Et si erunt sodales ex longinquo loco venientes, nonne quidem laetaberis?
Kung-Fu-Tzu1
1. Introduzione: linguaggio e ospitalità
Le parole sono come fili di un tessuto. Nate per soddisfare certe esigenze espressive e comunicative, esse vengono intrecciate nella trama della lingua, adoperate per un tempo più o meno lungo, e infine abbandonate; in queste vicende, capita anche che la loro tinta sbiadisca, si alteri o venga macchiata. Ogni parola, inoltre, come il colore di un filo evoca emozioni e ricordi che vanno ben oltre il suo significato concettuale.
Se prendiamo ad esempio una parola come ‘immigrazione’, ecco affollarsi alla mente una serie di moti interiori, sensazioni e antichi fantasmi. Intanto, non è forse scomparso dalla memoria collettiva lo stigma di cosa ha significato, per molti anziani delle nostre campagne, la condizione di emigrante, e dunque di immigrato e migrante: la lontananza dalla famiglia e la nostalgia della madrepatria, lo sradicamento e lo shock culturale, lo sfruttamento e la discriminazione, per non parlare della morte in miniera e dell’incendio doloso delle loro baracche. D’altro canto, la storia delle migrazioni umane, che dopo tutto ha costituito il nerbo dell’umana vicenda, è segnata anche da miriadi di episodi di accoglienza, compassione, integrazione serena e incontro graduale tra popoli e culture diversi.
Come sempre accade in casi analoghi, il rapporto col diverso ha dinamiche complicate. Ad esempio, se per qualcuno l’idea dell’immigrazione si associa al timore dello straniero, altri invece sbandierano una totale mancanza di paura, sfidando e provocando il barbaro invasore. Ma questo coraggio è ambiguo: può infatti essere interpretato come segno di una paura non coscientizzata ed elaborata, oppure come espressione di un odio sciens et volens; tanto che una persona accogliente verso i migranti può giungere a disprezzare lo xenofobo di turno, dando luogo al paradosso di una rabbia reattiva, di un’ira generata dall’ira altrui: ti odio perché tu odii, spregio i razzisti perché spregiano gli immigrati.
A differenza di ‘immigrazione’, la parola ‘ospitalità’ non sembra ancora essere stata consunta o degradata dall’uso; sicuramente, gioca a suo favore il fatto che l’ospitalità coinvolge vari ambiti connotati positivamente, dal turismo sostenibile ai gemellaggi scolastici, dalle foresterie monastiche agli hospice per malati terminali; d’altro canto, proprio questa eterogeneità rende difficile costruirvi sopra un discorso generale.2 In ogni caso, perché ‘ospitalità’ si presta meglio di altre parole ad una riflessione pacata su alcuni dei problemi più scottanti dei nostri giorni, per lo meno finché non sarà consumata o svilita.
2. Ambiguità dell’ospite
La molla che ha fatto scattare in me il desiderio di riflettere su questo tema è stata una frustrazione linguistica. Quando, da biologo, tratto il tema delle simbiosi,3 parlando in italiano inciampo in una fastidiosa ambiguità lessicale: chi è l’ospite, il cane o la pulce, il paguro o l’attinia, l’alga o il fungo dei licheni? In italiano e in francese, ospite e hôte denotano sia l’ospitante sia l’ospitato; va meglio con l’inglese o il tedesco, che hanno guest/host e Gast/Wirt, e dunque dispongono di risorse linguistiche più ampie e precisanti.
In ambito logico e scientifico, ambiguità e vaghezza dei termini sono viste come il fumo negli occhi, e dunque si procede a opportune disambiguazioni e precisazioni.4 Quando si parla però di ospitalità umana, l’ambiguità lessicale della parola ‘ospite’ può rivelarsi una bella risorsa sapienziale. È chiaro che si potrebbe lavorare a disambiguare artificialmente il lessico italiano; tuttavia, sempre che si riuscisse nell’intento, un simile rigore semantico potrebbe essere fuori posto, perché ogni linguaggio naturale ha ragioni che la razionalità logica non comprende.
L’ambiguità dell’italiano e del francese risiede dunque nella confusione tra ospitante e ospitato, e l’ho qualificata come una risorsa sapienziale perché ci invita e suggerisce a considerare i partner contemporaneamente come ospitanti e ospitati, con le conseguenze che vedremo. E anche se tale confusione fosse un fatto puramente contingente della storia della lingua, potremmo comunque elevarla noi a risorsa sapienziale; potremmo cioè approfittare di una casuale ambiguità lessicale per lavorarci sopra intenzionalmente, per costruire una teoria a partire da essa, per coglierla come opportunità sapienziale.5
Proviamo dunque a sviluppare questa specie di tema musicale. L’idea è che quando ospitiamo qualcuno, in effetti veniamo allo stesso tempo ospitati da lui o lei, e quando qualcuno ci chiede di ospitarlo, almeno implicitamente e potenzialmente anche noi lo stiamo facendo. Un caso semplice e familiare può aiutarci a cogliere il punto: se un cugino mi chiede di ospitarlo perché deve effettuare una visita medica nella mia città, ciò mi rende felice per vari motivi: in primo luogo, perché posso aiutarlo in un momento di difficoltà, quindi perché mi fa sentire capace di ospitare, di aiutare e condividere, e infine perché ho la possibilità di rivederlo, di passare del tempo con lui, di ricordare qualche episodio dell’infanzia. Io ho ospitato il parente dandogli un letto, lui mi ha ospitato facendomi entrare nella sua vita, nella sua storia; entrambi abbiamo guadagnato qualcosa, e insieme abbiamo goduto di una reciproca ospitalità non solo fisica ma del cuore. Qualcosa di analogo può accadere in grande: se un popolo offre una terra di pace a dei rifugiati, questi a loro volta portano con sé e possono offrire qualcosa del loro mondo e del loro modo di vivere.6
L’ospitalità in cui i ruoli, le gerarchie e le distinzioni si confondono, e l’ospitalità in quanto messa in comune di una dimora, di uno spazio e un tempo fisico, mentale e sociale, danno luogo a relazioni e interazioni dall’altissimo valore etico; come ha infatti mostrato Jacques Derrida,7 poiché l’ethos ha etimologicamente a che fare non solo con i costumi e i comportamenti, ma anche con il dimorare e l’abitare, l’etica risulta coestensiva con l’ospitalità. Ma la storia delle parole e della loro tessitura, sempre preziosa quando si sondano le radici della nostra umanità, rivela anche altro. Ad esempio, il verbo habitare è correlato ad habere, a sua volta disceso dal proto-indœuropeo g(h)ab(h), che significa afferrare, prendere, tenere. Sembrerebbe allora che la condivisione ospitale della dimora non regga, perché centrata sul fatto che chi ospita rimane comunque nella posizione egemonica di padrone di casa; tuttavia, la stessa radice linguistica ha condotto, attraverso complicate vicende semantiche nell’ambito germanico, anche al gotico giban, che significa dare o donare, da collegare al tedesco geben e all’inglese to give. Almeno nel vocabolario indœuropeo, quindi, le nozioni di dare e prendere sono strettamente connesse, e l’istituzione dell’hospes-hostis è legata a una condizione di uguaglianza e reciprocità,8 e possono aiutarci a vedere l’ospitalità stessa come un movimento di accentramento e decentramento, apertura e chiusura, dare e avere, una sorta di respiro dell’esistenza individuale e sociale nel suo svolgersi quotidiano.9
Derrida, filosofo la cui biografia personale è stata profondamente segnata da problemi di accoglienza, ritiene tuttavia che l’ospitalità sia sempre condizionale, perché chi accoglie ritiene comunque, nonostante le proteste che mi casa es vuestra casa o il fai come se fossi a casa tua, che le chiavi di casa restino saldamente nelle sue mani. La situazione sarebbe analoga alla dinamica del dono, ben studiata dall’antropologo Marcel Mauss,10 in cui il donatore mette il ricevente in una condizione di subalternità e debito, con la necessità di contraccambiare il dono o addirittura di superarlo, come accade nell’istituto del potlatch. Ma se l’ospitalità è sempre a doppio senso perché ci si ospita a vicenda sotto diversi rispetti, se sfuma la distinzione tra ospitante e ospitato, allora tutti gli ospiti habent habitationem e ognuno apre all’altro la propria dimora; se ogni ospite accoglie l’altro sotto il proprio tetto allora non c’è nessun senza tetto, sia esso materiale o spirituale, reale o metaforico. Questo per lo meno è l’orizzonte, lo sfondo ideale per l’ospitalità, al di là dei limiti e delle debolezze personali; tenerlo a mente può costituire almeno un’idea regolativa, che in ogni caso appare più umana rispetto alla subordinazione tra l’anfitrione e il commensale, il patrono e i clienti, il ricco epulone e Lazzaro.11
3. L’ospitalità come vincolo e scambio
Qualcuno sicuramente non sarà ancora convinto, chiedendo: di fatto, non succede forse che l’uno dà meno dell’altro, e quindi lo scambio risulta sbilanciato? Costui farà notare, nell’esempio del cugino, che il padrone di casa offre una stanza, un letto, una cena e i suoi ricordi, mentre il parente se la cava molto a buon mercato, con i suoi ricordi e una bottiglia di vino; anche per questo, il padrone indurrà amabilmente il cugino a far le valigie prima dei fatidici tre giorni… Come valutare questo modo di presentare la situazione?12 È bassa meschinità o schietto realismo? Proverbi a parte,13 la questione è antica, risalendo almeno al duello tra Glauco e Diomede narrato nel sesto libro dell’Iliade.
Nell’infuriare degli scontri sotto le mura di Troia, il greco Diomede si imbatte nel licio Glauco e lo sfida, chiedendogli però preliminarmente chi sia.14 Nel dichiarare la propria stirpe, i due scoprono di condividere un antico vincolo d’ospitalità contratto dai progenitori; di conseguenza, l’avidità di combattere cede il passo al rinnovo del patto attraverso lo scambio delle armature e un dono reciproco di buoi; ma lo scambio risulta fortemente asimmetrico, sia perché l’armatura di Glauco è d’oro mentre quella di Diomede è di bronzo, sia perché l’alleato troiano porta in dono molti più buoi del greco. A questo punto l’aedo chiosa dicendo che Glauco ha agito da stolto, anzi che Zeus stesso gli ha levato il senno. I critici oscillano da sempre nell’interpretazione dell’episodio, come è lecito attendersi vista l’ambiguità che circonda ogni fatto di ospitalità. Da un lato, alcuni sostengono che lo scambio rientri nella logica del potlatch;15 in tal caso, l’aedo ritiene Glauco dissennato perché lo valuta a partire da un altro tempo e un’altra cultura, evidentemente più interessata alla massimizzazione del profitto; altri interpreti invece ritengono che il dono esorbitante di Glauco sia un segno della sua inferiorità rispetto a Diomede, di cui l’aedo suggerisce sottilmente la superiore, astuta metis.16
Come porsi rispetto a questo episodio, ed estenderlo all’ospitalità in generale? In una concezione la più allargata possibile, il vincolo che ci unisce potrebbe essere ricondotto alla nostra comune appartenenza alla stessa specie, ad un ceppo ancestrale di volta in volta individuato nella prima coppia umana o in un’Eva mitocondriale; rinnovare il vincolo significherebbe allora fare memoria, anzi celebrare un memoriale di una parentela di fondo: non mi casa es tu casa, ma la mia stessa carne è la tua carne, le tue ossa sono le mie ossa. Quanto all’asimmetria del dono, sarebbe facile constatare che entrambe le interpretazioni offrono spunti interessanti. Se accettiamo l’idea della superiorità di Diomede, ecco che il dono esagerato di Glauco ne compensa l’inferiorità, e dunque ristabilisce l’equità tra gli eroi. D’altro canto si può invece pensare che il dono debba essere asimmetrico, sulla scorta di quella mito-logica (che è poi una antropo-logica ancestrale) che si manifesta tanto nel potlatch quanto nell’invito evangelico a dare anche il mantello a chi vuol prenderti la tunica;17 inoltre, nel restituire molto di più potrebbe intervenire, come per il quadruplo reso da Zaccheo,18 un fattore di giustizia riparativa nei confronti di passate iniquità. Tutto ciò ha senso, ma preferisco mettere in luce altri aspetti.
Innanzitutto, l’episodio omerico mostra come la forza dell’ospitalità può prevalere sulle ragioni della forza, sulla brama dell’immortalità che la battaglia concede agli eroi e sullo schieramento su opposti fronti di guerra (tra l’altro, una guerra scatenata proprio dalla rottura di un vincolo di ospitalità); in questo senso, i due eroi sembrano quasi delle Antigoni ante litteram. Il patto di ospitalità trionfa addirittura sull’identità dei loro lignaggi: in versetti divenuti famosi, Glauco spezza la corazza dell’identità etnica e clanica ricordando a Diomede che le stirpi umane stanno come d’autunno le foglie sugli alberi: non male, per un aristocratico allevato nel culto degli antenati e della guerra gloria dei forti.
In secondo luogo, gli stessi beni materiali non hanno senso se vengono semplicemente tesaurizzati: ancor prima dell’ascesa del capitalismo commerciale e finanziario, Aristotele prima e Tommaso d’Aquino poi ricordavano che il beneficio di possedere e conservare la ricchezza consiste paradossalmente nello spenderla e spanderla, perché questa è la sua finalità.19
Infine, siamo sicuri che i valori economici superino tutti gli altri, e che ogni scambio debba regolarsi sul gold standard o sulle quotazioni del bronzo di Diomede rispetto all’oro di Glauco?20 Come abbiamo visto, se io fornisco beni materiali e compagnia in cambio della sola compagnia, in un contesto che dà grande importanza al rapporto tra assets e liabilities sembra esserci un’ingiustizia. Ma prendiamo il caso estremo dei clandestini disprezzati e braccati, proprio per accertare se non vi siano altri modi di valutare l’ospitalità; ebbene, anche questi reietti della società hanno qualcosa da offrirci, forse un dono supremo, e di certo superiore alla forza lavoro o qualunque altra funzionalità sociale ed economica;21 piombando inaspettati nel momento presente, clandestini e (sempre più spesso) clandestine sono un memento del nostro passato: se non abbiamo sperimentato in prima persona la loro condizione (non certo per nostro merito), quasi tutti abbiamo comunque avuto nonni o antenati clandestini, profughi, emigrati;22; d’altro canto, il clandestino è un monito per il futuro: ci avverte e ci insegna che la sua condizione potrebbe altrettanto improvvisamente piombare su ciascuno di noi (non necessariamente per nostra colpa). Ecce homo: lo schiavo fuggitivo, l’apolide senza protezione, il dissidente inseguito dagli squadroni della morte rivelano l’uomo nella sua radicalità, nell’estremo svuotamento, nella vita nuda; non solo, ma come afferma una delle Grandi Parole delle Upanishad, tat tvam asi, questo sei tu: ognuno di noi è potenzialmente un homo sacer, un capro espiatorio abbandonato nel deserto, il clandestino senza volto che induce i passanti a voltare la faccia23. Ogni occasione è buona allora per riconoscere la potenza rivelatrice della povertà, il magistero della marginalità e dell’esclusione, l’autorità dei sofferenti24; sarà facile allora ammetterne il superiore valore intrinseco rispetto alla potenza di qualsiasi asset bancario25 .
4. Necessità dell’ospite
L’ospitalità può dunque essere dura ed esigente, ma è salutare e necessaria in quanto ci umanizza, ci rammenta l’homo-humus che siamo, ci riconduce alle nostre umili ma reali proporzioni26. Tutte le forme di ospitalità sono in gioco, anche quelle più impensate: chi di noi è davvero capace di ospitare nella propria carne una grave malattia? E chi mai è riuscito ad ospitare la straniera assoluta, la morte? Forse il Buddha, che si immola per nutrire con il suo corpo la tigre stremata dalla fame27; forse Francesco d’Assisi, che chiamava sorella la morte corporale. In ogni caso, per giungere a queste altezze occorre sostenere un lungo combattimento, la notte oscura dell’agōnía del Buddha contro Māra28 o di Gesù nel Getsemani29. E probabilmente non si può affrontare questa lotta se non si assegna o riconosce un senso alla vita e alla morte, alla mia vita e soprattutto alla mia morte; altrimenti, come Philip Roth in Pastorale americana, non resta che ammettere che nessuno è pronto ad ospitare la tragedia e l’incomprensibilità del dolore30.
Perciò, nessun irenismo e nessuna facile retorica dell’ospitalità; l’ospite buono è come il buon selvaggio: semplicemente non esiste, e di fronte al cavallo di Troia occorre la prudenza del timeo Danaos et dona ferentis31. Ma nonostante ciò, la fonte originaria e il sommo culmine dell’ospitalità stanno nell’apertura della mente e del cuore, della porta di casa e dei porti di mare. Occorre uno sguardo ampio, dischiuso su tutti gli spazi e i tempi della vita, su tutte le persone che possiamo incontrare: non solo lo straniero, ma gli stessi nostri figli e figlie, che giungono tra noi come degli estranei e che, sottolineava Kahlil Gibran, dimorano con noi ma non ci appartengono32; persino con me stesso c’è da coltivare una difficile ospitalità: quanto sono ospitale verso i miei limiti e le mie cadute, cosa accolgo di me stesso e cosa tendo invece a scotomizzare, ghettizzare o rimuovere?33
L’ospitalità diventa così un necessario cammino di crescente comprensione di sé e degli altri, in quanto capisco (e ospito) sempre solo in parte lo straniero tanto quanto lo faccio con me stesso; per dirla con Montaigne, c’è tanta differenza fra noi e noi stessi quanta fra noi e gli altri34. Ma questo comprendere, non è forse già un contenere, un imprigionare e un fagocitare l’altro? Non è detto, se si riconosce un’ultima insuperabile alterità dell’altro, se si comprende al modo di una rete, che si conforma al contenuto, e se allo stesso tempo ci si lascia comprendere dall’altro: occorre con-tenere e con-cedere, con-formare e con-formarsi, com-prendere e con-donare, concretizzando così un simmetrico comprendersi e ospitarsi35. Se nonostante ciò si vuole ricorrere ad un’altra espressione, si può allora parlare di un’esplorazione dell’altro, dell’immergersi nel suo mondo, nell’oceano della sua interiorità e della sua esperienza di vita, sapendo che mai lo si scoprirà completamente; siamo felicemente condannati ad accontentarci di saggi e assaggi, sondaggi e immersioni, persino con la moglie sposata da trent’anni, persino con sé stessi. Se già un elettrone è inesauribile, figuriamoci le persone; l’importante è esplorare la realtà tuffandosi in essa, valorizzando un’ospitalità che riveli l’altro a me, me all’altro, e ciascuno a sé stesso36.
Per di più, l’ospite è come Roma: se anche si riuscisse a girarla tutta, occorrerebbe poi ricominciare da capo perché nel frattempo è cambiata. L’insondabilità delle persone è dinamica, e rendersene conto è salutare e curativo; le relazioni interpersonali e le aspettative nell’incontro con l’altro cambiano con il tempo: se io penso che Tizio è fatto così e così sempre resterà, o se lo penso addirittura di me (con una cecità assoluta verso i dati di fatto della mia esperienza, in cui tutto parla di trasformazione e persino volubilità), instaurerò relazioni rigide e statiche sia con l’altro sia con me stesso, tradendo in ogni modo il senso dell’ospitalità.
Infine, il contatto con la diversità palese dell’estraneo è un ammonimento a non dimenticare la diversità criptica del familiare: l’intimità e la prossimità inducono infatti la ragion pigra a sedersi sugli allori, a ritenere di non aver più nulla da imparare sul conto di chi ci sta accanto; di conseguenza, esperienze più o meno inaspettate di ostranenie aiutano a mantenere vivo il senso di mistero verso ogni realtà con cui entriamo in relazione37.
5. Livelli e misura dell’ospitalità
Se è vero che occorre pensare l’ospitalità in tutte le sue forme e verso ogni possibile ospite, occorre peraltro tener distinti i livelli di analisi e azione. Ad esempio, si può estendere quanto si dice dell’ospitalità personale all’ospitalità nazionale, e viceversa? Se un esponente politico propugna l’ospitalità a livello nazionale, si può replicare invitandolo a portarseli a casa sua, tutti i profughi che vuole? La risposta è in larga misura negativa38, perché ad ogni livello della realtà certe proprietà scompaiono e ne emergono altre, che richiedono un approccio conoscitivo e pragmatico specifico; se ad esempio descrivessimo lo stato come una famiglia di famiglie, o affermassimo che un segretario di partito deve comportarsi come un buon padre di famiglia, non potremmo per ciò stesso scambiare queste metafore per delle identità, né confondere politica e sociologia. Al massimo, si potrebbero individuare degli omomorfismi39 o delle relazioni di proporzione tra livelli diversi: una famiglia ospitale sta all’adozione di un figlio come un popolo ospitale sta all’adozione di una minoranza in fuga da guerre o carestie (e solitamente da entrambe). Livelli diversi comportano allora responsabilità e impegni diversi: ad esempio, i singoli possono avere remore temperamentali o difficoltà contingenti ad ospitare40, che nell’ambito di una grande popolazione verrebbero statisticamente compensate dall’esuberante e gioiosa accoglienza di altri; è vero che chiunque può, più o meno ipocritamente, dirsi ospitale in generale ma impossibilitato ad accogliere nei casi particolari, ma al di là di questo la forza di una società sta nel sostegno vicendevole, nel bilanciare la debolezza degli uni con la forza degli altri.
Si affaccia però un’ulteriore obiezione: se le persone da ospitare non sono più una minoranza, quando ci si può o ci si deve fermare? Fino a che punto essere ospitali? È una domanda che ricorda quella di Pietro su quante volte si deve perdonare41, ma la questione è cruciale. È evidente che anche chi è aperto all’ospitalità ad un certo punto dirà basta, se proprio non è un eroe e se non ha deciso – cosa che non si può esigere da tutti – di ospitare usque ad effusionem sanguinis42. E dunque le discussioni riguardano spesso la determinazione dei limiti concreti più che la necessità di un confine astrattamente inteso: fatto del resto assai comune, visto che ogni genitore discute ad nauseam sull’ora di rientro dei figli adolescenti, e che le guerre sono spesso scatenate da questioni di confine. Tuttavia, il problema ha un aspetto più profondo: altro è ammettere una tragica impotenza dicendo «cari fratelli e sorelle, vorremmo sinceramente ospitarvi e immergerci nella vostra realtà, ma proprio non ce la facciamo», altro è sibilare «tornatevene a casa vostra, che qui non vi vogliamo». Dal punto di vista pratico, l’esito è lo stesso, ma da quello umano c’è una differenza abissale. Come per la povertà delle Beatitudini, c’è uno spirito di ospitalità e un’ospitalità di spirito che precedono e fondano l’accoglienza concreta.
Cosa troviamo invece alla radice dell’inospitalità? Si parla spesso di paura del contagio, dell’infezione43. A ben vedere, però, una qualche infezione è inevitabile, cioè avviene sia con l’ospitalità che con l’inospitalità, e coinvolge tanto chi chiede ospitalità quanto chi riceve la domanda. Ne risultano quindi quattro possibili effetti, che esaminiamo mantenendo pro tempore la distinzione tra gli interessati. Se l’ospitalità viene accordata, l’ospitante sentirà di aver aperto il cuore (e il portafoglio) alle necessità altrui, e l’ospitato proverà un senso di riconoscenza e ammirazione per chi lo ha accolto. Se invece l’invocazione non viene ascoltata, l’ospitante subirà un indurimento del cuore, l’insorgere di un atteggiamento di chiusura, un rigurgito di autocompiacimento etnocentrico, mentre nell’ospitato nascerà un senso di disprezzo verso un paese pacifico e ricco che non accoglie il profugo e l’affamato. Qualsiasi scelta si compia sarà infettiva, contaminerà le persone coinvolte, inoculerà germi di incontro o di esclusione; si tratta dunque di decidere da quale infezione si vuol essere colpiti. Con metafora neanche troppo audace si potrebbe dire che le interazioni umane generano entanglement: una volta che due persone abbiano interagito, anche per poco o anche mediatamente (ad esempio, venendo a conoscenza l’una dell’altra tramite un media), rimarranno correlate, come i fotoni del paradosso quantistico EPR44. Si può far finta di niente, ci si può forzare a dimenticare un incontro, ma un segno, una piccola cicatrice dell’infezione resterà. L’unica alternativa sarebbe prevenire l’interazione, ma come insegnano la Belle au bois dormant, il mito di Edipo e la giovinezza del Buddha ciò risulta alla fine impossibile, anzi controproducente. Dunque, non resta che scegliere di quale entanglement si vuole morire, e soprattutto vivere.
Di nuovo, bando a facili esaltazioni indiscriminate dell’ospitalità: ospitarsi è impegnativo (e a volte faticoso), ma è utile (e a volte necessario) per imparare il mestiere di essere uomini e donne. L’ospitalità richiede mani operose guidate dalla mente e dal cuore, e piedi in cammino verso la fraternità e la comunione.
6. Il compito che ci attende
Quali compiti dunque ci attendono?
Innanzitutto, possiamo interrogarci sulla nostra situazione individuale e sociale, per capire a che punto siamo nell’ospitare l’ospitalità. Come la fiducia e il dialogo, che richiedono prima un atteggiamento di disponibilità e poi comportamenti conseguenti, anche l’ospitalità si distende su due livelli: prima si apre il cuore, poi la porta di casa, sapendo e accettando che questa relazione ci trasformerà e non ne usciremo come vi siamo entrati. Si tratta dunque di fare spazio, in sé stessi e insieme agli altri, a una riflessione esplicita su questo tema, sottraendolo al calderone flaubertiano dei luoghi comuni; per qualcuno si tratterà semplicemente di portare a coscienza quello che già vive spontaneamente, per altri tale riflessione potrà avviare un percorso di conversione dall’ostilità o dal disinteresse45. L’apertura all’ospitalità stimola inoltre la creatività, perché come abbiamo visto si può essere ospitali in mille modi, dall’ascolto della suocera in difficoltà all’affidamento di un minore straniero, sulla falsariga delle opere di misericordia spirituale e corporale.
Anzi, se l’ospitalità reciproca è così bella, non dovremmo chiedere noi stessi di ospitare, invitando fratelli e sorelle? E non dovremmo domandare noi stessi di essere ospitati, visitando vicini e lontani? In questi tempi di connessione passiva, in cui affidiamo ai social network il compito di metterci in contatto con persone che altrimenti non cercheremmo, ciò può risultare difficile; sarà bene dunque riappropriarci di modalità di connessione attiva, andando incontro all’altro, senza demandare a opachi media la gioia e la fatica dell’ospitalità46. Come per il prossimo nella parabola del samaritano ospitale47, non occorre tanto chiedersi chi sia l’ospite giusto, quanto piuttosto farsi ospiti48.
Ovviamente, lo ripetiamo ancora una volta con Derrida49, l’ospite resta sempre e comunque un’incognita e un rischio, per cui occorrono prudenza, gradualità ed energie tanto maggiori quanto più sono distanti culturalmente ed esistenzialmente gli ospiti50. E tuttavia, chiudersi pregiudizialmente verso certi ospiti, di solito i più lontani e diversi da noi, non risolve i problemi, anzi, in qualche modo accentua la tendenza a chiudersi verso molti altri ospiti; sembra esserci una sorta di parallelismo tra le diverse ospitalità, come pure tra le varie inospitalità51: chi è inospitale verso, poniamo, lo straniero, capita che lo sia anche con il partner in camera da letto e con il turista che chiede informazioni, con le opinioni del vicino di casa e con il gatto che gnaula in cortile52. Inoltre, una volta che si inizia a dire: prima i connazionali, non si continuerà dicendo: prima i concittadini, prima i parenti, prima io? È chiaro che l’ospitalità lavora a cerchi concentrici53, ma questi dovrebbero tendere ad allargarsi come nell’acqua, anziché a restringersi o bloccarsi. Dunque, le ospitalità si intrecciano, vibrano ed entrano in risonanza tra loro: non si dà l’una senza un minimo almeno delle altre; ecco perché si può affermare, con Derrida, che l’ospitalità e l’inclusione dell’altro sono il presupposto stesso del sentirsi a proprio agio con sé stessi (l’être-soi chez soi), cioè dell’essere ospitali verso sé stessi54.
Un altro compito urgente è quello di sostenere le ragioni dell’ospitalità nelle agorà reali e virtuali, in modo da incidere sulla pubblica opinione e sul sentire comune; si incoraggerà così sperabilmente quella conversione della mente e del cuore che porti ad essere più creativi – come singoli e come comunità, come società civile e come istituzioni – nel trovare nuovi mezzi, spazi ed energie di ospitalità.
Servirà infine immaginare limpide figure e incisive metafore che ci aiutino a vedere l’ospitalità in una nuova luce? O non si scoprirà piuttosto che l’ospite stesso è figura e metafora della condizione umana? In ogni caso, oltre che riflettere e discutere su questi temi, dovremo sempre e ancora fare esperienza di ospitalità e sperimentare forme inedite di ospitalità55, pronti così a sorridere quando ci confronteremo con l’antica parola56: «Ero forestiero e mi avete ospitato».
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Mi piace iniziare citando uno dei versetti che aprono i Dialoghi di Confucio nella traduzione latina del gesuita Angelo Zottoli (Dissertae Sententiae, pubblicata a Shangai nel 1879), al fine di mostrare sin dall’inizio che l’ospitalità comporta l’apertura a ogni alterità, dalla lingua alla nazionalità. ↩︎
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Per comprendere la complessità della situazione, si pensi ad esempio al fatto che la ricettività turistica viene a volte utilizzata per ospitare immigrati in attesa di una sistemazione definitiva o i superstiti di catastrofi naturali. Per una visione universale dell’ospitalità resta ovviamente fondamentale: Kant, I. 1795. Zum Ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf. Königsberg, Nicolovius. ↩︎
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Ramellini, P. 2009. Vivere insieme. Roma, Ateneo Pontificio Regina Apostolorum/IF P. ↩︎
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Si veda Copi, I. M., & C. Cohen. 19908. Introduction to Logic. New York, NY, Macmillan; per gli aspetti scientifici Mahner, M., & M. Bunge. 1997. Foundations of Biophilosophy. Berlin-Heidelberg-New York, Springer. ↩︎
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Anche notevole è l’incertezza, non saprei dire se casuale o meno, che soprattutto nel linguaggio parlato si dà circa il sesso dell’ospite (mentre ad esempio l’inglese ha host/hostess, ma solo guest). Di passaggio, faccio notare come sarebbe bello disporre di parole altrettanto ambigue anche in altri campi. Una parola ad esempio che facesse confusione tra insegnante e studente, a ricordarci che entrambi hanno tanto da insegnare quanto da apprendere, potrebbe avere interessanti ripercussioni sulla didattica; Paulo Freire se la cavava parlando di insegnante-studente e studente-insegnante (Freire, P. 2017. Pedagogy of the Oppressed. New York, NY, PRH, p. 53). ↩︎
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Ricordo a questo proposito le parole di papa Francesco nell’udienza generale del 27 settembre 2017: «il viaggio si fa in due: quelli che vengono nella nostra terra, e noi che andiamo verso il loro cuore, per capirli, per capire la loro cultura, la loro lingua». Il testo è reperibile alla pagina http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2017/documents/papa-francesco_20170927_udienza-generale.html. ↩︎
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Derrida, J. 1997. Cosmopolites de tous les pays, encore un effort!. Paris, Galilée. ↩︎
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Andrebbe condotta, a questo punto, una ricerca sulle altre aree culturali, che ovviamente esula da questo contributo. Voglio tuttavia almeno richiamare il cerimoniale del tè giapponese, in cui vige il principio del muhinshu, ovvero la scomparsa (mu) della distinzione tra ospitante (hin) e ospitato (shu), in modo da creare quell’armonia organica tra persone, oggetti e azioni che costituisce l’ideale del chanoyu, la cerimonia del tè (Ramellini 2009, cit. alla nt. 4); a tal fine, la scuola Sen del tè introdusse un esercizio in cui il ruolo di ospitante veniva tirato a sorte tra i partecipanti (Pitelka, M. 2005. Handmade Culture. Honolulu, U. Hawai’i P., p. 95). Per tornare alla cultura mediterranea, Aristotele sosteneva molto ragionevolmente che l’ospite non deve rimanere tale per sempre, ma integrarsi gradualmente nel contesto che lo accoglie (Retorica, 1405a 7-12), idea che ritroviamo ad esempio nella Didaché (12,1-4). In ogni caso, la reciprocità non è solo una questione di bontà personale o di accorati appelli all’ospitalità, ma anche fondamento di solide analisi politiche ed economiche, come in: Collier, P. 2018. The Future of Capitalism. New York, NY, Harper. ↩︎
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Benveniste, É. 1971. Problemi di linguistica generale. Milano, il Saggiatore, p. 378; Ramellini, P. 2015. Ecologia umana. Studia Bioethica, 8(2): 5-15. ↩︎
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Mauss, M. 1925. Essai sur le don. L’Année sociol., N. S., 1: 30-186. Per una visione diversa delle economie del dono si vedano: Polanyi, M. 1944. The Great Transformation. New York, NY, Rinehart; Sahlins, M. 1972. Stone Age Economics. London, Tavistock, cap. 5. ↩︎
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Piuttosto, occorrerà chiedersi se sia possibile non tanto un’ospitalità non condizionata dall’egemonia del dominus, quanto l’ospitalità radicale, fontale, senza contraccambio. La tradizione cristiana ritiene che ciò sia possibile solo a Dio, che ci ha amato per primi (1Gv 4,19); qualsiasi forma di amore umano – per quanto disinteressato nei confronti del fratello o della sorella – resta sempre una risposta all’amore divino, che divinizza l’uomo per partecipazione alla divinità del theos agapē estin (1Gv 4,8). ↩︎
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Detto in termini antropologici: come distinguere tra reciprocità generalizzata, equilibrata e negativa? La questione è stata analizzata a fondo in: Sahlins, M. 1972, cit. alla nt.11. Di passaggio, faccio notare che il concetto di reciprocità generalizzata ha qualche risonanza con l’ospitalità incondizionata sviluppata in: Derrida, J. 2000. Hostipitality. Angelaki, 5(3): 3-18 (il titolo del contributo gioca ovviamente sulla coppia hospes-hostis). ↩︎
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In realtà, non c’è solo il proverbio sull’ospite che, come il pesce, dopo tre giorni puzza. Cicerone (Ad Attico, 13.33A) utilizza l’espressione ‘strappare il mantello’ per alludere a chi, pur di trattenerti come ospite, non ti permette di rivestirti per uscire. ↩︎
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Chi sei? Ecco una domanda che dovremmo porci di fronte a chi chiede ospitalità, non tanto per sapere se possiamo respingerlo con sollievo o se purtroppo ci tocca accoglierlo, quanto per stabilire un primo contatto con lui o lei; a meno di non voler seguire la tradizione mediorientale di non chiedere informazioni e notizie a chi si ospita se non dopo qualche giorno, una volta cioè che l’ospitato si sia ambientato e rilassato. L’obiettivo è in ogni caso quello di riconoscere un volto di carne, della nostra stessa carne, là dove prima scorgevamo solo un’effigie di cartapesta; questo è ciò che ha messo in evidenza l’artista cinese Liu Jianhua nella sua mostra Monumenti (Napoli, Chiostro di S. Caterina a Formiello, 8.XII.2018-21.III.2019), dove riproduzioni di cartapesta di alcuni immigrati si sono alternate su colorati piedistalli alle persone reali in esse effigiate. ↩︎
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Calder III, W. M. 1984. Gold for Bronze: Iliad 6.232-36, 31-35. In: Boegehold, A. L., et al. (eds.). Studies Presented to Sterling Dow on his Eightieth Birthday. Durham, N.C., Duke University GRBS Monograph 10. ↩︎
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Donlan, W. 1989. The Unequal Exchange between Glaucus and Diomedes in Light of the Homeric Gift-Economy. Phoenix, 43(1): 1-15. ↩︎
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Mt 5,40. ↩︎
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Lc 19, 1-10. ↩︎
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Per Aristotele: Etica Nic., V, 5; Politica, I, 3; per Tommaso d’Aquino: S. Theol., IIa IIae, q. 78, a. 1. ↩︎
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La questione dello standard è particolarmente intrigante nel caso del mondo omerico perché, come l’economista John M. Keynes ha mostrato, in Grecia coesistevano (fatto piuttosto sconcertante per la teoria economica classica) tre sfere di scambio, basate su distinti standard monetari o quasi-monetari: uno basato su bovini e ovini a scopi di ostentazione, religiosi, di ricompensa o punizione; uno basato sui cereali per stabilire rendite, pagamenti e prestiti agricoli; un terzo basato su ferro o bronzo per finalità di mercato (Keynes, J. M. 1982. Keynes and Ancient Currencies. In: Johnson, E., e D. Moggridge (eds.). The Collected Writings of John Maynard Keynes, vol. 28. London, Macmillan, pp. 223-294). ↩︎
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Paolo di Tarso riconobbe chiaramente che in una comunità come la Chiesa (o come la società) le membra più necessarie sono proprio le più deboli (1Cor 12, 22). ↩︎
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Cfr. Lv 19,34: «Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto». ↩︎
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Su questi temi si veda Agamben, G. 2018. Homo sacer. Macerata, Quodlibet. ↩︎
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Il concetto di ‘autorità dei sofferenti’, di cui vorrei cogliere soprattutto il senso etimologico di ciò che fa crescere (auctoritas da augere, crescere), è stato affinato soprattutto dal teologo Johann B. Metz, ad esempio in: Metz, J. B., & T. R. Peters. 1992. Passione per Dio. Brescia, Queriniana; Metz, J. B. 2009. “Con il volto rivolto verso il mondo” - Una notizia teologico-biografica. Annali Studi Religiosi, 10: 15-24. ↩︎
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A chi voglia nonostante tutto fare i conti in tasca all’ospitalità, e in particolare all’immigrazione, potranno interessare le impressionanti le statistiche pubblicate a fine 2018 dalla Commission on Migration and Health istituita dalla rivista The Lancet (www.thelancet.com/commissions/migration-health), che stimano una crescita del 2% del PIL per ogni aumento dell’1% nella popolazione adulta di immigrati. In generale, queste e altre relazioni interculturali possono essere utilmente impostate a partire dai concetti di scarto e risorsa messi a punto in Jullien, F. 2015. De l’être au vivre. Paris, Gallimard. ↩︎
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Ciò ovviamente non toglie nulla alle possibilità di offrire dei benefici molto concreti: se dovessi naufragare su un’isola deserta, preferirei farlo insieme a un clochard che ad Immanuel Kant. L’artista Joseph Beuys ha utilizzato grasso e feltro in molte sue opere, narrando come durante la Seconda Guerra Mondiale, colpito e prossimo a morire assiderato, venne salvato da alcuni nomadi che lo ricopersero di quei materiali; che l’episodio sia realmente accaduto o sia stato immaginato, ha comunque lasciato un segno profondo sul suo animo; cfr. Tisdall, C. 1979. Joseph Beuys. New York, NY, Guggenheim Museum, pp. 16-17. ↩︎
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In: Conze, E. 1973. Buddhist Scriptures. London, Penguin, pp. 24-25. ↩︎
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Saṃyutta Nikāia, 4. ↩︎
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Lc 22,39-44. ↩︎
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Roth, P. 2013. Pastorale americana. Torino, Einaudi, p. 94. ↩︎
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Eneide, II, 49. In altre parole, non possiamo nasconderci la dialettica hospes-hostis, ma possiamo coscientizzarla, soppe(n)sarla, neutralizzarla, trasformarla. In ogni caso, la storia di questi termini è assai istruttiva: hostis assume il significato di nemico solo con il sorgere della civitas, ed è allora che nasce il termine hospes; cfr. Benveniste, É. 1969. Le vocabulaire des institutions indo-européennes, t. I. Paris, Minuit. ↩︎
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Gibran, K. 1923. The Prophet. New York, NY, Knopf. ↩︎
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Qui l’ospitalità si riallaccia ad una serie di «sorelle» come la pazienza, la tolleranza, l’accettazione di sé e dell’altro, per le quali rimando a due bellissimi contributi: Guardini, R. 1960. Die Annahme seiner Selbst. Würzburg, Werkbund; Rahner, K. 1983. Über die intellektuelle Geduld mit sich selbst, 303-314. In: Schriften zur Theologie, Bd. 15. Zürich, Benziger. ↩︎
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Essais, II:1. ↩︎
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Il tema della comprensione, del capire e del capirsi, è fondamentale in antropologia, soprattutto in quella ad orientamento semiotico ed ermeneutico. A questo proposito Clifford Geertz citava opportunamente Wittgenstein, il quale sosteneva che, ospiti in un paese straniero, non capiamo gli abitanti perché, anche se ne conosciamo la lingua, non riusciamo a metterci nei loro panni. Anche in questo senso l’ospitalità richiede un lungo, paziente lavoro per capirsi e ospitarsi, che nell’antropologia interpretativa viene chiamato approccio denso (thick). Cfr. Geertz, C. 1973. Interpretation of Cultures. New York, NY, Basic Books, p. 13. ↩︎
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Per una lettura in chiave ecologica dell’apertura e dell’immersione nella realtà si veda: Ramellini, P. 2016. On the Meaning of Integral Ecology. Alpha Omega, 19(2): 253-272. Esplorazione, prospezione e sondaggio sono anche le metafore suggerite da François Jullien (2015, cit. alla nt. 24) per farsi carico della diversità e dell’alterità delle culture. ↩︎
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In un certo senso, si tratta dunque di un movimento duplice: scoprire che il familiare cela misteri insospettati, e che l’esotico non è poi così diverso dal domestico; forse la prima scoperta non solo è più sorprendente, ma più angosciante: non per niente Lacan sosteneva che l’alterità del prossimo (il Nebenmensch freudiano) è la ‘Cosa’ che sta alla radice di ogni ansia (Lacan, J. 2014. The Seminar of Jacques Lacan, Book X: Anxiety. Cambridge, UK - Malden, MA, Polity P.). Tutti gli intrecci che siamo andati scoprendo nel corso di questa riflessione fanno pensare all’ospitalità – e più in generale alle relazioni umane – come a una bottiglia di Klein, in cui la distinzione tra interno ed esterno e la delimitazione di confini netti risultano ultimamente impossibili. ↩︎
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Per rendersene conto basta pensare a un caso contrario: una Ministra dell’Interno può benissimo essere personalmente molto ospitale con gli amici, assumere un maggiordomo filippino e adottare un menino de rua brasiliano, e al contempo essere politicamente contraria ad ospitare quote significative di immigrati, fossero pure di passaggio verso stati terzi. ↩︎
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Il concetto di omeomorfismo è stato più volte utilizzato da Raimon Panikkar per designare una funzione topologica o una corrispondenza analogica (intesa come equivalenza funzionale) tra sistemi di pensiero diversi, per cui ad esempio il Cristo nel Cristianesimo è omeomorfo a Ishvara nell’Induismo (cfr. ad esempio Panikkar, R. 1964. The Unknown Christ of Hinduism. London, Darton, Longman & Todd). Tuttavia, ciò che Panikkar chiama omeomorfismo (topologico) sembra essere più che altro un omomorfismo (algebrico), cioè una funzione che mappa gli elementi di una struttura algebrica in quelli di un’altra dello stesso tipo, preservandone le rispettive operazioni; ovviamente, il tutto va inteso in senso metaforico, perché in senso proprio un termine come omeomorfismo riguarda insiemi e non enti reali. Se invece si volesse istituire una comparazione con la biologia, si tratterebbe di un’analogia, nel senso in cui si dice che l’ala dell’uccello è analoga a quella di un insetto, essendo esse equivalenti funzionalmente (anche se differenti dal punto di vista anatomico). ↩︎
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Si ricordi a questo proposito l’Alcesti (771 sgg.): non si ha forse il diritto di detestare il forestiero che giunge in un triste frangente? Detestare magari no, ma certamente vi sono occasioni in cui semplicemente non si può o non si riesce ad essere ospitali sino in fondo. ↩︎
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Mt 18,21. ↩︎
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Il riferimento al martirio è d’obbligo pensando ad esempio all’ospitalità verso gli ebrei sotto la dittatura nazista. ↩︎
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L’infezione viene qui intesa in senso generale, ma sappiamo quanti siano i timori del contagio in senso medico ed epidemiologico; il rapporto di The Lancet sopra citato smonta con dati precisi gran parte di queste illazioni. ↩︎
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In qualche modo, ciò è vero anche del linguaggio. Se all’inizio dicevo che le parole sono come fili, bisogna subito precisare che fin dalla loro filatura essi sono in qualche modo già intrecciati, entangled, con tutti gli altri fili del tessuto linguistico. ↩︎
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Anzi, per chi voglia e possa, non sarebbe male studiare la storia dell’ospitalità, assai istruttiva e sorprendente soprattutto se accompagnata da un approfondimento sulle migrazioni umane: che dire ad esempio del fatto che nella prima metà del Novecento l’area che ha generato più rifugiati nel mondo è stata l’Europa? (Hoerder, D. 2011. Migrations, 269-287. In: Bentley, J. H. (ed.). The Oxford Handbook of World History. Oxford, Oxford U.P.). ↩︎
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Sul tema della connessione attiva e passiva, come pure sulle bolle digitali che i social possono generare nell’ospitalità puramente virtuale si veda Pariser, E. 2011. The Filter Bubble. New York, NY, Penguin P. ↩︎
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Lc 10,25-37. ↩︎
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Si noti che l’ospitalità del samaritano è allo stesso tempo compassionevole e intelligente: il cuore gli impone il pronto soccorso, la mente gli suggerisce di affidarlo a un professionista dell’ospitalità. ↩︎
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Derrida 2000, cit. alla nt. 14. ↩︎
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Erasmo da Rotterdam aggiungerebbe che l’ospitalità richiede anche un granellino di pazzia (Moriae Encomium, 21); la relazione tra ospitalità e pazzia, anche nei loro rapporti con la legge, è ben presente in Derrida; insomma, c’è della pazzia nell’ospitalità, e del metodo in questa pazzia. Cfr. Derrida, J. 1992. Force of Law, 3-67. In: Cornell, D., M. Rosenfeld & D. G. Carlson (eds.). Deconstruction and the Possibility of Justice. New York, NY, Routledge. ↩︎
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Meno problematico appare un altro parallelismo, quello cioè tra diminuzione dell’ospitalità e divisione e specializzazione del lavoro: se tutti ci fermassimo per strada come il Buon Samaritano, cosa accadrebbe alla società? Se il conducente d’autobus non andasse a lavorare perché deve soccorrere il ferito in cui si è imbattuto, e se il medico del pronto soccorso non ci fosse per curare quel ferito, perché si è fermato sotto la metro per consolare un barbone, cosa accadrebbe? Ora, in una società in cui la divisione del lavoro è molto spinta e ben organizzata, ci si attende che basti chiamare l’ospedale affinché arrivi l’ambulanza, e dunque diminuisce la necessità di ospitare e aiutare immediatamente il prossimo in difficoltà. In generale, lo scambio umano, sia esso relativo al mercato o all’ospitalità, può assumere forme dirette o indirette, secondo lo schema messo a punto per il matrimonio in: Lévi-Strauss, C. 1949. Les structures élémentaires de la parenté. Paris, P.U.F. ↩︎
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L’esempio sopra proposto della Ministra non va contro questo parallelismo, perché riguarda livelli diversi di organizzazione, che come ho detto richiedono strumenti concettuali e pragmatici diversi. ↩︎
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Il modello a cerchi concentrici è stato esplicitamente proposto da Sahlins (1972, cit. alla nt. 11) per la reciprocità, e poi rivisto in: Ingold, T. 1986. The Appropriation of Nature. Manchester, Manchester U.P. ↩︎
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Derrida 1997, cit. alla nt. 8, p. 42. ↩︎
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Derrida 2000, cit. alla nt. 14; Kant 1795, cit. alla nt. 3. ↩︎
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Mt 25,35. ↩︎