo storico che brillava in Firenze sotto il segno di Giotto e, prima ancora, di Cimabue — non che il realismo di questi grandi non ci interroghi sul nostro mistero, ma opera questa interrogazione in modi che in tale sede non affronteremo.17 Questo simbolismo è l’altra faccia del misticismo ricercato ed intellettuale di Duccio di Buoninsegna o di Simone Martini, è il lato tenebroso di ciò che il pensiero coglie oltre l’oro dell’eterno ove si annuncia la verità al pensiero. È il pensiero di fronte al peccato: nel pensiero prendono forma figure morte e spente, ma pur sempre rivelative della profonda verità dell’uomo. E il paesaggio evoca metonimico tutto il terrore e tutta l’angoscia di desolati scenari dell’anima, ove l’uomo appare solo tra le cose. Non vi sono ali angeliche a confortarlo, ma tutto fluisce liquido assecondando il suo tormento.18 Così come nell’Urlo, il paesaggio compie fluente una sorta di ansa sulla destra che plasticamente precipita poi verso il fondo.
Quell’incomunicabilità espressiva dello spettro dell’Urlo, che dietro le spalle ha due figure anonime e indifferenti, è qui proposto dalla presenza spettrale degli alberi e delle creature selvatiche, quasi indifferenti al tutto, ignare del loro sprofondare abissale.19
La posizione di Sant’Antonio è analoga a quella del protagonista dell’Urlo, posta in basso a ridosso dell’abisso, diretto spettatore dell’esito del franare del mondo e messo nella via, nel corso di questa caduta. Egli compie un gesto istintivo di riprovazione e di difesa, e il suo volto, corrucciato esprime un tormento profondo, che risuona in tutto il paesaggio, quasi una smorfia di dolore, espressiva di una ferita, di un tormento esistenziale profondo.20 La strada ciottolosa in cui è il Santo, è somigliantissima al piano inclinato del ponte in cui si trova l’uomo dell’Urlo: entrambi esprimono nella loro espressione la consapevolezza del dramma nichilistico dell’essere e del reale che si dissolve, ed angosciati ne rivelano l’intima essenza. Lungi da scenari apollinei e da atmosfere attiche, stabili, eterne e rassicuranti, essi non trovano nel mondo la bella forma, ma la cupa tenebra giacchè il mondo è il proprio abisso e mistero, il suo punto di fuga è il calare verso l’ignoto. Nel mondo è dunque espressa l’interiorità, il senso di smarrimento e terrore, un terrore letto nell’aspetto della propria perentorietà e ineluttabilità. Questo terrore si presenta come assoluto e, pertanto, non comunicabile, giacchè non si sviluppa progressivamente verso il dialogo con l’altro che è dis-correre e superare, ma rotola e frana verso la morte inesorabile.
La bella forma non è l’esito apollineo dell’abisso dionisiaco, forma di platee teatrali, di scenari caldi mediterranei, di passioni politiche condivise, di ethos e metafisiche intuizioni, che brillarono perenni dalle coste elleniche, vestite di mare e dorate di sole; qui l’esito è il nulla, il terrore, la forma che si dissolve, perché l’uomo ha visto tramontare il proprio sole e lo ha esperito, più che nel mondo storico, nel proprio intimo, eppure universale, mistero, nella sua segreta inconfessata nudità.21
A chi confessare il proprio tormento? Chi può condividerlo? Quel tormento nostro, desueto, viscerale. Eppure universale mistero, universale possibilità dell’esistenza infondata. L’arte contemporanea ha questa pretesa di gettare uno sguardo sull’abisso del mistero umano, confessandone il lato tremendo ed oscuro. Con la caduta nichilistica delle grandi certezze metafisiche, verità antropocentriche, l’uomo si scopre scivolare nell’abisso e vede quest’abisso dentro sé, nelle sue pulsioni ed angosce, scopre di essere egli stesso questo abisso.
Età dell’oro quella della teologia medievale? Idilliaco territorio metafisico ormai perduto e trascorso? Medioevo luminosissimo delle transluminose vetrate di Chartres, dove le pietre medesime emanavano luce e le slanciate strutture erano musica? Ogni guglia l’elevarsi di un nuovo sillogismo applicato ad una teologia, che si proiettava alla maggiore gloria di Dio? Un Medioevo slanciato e ricolmo di senso, quasi entusiastico ed adolescenziale, ormai obsoleto dopo l’età adulta della ragione, che tutto disincanta? Non solo. Lo slancio del gotico internazionale non è immatura simbolica del mondo, ma meditata espressione di una conoscenza profonda dell’uomo, profonda e matura, cioè consapevole anche del male e dell’abisso che l’uomo è.22 L’elevazione è slancio positivo, ma, assieme, fuga dall’abisso del peccato. Quel bene che si desidera è anche Cristo che si sacrifica per la nostra salvezza, attirando su di sé le nostre colpe e distogliendo lo sguardo del Padre dalle nostre ree miserie. È l’umanizzarsi del Divino l’esperienza che stupisce e assieme meraviglia l’uomo medievale; in quest’umanizzarsi tutta la storia dell’umanità si compie e si redime, basti pensare al carattere tipologico dell’interpretazione della Bibbia nel Medioevo: tutto l’Antico Testamento si compie e si invera nel Nuovo, tutta l’umanità si rinnova e si redime in Cristo, che muore, addossandosi sulla croce tutti i peccati, e risorge, portando i beati nella luce del Lumen Gloriae.
Il Maestro dell’Osservanza ci mostra proprio tale consapevolezza, nell’esprimere il momento del grande tormento esperito dal Santo. In tal modo diviene, al pari dell’Urlo, messaggio universale e transepocale, capace di lanciare un monito ad una società borghese ed opulenta, quale quella tardo medievale, assai simili all’opulenta borghesia europea di fine Ottocento, attraverso la comprensione e l’indagine sull’abisso dell’uomo, sul suo ineludibile mistero.23 Il Medioevo, pertanto, lungi dall’apparire pieno di certezze monolitiche, ci si mostra come un’epoca dinamica in cui l’itinere umano, teso verso Dio, appare consapevole degli aspetti più oscuri di un umanità che si muove tra certezza ed incertezza, tra falsa certezza ed illusoria parvenza — come ad esempio quella proveniente dalle ricchezze e dal possesso intramondano — ed autentico afflato religioso, spinto dal più puro e vigoroso slancio verso il Divino e dalla consapevolezza della miseria e della debolezza di quel piccolo vascelletto che è l’anima, capace di librarsi sulle acque come Spirito o di sprofondare nei gorghi di melme infernali e paludi stigie, avviluppandosi su se medesima, in abissi e cavità da dove difficile è l’uscita.24
La lirica linearità senese, leggerissimo crinale sullo sfondo dorato dell’eterno, eco di icone bizantine, tradizioni mai sopite di fronte al più concreto storicismo fiorentino, produce eteree atmosfere, scenari onirici in cui si sonda quell’abisso che in noi stessi ci aliena ed atterrisce, ma su cui è gettata la luce medesima dell’intelletto. Quel mistero umano è dunque abissale, luminosissima tenebra ambivalente, via e sviamento, tutto e nulla di tutto, che a volte dona l’immensa bontà e a volte ci mostra la nostra umana nudità, tremula e tremante, atterrita e gemente.
Solo un Dio ci può salvare?
Di sicuro quel Dio che ci vide nudi e tremanti non ci condannò, avvolgendosi nel suo manto di zaffiro e di stelle d’oro, ma divenne nudo e tremante in mezzo a noi, non ebbe paura dell’angoscia, né del legno della croce, né dei chiodi, non curante dell’Inferno vinse la morte e ci liberò dal male:
Egli ha sofferto le catene come onnipotenza spodestata, gli oltraggi come bontà avvilita, le irrisioni come sapienza resa stolta, i supplizi come giustizia ridotta a iniquità. Così desidera anche tu la passione della croce, una passione piena di ingiurie nelle cose, di insulti nelle parole, di scherni n ei gesti, di supplizi nei tormenti.25
Infine, l’Agnello innocente, essendo il vero sole di giustizia, rimasto appeso alla croce per tre ore, anche il sole visibile occultò nello stesso tempo i raggi della sua luce per pietà del suo Fattore. Poi, compiute ormai tutte le cose, la stessa Fonte della vita all’ora nona si estinse; in quel momento l’Uomo Dio con forte grido e lacrime, quasi a manifestare e dichiarare il suo amore misericordioso e la potenza divina, raccomandò lo spirito nelle mani del Padre e morì.26
O sorte infelice dell’uomo, dal momento che hai perduto ciò per cui è stato creato. Che penosa e funesta quella caduta! Ohimè quanto ha perduto e che cosa ha trovato, quanto è svanito e che cosa è rimasto! Ha perduto la beatitudine per la quale fu creato, e ha trovato la miseria per la quale non è stato creato. È svanito ciò senza cui nulla è felice, ed è rimasto ciò che per sé è soltanto infelice.27
E sempre Anselmo nel Cur Deus homo, avvincente e serrato dialogo con Bosone dice:
A. Ammetti certamente che la creatura ragionevole fu creata giusta e lo fu perché fosse beata nella fruizione di Dio.
B. Non ne dubito.
A. Tu poi non stimerai cosa degna di Dio che, dopo aver creato l’uomo giusto e per la beatitudine, lo costringa a essere infelice senza colpa. È dolorosoche l’uomo abbia a morire pur essendone riluttante.
B. È evidente che, qualora l’uomo non avesse peccato, Dio non dovrebbe esigere da lui la morte.
A. Non trovando in lui peccato alcuno, Dio non costrinse Cristo a morire. Questi però subì spontaneamente la morte non perché l’obbedienza gli imponesse di abbandonare la vita, ma perché lo spingeva a osservare la giustizia; e in tal osservanza egli perseverò sì fermamente da incontrare la morte.28
Rivelativo di tale senso della passione sono le stesse stimmate del Santo di Assisi, un evento epocale, che racchiude un’intera epoca in un evento prima mai accaduto, miracoloso, proprio di colui che sarà da san Bonaventura considerato l’Alter Christus:
In quelle membra fortunate si vedevano, in verità, i chiodi meravigliosamente formati dalla potenza divina con la sua carne e così connaturati con la carne stessa che, quando si premessero da qualunque parte, subito si sollevavano dalla parte opposta, come dei nervi compatti e duri. Si scoprì anche in forma più evidente la piaga del costato, non impressa né prodotta dagli uomini, simile alla ferita del costato del Salvatore, quella che nel nostro Redentore rivelò il sacramento della redenzione e della rigenerazione umana. I chiodi apparivano neri, come di ferro, mentre la ferita del costato era rossa e, per la contrazione della carne, ridotta quasi a forma di cerchietto, così da sembrare una rosa bellissima. Le altri parti della carne, che prima per malattie e per natura tendevano al nero, splendevano di straordinario candore, anticipando la bellezza delle vesti bianche degli eletti.29
E da Dante lo sposo di quella Povertà rimasta dopo Cristo sempre vedova: Egli ci si rivelò, squarciando le tenebre dell’incomunicabilità, come comunicazione, amore, estaticità e diffusione di sé, cioè come il Sommo e Vero Bene, quello che supera di gran lunga qualsiasi notte dell’anima, più grande degli Dei di qualsiasi cielo attico!
Infatti il Bene è ciò che è diffusivo di sé; dunque, il sommo bene è sommamente diffusivo di sé. Ora la somma diffusione non può che essere attuale e intrinseca, sostanziale e ipostatica, naturale e volontaria, libera e necessaria, incessante e perfetta.30
E il sommo bene, come ci ricorda sant’Anselmo al culmine della sua grandiosa speculazione nel Proslogion, è uno e trino, cioè la Trinità:
Questo bene sei tu, Dio Padre; questo è il tuo Verbo, cioè il tuo Figlio. Infatti nel Verbo col quale tu dici te stesso non vi può essere altro da ciò che tu sei, né qualcosa di maggiore o minore di te, perché il tuo verbo è vero come tu sei verace ed è perciò la verità stessa come lo sei tu, non altra da quella che tu sei; e tu sei così semplice che da te non può nascere altro da ciò che tu sei. Questo stesso bene è l’amore unico e comune a te e al Figlio tuo, cioè lo Spirito Santo che procede da entrambi.31
E questa più che una trasfigurazione o espressione, più che un oggetto intenzionale di rimando, è la vera e autentica realtà, più vera e reale delle nostre paure e dei nostri tormenti, ad essa dobbiamo rivolgerci per la salvezza, intessendo quel dialogo che solo può trasfigurare realmente la realtà e l’interpretazione delle cose, riaccendendole nel loro dinamico rinviare e ringraziare a Dio Creatore, in modo che il tutto non venga fatto scivolare verso l’ignoto, ma sia capace di lodare Dio. In questo modo le creature soccorrono l’uomo nella lode:
Altissimu onnipotente bon signore, tue so le laude la gloria e l’honore et onne benedictione. Ad te solo, altissimo, se konfano Et nullo homo ene dignu te mentovare. Laudato sie, mi signore, cun tucte le tue creature, specialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per loi. Et ellu è bellu e radiante cun grande splendore, de te, altissimo, porta significazione.32
Lo stretto collegamento qui proposto fra i quattro versetti iniziali e la prima lassa introdotta dal Laudato sie, comporta alcune conseguenze importanti per l’interpretazione dell’intero cantico. Viene innanzitutto ribadita la centralità di Dio, dal quale tutto discende e al quale tutto fa ritorno, con l’immediata e complementare attenuazione di quelle linee di lettura che tendono a spostare l’attenzione sulle creature, come se queste ambissero ad assumere una posizione quasi autonoma in rapporto al loro creatore.33
Di qui l’uomo riscopre il dialogo interiore con Dio, e tale dialogo interiore trasfigura ermeneuticamente il cosmo stesso, divenendo lode universale delle creature, una vera simbolica della creazione che riscopre in questa i vestigia Dei. In dialogo con il Dio comunicativo ed amorevole, l’uomo si scopre imago Dei, memoria, intelletto e volontà, e scoprendo l’autenticità del proprio essere riscopre la vera natura del cosmo medesimo, in cui si riconosce, riconoscendovi il proprio creatore.34
L’interiorità dell’uomo, consapevole del proprio autentico essere, mediato dalla consapevolezza del peccato e della passione di Cristo — Cur Deus homo? Per redimerci, per amore —, diviene la chiave di lettura del creato, che segue il suo essere e lo riflette, assecondando i suoi slanci, giacché l’anima rilegge la creazione come un linguaggio di Dio, un linguaggio con cui il Creatore comunica con la creatura intelligente, in modo che anche la notte sia un manto incantevole di stelle.35 L’uomo si scioglie, così, in una lode, che risuona nella lode universale di tutte le creature, in perfetta assonanza ed armonia. E questa nostra lode diviene Arte: l’Arte dell’esistenza.
La luce della fede non ci fa dimenticare le sofferenze del mondo. Per quanti uomini e donne di fede sono stati mediatori di luce! Così per san Francesco d’Assisi il lebbroso, o per la beata Madre Teresa di Calcutta i suoi poveri. Hanno capito il mistero che c’è in loro. Avvicinandosi ad essi non hanno certo cancellato tutte le loro sofferenze, né hanno potuto spiegare ogni male. La fede non è luce che dissipa tutte le nostre tenebre, ma la lampada che guida nella notte i nostri passi, e questo basta per il cammino.36
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Sul concetto di piano inclinato si veda: Severino E., Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 1998, pp. 116-129. ↩︎
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Vattimo G., La Fine della Modernità, Garzanti, Milano 1999, pp. 27-28. ↩︎
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Cfr. Caroli F., Il volto dell’Occidente . I venti capolavori che hanno fatto l’immagine della nostra civiltà, Mondadori, Milano 2012, pp. 175-185. ↩︎
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Scrive Gallo: L’artista intende far passare sulla tela un’espressione di se stesso, quindi il suo scopo non è l’imitazione dell’oggetto rappresentato, bensì la trasformazione cui egli lo sottopone attraverso la propria percezione. Il dipinto, costituito dall’ordinamento di rapporti di colore puro, cerca di essere un equivalente, ovvero una trasposizione percepibile, della sensibilità visiva ed emotiva dell’artista. Gallo S., Mirolla M., Zucconi G., Arte del Novecento, Mondadori Università, Milano 2002, vol. 1, p. 17. ↩︎
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Proclo, Elementi di Teologia, a cura di Chiara Faraggiana di Sarzana, introduzione di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1985, teor. 186. Non a caso l’ultima guida di Dante in Paradiso, allorchè il sommo poeta giunge alla contemplazione di Dio creatore dell’universo , è san Bernardo, il filosofo che nel Medioevo rinnovò la socratica Gnoske seauton e identificando la conoscenza di se medesimi con la conoscenza di cristo nostro Archetipo. E proprio Dante , nei tre circuli d’una contenenza, che simboleggiano la Trinità, vedrà nel circolo del figlio l’umana Figura, cioè il sommo archetipo umano nel Verbo, quel Verbo incarnato in una vergine venuto a salvarci. ↩︎
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Sul tema si veda l’analisi di De Vitiis P., Prospettive heideggeriane, Morcelliana, Brescia 2006. ↩︎
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Si vedano le interessanti riflessioni di J. Brun circa la perdita del significato profondo della corporeità nell’epoca attuale in Brun J., La nudità umana, SEI, Torino 1995. ↩︎
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Scrive riguardo all’Urlo Argan G. C. in L’Arte moderna, Sansoni Editore, Firenze 1990, p. 200: Nulla, nella realtà, ha la stabilità, la chiarezza, il significato certo della forma, tutto ha la precarietà, l’instabilità, l’inconsistenza dell’evento. O dell’immagine. Si osservino, in questa figura, la straordinaria fluidità delle linee, la scorrevolezza del segno, la mancanza di partiti contrastanti d’ombra e di luce, di colori forti: tutto, anche le minime note grafiche o coloristiche, alludono alla continuità del tempo, al trascorrere della vita, , all’inarrestabilità del destino. ↩︎
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Cfr. Vattimo G., Fine della modernità, Garzanti, Torino 1999. pp. 27-38. ↩︎
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Quest’aspetto tragico del Nichilismo trova espressione trasfigurante e positiva nel Nichlismo attivo, cioè nella energica creazione di nuovi valori, che aumentino vita e potenza. Questa creazione artistica, pregna dell’ebbrezza dionisiaca, non si rifugia soltanto nel bello e nel grazioso, ma può trovare espressione nell’esperienza della sofferenza e del dolore; questa tendenza “sublime” del ed attiva del Nichilismo e del valore creatore dell’arte teorizzata da Nietzsche, costituisce il filo conduttore dell’espressionismo e è realizzata in modo sorprendente da uno dei padri dell’espressionismo che è proprio munch. Cfr. Dottori R., L’Arte e il gioco dell’esistenza, Valter Casini, Roma 2007, pp. 233-250. Scrive Dottori a p. 236: Il vero romanticismo, non il romanticismo decadente, dovrebbe essere in grado d i apprezzare o eguagliare la vera arte tragica, in quella sovrabbondanza di forza e di energia, che rende capace di esprimere il giudizio di “bello” anche in condizioni che l’impotenza può giudicare odiosi e brutti: dire “questo è bello” è un dire di sì alla vita , anche nei momenti più enigmatici, anche nella sofferenza, che dallo spirito eroico viene addirittura sentita come piacere, mentre gli spiriti deboli e delicati preferiscono ciò che è grazioso e adorno. ↩︎
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Le tentazioni di Sant’Antonio costituiscono un tema assai rappresentato dall’arte, la versione del maestro dell’Osservanza possiede però caratteri di grandissima originalità. L’animo e il dolore si riversano in un paesaggio, che esprime languidamente il tedio interiore, nel fluido e plastico articolarsi degli elementi, in un paesaggio ove non vi è alcuna traccia di Dio. Differente è l’opera sulle tentazioni di Sant’Antonio di Grunewald, di grandissima espressività ed intensità, nelle figure mostruose del male che torturano il Santo, ma in cui, in una natura rasserenata ed in un cielo luminoso sullo sfondo, compare l’immagine folgorante di Dio che sembra sfondare le nuvole. Per un esame di quest’opera, che appartiene originariamente al polittico dell’Altare di Isenheim, ed oggi al Musée d’Unterlinden a Colmar, si veda Sgarbi V., Nel nome del Figlio. Natività, Fughe, Passioni nell’arte, Bompiani, Milano 2012, pp. 247-259. Anche Bosch raffigura la tentazione in modo mostruoso, con figure orribili che opprimono il Santo, esse sono giustapposte ad un paesaggio tutt’altro che orribile. Il genio surrealista Salvador Dalì, a sua volta, ci offre una singolare espressione delle tentazioni di Sant’Antonio, in cui di spalle abbiamo in primo piano il Santo, nudo e privato di tutto, fuorché della croce con la quale si difende dalle tentazioni raffigurate come oggetti allegorici portati dai caratteristici e irreali elefanti dalle gambe sottili come una tela di ragno. La prima creatura immaginaria che arriva, incombendo sul Santo quasi a travolgerlo, è un cavallo bianco imbizzarrito, come sfondo un paesaggio piano e sconfinato all’orizzonte, una pianura infinita ed un cielo tersissimo su cui si addensano dalla parte destra delle nubi. Il carattere immaginario e “surreale” dell’opera tende a sottolineare la natura mistica dell’evento. Forse è una delle opere che meglio fondono paesaggio e interiorità, dopo il Maestro dell’Osservanza. Oggi il quadro è nel Musée des Beaux Artes a Bruxelles. Il Beato Angelico, vissuto all’incirca nella stessa epoca del Nostro Autore, in un opera che ora è a Houston nel Museum of Fine Arts, raffigura il Santo tentato dall’oro in primo piano nell’atto di fuggire da un cumulo dorato sempre in primo piano, in un paesaggio deserto e roccioso, nel quale si consuma solitaria la sua vicenda ascetica. Sullo sfondo la città in un paesaggio dolce, sotto un cielo limpido. Il paesaggio roccioso e deserto in primo piano si oppone al paesaggio dolce in secondo piano, costellato di alberi e costruzioni, tuttavia non offre a nostro avviso la stessa intensità emotiva e le stesse suggestioni che troviamo nel paesaggio costruito abilmente dal Maestro dell’Osservanza. Sassetta, altro senese contemporaneo, in un’opera che è alla Pinacoteca Nazionale di Siena, raffigura il Santo martoriato da alcuni diavoli, che si accaniscono su di lui con dei bastoni e che rappresentano le varie tentazioni. Il paesaggio è accuratamente e graziosamente selvaggio, di una rasserenante dolcezza, assai distante da quel sinistro rossore invernale di uno scenario al tramonto del giorno e della vita. Quindi il maestro dell’Osservanza ci offre una rappresentazione della tentazione dell’oro, assai particolare, ove si combinano paesaggio ed interiorità in una raffigurazione tormentata e angosciante, nella quale più che allegoriche mostruosità, ad atterrire è l’intero ambiente, in una sottile dinamica di colori e linee incurvate, che inesorabilmente precipitano verso il basso come in una frana, un inesorabile precipitare dell’anima verso il gorgo dell’infondato, verso la voragine dell’abisso. ↩︎
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Sgarbi V., Il Tesoro d’Italia. La lunga avventura dell’arte. Introduzione di Michele Ainis, Bompiani, Milano 2013, p. 383. ↩︎
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Id., p. 383. Si veda anche Caroli F., La pittura contemporanea dal Romanticismo alla Pop Art, Mondadori Electa, Milano 2013, p. 19. ↩︎
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Molto sottile, rispetto ad altre raffigurazioni, è la rappresentazione dell’oro. Il cumulo d’oro è rappresentato proprio dal monte sulla sinistra, che, seppur presenti un cumulo d’oro come altre raffigurazioni contemporanee al nostro Autore, tuttavia mostra una sua straordinaria particolarità, giacché pare scivolare travolgendo con sé anche l’albero in primissimo piano. L’oro, ciò che illude l’uomo sul piano della garanzia della stabilità, cola e si scioglie anch’esso, assieme all’intero paesaggio. Dunque anche l’oro, che il Beato Angelico e il Sassetta raffigurano nella forma di un masso, si mescola con il paesaggio e con la stessa condizione spirituale del Santo, tuttavia non possiede quella simbolicità espressiva dell’esperienza di smarrimento interiore che prova il Santo. Il paesaggio è dunque intriso di interiorità, di intimità, quell’intimità sofferente che traluce in ogni dove, pervadendo tutta l’opera. Questa pervasività pare coinvolgere lo stesso spettatore, che non solo “interpreta” il significato dell’opera, ma ne viene coinvolto, risucchiato nei gorghi del cielo e della terra, nello scivolare delle montagne e delle cose verso l’abisso. È dunque questa fruizione un’anagogia verso l’abisso, che intensifica e rafforza l’esperienza di fede. ↩︎
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Cfr. Babolin S., Produzione di senso, Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1996, pp. 61-102; Semiosi e comunicazione, Hortus Conclusus, Roma 1999, pp. 221-236. ↩︎
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Gadamer H.-G., L’ultimo dio. Un dialogo filosofico con Riccardo Dottori, Biblioteca Meltemi, Roma 2002, pp. 144-145. ↩︎
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Possono qui farci riflettere alcune riflessioni di Babolin sull’Espressionismo, se le poniamo in relazione alla grande originalità, quasi atemporale, del Maestro dell’Osservanza nelle sue atmosfere favolose ed irreali, capaci però di esprimere istantaneamente l’interiorità come la tonalità emotiva, la tensione spirituale come l’intensità mistica: Questo modo di fare esprime il rifiuto di ogni linguaggio costituito; il proposito di risalire all’origine di ogni linguaggio, quando le parole sono semplici suoni che assumono un significato in un contesto etnico; e il tentativo di svelare l’interiorità profonda dell’uomo, che esprime e si esprime, nella quale i sentimenti (della vita e della morte, dell’amore e dell’odio, del sacro e del timore) sono vivi e ancora puri. Babolin S., L’uomo e il suo volto. Lezioni di estetica, Hortus Conclusus, Roma 2000, p. 135. È vero che il linguaggio espressivo del Maestro dell’Osservanza si presenta assai aulico e raffinato nonché lungi dall’essere rude, tuttavia sia l’eleganza dell’artista senese, sia l’immediatezza espressiva di Munch, che fa urlare l’individuo, sono frutto sempre di un’accurata ricerca che si muove nella direzione della scoperta di nuovi linguaggi espressivi, nascenti da un ripensamento della tradizione, medievale, per ciò che concerne il senese, impressionista per ciò che concerne Munch o Van Gogh. Gli stili dunque variano, così come i linguaggi espressivi, pur richiamandosi nei secoli, tuttavia quel mistero abissale dell’uomo ci interroga perennemente perché il perenne cielo dell’eterno si staglia sempre sopra le nostre esistenze, anche nelle più cupi e tenebrosi notti. ↩︎
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Qui in epoca tardo medievale abbiamo la grande esperienza del male, dell’oscurità e della tenebra come rivelatrice del mistero, che tornerà, come sottolinea Eco, nell’esperienza antiborghese ed anti industriale del simbolismo: Il poeta diventa il decifratore di questo linguaggio segreto dell’universo, la Bellezza è la Verità nascosta che egli porterà alla luce: e si capisce allora come, se tutto possiede questa esperienza di rivelazione, si debba intensificare l’esperienza laddove è sempre apparsa tabù, negli abissi del male e della sregolatezza, dove potranno scaturire gli accostamenti più fecondi e violenti, e le allucinazioni saranno più rivelatrici che altrove. Eco U., Storia della Bellezza, Bompiani, Milano 2010, p. 349. ↩︎
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Scrive Babolin a proposito dell’espressionismo di Munch ed al senso di incomunicabilità: L’opera di van Gogh e, soprattutto, quella del norvegese Edvard Munch (1836-1944), che ancor più contribuì a dare aggressività all’espressionismo, richiamano e incarnano l’esistenzialismo di Kierkegaard: per loro<<infatti il simbolo non è qualcosa oltre la realtà; è qualcosa di morto che si mescola alla vita>> (Argan 1981,309). Perciò esaminiamo alcuni temi del pensiero di Kierkegaard, che sembrano caratterizzare e motivare l’espressionismo nord-europeo; particolare importanza assumono il primato del singolare sull’universale, l’intimità claustrale dell’io personale, la libertà come necessità di opzione, l’angoscia e la disperazione, la fede come invocazione. Babolin S., L’uomo e il suo volto, p. 126. ↩︎
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Cfr. Chastel A., Il gesto nell’arte, Laterza, Bari 2010. ↩︎
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Per il concetto di Apollineo e Dionisiaco nell’arte si veda lo studio di Dottori R., L’arte e il gioco dell’esistenza, Valter Casini Editore, Roma 2007, pp. 271-321. ↩︎
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Si pensi alla presenza del deforme e del mostruoso nell’estetica medievale, delle drolerie dei manoscritti o delle gargolle terrificanti delle cattedrali. Cfr. Babolin S., Semiosi e comunicazione, Hortus Conclusus, Roma 1999, pp. 27-34. ↩︎
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Babolin, rifancendosi a Forrester e Aurier, rileva, a proposito di Van Gogh, il profondo realismo, nella schiettezza del sentimento espresso e nella denuncia della miserabile condizione dei poveri e degli oppressi. Lampante è l’esempio dei mangiatori di patate, che a lume di candela, in una specie di antro oscuro, sembrano goffamente appagarsi del frugale pasto. Inoltre la vita di Van Gogh conobbe un periodo missionario e religiosissimo tra i minatori della regione del Borinage. Quest’esperienza lo segnò molto nella sua pittura, appassionata, emozionante, vibrante e, soprattutto, schietta, sincera ed autentica. Cfr. Babolin S., L’uomo e il suo volto, p. 123. ↩︎
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Si può qui operare il raffronto tra il folle volo dell’Ulisse dantesco, consigliere fraudolento, la cui nave viene ingoiata per superba ubris dalle galattiche acque dell’ignoto, e l’agilissimo vascello del Purgatorio, guidato da un luminoso angelo alato, che calibratissimo giunge alla marina dell’espiazione e della purificazione. Quel che cerca Ulisse è davvero virtute e canoscenza? O è invece volontà di potenza dimentica dei limiti dell’uomo e dunque affine al peccato originale? La risposta di Dante, sull’esito tragico dell’ultimo viaggio di Ulisse, non lascia dubbi. Cfr. Divina Commedia, If. XXVI, vv. 85-142 e Pg. II, vv. 1-51. ↩︎
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Bonaventura da Bagnoregio, Le Tre Vie, traduzione di Abele Calufetti, introduzione, note e indici di Maurizio Malaguti, Città Nuova Editrice, Roma 1992, III,3. ↩︎
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Bonaventura da Bagnoregio, L’Albero della vita, traduzione di Abele Calufetti, introduzione, note e indici di Maurizio Malaguti, Città Nuova Editrice, Roma 1992, 29. Straordinario il ritmo di questa opera bonaventuriana, la quale articola la vita di Cristo in dodici frutti, relativi alla nobiltà della nascita, alla profondità della sua passione ed alla gloriosa resurrezione, che costituiscono tra fasi della vita del redentore ed anticipano la gloria che ci attende dopo la nostra resurrezione e la vita eterna. Questa opera ebbe anche una straordinaria raffigurazione nell’opera del giottesco Taddeo Gaddi nella Cappella Baroncelli di Santa Croce a Firenze, in cui è raffigurato l’albero della vita con i dodici rami forieri dei dodici frutti. Un’opera didascalica che, per modo di uno schema ascensionale, illustra le varie tappe dell’albero della vita del redentore. Il legno della croce si trasforma in albero vivo foriero di quei frutti che preludono all’eternità. Ai piedi della croce, c’è Francesco, inginocchiato e simili al calice che raccoglie il sangue del redentore, con le mani che tangono la croce mostrando le stimmate, che ne confermano la perfetta sequela di cristo e la perfetta ed impareggiabile vita evangelica. ↩︎
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Anselmo d’Aosta, Proslogion, introduzione, traduzione, note e apparati di Italo Sciuto, Rusconi, Milano 1996. ↩︎
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Anselmo d’Aosta, Perché un Dio uomo, Edizioni Paoline, 9. ↩︎
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Bonaventura da Bagnoregio, Vita di San Francesco, Legenda Maior, a cura di Pietro Messa, Paoline, Milano 2009, XV, 2. In un articolo uscito nella rivista brasiliana Qadernos Patristicos ho cercato di mostrare come questa testimonianza del Dottore serafico possa costituire la radice della candida rosa dantesca, sia per il ruolo di san Francesco nella Divina Commedia, sia per la straordinaria affinità tra la candida rosa, che nel suo sangue Cristo fece sposa, e la stimmata sul costato di San Francesco le cui carni erano bianche come la veste candida degli eletti. Cfr. Perriello R. L., La candida rosa dantesca: un’idea francescana?, in Cuadernos Patristicos, volume VI, numero 10 - 2011, pp. 193-202. ↩︎
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Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente in Dio. Introduzione di Letterio Mauro, traduzione di Silvana Martignoni e Orlando Todisco, VI, 2. ↩︎
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Anselmo d’Aosta, Proslogion, par. 23. ↩︎
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Francesco d’Assisi, Cantico di frate sole, in K. Esser OFM, Gli scritti di S. Francesco d’Assisi, Edizioni Messaggero, Padova 1995, 1-4. L’esperienza di Francesco è, dal punto di vista della dialettica tra beatitudine e sofferenza, assai emblematica, basti pensare alla stimmatizzazione, quale evento cruciale della vita e del ruolo storico del Santo di Assisi. Francesco è colui che riceve le stimmate come ultimo e sommo sigillo della sua perfezione di vita evangelica. Questa perfezione si enuclea nel fatto che Francesco “commuore” con Cristo, immedesimandosi nella Crocifissione e nella Passione stessa di Nostro Signore. Questa esperienza ha avuto molteplici influssi anche sull’arte italiana, su quest’influsso si veda il brillante saggio di L. Cappelletti, La spiritualità francescana e la rappresentazione del Crocifisso, in Arte e Spiritualità. Studi, riflessioni, testimonianze, a cura di P. Martinelli e Wieslaw Block, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2014, pp. 74-88. ↩︎
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Paolazzi C., Il cantico di frate sole, Edizioni Porziuncola, Assisi 2010, pp. 67-68. ↩︎
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Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario…., III, 1-4. J. A. Merino, uno dei massimi studiosi della filosofia francescana, così si esprime sulla concezione del creato come linguaggio di Dio di san Bonaventura nella sua Storia della filosofia francescana, Edizioni Biblioteca Francescana, Milano 1993, p. 84: Il pensiero bonaventuriano analizza non solo la struttura metafisica degli esseri, ma offre inoltre un’ontologia del significato ed un’ontologia dell’espressione in quanto interpreta il mondo come linguaggio sia in chiave simbolica che referenziale, poiché insieme alla metafisica della sostanza e dell’accidente, dell’atto e della potenza, della materia e della forma, vi è anche la metafisica del segno. E a p. 85: Dio, essere infinitamente semplice ed amabile, ha voluto comunicarsi e manifestarsi al di fuori di sé, spinto dal dinamismo del suo amore. Il Dio onnipotente ha creato un mondo in cui è presente in qualche modo, poiché il mondo, le cose e gli uomini sono espressioni visibili delle idee divine invisibili che sono serviti da paradigmi. ↩︎
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Francesco d’Assisi, Cantico di frate sole, 5: Laudato si’, mi Signore, per sora luna e le stelle, in celu l’ai formate clarite et pretiose et belle. ↩︎
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Francesco, Lumen Fidei, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, 57. ↩︎