Ekphron, fuori di senno, è il poeta: i suoi versi scaturiscono da una privazione del nous, della sua facoltà intellettiva. Egli è «fuori di sé» perché è entheos: il dio lo invade, lo possiede, katechei, e lo spinge oltre i confini dell’io cosciente. L’invasione del dio sovverte quella soggettività che, grazie a techne e ad episteme, conosce ed opera sul reale. Non per techne, dunque, né per episteme, i poeti compongono i loro versi, e altrettanto si può dire per i rapsodi che li recitano al pubblico: un’indefinita e imprevedibile forza divina, theia dynamis, irrompe svelandosi come unica autrice di quei versi. Il dio è il vero artista che usa del poeta e del rapsodo come di umani strumenti: il dio si serve di loro, suoi interpreti entusiasti ed inconsapevoli, esseri «leggeri, sacri ed alati» che come api attingono presso il boschetto delle Muse le parole del dio, miele divino e seducente, e poi volano di fiore in fiore addolcendo le anime dei greci.
In questa descrizione celebre della natura di poeti e rapsodi, offerta da Socrate nello Ione platonico, gran parte della tradizione interpretativa vede affermarsi una dicotomia tra l’irrazionalità della poesia e delle arti mimetiche, da una parte, e, dall’altra parte, la razionalità delle scienze e delle tecniche che impegnano gli uomini nella città.1 Lo Ione è perlopiù accolto come un manifesto del razionalismo di Platone e della sua dura critica alla tradizione poetica, dunque alla principale autorità educativa del suo tempo.2 Una critica forte e tuttavia non ancora pienamente sviluppata, quella dello Ione secondo la maggioranza delle interpretazioni, giacché solo nella Repubblica la posizione di Platone sui poeti troverebbe la sua articolazione concettuale definitiva attraverso l’analisi delle arti mimetiche.
Lo Ione conterrebbe, dunque, il primo annuncio rivoluzionario di una nuova prospettiva dalla quale l’uomo greco può guardare al mondo e alla sua cultura: non soltanto i rapsodi, che all’epoca giravano per le città dell’Ellade recitando i versi dei poeti e consolidando quel patrimonio di tradizione orale che era il nucleo dell’identità greca, sembrano infatti uscire malconci dall’esame impietoso di Socrate. Anche l’immagine dei poeti più grandi, dei depositari più autorevoli della tradizione, risulta seriamente compromessa. Le loro creazioni paiono frutto di un delirio, di una perdita di senno che impedisce di prenderli sul serio.3 Un giudizio sconcertante, quello di Platone sui padri della cultura greca, in primo luogo per l’impatto di una simile presa di posizione sul piano etico e politico: sacerdoti e vati greci, infatti, hanno attinto per secoli, nel loro rapporto con gli dei, ai racconti mitologici dei poeti del passato trattandoli come descrizioni indiscutibili della realtà divina.4
Tuttavia, accanto all’immagine di un Platone nemico dell’irrazionalità di poeti e artisti, a nostro avviso la lettura dello Ione offre anche la possibilità di guardare al rapporto tra Platone e la poesia da un’altra prospettiva: numerosi, per quanto impliciti e spesso ben nascosti oltre il piano discorsivo-lineare del testo platonico, sono infatti gli indizi che suggeriscono di inoltrarsi in una direzione diversa. Indizi che paiono poter mettere in discussione, innanzitutto, quella rigida dicotomia tra l’irrazionalità della poesia e la razionalità delle scienze: oltre questa innegabile frattura che attraversa il livello più esplicito del testo, infatti, il lettore sembra spinto da Platone a scorgere anche, nell’immagine scritta della mancanza di conoscenza, del difetto costitutivo, del negativo che caratterizza poeti e rapsodi, il simbolo di qualcosa di radicalmente altro. Un altro al quale l’immagine dell’uscir da sé dell’entheos consente forse di avvicinarsi: si tratta di un termine enigmatico, verso il quale l’eikon scritta, costituita dalla dissennatezza di poeti e rapsodi, rinvia il lettore di Platone.5
La tesi del presente lavoro, dunque, è che il testo dello Ione esorti il lettore a pensare un’alterità radicale sia rispetto al piano esplicito della scrittura, sia rispetto alla prospettiva che considera come autentiche forme di conoscenza soltanto tecnhe ed espisteme: ciò di cui l’uscir da sé dei poeti sembra essere un simbolo, lungi dal costituire una negazione tout court della conoscenza, rivela infatti molte affinità con l’indefinibile «saper di non sapere» di Socrate, con l’eros e con l’enigmatico dialegesthai che caratterizzano la sua figura nei dialoghi di Platone.
L’uscir da sé del poeta e del rapsodo descritto nello Ione pare accennare a qualcosa di irrappresentabile e in nessun modo riconducibile entro i confini della scrittura, o meglio, entro i confini di ciò che si lascia trasmettere come contenuto oggettivo e per tutti uguale della scrittura al pari dell’acqua che, come dice Socrate nel Simposio, scorre lungo un filo di lana dalla tazza piena alla tazza vuota. Le conseguenze di questo tralucere di un’enigmatica conoscenza attraverso l’immagine scritta della costitutiva ignoranza di poeti e rapsodi, inoltre, si ripercuotono anche sul piano politico: poeti e rapsodi, con le loro deliranti illusioni, seducono il pubblico e persino gli operatori tecnici dei teatri, fino al punto che tutti si ritrovano a credere, un po’come Socrate al principio del Fedro, che la Chimera e le altre creature del mito siano «vere». Questo «magnetico» coinvolgimento nell’illusione consente di ipotizzare una valenza politica dell’uscir da sé di poeti e rapsodi: la «forza divina» che porta tutti a ritenere che le creature della fantasia del poeta siano vere, a prima vista, sembrerebbe confinata nell’ambito giocoso della finzione poetica, un ambito ben separato dalla serietà richiesta dal governo della polis. Ebbene, dietro la sua giocosità, questa delirante ma divina illusione condivisa da tutti, secondo la quale la finzione poetica è «vera», può forse essere letta come immagine scritta di un altro modo di intendere lo spazio politico.
1. L’ignoranza di poeti e rapsodi
Tutto questo, però, rimane accuratamente celato nell’implicito della scrittura platonica. Lo Ione, infatti, si apre con uno scambio di battute tra Socrate e il rapsodo Ione di Efeso in cui l’ateniese non nasconde la sua tagliente ironia circa il valore dell’arte del suo interlocutore. Socrate è sorpreso di scoprire che ad Epiduaro, città da cui Ione è appena giunto in Atene, la celebrazione delle feste in onore di Asclepio, quel medico sapiente a cui Socrate dedicherà le sue ultime parole prima di morire,6 preveda anche l’esibizione di rapsodi: ben scarso valore sembra attribuire Socrate ai rapsodi, dal momento che rimane stupito dal loro accostamento ad una figura nobile come quella di Asclepio. Subito dopo, Socrate si dichiara invidioso della bellezza esteriore del rapsodo, del suo to soma kekosmesthai, dei suoi ornamenti e del suo aspetto sempre così conveniente alla recitazione, come se questi dettagli cosmetici fossero le sue caratteristiche principali. È chiaramente un’altra stoccata alla superficialità di Ione e dei suoi celebrati colleghi.
Poi l’ateniese si dice anche invidioso della familiarità con cui costoro trattano i grandi poeti, dei quali si fanno interpreti per il pubblico. I rapsodi sembrano infatti gli unici in grado di comprendere davvero il pensiero di Omero, Esiodo, Archiloco e degli altri maestri della poesia greca. E se il pensiero e le parole di quegli uomini del passato costituiscono la base della cultura del presente, si capisce quali onori spettino a chi ne è esperto.7
Ma stanno davvero così le cose? Subito dopo aver chiesto a Ione di dargli un saggio della sua abilità recitativa, Socrate rivolge al rapsodo una serie di domande che rivelano un dubbio di fondo: è vera conoscenza quella del rapsodo? Meritano davvero, Ione e compagni, l’appellativo di esperti da ascoltare con grande attenzione? Inizia così l’incalzante interrogare con cui Socrate cerca di condurre Ione a rivelare la vera natura della sua arte.
Il confronto decisivo per verificare in cosa mai consistano l’arte dei rapsodi e quella dei poeti, e soprattutto se si tratti di autentiche forme di conoscenza, è con gli unici modelli di sapere ammessi e riconosciuti da tutti: la tecnhe e l’episteme, concetti diversi che tuttavia Platone, in questo testo, non precisa nei loro contorni. Anzi, sembra che egli li faccia deliberatamente sfumare l’uno sull’altro, lasciandoli quasi trasparire come sinonimi. Infatti, oltre le differenze essenziali che li dividono e che qui non vengono trattate, quello che conta in questo caso è che techne ed episteme insieme delimitano, agli occhi di tutti, i confini del sapere umano: ciò che sta fuori o soltanto sporge oltre tali confini, non può dirsi autentico sapere. Ed è proprio questo il caso della poesia e della recitazione dei rapsodi.
Le domande di Socrate conducono Ione, interprete celebre dei poemi omerici, ad ammettere di avere un rapporto speciale ed esclusivo soltanto con Omero: nessuno come Ione sa recitare i suoi versi né è in grado di esprimere su di essi tanti bei pensieri. Tuttavia, la straordinaria abilità del rapsodo non si spinge oltre. Di fronte alle opere di Esiodo, di Archiloco e degli altri poeti, l’abilità di Ione si dissolve inspiegabilmente. Il rapsodo, che forse per la prima volta si confronta con questo strano fenomeno (a dimostrazione di quanto poco conosca se stesso) è sbalordito:
E qual è mai, o Socrate — chiede Ione — la ragione per cui, se qualcuno parla di qualche altro poeta, io non faccio attenzione e non so dire nulla di valido e perfino sonnecchio, mentre, non appena qualcuno nomina Omero, improvvisamente mi sveglio, sto bene attento e le parole mi vengono facili?
Non è difficile, amico, indovinare la ragione — risponde Socrate — È chiaro a ciascuno, infatti, che tu non sai parlare di Omero per arte (techne) e per scienza (episteme), perché, se lo sapessi fare per arte, sapresti parlare anche di tutti gli altri poeti. L’arte poetica costituisce, infatti, un intero. O non è così?
Sì — risponde Ione sempre più disorientato.8
Questo è il primo passaggio chiave del dialogo, al quale i due interlocutori giungono grazie ad un accostamento fondamentale: per capire di che natura sia l’arte di Ione, essa va paragonata con le scienze e le tecniche riconosciute. Quelle che, per intenderci, rendono chi le possiede un esperto a tutto campo dell’oggetto in questione. Se si parla di numeri, anche all’interno dei poemi omerici, sarà l’esperto di aritmetica a dire se Omero ne scriva bene o male. Lo stesso varrà per le parole omeriche intorno alle divinazioni, sulle quali soltanto l’indovino saprà pronunciarsi con cognizione di causa, o per i versi che parlano di farmaci e vivande sane, sui quali il medico sarà l’unico in grado di giudicare bene. Ione, dal canto suo, se all’inizio era convinto d’essere il migliore non soltanto a recitare ma anche a commentare i versi di Omero, qualsiasi argomento essi trattino, comincia a dare i primi segni d’imbarazzo.
Il concetto su cui poggia il discorso di Socrate è quello di techne intesa come olon,9 come un intero, cioè come un ambito oggettivamente delimitato e da tutti riconosciuto, all’interno del quale valgono sempre le stesse regole: chi conosce tali regole, l’esperto, è in grado di padroneggiare ogni elemento che appartenga a quell’intero, e per nessuna ragione si troverà in imbarazzo o non saprà emettere un giudizio preciso di fronte a qualcosa che appartiene al suo ambito di competenza. Cosa che non si può dire di Ione il quale, per sua stessa ammissione, sa recitare e commentare soltanto i versi di Omero, mentre di fronte a quelli di Esiodo e degli altri poeti, che pure appartengono anch’essi alla poietike, non sa dire nulla di valido «e perfino sonnecchia».
A conferma di questa essenziale mancanza di scientificità di Ione, Socrate cita altri esempi dall’ambito artistico per dimostrare ancora una volta che «quando si prende in esame un’arte nella sua interezza, vale per essa lo stesso metodo di esame» e non sono certo ammissibili defaillance e tantomeno «sonnecchia menti». La pittura, graphike, concordano i due, è anch’essa un’arte che costituisce un intero, della quale molti uomini sono divenuti esperti (il termine greco è un generico agathoi). Ebbene, nessun agathos tes graphikes è in grado dire quali opere sono belle e quali no soltanto tra quelle del pittore Polignoto, figlio di Aglaofonte, e invece «quando qualcuno gli mostri opere di altri pittori si addormenti, si trovi impacciato e non sappia assolutamente cosa dire, mentre quando debba dire il suo parere su Polignoto, o su qualunque altro pittore tu voglia, purchè sia un pittore unico, improvvisamente si risvegli, si faccia attentissimo e gli vengano con facilità le parole». E così anche nella scultura non si è mai visto qualcuno che sappia dire soltanto quali statue di Dedalo sono ben scolpite e quali no, mentre di fronte alle opere di altri scultori non sia in grado di esprimere un giudizio. Lo stesso vale anche per chi deve giudicare i suonatori di cetra o di flauto, e persino per gli esperti di rapsodia, cioè dell’arte dello stesso Ione: anche in quest’ultimo caso, dice Socrate a Ione,
non penso che tu abbia mai visto uno che sia valente interprete di Olimpo o di Tamiri o di Orfeo o di Femio il rapsodo di Itaca e che, invece, solo per Ione di Efeso resti impacciato e non sappia dire quali canti reciti da buon rapsodo e quali no.
Su questo non ho nulla da obiettarti, o Socrate — risponde Ione — Ma so di certo questo: che, quando parlo di Omero, parlo meglio di tutti e ho facilità di parole, e anche gli altri lo riconoscono; invece, sugli altri poeti no! Vedi un po’tu quale sia la ragione di questo fatto.10
Prima di seguire Socrate nella sua lunga risposta, durante la quale svelerà la teoria celebre dell’ispirazione divina che guida poeti e rapsodi, dobbiamo evidenziare che nei passi citati la recitazione dei rapsodi (ma lo stesso vale anche per la composizione dei versi dei poeti) è messa a confronto con la scienza di coloro che giudicano le creazioni artistiche, tra le quali rientra anche la recitazione di Ione e degli altri rapsodi. L’artista è cioè paragonato con «l’esperto di-» pittura, scultura, musica o recitazione. La parola utilizzata da Socrate, come abbiamo detto, è un assai generico agathos, letteralmente buono, buono a-, atto a-: se seguiamo il ragionamento di Socrate, vero agathos della scultura non è quindi lo scultore, si tratti anche del celebre Dedalo, bensì colui che è in grado di giudicare se sono scolpite bene o male tutte le opere di tutti gli scultori. Si può dunque parlare di conoscenza vera, secondo il ragionamento di Socrate, cioè di techne o di episteme, soltanto se si ha a che fare con l’oggettività del giudizio emesso da chi esamina gli elementi di un determinato olon, di un determinato intero che può esser costituito anche dalla stessa arte poetica o da quella dei rapsodi. Non è il pittore a meritare l’appellativo di «esperto di pittura», agathos tes graphikes, bensì colui che, a distanza, sa giudicare le opere di quello e di tutti gli altri pittori, facendo riferimento ad un insieme di regole e parametri che valgono allo stesso modo per tutti i dipinti, e mai si trova in imbarazzo e tantomeno sonnecchia. Non sarà dunque Omero l’agathos tes poietikes, se mai ne esisterà uno ammesso e non concesso che vi sia davvero una techne come la poietike, bensì colui che sa giudicare con lo stesso metro i poemi suoi e quelli di tutti gli altri poeti.
Per dimostrare l’ignoranza di poeti e rapsodi, non a caso, poco prima Socrate aveva tracciato un confronto, a cui già abbiamo accennato, tra la conoscenza che Omero ha dei fatti di cui narra e quella di coloro che sono veramente esperti dell’argomento in questione. Per far questo, Socrate si era concentrato su un particolare aspetto dell’arte rapsodica e poetica, e cioè sul loro parlar di-qualcosa. La poesia omerica è chiamata in causa ed esaminata solo in quanto descrizione di qualcosa, cioè come un parlar di-azioni di guerra, divinazioni, vicende umane o divine, passioni, vivande sane o nocive.
Socrate prescinde qui dalle altre valenze che la poesia può avere: ne ignora, ad esempio, il potere evocativo e tutti gli altri elementi che caratterizzano il dire poetico. E lo stesso vale per il rapsodo, il quale fa molto di più che trasmettere le parole dei poeti su determinati argomenti: egli è in primo luogo, non dimentichiamolo, un attore che recita i versi, che li incarna letteralmente, mettendo in gioco il suo corpo e le sue passioni, fino al punto, come vedremo, di immedesimarsi completamente con le vicende narrate e addirittura di «credere che siano vere», persuadendo anche il pubblico di questo suo «folle» convincimento. Tutto ciò è lasciato da parte in questa fase della discussione, perché sembra irrilevante dal punto di vista conoscitivo: per operare un paragone con technai quali la medicina o l’aritmetica, Socrate si concentra esclusivamente sulla natura descrittiva della poesia omerica e sulla capacità di Ione di «commentare da esperto» i versi di Omero e di parlare con competenza degli argomenti narrati, che siano malattie o battaglie, per mettere in tal modo a confronto le sue parole con quelle di medici ed altri esperti.11
Insomma, si può parlare di techne o di episteme solo se ci troviamo in presenza di una forma di sapere che si basa su regole sempre valide nel loro ambito e per tutti uguali: un sapere che non conosce imprevedibilità, che non sonnecchia per risvegliarsi all’improvviso (due caratteristiche, l’imprevedibilità e la natura improvvisa, di cui torneremo a parlare). Un sapere, potremmo dire con termini più moderni, che aspira all’oggettività, e che come tutti i saperi oggettivi si costruisce sulla distanza dal proprio oggetto: una distanza imprescindibile per elaborare un giudizio che sia sempre valido e da tutti condivisibile, fondato su criteri riconoscibili da tutti e preesistenti all’esame del particolare fenomeno in questione.
Queste sono le condizioni necessarie affinché si diano techne ed episteme. Tentare, come farà Ione, di ricondurre l’abilità artistica di poeti e rapsodi a tali condizioni non ha alcun senso. Chi insiste in questo vano tentativo è destinato al fallimento e finisce con il rendersi ridicolo. Una condizione di fallimentare ignoranza che, come vedremo, troverà in conclusione del dialogo un’efficace immagine nella natura «multiforme» del rapsodo di Efeso. Ione è infatti condannato ad un continuo mutar di forma, banderuola esposta ad ogni soffio di vento, perché egli incarna le parole contraddittorie dei poeti ed è privo della saldezza propria degli agathoi.
Platone nello Ione fa quindi emergere una contraddizione decisiva, che lacera dall’interno non soltanto lo sprovveduto rapsodo, bensì l’opinione stessa della maggioranza, di cui Ione, acclamato dalle folle per le sue esibizioni, è un rappresentante forse un po’caricaturale ma certamente fedele. Ione, esattamente come faceva la maggioranza dei greci nei tempi arcaici ma, almeno in parte, ancora ai tempi di Platone, ritiene che le parole dei poeti siano vere nel senso che «dicono le cose come stanno». Ciò che Omero scrive intorno a malattie e farmaci, ad esempio, per Ione è vero proprio dal punto di vista del medico: utile sarà dunque ascoltare i versi di Omero per capirne di più sulle malattie di cui parla e sui rimedi che le possono combattere. Questo è, in buona sostanza, l’atteggiamento tradizionale dei greci verso la poesia: la poesia come verità sic et simpliciter, la poesia come fonte di conoscenza in quanto spiega la realtà. Una funzione conoscitiva della poesia alla quale si affianca un’altrettanto decisiva funzione di guida morale: la poesia è infatti anche norma, regola di condotta, tale da valere addirittura in tribunale come criterio di riferimento parallelo alle leggi scritte della polis.
Nel contempo, però, grazie alle domande di Socrate che lo portano ad esplicitare ciò che egli dà per scontato e per implicito, Ione si dice anche d’accordo con l’idea che il più titolato ad esprimersi su una certa materia sia «l’esperto»: dunque, in caso di farmaci e malattie, colui che meglio di ogni altro può dire cose vere, e quindi anche giudicare i versi di Omero sull’argomento, non sarà il poeta e neppure il rapsodo che recita e commenta quei versi in pubblico, bensì il medico. Di conseguenza, la poesia non può essere intesa come fonte di verità: le parole dei poeti non possono essere accolte come «vere», non sono i versi di Omero a dire le cose come stanno.
La contraddizione tra i due punti di vista sostenuti da Ione è evidente, e il fragile rapsodo ne verrà travolto. Ma, di fronte a questa confutazione del rapsodo che ne lascia emergere, come spesso accade agli interlocutori di Socrate, il suo «disaccordo con se stesso», non possiamo non chiederci anche che cosa stia facendo Platone con questo testo. Qual è il senso di questo naufragio conoscitivo di Ione, un uomo che, del resto, sin dall’inizio del dialogo è dipinto come un vanitoso e superficiale amante degli applausi?
In primo luogo, come abbiamo visto, Platone getta luce su una contraddizione pesante che lacera dall’interno anche il punto di vista della maggioranza. Emergono, infatti, due punti di vista in contraddizione tra loro: quello tradizionale, arcaico, ingenuo che crede in un legame immediato, di coincidenza piena tra poesia e verità; e quello più disincantato, razionale, prodotto di un processo storico di progressiva emancipazione dell’uomo greco dall’egemonia che il mito esercitava su ogni ambito della vita, sulle conoscenze, sulle pratiche quotidiane, sull’amministrazione della giustizia e così via: un’emancipazione che comincerebbe già a partire dal VI secolo, con l’affermarsi di un logos razionale che non si piega più alle parole dei poeti e non si accontenta più delle spiegazioni incantevoli che essi offrono dei fenomeni naturali.12
Questi due punti di vista opposti coabitano nell’uomo greco del tempo, e la cosa non è di poco conto: non si tratta, infatti, soltanto di due diversi punti di vista sulla poesia nel senso che noi moderni possiamo dare a questa parola, intendendo cioè un delimitato ambito di espressione ben separato dalle cose concrete, dalla serietà della vita, dalle scienze e dalle tecniche con cui l’uomo affronta la natura e provvede alla vita fisica. No, qui è in gioco il ruolo della poesia come fonte primaria di verità, come serbatoio di tutte le conoscenze. La contraddizione messa in luce da Socrate ha quindi un valore immenso, epocale, che destabilizza nel profondo ciò che gli uomini del suo tempo pensano intorno al sapere, alla verità, all’autorità dei poeti, e anche intorno alla religione, dal momento che gli dei sono accolti e venerati nei termini in cui i poeti li descrivono. Se le parole dei poeti non possono più essere accolte come vere, neppure potranno più valere come base del rapporto con il divino e della vita religiosa greca, come orientamento della condotta collettiva e individuale o come norma nei tribunali.
È chiaro che l’impatto di questo ragionamento è disastroso e rivoluzionario, come sottolineano molti studiosi. Tuttavia, a nostro avviso, la sua carica dirompente non consiste nel fatto che Platone starebbe affermando un inedito razionalismo, un nuovo modello di conoscenza che si lascerebbe alle spalle l’irrazionalità dei poeti, inaugurando un’era nuova dominata da una ragione libera ed emancipata dall’autorità della tradizione, che accoglie solo ciò che passa il vaglio della dialettica.
Non sembra questo il punto essenziale: infatti, il razionalismo secondo cui soltanto per techne ed episteme possiamo parlare di conoscenza autentica, non è affatto un punto di vista di Platone o di Socrate. Al contrario, come la seconda parte del dialogo conferma esplicitamente, è Ione stesso, guidato dalle domande di Socrate, ad identificare in quel modo verità e conoscenza: non ha alcun senso, a nostro avviso, leggere questo testo di Platone come l’affermazione di un nuovo modello di sapere imposto da Platone e Socrate.
Lo Ione non è il testo che codifica una nuova idea di conoscenza dalla quale è esclusa la poesia. In questo come in tutti gli altri dialoghi di Platone, Socrate non impone alcunché: il suo sapere è innanzitutto un «non sapere», uno spogliarsi ogni volta di nuovo di dottrine e teorie per immergersi nel dialogo. Il suo sapere è un dialegesthai. Socrate, in questo caso, non fa che lasciar emergere qualcosa che già «alberga» nella mente di Ione e della maggioranza dei greci, mostrando come la cultura del tempo si regga su un’insostenibile contraddizione.
Ma oltre il negativo della critica, oltre l’elenchos che porta alla luce questa contraddizione, lo Ione, come stiamo per vedere, nasconde qualcosa di più: un positivo del testo platonico al quale ci possiamo avvicinare osservando più da vicino i due poli opposti di tale contraddizione. Analizzando le due posizioni che coabitano nella psiche di Ione e della maggioranza dei greci, infatti, emerge un dato essenziale: i due punti di vista sulla poesia, quello arcaico e ingenuo e quello più disincantato e apparentemente razionale, condividono la stessa idea di verità.
Il primo punto di vista, quello ingenuo, sostiene che le parole dei poeti siano vere in quanto dicono le cose come stanno: i versi omerici in tema di agricoltura o di medicina, descrivono la realtà in modo fedele, e perciò possono valere come norma dell’agire e come fonte di ogni conoscenza.
Il secondo punto di vista, quello razionale o, meglio, pseudo-razionale, destituisce la poesia di quel potere per attribuirlo ad un’altra istanza: il sapere tecnico di cui dispongono solamente gli «esperti». Nello Ione questa conoscenza tecnica è descritta come una conoscenza che tutto sa di qualsiasi fenomeno appartenente all’ambito di competenza, all’olon in questione: la padronanza che l’esperto ha del suo olon non ammette sorprese, nessun problema lo metterà con le spalle al muro, su tutto saprà pronunciarsi poiché i criteri di riferimento, le categorie che delimitano quell’olon, preesistono all’oggetto in questione che ad esse viene sussunto, lo precedono e lo «prevedono». Il rapsodo, al contrario, ha una conoscenza essenzialmente «imprevedibile» delle cose di cui si occupa, e altrettanto si può inferire del poeta, giacché anche il poeta parla di farmaci senza essere un medico.
Nell’uno e nell’altro caso, però, si dà per scontato il medesimo concetto di verità: vero, in entrambi i casi, è il sapere che dice le cose come stanno, vere sono le parole (dei tecnici nel primo caso, dei poeti nel secondo) che perfettamente corrispondono a ciò che sta fuori. I due punti di vista opposti sono solidali nell’escludere un sapere altro o un’idea diversa di verità. È per questo che Ione li può abbracciare entrambi, ed è, forse, proprio per questo loro fondarsi sul medesimo presupposto, che i due punti di vista coabitano nella psiche dell’uomo greco del tempo. Non si dà altra modalità di sapere né altra idea di verità: su questo concordano tutti. Al più, ciò che può accadere, e che in parte è poi effettivamente accaduto, è che la poesia gradualmente perda autorevolezza e ceda il suo «monopolio» sulla verità (ma anche sulla morale e sulla giustizia, come abbiamo visto) ad una forma di razionalità emancipata dall’autorità del mito: è proprio la responsabilità di questo passaggio «epocale» ad essere attribuita a Socrate e Platone, celebrati (o vituperati, nel caso della lettura che Nietzsche dà del «socratismo») come padri del razionalismo occidentale.
Ebbene, a partire da questa solidarietà essenziale, da questo comune presupposto che unisce i due punti di vista in contraddizione, è lecito sospettare che il problema, per Platone, stia proprio qui: forse la radice stessa della contraddizione, del disaccordo interno che fa naufragare nell’ignoranza sia Ione sia i suoi contemporanei, coincide proprio con l’assolutizzare questa comune concezione della verità e del sapere, come se fosse l’unica ammissibile. Pensare la verità soltanto in quel modo, cioè solo come un oggettivo dire le cose come stanno, come pensano sia gli ingenui fautori dell’autorità dei poeti sia coloro che negano valore alla poesia, è, secondo la nostra lettura, il cuore del problema. Ione oggettiva la verità e, coerentemente a ciò, cerca di ribadire il legame tra poesia e verità confrontando la sapienza di poeti e dei rapsodi con l’unico modello di vero sapere di cui ha notizia, la techne: il suo tentativo è destinato al fallimento. Dall’aporia in cui si arena il rapsodo, il lettore è chiamato a prendere le mosse per andar oltre, per rintracciare il poros indicatogli da Platone. Prima di inoltrarci alla ricerca di questo «avanzamento» offerto da Platone al lettore per superare la contraddizione di Ione e della maggioranza, prendiamo in esame un altro, analogo naufragio che travolge un altro interlocutore di Socrate, anche lui, guarda caso, famoso esperto dei poemi di Omero proprio come Ione.
2. Definire la verità: le aporie di Ippia
Qualcosa di simile accade, infatti, anche in un altro dialogo giovanile di Platone, l’Ippia minore. In quel testo Socrate si confronta con il sofista Ippia di Elide sui poemi di Omero. In particolare, Socrate e Ippia si inoltrano in un difficile confronto tra le due figure omeriche più celebri: Achille, l’uomo tutto d’un pezzo, che dice sempre la verità, sincero per definizione, e Odisseo lo scaltro, che nel suo errare fa spesso uso della menzogna.13 Questa comparazione diviene presto un confronto, in termini più generali, tra il veritiero e il mentitore. È inevitabile che, che per capirsi meglio grazie a degli esempi, i due interlocutori lo riportino sul piano delle conoscenze a tutti note, delle technai dunque. Ma qui li attende una vera sorpresa: infatti, riconducendo il confronto tra chi dice la verità e chi mente nell’alveo delle scienze, si scopre che colui che è sempre in grado di mentire è esattamente il massimo esperto della scienza in questione. Di fronte alla domanda «quanto fa tre per settecento?», dice Socrate, soltanto l’esperto di aritmetica sarà sempre in grado di nascondere il risultato corretto: sarà lui, dunque, il mentitore per eccellenza, il più bravo ad ingannare, a nascondere la verità.14 E lo stesso varrà per ogni altra scienza. Insomma, il miglior mentitore, in grado di occultare sempre la verità, si rivela essere, sorprendentemente, proprio colui che la verità la conosce: il veritiero e il mentitore, quindi, per quanto assurdo possa sembrare, sono la stessa persona. È un vero scandalo che sovverte la doxa.
E non è tutto: alla questione del dire la verità si unisce anche quella, altrettanto decisiva, della volontà di giustizia. Sembra infatti, seguendo il ragionamento svolto, che il sapiente sia colui che pur conoscendo ciò che è bene, sa sempre come agire in altro modo, cioè facendo il male. Il massimo esponente dell’agir male in una data techne è proprio l’agathos, il migliore, l’esperto di quella techne. A questo proposito, Socrate cita un altro esempio dall’esperienza quotidiana: le gare di corsa. In tal caso, infatti, se confrontiamo il corridore che corre lentamente, dunque che agisce «male», non perché lo vuole ma perché è costretto dai suoi stessi limiti fisici, con il corridore che invece corre lentamente, e dunque agisce «male», per scelta, dobbiamo desumerne che miglior corridore è quest’ultimo, cioè colui che agisce male volontariamente. Migliore è chi più di tutti incarna la separazione tra conoscenza e volontà, colui che proprio in quanto conosce il bene più di ogni altro, può sempre agire male. Solo il migliore può essere il peggiore.
Si tratta di una conclusione altrettanto scandalosa della precedente, in palese contrasto con l’opinione della maggioranza ma anche con il celebre (e quanto mai enigmatico) motto socratico secondo il quale ouden ekon examartanei, nessuno può commettere ingiustizia volontariamente, nessuno può davvero conoscere il bene e pur scegliere di agire male. Quest’ultima considerazione introduce ad una questione di immensa complessità, relativa al rapporto tra conoscenza ed azione: una questione che non affronteremo in questa sede. Tuttavia, tale digressione ci è utile per rendere ancor più palese il paradosso nel quale la discussione tra Socrate e Ippia si è incagliata.
Ippia, vero esempio di uomo polymathos, dalle mille qualità e competenze tecniche, esperto in tutte le scienze, è sconcertato. Il suo imbarazzo, prodotto dall’argomentare di Socrate, emerge nella forma di un «andar sempre in sù e in giù», confuso e disorientato dalle domande di Socrate che lo portano a contraddirsi di continuo, a cambiar sempre opinione. È una confusione mentale, quella di Ippia, che suona come una parodia della sua tanto celebrata polymathia, e che a noi ricorda da vicino l’andar in su e in giù di Ione. Anche del rapsodo di Efeso, infatti Socrate sottolinea, come abbiamo detto, il suo essere «multiforme». Emerge dunque, in entrambi i casi, una multiformità che accomuna il rapsodo Ione e il sofista Ippia.
Ma qual è l’errore di Ippia, dove si manifesta la sua radicale ignoranza? L’errore, nel quale indulge anche Socrate sviluppando il suo ragionamento, consiste nel tentativo di ricondurre la questione del dire e del conoscere la verità (questione alla quale, come abbiamo visto, si uniscono anche quelle della volontà e della giustizia) al livello delle scienze riconosciute da tutti, sul piano di ciò che l’opinione dominante ritiene di poter definire «sapere»: si tratta esattamente dell’ambito delimitato dai confini di techne ed episteme di cui si parla nello Ione, ambito all’interno del quale soltanto, pensano i più, si dà autentica conoscenza della verità, mentre ciò che da tale ambito fuoriesce, come l’arte di poeti e rapsodi, non può esser inteso come vero sapere.
Ebbene, il tentativo di ricondurre all’interno dell’oggettivo ambito delle technai la questione della verità, si rivela fallimentare. Il suo fallimento, nell’Ippia minore, si manifesta nella forma di quello scandalo per cui il veritiero e il mentitore sarebbero la stessa persona. È dunque lecito ipotizzare che l’errore di fondo, che emerge sia dallo Ione sia dall’Ippia minore, consista nel pensare, come fa la maggioranza, che vero sapere è solo ciò che rientra nell’orizzonte di techne e di episteme: a partire da questa miope visione, le due discussioni non fanno che tentare di ricondurre l’oggetto in questione, in un caso l’arte di poeti e rapsodi, nell’altro caso addirittura la questione della verità, entro quel ristretto orizzonte. L’esito, in entrambi i casi, è un naufragare che prende le sembianze dell’«errare sempre in su e in giù» dei due esperti di Omero. Neppure Socrate, per la verità, nell’esplicito del testo sembra dire molto di più per aiutare il lettore a capire le ragioni del naufragio che travolge Ippia e Ione. Ma forse le indicazioni in tal senso ci sono, anche se rimangono inevitabilmente celate, disponibili solo ad una lettura più attenta e attiva.
Nell’Ippia minore, a dire il vero, seppure per un breve tratto Socrate scopre le carte, quando chiede ad Ippia di indicargli una scienza nella quale il veritiero e il mentitore non siano la stessa persona. Esiste, chiede Socrate, una scienza il cui possesso coincida con l’agire di conseguenza, una scienza che dunque io non posso separare da me perché non si tratta di un mero strumento a mia disposizione? Si dà una scienza nella quale la conoscenza della verità impedisca di dire il falso e di agire male? Evidentemente, Socrate allude qui ad una forma di conoscenza, del tutto enigmatica e indeterminata, che si sviluppa oltre i confini di techne ed episteme: una forma di sapere che non è riconducibile a quell’ambito riconosciuto, e che tuttavia non per questo è ignoranza o delirio, ma al contrario coincide con il sapere più vero a cui l’uomo può accedere. La domanda di Socrate ad Ippia rimane tuttavia inevasa. L’indicazione di questa forma di sapere altro resta del tutto indeterminata, in forma interrogativa, come un’imprecisata, potenziale via d’uscita dalla contraddizione, come un’ancora di salvezza contro il naufragio di Ippia. E tuttavia, pur trattandosi di un’indicazione così vaga, non possiamo non tenerne conto, traendo dal confronto tra lo Ione e l’Ippia minore una prima, parziale conclusione: la continua erranza, il multiforme vagabondare a cui sembrano destinati i due esperti di Omero, può forse valere come simbolo delle contraddizioni prodotte dai loro vani tentativi di oggettivare ciò che oggettivabile non è. Nel caso di Ippia, si tratta della conoscenza della verità, nel caso di Ione dell’arte rapsodica e della poesia. Oltre l’ambito definibile, riconosciuto da tutti allo stesso modo, di techne ed episteme, è quindi lecito dubitare che vi sia dell’altro: un altro che non è opinione infondata né puro delirio di invasati ma, seppure in una forma che non ci è dato di definire né tradurre per iscritto, vero sapere.
Quindi possiamo affermare che: il fatto che né Omero né il suo interprete Ione siano «esperti» degli argomenti di cui parlano i poemi omerici, perché esperti saranno soltanto, di volta in volta, il medico, lo stratega e così via; ancora, il fatto che non sia il pittore Polignoto il vero agathos tes graphikes, bensì soltanto colui che con saldezza giudica le opere sue e di tutti gli altri pittori; insomma, il fatto che la creazione artistica, e in particolare la poesia e la rapsodia, non siano fondate su techne né su episteme, non ci consente davvero di escludere un legame tra poesia e verità.
La conoscenza vera, infatti, non sembra essere soltanto quella che soddisfa i criteri delle technai. L’esempio dell’Ippia minore ci fa sospettare che anche oltre quei criteri vi sia conoscenza. In quel caso, infatti, ciò che sfugge ai parametri della techne non è la poesia di Omero e tantomeno l’imprevedibile abilità recitativa di Ione, bensì, addirittura, la forma più elevata di sapere: quella conoscenza della verità che non è dissociabile dall’agire secondo verità. Una forma di conoscenza che il sofista Ippia di Elide, simile al nostro rapsodo Ione di Efeso anche se forse più arrogante e sicuro di sé, ritiene di possedere e di diffondere ai greci grazie alla sua abilità oratoria, come se la conoscenza della verità fosse, appunto, una techne tra le altre, trasmissibile allo stesso modo dell’arte del medico o dell’agricoltore.
L’incontro decisivo con Socrate mette in luce l’infondatezza della pretesa di Ippia e lo stato d’interno disaccordo che lacera la sua anima, condannandolo ad un continuo mutar di forma. Il testo dell’Ippia minore, tuttavia, esattamente come quello dello Ione, non dice nulla di più. Platone non fa che presentarci il naufragio delle prospettive sul sapere incarnate in diverso modo dai due celebri esperti di Omero. E tuttavia, oltre il negativo che domina l’esplicito del testo platonico, è lecito sospettare che l’autocontraddirsi di Ippia e di Ione siano immagini scritte, simboli, eikones, in grado di sospingere il lettore di Platone a cercare una forma di conoscenza altra: una conoscenza «atopica», in quanto si sviluppa al di fuori dei topoi riconosciuti della techne e dell’episteme.
3. Il sapere del sofista
Prima di tornare al testo dello Ione per vedere se le parole di Socrate sull’origine divina della poesia e della rapsodia offrano maggior fondatezza a simili ipotesi, val la pena di scorrere altre pagine platoniche, tratte da altri dialoghi. Una scelta che non si pone come un’arbitraria digressione basata sul sospetto che un testo definito minore come lo Ione non sia autonomo e non parli da sé: l’idea di fondo è che i richiami tra i dialoghi, le comparazioni, gli «sfregamenti» dei passi platonici concretizzino un tipo di lettura coerente a quell’idea di sapere non tecnico né epistemico su cui ora stiamo indagando.15 Insomma, confrontare e comporre per analogie, o per stridenti differenze, i passi del corpus platonico, è a nostro avviso un approccio che ricompone forma e contenuto, o meglio, che si lascia alle spalle l’idea di una separazione tra contenuto (inteso come dottrinale e per tutti uguale) e forma (intesa come disorganica e talora, è proprio il caso di dirlo, rapsodica) degli scritti di Platone.
Nel Protagora, Socrate si confronta con l’anziano e celebre sofista di Abdera e, soprattutto, con il modello di sapere diffuso dai sofisti ed accolto con favore dalla maggioranza dei greci. I sofisti godono di una fama ambigua: da molti riscuotono applausi e lauti compensi, mentre dalle frange più aristocratiche sono visti con diffidenza, come errabondi venditori irriverenti verso i miti e i principi della cultura greca. Tuttavia, il modello di sapere che essi vendono ai greci è, in fin dei conti, riconosciuto e agognato da tutti, anche dagli stessi conservatori che pur non li vedono di buon occhio per il loro relativismo che non riconosce alcuna autorità alla tradizione. Quest’ultimo rilievo è perfettamente coerente con la natura del loro sapere sofistico, costitutivamente separato dalla persona che lo possiede, dalle sue peculiarità e dai suoi progetti: costui ne può, infatti, disporre come di uno strumento, come di un utensile del tutto neutrale e sganciato dall’uso che egli ne vorrà fare. In nessun modo uno strumento così inteso identifica o condiziona l’identità di chi lo possiede. Acquistare il sapere venduto dai sofisti nelle loro affollate conferenze, dunque, non significa diventare sofisti. Ecco dunque spiegata la foga con cui Ippocrate, giovane rampollo dell’aristocrazia ateniese, corre a svegliare Socrate in piena notte, affinché interceda per lui presso l’anziano sofista appena giunto in città. Ippocrate vuole a tutti i costi imparare le cose insegnate dai sofisti, ma non si sogna certo di diventare uno di loro.16
Questa immagine iniziale del Protagora vale come preannuncio del tema di fondo del grande dialogo, nel quale è centrale il problema del sapere, in particolare della conoscenza della virtù che Protagora afferma di possedere ed insegnare dietro lauto compenso. Ebbene, sin dalle prime battute emerge chiaramente un’idea di conoscenza impersonale, neutrale rispetto alle peculiarità ed alla biografia di colui che la possiede, perfettamente trasmissibile come se si trattasse di cibo da acquistare al mercato per conservarlo in recipienti appositi.17 Dal botta e risposta tra Socrate e Protagora si delineano un modello di sapere uguale per tutti e un corrispondente modello di insegnamento, cioè di trasmissione di tale sapere, che trova il suo perfetto veicolo nei monologhi dei sofisti: i sofisti infatti non amano il dialogo, preferiscono esibirsi in incantevoli discorsi pubblici che non chiamano in causa la vita e l’unicità di chi parla né, tantomeno, della folla indistinta che ascolta. Tali monologhi, infatti, consistono in un insieme di nozioni per loro natura separate dalla concretezza e dalle peculiarità non trasmissibili della vita di ciascuno.18
Ecco dunque perché Protagora, ad esempio, assicura di saper rendere migliori coloro che lo ascoltano «sin dal primo giorno», senza curarsi di chi mai essi siano, ed ecco perché il sofista accoglie di buon grado anche il giovane Ippocrate, rifiutando l’offerta di Socrate di conoscere più da vicino il ragazzo prima di accettarlo, per vedere se i suoi insegnamenti gli gioveranno davvero. Non ce n’è alcun bisogno: le parole di Protagora sulla virtù fanno sempre bene a chiunque. Il semplice ascoltarle, assicura il sofista, rende tutti migliori. Nessuna sorpresa, nessun intoppo possibile, nessuna imprevedibilità, un po’come nel caso degli esperti di pittura e di scultura di cui parla Socrate nello Ione: così come gli agathoi dello Ione sanno sempre esprimersi con precisione su tutti gli argomenti che rientrano nel loro ambito di competenza, senza che nessun elemento incalcolabile possa sorprenderli e spiazzarli, analogamente Protagora sa di parlare sempre a tutti nello stesso modo e di poter garantire sempre a tutti, nello stesso modo e senza imprevisti, un accrescimento nella conoscenza che è per tutti un bene. Il cammino della conoscenza è evidentemente lo stesso per tutti, pensa Protagora e con lui la maggioranza dei greci: essi ritengono che tale cammino consista nell’acquisire nozioni che prescindono completamente dall’unicità delle persone. Non vi sarà alcuna sorpresa, alcun elemento d’imprevedibilità, esattamente come, di fronte a qualunque dipinto gli si presenti dinanzi, l’agathos tes graphikes sarà infallibile nell’emettere il suo giudizio e nessuna opera lo metterà imprevedibilmente in imbarazzo o ne sopirà le capacità (e tantomeno lo farà sonnecchiare, come invece accade a Ione quando ascolta i versi di Esiodo o di Archiloco).
L’intero dialogo tra Socrate e Protagora conduce il lettore a smantellare l’idea che quel tipo di sapere tecnico, insegnabile alla maniera di Protagora e dunque trasmissibile in quanto separabile, sia l’unico modello di sapere a cui l’uomo può ambire. Il Socrate del Protagora delinea in negativo un’idea ingannevole di sapere, quello sofistico, che ha in realtà molti tratti in comune con il sapere tecnico che il Socrate dello Ione presenta invece in positivo al rapsodo di Efeso, per spiegargli cosa dobbiamo intendere per techne.
Il contrasto tra i due testi platonici è solo apparente: oltre l’esplicito della scrittura Platone, a nostro avviso, lascia trasparire il rinvio ad un’idea di sapere del tutto diversa sia dal sapere sofistico sia dalle technai di cui Socrate parla a Ione. Pare dunque che anche il Socrate dello Ione, come il Socrate del Protagora, abbia in mente un’idea di sapere altro rispetto a techne ed episteme, lasciando così lo spazio per un possibile riscatto della valenza conoscitiva di quell’immagine di poeti e rapsodi ekphrones, «privi di senno».
4. Eros e dialegesthai
Quest’ipotesi trova sostegno anche nel Simposio, dialogo da cui è inoltre possibile trarre qualche elemento in più di riflessione sul sapere dei poeti e di tutti coloro che, come i poeti, sono «fuori di sé» in quanto entusiasti e posseduti dal dio. Nel celebre testo, come noto, Apollodoro riporta il racconto di Aristodemo, che fu testimone del simposio organizzato alcuni anni addietro per celebrare la vittoria del giovane poeta Agatone con la sua prima tragedia. A quel simposio in casa di Agatone prese parte anche Socrate: quando tutti gli altri ospiti avevano già iniziato a banchettare, Socrate, racconta Aristodemo, esordì mettendo a confronto il suo sapere con quello di Agatone. Invitato dal poeta padrone di casa a sedersi accanto a lui, nell’illusione che il semplice contatto fisico potesse produrre un «trasferimento di sapere» dal filosofo al poeta, Socrate rispose:
Sarebbe bello Agatone, se la sapienza potesse scorrere dal più pieno al più vuoto di noi, per il solo contatto reciproco, come l’acqua scorre, attraverso il filo di lana, dalla tazza più colma a quella più vuota. Se anche per la sapienza fosse così, debbo ritenermi fortunato di sedere accanto a te: infatti penso proprio che sarei colmato della tua molta e bella sapienza. La mia, al contrario, è di scarso valore ed è evanescente come un sogno. La tua invece è splendente e in rapida crescita, e da te, così giovane, si è dispiegata apparendo in piena luce l’altro ieri; di ciò, del resto, danno testimonianza più di trentamila Elleni.19
Il sapere di Socrate è amphisbetesimos osper onar, oscillante, evanescente come un sogno, onar, è «onirico»: in nessun modo è riducibile ad un insieme di nozioni chiare e distinte, evidenti a tutti, uguali per più di trentamila Elleni com’è invece la «diurna» sapienza di Agatone. Da una parte, dunque, seguendo le parole di Socrate, si sviluppa un sapere che si dispiega in piena luce e si trasmette come l’acqua, che attraverso il filo di lana passa automaticamente dalla tazza colma a quella vuota. Dall’altra parte, ci troviamo di fronte ad un sapere, quello di Socrate, che è onirico, oscuro, almeno agli occhi di chi è abituato alla chiarità della luce solare e all’evidenza di ciò che per tutti è uguale e si lascia trasmettere monologicamente.
Il sapere di Agatone è della stessa natura del sapere sofistico: non è un caso, del resto, che il poeta in questi passi del Simposio sia identificato da Socrate come allievo del grande sofista Gorgia da Leontini. Nel contempo, però, esso presenta caratteristiche assai simili non soltanto al sapere dei sofisti ma anche alla nozione di techne comunemente condivisa: quel dispiegarsi in piena luce e quel trasferirsi come acqua, dunque come un’oggettività separata da chi la trasmette e da chi la acquisisce, sono direttamente associati alla prospettiva dominante nell’Atene del tempo. Così i più intendono la vera conoscenza, mentre il sapere di Socrate, un sapere onirico, non sofistico, ma anche non tecnico e non trasmissibile come acqua, è destinato ad andare controcorrente, a non esser compreso.
Del resto, già le prime battute del Simposio, quando è ancora Apollodoro a parlare, vanno in questa direzione contraria allo spirito del tempo. Apollodoro parla degli uomini che s’impegnano nelle piazze delle città, degli uomini che si dedicano agli affari e accumulano ricchezze, plousioi kai chrematistikoi, e che, così facendo, incarnano il modo di stare al mondo e di gestire le cose della città condiviso dalla maggioranza. Ad essi Apollodoro contrappone coloro che, invece, si discostano da questo modello diffuso, come Socrate e i suoi seguaci, anzi i suoi «amanti», erastes: costoro, dice Apollodoro, vanno decisamente controcorrente perché cercano una felicità e una sapienza del tutto diverse. Tale felicità e tale sapienza, infatti, non si dispiegano evidenti alla luce del sole, come accade invece con la ricchezza degli uomini di affari o con la sapienza del poeta Agatone e dei sofisti: al contrario, tale felicità e tale sapienza si sviluppano lontano dalle piazze in cui dominano le technai. Lontano da quella luce, lontano dal giorno, in un ambito che ai più apparirà oscuro, onirico, evanescente. Socrate e i suoi erastes, uomini la cui natura traspare sin nel loro aspetto, sono infatti derisi come personaggi bizzari, atopoi, e addirittura, come accade allo stesso Apollodoro, sono tacciati esplicitamente di mania.20
Tuttavia questi atopoi, questi uomini «folli», invasi da mania, che perseguono un sapere enigmatico, «oscillante come il sogno» e non trasferibile come acqua, nonostante la loro bizzarrìa sono presentati nel Simposio come gli unici uomini felici, eudaimonìoi. E non è tutto: essi appaiono anche come gli unici che hanno accesso all’autentico sapere e addirittura, fatto ancor più sconcertante, all’unica autentica dimensione del «fare», poieìn. Una conclusione sorprendente e paradossale, quest’ultima, dal momento che tutti considerano questi uomini come dei buoni a nulla, dei perdigiorno incapaci di «fare» alcunché.
Apollodoro (ma il concetto ritorna in diverso modo anche nelle parole di Socrate e poi nel celebre discorso su eros della sacerdotessa Diotima) riserva infatti parole dure per tutti gli altri: i normali che deridono gli atopoi; i ricchi uomini d’affari, modelli esemplari per i cittadini che si impegnano nelle varie technai e sognano grandi ricchezze; ma anche Agatone con la sua sapienza poetica che si dispiega nello stesso modo di fronte al pubblico, e con lui i trentamila Elleni che lo applaudono; ebbene, Apollodoro lascia intendere che tutti costoro non soltanto sono lontani da quell’onirico e sfuggente sapere dell’atopos Socrate, ma addirittura si affaccendano in cose che in realtà sono un puro nulla.
Apollodoro riduce a nulla le conoscenze e le cose che gli uomini compiono al di fuori dell’orizzonte «atopico» del sapere erotico di Socrate. Tutti costoro, infatti, ricadono sotto la spietata definizione di uomini oiomenoi ti poiein ouden poiountes, che si illudono di essere attivi mentre in realtà non fanno nulla.21 Tutte le cose che si producono nella città, le technai necessarie alla sopravvivenza ma anche le opere poetiche che si dispiegano in piena luce come le tragedie di Agatone, evidenti ed uguali per tutti, sono nientificate dalle parole di Apollodoro. Sono parole pesanti, seppur pronunciate con un’ironia e un’apparente levità che spesso nascondono la loro forza al lettore meno attento: parole pesanti che, del resto, non fanno che preannunciare la figura stessa di Socrate e quella di Eros, quali si delineeranno nel testo del Simposio.
Socrate, l’uomo che gira scalzo,22 sporco, irriverente, brutto, l’uomo che stupisce tutti arrestandosi nel mezzo della strada,23 o addirittura sul campo di battaglia, per inseguire un certo pensiero, incurante di tutto ciò che gli accade attorno; Socrate il folle, l’uomo pervaso da mania che esprime un sapere «onirico» e indefinibile, l’uomo atopos per eccellenza; ebbene, questo Socrate descritto dal Simposio incarna in realtà un modello di sapere che sovverte l’idea dominante di ciò che i suoi contemporanei, compresi gli illustri simposiasti, ritengono sia l’unico possibile sapere.
Illuminanti in tal senso sono le parole di Fedro: quando, nel giro di discorsi intorno ad Eros che impegnano uno dopo l’altro gli ospiti di Agatone, giunge finalmente il turno del padrone di casa, Fedro lo avverte di stare attento a Socrate. Costui, infatti, agisce spesso da elemento di disturbo quando si tratta di esprimersi in discorsi e, come in questo caso, di dire ciò che si pensa intorno ad un certo argomento: non il dire, legein, cioè l’esporre un discorso di fronte agli uditori silenziosi, interessa a Socrate. Per lui, evidentemente, il sapere vero non si raccoglie in un contenuto che sia in tal modo «dicibile», oggetto di un monologo che lo esponga.
A Socrate, dice Fedro con tono di rimprovero, interessa molto di più conversare, dialegesthai, con i suoi interlocutori, specie se si tratta di bei giovani, anche se ciò lo porta a divagare dal vero oggetto del discorso e quindi, dal punto di vista di Fedro, ad allontanarsi dall’unico autentico processo di conoscenza che consiste nel determinare una verità oggettiva da esporre, legein.24 A tema in questo caso è la natura del dio Eros, per metter fine allo scandalo, denunciato proprio da Fedro all’inizio del simposio, dell’ignoranza diffusa che circola su una divinità così importante per la vita degli uomini. I simposiasti si impegnano a rendere ad Eros l’onore che merita, tessendone gli elogi e precisandone la natura. Ebbene, di fronte a questo nobile compito, agli occhi di Fedro non v’è conoscenza al di fuori di quella che si lascia esprimere attraverso il monologico legein che a lui sta tanto a cuore. La conoscenza della natura di Eros potrà svilupparsi nel corso del simposio solo attraverso il succedersi dei discorsi, dei logoi che, uno dopo l’altro, Fedro e compagni pronunceranno. Socrate, con la sua tendenza a conversare, dialegesthai, con il suo perder tempo, ostacola questo processo di conoscenza e, distraendo i simposiasti, rischia di vanificare i loro sforzi: ritorna dunque, anche in un contesto così amichevole e bonario, l’accusa a Socrate d’essere un buono a nulla, uno che si tiene lontano dalle cose importanti, insomma, uno che non «fa», poiei, un bel niente. Quel prefisso dia- che la figura di Socrate si ostina ad anteporre al puro legein; quel dia- che significa differenza, relazione, messa in gioco nel dialogo; quel dia- che significa uscire dai confini di un io chiuso in sé, en auto; quel dia- che significa dunque «uscir da sé» nella relazione (proprio come «da sé» escono i poeti posseduti dal dio), per Fedro è soltanto un ostacolo. La conoscenza è per Fedro quella dell’io chiuso in sé, che non esce da sé e che si esprime solo con il suo legein, allacciando relazioni con gli altri uomini le quali, in fin dei conti, risultano essere null’altro che intrecci di monologhi che non mettono in discussione, che non fanno uscir da sé chi li pronuncia, proprio come accade in casa di Agatone.
Fedro, accecato dall’amore per i discorsi (il dialogo a lui intitolato da Platone, di cui parleremo tra breve, è il più chiaro esempio di questa passione smisurata) non si accorge che la vera natura di Eros, lungi dal poter essere rinchiusa in qualche definizione esposta attraverso i legein dei simposiasti, è in gioco proprio in quel dialegesthai socratico che a lui pare invece una fastidiosa digressione. Socrate incarna quindi, evidentemente, un sapere dialogico del tutto diverso dall’oggettività delle technai ma anche da quell’episteme che, nella sua staticità di dottrina uguale per tutti, può anch’essa essere trasmessa per via monologica, cioè attraverso il legein di Fedro. È un sapere, quello di Socrate, che i simposiasti, al pari della maggioranza degli ateniesi, eccezion fatta per gli erastes Apollodoro e Aristodemo e pochi altri atopoi come lui, non sanno cogliere neppure alla lontana. I più, infatti, assolutizzano techne ed episteme come unici possibili modelli di sapere: e ciò accade proprio perché sono lontani da Eros, non lo capiscono, gli voltano le spalle più o meno consapevolmente, ed in tal modo si condannano a quella penosa condizione di ouden poiountes, di «nullafacenti», anche se in apparenza fanno molte cose, concludono affari, producono oggetti necessari come il cibo o le vesti oppure compongono poesie e tragedie acclamate dal pubblico come Agatone.
Questo sapere dialogico di Socrate è amphisbetesimos osper onar, oscillante come il sogno: non si lascia trasmettere, non si lascia dire, legein, non si lascia condensare in nozioni e regole. È quindi un sapere che si sviluppa al di là di techne ed episteme ed insieme ad Eros. E’anzi un sapere che in ultima istanza, come emerge dal successivo svolgersi del Simposio, coincide con Eros. Ebbene, questo «sapere erotico», onirico, non trasmissibile e inafferrabile, presenta numerose affinità con l’arte poetica descritta da Platone. Prima tra queste affinità, l’origine divina: un’origine che tuttavia, nell’ambito delle vicende umane, appare spesso mascherata, sotto forma di una radicale povertà, penìa, di quell’Eros senza casa, aoiokos, privo di risorse e finanche di sapere, almeno nel senso in cui il sapere è inteso dai più. Eros, in questo assai affine allo stesso Socrate, appare anch’esso come un buono a nulla, scalzo e vagabondo, uno che non ha alcun bagaglio di sapere che sia sempre valido in ogni circostanza, com’è invece per i tecnici esperti, agathoi, di cui si parla nello Ione, ma anche per i sofisti come Protagora e Gorgia e per i loro allievi, tra i quali il poeta Agatone.
Come si evince dal discorso di Diotima nel Simposio,25 l’enigma di Eros sta anzi nel suo sempre di nuovo «morire», perdendo tutto ad ogni passo, e in tale morire sempre di nuovo generarsi, rinnovare e ricreare. E’una povertà essenziale, quella di Eros, costitutiva, che nel mito assume il nome di Penia, la madre di Eros. Tuttavia, tale povertà si rivela come la facies scritta di una più alta e indefinibile ricchezza: una ricchezza che è però non rappresentabile, non scrivibile né trasmissibile attraverso il monologico legein che Fedro contrappone al dialegesthai dell’erotico Socrate. Vi è quindi un’affinità evidente tra Eros, il sapere erotico di Socrate e la poesia26: affinità che trova la sua conferma più eclatante nei passi celebri del Fedro dedicati alla divina manìa.
5. Mania e poesia
Dedicato all’amante dei discorsi per eccellenza, lo stesso che nel Simposio è definito pater logou per sottolineare la sua capacità di generare i logoi spingendo i suoi interlocutori a lanciarsi nell’arte oratoria, il Fedro prende anch’esso le mosse dal problema della natura di Eros. Vituperato dal discorso cinico del sofista Lisia,27 letto da Fedro a Socrate, che scorge nell’amore soltanto un’insidia alla ragione ed a ciò che è davvero utile nella vita, Eros subisce un trattamento infamante anche dal primo discorso che Socrate elabora in risposta a quello di Lisia.28 Poi, il daimonion di Socrate, quell’enigmatica voce divina che tanto ha a che fare con il suo modo di vivere dialogico, interviene impedendogli di lasciare la scena del dialogo (uno scenario campestre, che si sviluppa dunque fuori dalla polis e perciò quanto mai propizio per parlar male di Eros che unisce gli uomini), prima di essersi purificato di una colpa divina: Socrate nel suo primo discorso, pur deridendo il discorso di Lisia, radicalizza la contrapposizione eros-senno tracciata dal celebre oratore, dipingendolo come una passione distruttrice, rome, che distoglie da ciò che è bene per l’uomo. In quei passi Eros è addirittura contrapposto alla filosofia: Eros sembra essere sinomimo di ignoranza.
Pronunciare queste parole si rivela però, grazie all’intervento «improvviso e imprevedibile» di quel «che di demonico», un atto d’empietà commesso da Socrate, perché Eros è di natura divina. Anzi, per la precisione, Socrate, riportando quanto ha «sentito» da to daimonion, dice che infamare Eros è una colpa analoga a quella di chi commette ingiustizia peri mythologìan, quasi che si volesse tracciare un legame diretto tra Eros, il divino e la composizione di mythoi.29
Torneremo su quest’associazione esplicita. Vediamo prima cosa Socrate elabora per espiare la colpa commessa con quel suo primo discorso «antierotico»: si tratta della celebre «palinodia», ode composta sulla falsariga di quella che compose il poeta Stesicoro, il quale nel passato aveva infangato l’onore di Elena e per questo era stato accecato dagli dei. Per recuperare la vista, punizione per la sua empietà, Stesicoro aveva pronunciato un discorso in cui riabilitava la figura di Elena. Analogamente Socrate, fingendo di vestire i panni di Stesicoro, pronuncia un grande discorso di riabilitazione di Eros e della mania divina.30
Ma perché, per parlare di Eros, Socrate si concentra sulla mania? La mania, quel potere espropriante che possiede gli innamorati, è la ragione delle accuse che molti, come Lisia e lo stesso Socrate nel suo primo ed empio discorso, muovono alla passione amorosa. La mania distoglie da ciò che è assennato, utile, sensato, razionale, prevedibile. Essa, pensano in molti, è nociva al bene, all’ordine della città e alla vita di ciascuno.
La palinodia pronunciata da Socrate in difesa della mania presenta numerosi spunti decisivi, tra i quali un accostamento di mania e autentica razionalità che lascia quasi trasparire, tra le righe, l’idea di una paradossale coincidenza tra i due termini. A noi, in questa sede, interessa innanzitutto sottolineare che la difesa della mania divina non è solo difesa di Eros, ma anche delle altre tre forme attraverso cui essa si esprime: la mania delle profetesse le quali, in stato di divina ispirazione, portano grandi benefici agli uomini; la mania di sacerdoti e sacerdotesse, come quelle di Dodona che, in stato di possessione entusiastica, sono in grado di liberare le città da grandi mali, mentre invece, quando si trovano in stato di veglia e di senno, non sono di utilità alcuna; e poi,
in terzo luogo — dice Socrate — vengono l’invasamento e la mania che provengono dalle Muse che, impossessatesi di un’anima tenera e pura, la destano e la traggono fuori di sé nell’ispirazione bacchica in canti e in altre poesie e, rendendo onore ad innumerevoli opere degli antichi, istruiscono i posteri. Ma colui che giunge alle porte della poesia senza la mania delle Muse, pensando che potrà esser valido poeta in conseguenza dell’arte (techne), rimane incompleto, e la poesia di chi rimane in senno viene oscurata da quella di coloro che sono posseduti da mania.31
L’accostamento di Eros e poesia, nel nome della divina mania, mostra anche in questo caso, e in modo più esplicito rispetto ai precedenti, che l’uscir fuori di sé dei poeti che valicano i confini della techne, non può essere liquidato come puro delirio: quella mancanza di senno rinvia anzi a qualcosa d’assai fecondo, anche dal punto di vista conoscitivo. «La mania che proviene da un dio — si spinge a dire Socrate poco nel suo discorso — è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini».
Ma in che senso dobbiamo intendere la positività della mania, qui presentata addirittura come via d’accesso al bene, al sapere e al buon governo della città? Come sciogliere l’enigma? Potremmo forse pensare, come fanno molti interpreti del Fedro seguendo la lettera del testo, ad un buon uso che gli uomini assennati, i «sobri» che sono alla guida della città, possono fare del furore bacchico dei «posseduti», amanti, poeti o sacerdoti che siano? Questa soluzione dell’enigma attenua di molto la natura paradossale della rivalutazione della mania messa in campo da Socrate: la mania delle sacerdotesse, i deliri degli innamorati e i versi dei poeti, secondo quest’ipotesi interpretativa, possono essere utili strumenti se chi rimane in senno ne sa trarre un vantaggio per la collettività. Ragione e passioni, logos ed eros, conoscenza e mania, dunque, possono essere conciliati, dissolvendo così l’inganno di una loro netta e insuperabile opposizione: in se stessi, però, essi rimangono domini del tutto diversi, ed il primo ha comunque una preminenza sul secondo, del quale «si serve» come di un utile strumento. Perciò, traendo da questa lettura le conseguenze che riguardano i poeti, la poesia frutto del loro delirio di posseduti può forse, se ben governata da chi rimane in senno, esser utile alla conoscenza e al bene, ed in particolare all’educazione dei giovani, ma in nessun modo essa potrà essere, in quanto tale, una forma di vero sapere. Il suo legame alla verità e al bene è estrinseco, è cioè posto da un’azione di governo che trascende l’ambito della creatività poetica.
Tuttavia, a nostro avviso, in questi passi del Fedro (ma lo stesso si può dire per il Simposio ed anche, come vedremo, per lo Ione) è in gioco qualcosa di più e di diverso: la rivalutazione di mania sembra infatti valere, a sua volta, come il simbolo scritto che rinvia a qualcosa di radicalmente altro dalla mera dialettica assennatezza-possessione o ragione-mania.
Ci riferiamo ad un di più, ad un’alterità accennata già al principio del Fedro, laddove Socrate stupisce il suo giovane amico dichiarando di credere che i miti, le creature dei poeti come la Chimera o gli Ippocentauri e tutte le altre atopiai mitiche, siano «vere», alethes32. Qui Socrate dice anche che questa è la riprova del suo essere, egli stesso, atopos, «assurdo», esattamente come le creature mitiche di cui sta parlando: un’atopia, quella su cui nei passi iniziali del Fedro Socrate insiste con allusivi e significativi giochi di parole, che lo sposta fuori dal topos di un modello di sapere dominante. Tale modello esclude, infatti, che si possa credere alla verità della Chimera e degli Ippocentauri, perché vero sarebbe soltanto ciò che corrisponde ad una realtà esterna e per tutti uguale: secondo tale prospettiva, dunque, il mito di Borea che rapì la giovane e bella Orizia, di cui parlano Socrate e Fedro può, tutt’al più, valere come allegorica descrizione di un fatto vero, come descrizione bizzarra, come una giocosa atopia che si tratta di «raddrizzare», epanorthousthai, ristabilendo in tal modo la serietà di quell’unico criterio di verità delle parole che è la loro «drittezza», orthotes, cioè la loro conformità a quel mondo esterno, attestato dai sensi.
Ebbene, quest’atopia che, credendo alla verità delle atopiai mitiche, fa riferimento ad un’altra idea di verità, è esattamente l’atopia di Socrate e di Eros, come abbiamo appreso anche dal Simposio; è l’atopia che espropria, che valica i topoi di ciò che i più ritengono essere vero sapere; è l’atopia che sospinge verso un modello di conoscenza radicalmente altro, enigmatico, indicibile, amphisbetesimos osper onar. Un sapere che si esprime solo nell’incessante dialegesthai di Socrate, quel dialegestai che Fedro (proprio lui, non a caso) nel Simposio non coglie nel suo valore di unica via possibile all’autentica conoscenza, interpretandolo anzi come una fastidiosa abitudine di Socrate. Quest’atopia, nell’esordio del Fedro, è associata direttamente ad una parola pesante come aletheia, verità, lasciando intendere che nei suoi atopici, onirici paraggi, a cui si accederà attraverso un percorso di espropriazione e di valicamento dei topoi della doxa, si raccoglie la conoscenza vera.
Ebbene, l’atopia di Socrate, anch’egli posseduto da mania e privo di techne e di episteme come i poeti, è ad un tempo l’atopia e l’aletheia dei mythoi creati da quei poeti: la verità di Socrate è la verità della Chimera, delle atopiai create dall’immaginazione creatrice dei poeti posseduti dalla mania, espropriati, invasati, usciti da sé. Non a caso, lo ricordiamo, la colpa verso la divina mania è definita anche come una colpa peri mythologian.
La verità della Chimera e delle altre atopiai poetiche, cioè la verità prodotta dall’invasamento divino dei poeti, dal loro uscir da sé, è ad un tempo la verità dell’atopos Eros e anche del sapere enigmatico ed onirico dell’atopos Socrate. Un sapere atopico, quello di Socrate, che si esprime innanzitutto come dialegesthai. Quel suo cercare il dialogo sempre e comunque è la manifestazione più evidente dell’atopia di Socrate: sempre teso a gettarsi nella relazione dialogica, egli mette sempre tutto in questione, non v’è contenuto di conoscenza che Socrate lasci in salvo. Questo è il senso del suo enigmatico «saper di non sapere» o, il che è lo stesso, del suo «intendersene solo di cose d’amore». Dialogo si dà soltanto allorché gli interlocutori mettono la loro intera vita in discussione,33 spogliandosi di ogni orpello, di ogni dottrina e di ogni ricchezza, poiché l’unica conoscenza e l’unica ricchezza sono quelle di chi conosce se stesso nel reciproco rispecchiamento dei dialoganti.34 Ecco perché Socrate è povero e senza calzari, segni tangibili della sua follia di eterno dialogante, di eterno erastes. Socrate è atopos perché crede nella verità della Chimera e delle altre creazioni dei poeti, ed è atopos perché vive sempre immerso nel dialegesthai, senza trattenere nulla, né sapere né ricchezze materiali, perché ciò che sta fuori dall’orizzonte del dialeghestai è mero ouden, nulla.35
Le due manifestazioni della sua atopia, quella che lo rende affine alle creature dei poeti e quella che lo definisce come l’uomo del dialogo incessante, sono equivalenti: entrambe sono sottese da un radicale, essenziale uscir da sé che è il motore della vita di Socrate. Un uscir da sé che è la matrice del suo stesso, enigmatico sapere dialogico, negativo e onirico; di questa matrice, ora lo si capisce più chiaramente, anche l’esser fuori di sé del poeta è un simbolo che all’interno della scrittura platonica invita a mettere in discussione il modello condiviso del sapere, quello che si lascia trasmettere dal monologico legein. Si tratta di un’azione simbolica che, come stiamo per vedere, funziona anche laddove l’esplicito del testo platonico, come accade nello Ione, si concentra sulla natura negativa e difettiva dell’uscir da sé dei poeti: anche un testo apparentemente antipoetico come quello, dunque, sembra sottendere tutt’altro che un divorzio tra poesia e verità.
6. Imprevedibilità e possessione
Prima di tornare, in conclusione, al cuore della discussione tra Socrate e il rapsodo di Efeso, segnaliamo un altro breve brano platonico che, a nostro avviso, conferma ulteriormente l’associazione tra mania, poesia e dialogo: si tratta di un passo del Teagete. Qui Socrate racconta che le sue parole sono di beneficio solo per alcuni, mentre per altri risultano irrilevanti o possono addirittura rivelarsi nocive36: ciò non dipende, ovviamente, dal significato delle sue parole o da un valore «tecnico» dei discorsi di Socrate in quanto tali, sganciati da chi li pronuncia e da chi li ascolta. La riuscita dell’incontro dialogico tra Socrate e i suoi interlocutori è del tutto «imprevedibile», in quanto dipende dalla peculiarità delle persone che incontra: una peculiarità che, invece, viene sistematicamente «lasciata da parte» nell’ambito sempre valido e sempre prevedibile della techne e dell’episteme. Nel caso del dialegesthai di Socrate, infatti, è l’enigmatica voce, phone, attraverso cui si esprime to daimonion, a decretare, senza ragioni evidenti, se tra Socrate e le persone che incontra vi sia o meno quell’enigmatica affinità che consente il darsi di un vero dialogo. È infatti questa inspiegabile affinità a far sì che l’incontro con Socrate sia di giovamento in quanto consente ai fortunati, a lui affini, di avanzare lungo l’unica via che val la pena di percorrere: la via della conoscenza di sé.
Un po’come accade con la composizione dei versi dei poeti e con la loro recitazione da parte dei rapsodi, anche qui possiamo dire che una theia moira, imperscrutabile sorte divina, determina, in modo del tutto imprevedibile, il darsi di un vero dialogo. È a nostro avviso innegabile l’analogia tra l’imprevedibilità delle relazioni dialogiche tra Socrate e i suoi interlocutori, inspiegabilmente disposte da to daimonion, e l’imprevedibilità del rapporto tra i rapsodi e i «loro» poeti. Come Socrate può dialogare soltanto con alcuni, così Ione sa interpretare e commentare soltanto Omero. Non a tutti parla con successo Socrate, non di tutto parla con successo Ione: la non universalità del sapere del mainomenon Ione è un’immagine scritta della non universalità del sapere dialogico del mainomenon Socrate.
Ma le analogie non finiscono qui: la possessione che guida il rapsodo e il poeta consente anche di tracciare un parallelo con un’altra figura decisiva per la cultura greca del tempo: il profeta. Tiresia, l’archetipo di ogni veggente, era cieco: la sua cecità era direttamente associata alla sua capacità di scire futura. Ma cieco era anche Omero, e privato della vista fu, come abbiamo detto, il poeta Stesicoro. E lo stesso vale per la figura dell’rapsodo, il quale, come scrive Emilia Di Rocco, «allo stesso modo del profeta, ha ricevuto il canto come ricompensa per aver perso la vista e parla per ispirazione divina».37 Pare dunque innegabile un’associazione diretta tra la mania del posseduto dal dio, si tratti di profeta, di sacerdote, d’innamorato o di poeta, e la sua cecità: una riconferma della sostanziale irrazionalità di queste figure, simboleggiata dalla loro incapacità di vedere. La visione del presente, infatti, sembra in tal modo delegata a chi, invece, rimanendo «in sé», e dunque non accecato dall’entusiasmo, si dedica alle technai e al governo della città: attività razionali che potranno forse avvalersi delle doti irrazionali dei vari posseduti, ma solo a partire da una condizione di preminenza e, soprattutto, di radicale separazione. La conoscenza vera, quella riconducibile a techne e ad episteme, sembra appartenere a quest’ultimo dominio, quello della «visione» di chi è libero dalla cecità divina degli ispirati. Una simile lettura individuerebbe così un possibile ma parziale riscatto della mania dei poeti e degli altri ispirati, a partire però da un’istanza superiore, quella della ragione vigile e in sé separata, per quanto non più contrapposta, dal caos passionale.
Tuttavia, la grande palinodia pronunciata da Socrate-Stesicoro nel Fedro sembra spingere a conclusioni diverse: quella palinodia ha, infatti la peculiare natura di «elogio della mania». Anzi, essa appare nel Fedro quasi come un discorso guidato dal divino, frutto esso stesso di un’ispirazione divina che, lungi dall’accecare Socrate, gli consente anzi di «recuperare» la vista. Quindi, l’associazione tra la cecità di Tiresia e quella del poeta Stesicoro (e di Socrate), ipotizzata da Umberto Curi,38 sembra non reggere: Socrate, infatti, è accecato al pari di Stesicoro proprio in quanto ignora la mania, ne occulta la natura e la offende. La cecità, nel Simposio, non è dei posseduti da mania ma, al contrario, di chi come Lisia, e come lo pseudo-razionalista Socrate nel suo primo discorso, contrappone la saldezza della ragione alla follia di eros, a chi pensa che «sapere», «conoscenza», «bene» siano concetti che appartengono al dominio di un intelletto puro, separato dall’alveo irrazionale delle passioni.
Cieco non è il posseduto e ispirato ma, al contrario, il cinico pseudo-razionalista Lisia, e ancor più il Socrate che pronuncia il suo primo discorso in cui contrappone eros, e dunque mania, alla ragione e alla filosofia. Ciechi sono coloro che, nel Fedro, non sanno credere nella verità della Chimera e degli Ippocentauri e ritengono così di doverli «raddrizzare» in nome di un criterio di verità uguale per tutti. Cieco, in altri termini, è colui che identifica il sapere con l’oggettività di techne ed episteme.
L’atopia di Socrate, e con essa la mania di innamorati, poeti e profeti, insomma, non ci rinvia ad alcun rigido razionalismo di Platone, come sostengono in molti, ma neppure ad un alcun antitetico irrazionalismo che privilegerebbe l’entusiasmo poetico al dispiegamento di un progetto razionale: l’atopia di Socrate consiste invece nel superamento della separazione, ingannevole e, appunto, «accecante» di ragione e passioni, di razionale e irrazionale. La rivalutazione di mania, la messa in luce di una vertiginosa quanto paradossale coincidenza di follia, eros e razionalità, è esattamente ciò che toglie la cecità, restituendo la vista a Socrate-Stesicoro in quanto lo solleva dall’inganno generato da quella miope contrapposizione. Inganno che nel Fedro, non dimentichiamolo, è definito come hamartìa peri mithologhian e che continua ad accecare la maggioranza degli uomini.
Queste riflessioni sembrano convalidare l’ipotesi che, come l’atopia di Socrate e la mania di Eros, così anche l’atopia e l’uscir da sé di poeti e rapsodi abbiano a che fare, almeno nella forma scritta di eikones, con ciò che Platone intende per vera conoscenza. Una conoscenza che si sviluppa oltre i confini di techne ed episteme, e che ora possiamo ben chiamare con il suo nome: conoscenza di sé. Una conoscenza che, del resto, si sviluppa come incessante dialegesthai, cioè come quel modo di vivere tipico di Socrate che richiede anch’esso, in altro modo, un continuo uscir da sé: in questo caso si tratta di un uscir da sé verso gli altri uomini, verso l’interlocutore che to daimonion, «imprevedibilmente», giudicherà affine. Di tale conoscenza è possibile indicare soltanto alcuni contorni, dai quali si può desumere, nel cuore indecifrabile di quell’«onirico» e «oscillante» enigma di cui parla Socrate nel Simposio, una natura politica. Torniamo dunque allo Ione per verificare quali spunti ci offra quel testo per orientarci in tali onirici paraggi.
7. Il campo magnetico della pietra Eraclea
La contraddizione in cui cade Ione, lascia intendere Socrate, è conseguenza del fatto che egli ignora la natura di rapsodia e poesia. Rapsodi e poeti sono mossi da una forza divina, theia dynamis, che agisce come quella pietra
che — dice Socrate — Euripide ha chiamato ‘Magnete’e che la gente chiama ‘Eraclea’. Anche questa pietra, infatti, non solo attira gli anelli di ferro, ma infonde altresì una forza negli anelli medesimi, in modo che, a loro volta, questi anelli possano produrre questo stesso effetto della pietra e attrarre altri anelli: e in questo modo, talvolta, si forma una lunga catena di anelli che pendono l’uno dall’altro. E tutti quanti dipendono dalla forza di quella pietra! Così anche la Musa rende <i poeti> ispirati, e attraverso questi ispirati, si forma una lunga catena di altri che sono invasati dal dio.39
Non per techne né per episteme, ribadisce quindi Socrate, i poeti compongono i loro bei versi: essi creano in uno stato di esaltazione, di entusiasmo, di furore bacchico che li «invade» e li «sconquassa» e li rende affini alle baccanti, le quali, «allorché sono invasate, attingono ai fiumi miele e latte e invece quando sono in senno non lo sanno fare». A riprova del fatto che i bei poemi non sono opera dell’uomo in stato di senno ma del dio, e dunque che la bellezza artistica non dipende da canoni umani e non può essere spiegata né valutata con criteri tecnici, Socrate cita ad esempio il poeta Tinnico di Calcide, un poeta di modesto valore «il quale non compose alcun carme degno di ricordo, ma solo il peana che tutti cantano, che è forse il più bello di tutti i canti e che, come dice lui stesso, è interamente invenzione delle Muse».40
Il peana di Tinnico soprende, spiazza, rende vano ogni tentativo di applicare criteri umani per spiegare la genesi della poesia e valutare l’abilità dei poeti: i parametri di valutazione adottati dai più non reggono. Tinnico poeta mediocre compone i versi più belli, quelli che tutti ricordano e cantano. Se accogliessimo alla lettera le parole di Socrate, come una descrizione tecnica della poesia che chiarisce come stanno le cose, tutto sarebbe rimandato ad un aldilà dell’umano, ad un oltre la techne, ad un divino irraggiungibile, del quale nulla si può dire perché l’uomo non vi può accedere con gli strumenti conoscitivi a sua disposizione.
Ma «divino», come già abbiamo avuto modo di sottolineare, non significa necessariamente «non umano» né «irraggiungibile per l’umano»: to theion è il divino dell’uomo che, come ricorda Socrate nell’Alcibiade maggiore, governa l’uomo nel dialogo e addirittura la polis stessa come orizzonte relazionale in cui l’uomo accede alla conoscenza di sé, facendo convogliare su questo fine «divino» tutte le attività umane, anche le più basse, concrete e quotidiane come la costruzione di case e di navi.
Ecco allora che il presunto mistero di Tinnico appare sotto un’altra luce, ben più significativa: il modesto valore di quel poeta, infatti, ricorda la povertà di Socrate: agli occhi dei «trentamila Elleni» che acclamano Agatone e la sua tragedia, Tinnico è un buono a nulla, un uomo privo di risorse esattamente come Socrate è scalzo, povero, perdigiorno, privo di sapere. Ma il non sapere di Socrate, lo abbiamo visto, è a sua volta il simbolo del suo enigmatico sapere che nel Simposio, proprio laddove si contrappone alla sapienza poetica di Agatone, egli stesso definisce amphisbetesimos osper onar, oscillante, onirico, notturno, invisibile agli occhi di quei trentamila Elleni.
Ciò che sfugge ai più, ciò che non si lascia valutare e calcolare dai parametri a disposizione di tutti, non è per questo un puro nulla e neppure è qualcosa che, in quanto è divino, rimane irraggiungibile per l’uomo: al contrario, nel Simposio quel sapere onirico e sfuggente di Socrate e di coloro che, come lui, sono «posseduti dal dio», invasi da mania, mainomenoi, si delinea come il vero sapere, quel sapere che ha la natura indefinibile del dialegesthai, dell’enigmatico modo di vivere di Socrate.
La pochezza di Tinnico è a nostro avviso imparentata, per dirla con le parole del mito di Diotima, con Penìa madre di Eros: l’eccellenza del peana da lui composto in stato di mania non è neppure il frutto di un intervento divino e dunque disumano, che sovverte i valori umani facendo sì che, per così dire, gli ultimi divengano i primi. La sua scarsa abilità compositiva, in realtà, è tale solo agli occhi dei più che acclamano Agatone e gli altri campioni della poesia greca. Occhi che, nonostante sembrino vedere bene ed apprezzare la poesia, non sono esenti dalla colpa divina che acceca, cioè dall’hamartanein peri mythologian.
Qui Socrate, grazie all’immagine del furore bacchico che porta il poeta ad uscir da sé, ammette l’esistenza di un sapere che, pur valicando i confini di techne ed episteme, è comunque attingibile per l’uomo, ed è il sapere più elevato, quello che conta di più: è quel sapere erotico al di fuori del quale tutte le cose che i più fanno, sanno o dicono, si risolvono in un puro nulla.
Si tratta, ora lo capiamo più chiaramente, del sapere verso cui tende quella domanda che Socrate pone ad Ippia nell’Ippia minore: mi sai indicare, chiede Socrate al sofista, un sapere in cui il veritiero e il mentitore non sono lo stessa persona? Ora possiamo rispondere che tale sapere c’è, e consiste esattamente nel sapere erotico, cioè nel dialegesthai di Socrate. Si tratta di quel sapere che, in un modo che non si può descrivere in termini tecnici, coincide perfettamente con l’azione del sapiente: un sapere che non ammette un agire difforme, come nel caso dell’esperto di aritmetica che nasconde il risultato corretto o del buon corridore che sceglie di correre lentamente. Se agli occhi di Ippia il migliore è colui che ha più opzioni, più possibilità, dynameis, di agire, e dunque è o dynotatos, ora questo spazio della possibilità scompare, si dissolve come pura illusione: non è la possibilità di fare qualsiasi cosa la sapienza vera, e questo ci consente di uscire dalle mille aporie di Ippia e, in particolare, dall’assurdo riconoscimento che il veritiero e il mentitore, dunque il migliore e il peggiore, sono la stessa persona. Questa elasticità della dynamis viene meno perché il sapere in questione non può essere smentito dall’agire: ma ciò non accade perché ci troviamo di fronte ad un sapere che esercita un dominio assoluto sulla condotta dell’uomo e sulle sue scelte. Nessun vincolo morale né «irresistibile attraenza»41 esercitata dalla scienza sulla pratica intesa come un dominio secondo, distinto e subordinato. Niente di tutto ciò: qui si tratta di un sapere che è, esso stesso, azione: un sapere che non ha alcun fondamento epistemico o tecnico, non è dottrina che si applica, non è regola astratta dalla concretezza dei singoli gesti di cui è fatta la vita.
È un sapere da cui non mi posso separare come da un bagaglio oggettivo, e che come tale non è trasferibile. Un sapere che, dunque, proprio per queste ragioni è atopon, indefinibile e «onirico» agli occhi dei più. Si tratta di un sapere-modo di vivere che si concretizza in quelle azioni che mi manifestano pienamente, aletheuein, dalle quali non mi posso cioè separare, come se ogni mio gesto fosse in fondo indifferente, reversibile, non tale da identificarmi: ecco perché questo sapere dissolve l’inganno di chi vive togliendosi ogni soddisfazione, da una maschera all’altra, ma anche di si ritrova spezzato in due, tra vizio privato e una pubblica immagine di virtù.42
Non stiamo parlando di un modo d’agire, quello incarnato dal Socrate dialogante, che sarebbe «vero» ed esprimerebbe quel sapere in quanto sarebbe conforme a principi o rispetterebbe determinate regole o criteri di condotta che sarebbero i «contenuti» del sapere in questione: ciò significherebbe attribuire a quel sapere uno statuto tecnico o epistemico che non ha. Non si parla qui di una prassi che si conformi ad una separata teoria, bensì del superamento dell’idea stessa che esista una simile dialettica teoria-prassi. L’idea di una siffatta separazione teoria-prassi è, in realtà, un altro modo di dire quella lethe da rimuovere, aletheuein. Ecco la verità altra a cui Socrate allude, lasciandoci intendere che uomo cieco e ignorante di sé è quello che, identificando il sapere solo con techne ed episteme, pensa la verità soltanto come orthotes e di conseguenza si vede costretto a «raddrizzare» Chimere ed Ippocentauri. Una verità come orizzonte dialogico che al suo interno racchiude la verità come orthotes, risolvendo techne ed episteme come sue condizioni interne, necessarie ma non sufficienti al darsi di un vero dialogo, dunque necessarie ma non sufficienti al darsi di autentica verità e conoscenza. Techne ed episteme valgono solo entro l’orizzonte dispiegato del dialogo, in quanto sono governate in quello spazio politico di cui, come stiamo per vedere, il pubblico rapito dalla recitazione del rapsodo è un simbolo. È chiaro che si tratta di una verità indefinibile, che sul piano della scrittura si manifesta solamente in modalità paradossali.
Di tale sapere-vita, enigma degli enigmi, della sua genesi e della sua raggiungibilità, non si potrà dare alcuna spiegazione di natura tecnica o epistemica. Ad esso rinvia l’immagine dei poeti entheoi e, ancor più, il mythologein di Platone. La scrittura platonica è, infatti, essa stessa, frutto di un comporre poeticamente: come tale, essa si avvale anche di discorsi che hanno statuto epistemico e dottrinale, ma solo in quanto essi, come ogni altra parola del corpus platonico, consentono un pieno dispiegamento del dialogo.43 È un mythologein, quello di Platone, che si serve anche dell’immagine dei poeti e delle parole dello Ione intorno alla divina ispirazione per mettere a tema un sapere che è certamente divino, ma non per questo è non umano.
Possiamo finalmente comprendere, allora, che con il suo discorso intorno all’ispirazione divina, Socrate non sta esponendo una sua dottrina sulla natura della poesia. Che senso avrebbe, del resto, dato il contesto in cui ci troviamo? Se giudizio vero e infallibile, capace di dire, legein, una volta per tutte le cose come stanno, è solo quello che appartiene a techne o ad episteme, come potrebbe Platone pretendere che una simile teoria stia in piedi? Se conoscenza salda, incrollabile e non suscettibile di oscillazioni imprevedibili è solo quella del tecnico o dell’epistemico, che statuto potrà mai avere questo discorso di Socrate sulla poesia divina?
L’idea di fondo, che a nostro avviso consente di rispondere a queste domande, è la seguente: la descrizione del poeta fuori di sé in quanto entheos, non è una dottrina sulla natura della poesia, non si presenta come una spiegazione tecnica o epistemica. Al contrario, tale descrizione del poeta entheos è, essa stessa, un’immagine poetica, creata dal mythologein di Platone. Si tratta di una composizione poetica che non parla con il linguaggio distaccato del tecnico esperto (di cui Socrate ha appena parlato a Ione) il quale spiegherebbe a distanza, dall’esterno, che cos’è la poesia. Se Platone facesse inoltrare Socrate in questo tipo di spiegazione tecnica, lo farebbe naufragare: la poesia che egli descrive, infatti, è dominata dall’imprevedibilità della theia moira, dunque non potrà mai costituire un ben delimitato olon che l’esperto in questione possa maneggiare senza sorprese. Della poesia così intesa non si dà techne.
Questo discorso sull’origine divina non può che essere, a sua volta, un discorso poetico, un’immagine ispirata che, per così dire, dall’interno avvicina il lettore al cuore della poesia. E’un’immagine che consente di uscire dal cul de sac di Ione ma, ovviamente, il percorso di uscita non potrà condividere lo stesso presupposto dei due punti di vista in contraddizione di cui abbiamo parlato in precedenza. Non potrà cioè fondarsi anch’esso sull’idea che la «verità» sia solamente quell’orthotes di cui abbiamo detto.
Dunque, la via d’uscita dalla contraddizione, per mostrarci un’idea diversa di verità e un modello di sapere altro rispetto a techne e ad episteme, non potrà che avere natura diversa: non la natura distante ed esterna del giudizio tecnico dell’esperto, che precede, prevede e categorizza i fenomeni, escludendo l’idea stessa dell’imprevedibilità. Le parole di Socrate ci possono far capire quell’idea altra di verità e di sapere non già trasmettendoci un contenuto tecnico o epistemico, che come acqua si lascerebbe travasare dalla tazza piena a quella vuota.
Quelle parole di Socrate, quell’immagine della poesia divina e dell’uscir da sé dei poeti possono funzionare solo instradando, esortando il lettore ad avanzare concretamente verso un orizzonte altro rispetto a techne ed episteme. Questa è la funzione iconica del mythologein platonico, questo è il suo potere «politico» di coinvolgimento del lettore. Ebbene, tale coinvolgimento del lettore trova pieno compimento nello Ione attraverso le parole pronunciate da Socrate subito dopo. Parole che compongono, a loro volta, una perfetta icona di questo instradare il lettore verso un orizzonte altro rispetto a techne ed episteme.
Si tratta della descrizione di ciò che accade di fronte alla performance di un rapsodo ispirato. Costui, infatti, a tal punto s’immedesima con i fatti narrati da tremare di paura, se sta interpretando un personaggio in pericolo, e a seconda delle vicende portate sulla scena ride e piange, si dispera o gioisce: il rapsodo crede che la finzione sia verità. Ma la peculiarità dell’arte rapsodica è di riuscire a coinvolgere in questa illusione, in questo credere che la finzione poetica sia vera, l’intero pubblico e persino i coreuti, gli istruttori e tutti coloro che in diverso modo partecipano alla rappresentazione. Il rapsodo prolunga il potere d’attrazione che il dio infonde al poeta, estendendolo a tutti coloro che entrano nel suo campo magnetico: perfino le maestranze dei teatri, persino coloro che danno un contributo tecnico alla messa in scena, a ribadire che la techne non è affatto dissolta dalla mania del rapsodo. Al contrario, la techne è esplicitamente ricompresa, governata come condizione interna a quel processo di espropriazione che conduce al dialogo, di cui la magnetica mania del rapsodo è immagine scritta.44
Neppure quest’immagine consiste in una teoria di Socrate sull’ispirazione divina: che teoria potrebbe mai essere, del resto? Su cosa potrebbe basarla Socrate per darle un fondamento tecnico o epistemico? Come potrebbe Socrate evitare di cadere in palese contraddizione con tutto quel che ha detto prima e con quanto ribadirà subito dopo intorno a techne ed episteme? Quelle pronunciate da Socrate non sono parole che pretendono di avere lo stesso valore del tecnico, e neppure aspirano alla saldezza dottrinale dell’episteme che non ammette sorprese né elementi d’imprevedibilità.
Si tratta, al contrario, di parole che sono, esse stesse, «ispirate»: hanno, per rifarci ad un esempio già citato, la stessa natura delle parole «folli» pronunciate da un poeta, Stesicoro, per recuperare la vista. Quello Stesicoro di cui Socrate, nel Fedro, finge di prendere le sembianze per pronunciare la sua palinodia su eros, mania e poesia. Parole «poetiche», prodotte dalla possessione, dalla mania, dall’ispirazione divina, per parlare del valore di verità e di conoscenza della stessa mania.
Le parole pronunciate da Socrate nello Ione intorno all’ispirazione divina, costituiscono dunque una via d’uscita dalla contraddizione di Ione e della maggioranza, in quanto sono, esse stesse, eikones, simboli poetici: in quanto tali, quelle parole hanno un valore essenziale di rinvio ad altro, di rinvio oltre se stesse. Il valore dell’eikon platonica sta proprio nel sospingere il lettore oltre i confini dell’esplicito, oltre il piano discorsivo-lineare della sua scrittura, oltre la doxa, oltre il punto di vista che identifica la verità con quell’orthotes di cui abbiamo detto.
Certo, con questo non stiamo sostenendo che Platone inviti il lettore a negare il valore di quell’orthotes: essa è anzi necessaria per vivere, tuttavia non è sufficiente per «viver bene» e per conoscere se stessi, per accedere a quella verità enigmatica che sopravanza i confini di techne e di episteme. La verità oggettiva come orthotes disciplina l’ambito del necessario, rende possibili gli sforzi per mantenersi in vita, per soddisfare bisogni e desideri. Anche nello spazio magnetico dell’illusione prodotta dal rapsodo, abbiamo detto, la techne rientra come condizione interna nella forma di istruttori e coreuti e di tutti coloro che tecnicamente contribuiscono alla messa in scena, ma non per questo sono meno sedotti dal potere attrattivo del rapsodo.
Ma questo ruolo della techne non basta: per conoscere se stessi, per essere se stessi nella polis, è necessario anche liberarsi dalla cecità della maggioranza, quella cecità che affligge coloro che hamartanein peri mythologian. È dunque necessario recuperare la vista grazie alla mania.
Il rapporto cecità-visione ha dunque un senso opposto a quello tradizionale, per cui i ciechi erano i posseduti, i mainomenoi, e cioè Tiresia e gli indovini, gli innamorati e, appunto, i poeti. In Platone accade il contrario: cieco è lo pseudo-razionalista che non crede nella verità della Chimera, che separa logos ed eros e che identifica il sapere soltanto con techne ed episteme, liquidando la poesia ed ogni altra espressione del mythologein come pura finzione, pura atopia da raddrizzare.
Lo slancio estatico, il furore bacchico, l’uscir di senno del poeta e del rapsodo, è un’immagine, eikon, è un simbolo che rinvia il lettore verso un orizzonte altro in cui si dispiega un sapere che, pur non essendo riconducibile a techne ed episteme, non per questo è separato dalla verità.45 Tale sapere è esattamente il dialegesthai di Socrate: quel sapere erotico che, sul piano esplicito della scrittura, appare come non sapere, o come sapere bizzarro, atopon, onirico, osper onar, non condensabile in dottrina.
Del resto, come ci dice Platone stesso in molti luoghi della sua opera, altro non può fare la scrittura per creare vera conoscenza: la scrittura non è utile al vero sapere trasmettendo contenuti, nozioni, dottrine per tutti uguali. Non è così che, scrivendo, si avvicina il lettore alla conoscenza, ma solo e unicamente sospingendolo, esortandolo ad avanzare lungo un cammino, unico e peculiare per ciascuno, che dovrà poi, inevitabilmente, percorrere da sé. Un cammino che trascende il piano discorsivo-lineare dello scritto e, insieme ad esso, i confini che rendono il lettore chiuso «in sé», timoroso di immergersi interamente nella relazione dialogica mettendo tutto in discussione, restio a praticare quell’esercizio di morte, melete thanatou,46 in cui consiste la filosofia. Ma il morir sempre di nuovo per sempre di nuovo generare, dice Diotima nel Simposio, è esattamente la natura di Eros: è dunque la via del vero sapere, il cammino enigmatico e tecnicamente indeterminabile della verità.
Un cammino precluso ai ciechi che non «vedono» la verità dei miti, che non vi sanno credere e si sforzano di raddrizzare, epanorthoustai, le atopiaì: un cammino che solo Socrate l’atopos, il non orthos, il mainomenos, percorre con tutte le sue forze in quanto s’intende solo di cose d’amore, cioè in quanto tutte le cose, ta onta, egli le riconduce alla loro natura di ta erotika. Tutto, infatti, autenticamente è nell’orizzonte dischiuso da Eros, mentre ciò che rimane fuori da tale orizzonte è puro nulla, ouden, è ombra ingannevole proiettata sul fondo della caverna.
L’estasi del poeta e del rapsodo esorta perciò il lettore ad uscir da sé verso se stesso, verso quel sapere non trasmissibile che è, appunto, il dialegestahi socratico, verso l’esser sempre immerso nel dia-logos, verso la filosofia come melete thanatou, verso l’esser immortali in vita.47 L’immagine del pubblico e dei coreuti e degli istruttori rapiti dall’illusione che la finzione sia vera, questo mythos di una collettività rapita da mania, dislocata rispetto al topos in cui dominano techne ed episteme e nel quale le atopiai dei poeti vengono «raddrizzate», è eikon di una città in cui gli uomini escono da se stessi nella relazione dialogica: questo mythos narrato da Socrate è immagine del dialeghestai che si fa polis, della città teatro totale a cui si accede, paradossalmente, nella mania.
Una città folle, luogo di una verità enigmatica: la verità a cui si accede «credendo» che le atopiai dei poeti siano vere. Ma di che verità si tratta? Dell’unica verità a cui Socrate può accedere, la verità del dialegestai, la verità come svelamento, aletheia, di sé nel dialogo: verità come rimozione della lethe, del velo che occulta la natura dialogico-politica degli uomini. A tale svelamento sospinge l’immagine dell’estasi poetica e della magnetica, folle persuasione condivisa che la finzione sia vera.
Valicare in tal modo i confini di techne ed episteme, chiaramente, non significa certo dissolverle o, assurdamente, farne a meno, bensì, al contrario, farle essere per ciò che esse sono. L’Eros che risuona nel mythologein, l’Eros poeta e rapsodo, dispiega un orizzonte all’interno del quale techne ed episteme trovano la loro giusta collocazione: techne ed episteme sono ciò che si tratta di governare al fine di rendere possibile la coincidenza di polis e dialegesthai.
La verità di techne ed episteme, la verità come orthotes di cui abbiamo parlato, sarà ricompresa da quell’enigmatica aletheia come svelamento di sé che si produce solo nella immersione totale nella relazione dialogica. Il campo magnetico della pietra Eraclea, di cui si parla nello Ione, è immagine di uno spazio autenticamente politico, governato da quella folle capacità di «credere che i miti siano veri», di credere che la Chimera e gli Ippocentauri siano veri e non abbiano alcun bisogno d’essere raddrizzati: una capacità prodotto di mania, effetto di un condiviso uscir da sé che coinvolge tutti e che è immagine del comune immergersi nel dialogo. Una persuasione condivisa che potrà apparire come ingannevole illusione collettiva, o al massimo come giocosa sospensione delle cose serie, solo a chi ancora si trova in quella penosa, antierotica condizione di ignoranza che nel Simposio è sintetizzata nell’illusione di fare molte cose mentre in realtà non si fa nulla.
Nel diffondere la convinzione che i fatti narrati dai poeti e messi in scena dai rapsodi siano veri, la bella poesia e la bella rapsodia agiscono da icone: la loro bellezza coincide con il sospingermi verso la conoscenza di me stesso nel dialogo. La loro bellezza mi rinvia oltre me stesso, a «morire» nel dialogo, ad immergermi senza residui. E quanto più è forte questa azione della bellezza, dunque questa valenza iconica di rinvio, tanto più essa mi espropria, proprio come fa Eros: la bellezza della finzione poetica mi spiazza, mi sorprende, è imprevedibile come il demonico di Socrate. È la bellezza della sorpresa, l’entusiasmo che solo lo spiazzamento infonde, sradicando i topoi certi e dischiudendo l’atopia. Un’atopia che non allontana davvero da se stessi ma, al contrario, espropria i confini mendaci di un io chiuso in sé, en auto, per accedere al vero poiein, all’unica autentica creatività: quel «generare nel bello», tokos en kalo, con cui Diotima identifica Eros.
8. Bibliografia
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-
«Probabilmente — scrive Hans-Georg Gadamer, tra i più lucidi interpreti di Platone nel XX secolo, nel saggio Platone e i poeti — non c’è stato nessun altro filosofo che abbia negato così radicalmente all’arte la sua importanza e ne abbia contestato con assolutezza la pretesa, per noi così ovvia, di essere la rivelazione della verità più profonda e segreta». Va peraltro aggiunto che Gadamer sottolinea anche, e il rilievo, come vedremo, è di grande importanza, la natura paradossale di questo «attacco alla sostanza portante dell’essenza greca e all’eredità della sua storia»: tale attacco, infatti, non è opera «di un razionalista privo di senso artistico, ma di un uomo la cui stessa opera si alimenta a energie poetiche, evoca incanti poetici, affascinando così i millenni». Hans-Georg Gadamer, Platone e i poeti, in Studi platonici 1, Marietti, Genova, 1998, p. 187. ↩︎
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Eric Alfred Havelock parla esplicitamente di un «monopolio» esercitato dall’epica omerica sul linguaggio culturale greco e, in primo luogo, sull’educazione e sulla formazione dei cittadini: una condizione che impedisce evidentemente ogni confronto con il ruolo che la poesia, confinata nell’ambito «parziale» delle arti secondo una settorializzazione del sapere estranea al mondo antico, eserciterà per la modernità occidentale. Così Havelock spiega anche la durezza e l’importanza dell’attacco portato alla poesia omerica da Platone, soprattutto nella Repubblica. Cfr. Eric Alfred Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Laterza, Roma-Bari, 1983. Werner Jaeger, nel suo insuperato Paideia. La formazione dell’uomo greco, sottolinea peraltro che Platone si inserisce in una lunga tradizione di censura della poesia: già Eraclito e Senofane, ad esempio, avevano duramente criticato, come farà Platone nella Repubblica, le sembianze troppo umane degli dei omerici. Tuttavia, pur inserendosi sulla stessa linea e assecondando una tendenza esistente alla presa di distanza dal mito, Platone, dice Jaeger, «va molto più oltre». «Platone non è solo il censore occasionale della cattiva influenza dei pensieri dei poeti sul pensiero del popolo, ma vede in se stesso il rinnovatore di tutto il sistema della paideia greca». Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco. Volume secondo, La Nuova Italia, Firenze, 1978, cfr. soprattutto pp.363-395. ↩︎
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Giovanni Reale, nel saggio Per una rilettura e una corretta interpretazione del dialogo «Ione», che introduce la sua traduzione italiana, afferma che quanto dice Havelock a proposito della Repubblica vale anche per lo Ione, vero manifesto della «lotta ingaggiata da Platone» tesa al «rovesciamento di quel modo poetico-mimetico di pensare e di parlare. E se non si comprende questo — aggiunge Reale — fatalmente nell’interpretazione dello Ione si esce fuori strada». Tra gli esempi di interpreti celebri che hanno deragliato da questo paradigma interpretativo, Reale ricorda Kurt Hildebrand che, nel suo Platone. La lotta dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino, 1947, legge nello Ione un attacco rivolto soltanto al rapsodo, al quale Platone contrapporrebbe il vero poeta. «Ma tutti i testi di Platone — scrive Reale — sono contro questa esegesi». Cfr. Giovanni Reale, Per una rilettura e corretta interpretazione del dialogo «Ione» saggio introduttivo a Platone, Ione, a cura di G.Reale, Bompiani, Italia, 2001, pp-18-19,. ↩︎
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Da Omero, scrive ancora Gadamer, si era soliti attingere la totalità del proprio sapere, in tutti i campi (come più tardi gli scrittori cristiani attingeranno tutto dalla Bibbia). Su questo insiste anche Jaeger, evidenziando il valore «normativo» della parola poetica: «Gli oratori attici sogliono in tribunale citare distesamente le leggi dello stato, quando si debba aver ben precisa dinnanzi la norma del diritto scritto; ma accanto ad esse, e con altrettanta naturalezza, essi citano anche i detti dei poeti». Lo stesso Pericle, nel suo encomio della democrazia ateniese, esalta la legge «non scritta» codificata dalla poesia. Persino in tribunale, dunque «la parola del poeta è norma». Cfr. Werner Jaeger, ivi, cit., p. 368. ↩︎
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Per un approfondimento dell’ipotesi interpretativa qui sostenuta di una conoscenza altra, che si svilupperebbe oltre le dualistiche antinomie anima-corpo razionale-irrazionale e verso la quale la scrittura platonica rinvierebbe il lettore, rivelando così la propria natura paidetica e politica, mi permetto di rinviare a Pietro Del Soldà, Il demone della politica. Rileggendo Platone: dialogo, felicità, giustizia, Apogeo Editore, Milano, 2007. ↩︎
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Platone, Fedone, 518 a. Ad eccezione delle citazioni tratte dal Simposio, le citazioni degli altri scritti platonici sono tratte da: Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Milano, 1991. ↩︎
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Platone, Ione, 530 a-c. ↩︎
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Platone, Ione, 532 c-d. ↩︎
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Ivi, 532 e. ↩︎
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Ivi, 533 c. ↩︎
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Il poeta ispirato, dice del resto Jean-Pual Vernant nel saggio Dal mito alla ragione, ricorda avvenimenti passati perché guidato da Mnemosyne, Memoria, madre delle Muse. Il poeta «ricorda», ma il suo non è un semplice catalogo di fatti, bensì ricerca di ciò che sta al di là del visibile, oltre il fenomenico di cui si occupano le tecniche. Come farà poi il filosofo, dice Vernant, anche il poeta arcaico mira ad oltrepassare gli oggetti d’esperienza: il suo ambito di competenza, dunque, è altro rispetto a quello degli «esperti». Di questa tendenza all’oltrepassamento non v’è traccia in questi passi dello Ione, ma ciò non significa, come vedremo, che Platone stia negando tout court il valore conoscitivo dell’ispirazione divina che possiede il poeta. Cfr. Jean-Paul Vernant, Dal mito alla ragione, saggio conclusivo del volume Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, Torino, 2001. ↩︎
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Proprio a Platone, e in particolare ai passi del Timeo dedicati al mito, Jean-Paul Vernant attribuisce la codificazione di questo ridimensionamento del mito: «Nella religione — scrive Vernant — il mito esprime una verità essenziale; esso costituisce un sapere autentico, modello della realtà. Nel pensiero razionale, il rapporto si capovolge. Il mito non è più altro che l’immagine del sapere autentico, ed il suo oggetto, la génesis, non è più altro che una semplice imitazione del modello, dell’Essere immutabile ed eterno. Il mito costituisce allora il campo del verosimile, della credenza, pistis, in opposizione alla certezza della scienza. Pur essendo conforme allo schema mitico, lo sdoppiamento della realtà in modello ed immagine che viene effettuato dalla filosofia, ha tuttavia il senso di una svalutazione del mito, ridotto ormai al livello d’immagine». Vernant sottolinea però come già nel VI secolo fosse iniziato questo mutamento radicale. Nella città di Mileto si delineò infatti una filosofia positiva della natura, a sua volta preceduta, e in parte resa possibile, da ampie trasformazioni sociali e politiche: istituzioni come la moneta, il calendario, la scrittura alfabetica, il commercio e la navigazione orientarono il pensiero verso la pratica ed ebbero una «funzione liberatrice». Cfr. Vernant, ivi, cit. pp. 394-5. ↩︎
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Ippia minore, 363 b ↩︎
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Ivi, 366 e ↩︎
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E’lo stesso Platone, in quel raro testo autobiografico che è la Settima lettera, ad invitare i suoi lettori a «sfregare tra loro i suoi logoi», cioè a non arrestarsi ad una lettura passiva che si attenda dal testo il trasferimento di un’oggettiva dottrina platonica, per sforzarsi invece in una lettura attiva, compositiva, non meramente lineare dall’inizio alla fine, una lettura che si costruisca attraverso un’incessante comparazione dei suoi scritti, associati ora per l’analogia che li unisce, ora per il contrasto che li oppone. Uno «sfregamento» che consenta, proprio come lo sfregamento dei legni, lo scoccare di una scintilla che accenda nel lettore il fuoco della conoscenza. Conoscenza che, evidentemente, non potrà a sua volta consistere in un insieme di contenuti trasmissibili attraverso il veicolo della scrittura. ↩︎
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Protagora, 312 a. Quando, in questi primi passi del Protagora, Socrate fa notare ad Ippocrate che egli sta abbracciando un’idea di sapere oggettivo, staccato e neutrale, il giovane, che fino ad allora non ci aveva riflettuto, arrossisce. Anzi, a sottolineare la rilevanza di questo dettaglio drammaturgico, il regista Platone lascia filtrare nella stanza di Socrate i primi raggi di sole proprio nel momento in cui le gote di Ippocrate si tingono di rosso, per dare risalto al suo imbarazzo. Il rossore, infatti, in molti luoghi platonici, è il segno tangibile dell’imbarazzo e del «disaccordo con se stessi» in cui si vengono a trovare alcuni interlocutori di Socrate (i più aperti e sensibili alle sue domande, quelli che si lasciano chiamare in causa e mettere in discussione dal dialegesthai socratico). In questo caso il rossore, cifra del disaccordo con se stesso di Ippocrate, emerge insieme a quell’idea di sapere oggettivo e separato: è il primo segnale che Socrate, quando parla di conoscenza, ha in mente un sapere diverso, non separabile dalla vita e dall’unicità di colui che lo possiede. ↩︎
-
Ivi, 314 b. ↩︎
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Sul ruolo che la critica della sofistica gioca all’interno delle parole di Socrate intorno alla poesia, cfr. Gadamer, ivi, cit., in particolare pp.196-197. ↩︎
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Simposio, 175 d-e. Le citazioni sono da Platone, Simposio, traduzione di Fabio Zanatta, Feltrinelli, Milano, 1995. ↩︎
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Ivi, 173 e. ↩︎
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Ivi, 173 c. ↩︎
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Ivi, 174 a. E’ l’eccezionale occasione della vittoria di Agatorne, dice Apollodoro, ad aver spinto Socrate ad indossare i calzari, cosa che egli faceva molto raramente. Quest’ultima notazione sottolinea la distanza dagli uomini del tempo, secondo i quali i calzari erano un requisito del buon cittadino, e ancor più dai sofisti. Al sapere esteriore e superficiale dei sofisti, di cui abbiamo detto, corrispondeva una cura estrema del vestiario che ricorda da vicino il to soma kekosmesthai del rapsodo Ione. Come ricorda Fabio Zanatta, «questo atteggiamento socratico venne assunto dai discepoli come segno di appartenenza e affinità allo stile di vita del maestro. Spesso, tuttavia, il loro zelo nel palesare tale patente di socratismo, li condusse all’eccesso e la loro condotta parve, paradossalmente, cedere a quell’esteriorità detestata dal loro maestro». Platone, Simposio, trad. di Fabio Zanatta, Feltrinelli, Milano, 1995, p. 147. Per approfondire il tema del socratismo dei discepoli, cfr. Jean Humbert, Socrate e les petits socratiques, Paris 1967, pp. 211-283. ↩︎
-
Atopon, dice Agatone che pur lo conosce da tempo, l’atteggiamento di Socrate il quale, prima di entrare nella casa del poeta, se ne rimane immobile, sordo ai richiami, nell’atrio del vicino. Ivi, 175 a. ↩︎
-
Ivi, 194 c-d. ↩︎
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Ivi, 201d-212c. ↩︎
-
Un’ affinità che Diotima sembra quasi voler ribadire con una breve digressione «etimologica» in cui traccia un parallelo tra eros e poiesis, ivi, 205 a-c. ↩︎
-
Fedro, 230e-234c. ↩︎
-
Ivi, 237a-242b. ↩︎
-
Ivi, 243a. ↩︎
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Il grande discorso di Socrate elaborato per espiare la sua colpa verso gli dei, e dunque verso la mythologia, occupa la parte centrale del Fedro, da 243e a 257b. ↩︎
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Ivi, 245a. ↩︎
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Ivi, 229c. ↩︎
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Cfr. in particolare Lachete, 187d-188b. ↩︎
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Sul tema del rispecchiamento reciproco che si produce nel dialogo come via d’accesso alla conoscenza di sé ma anche, nel contempo, al vero governo della polis, rinvio nuovamente a Pietro Del Soldà, ivi, cit. in particolare pp. 8-28. ↩︎
-
Anche nell’Alcibiade maggiore, in cui a tema è il dialogo come orizzonte della conoscenza di sé in cui l’uomo da espressione al divino, to theion, che è in lui, Socrate pronuncia qualcosa di analogo e altrettanto scandaloso: tutte le grandi opere che si compiono nella città, i cantieri, le navi, le imprese mercantili o militari, perdono ogni valore se non sono in funzione della conoscenza di sé. Quelle cose hanno senso soltanto se non sono governate da to theion, cioè se rientrano nell’orizzonte del reciproco rispecchiamento nel dialogo. La polis non è il luogo della mera conservazione della vita o del soddisfacimento di bisogni e desideri: polis è il luogo della conoscenza di sé. Dunque, le opere degli uomini nella città valgono solo come condizioni affinché si pervenga a tale conoscenza. Ed è significativo che anche in questo testo di Platone, tale conoscenza di sé sia presentata come un termine enigmatico al quale si accede, anche in questo caso, attraverso un percorso espropriante, che supera i confini rigidi di quello che Socrate chiama l’uomo come «essere singolare in sé», cioè l’uomo chiuso en auto. Conoscenza di sé, dunque conoscenza tout court, ma anche, in ultima istanza, governo della polis e attività in generale, si danno solo rompendo i confini ingannevoli di quell’«in sé». Un movimento espropriante che ricorda da vicino il trascendimento dei confini di techne ed episteme di cui si parla nello Ione. Rompendo quei confini, gettandosi nel riconoscimento reciproco, l’uomo dà espressione alla sua natura divina: anche qui, come negli altri dialoghi citati, l’espropriazione ha intimamente a che fare con il divino, e l’idea che il divino così inteso sia addirittura ciò che consente di governare la città, lascia intendere che, forse, la natura divina dell’ispirazione poetica non rinvia affatto ad una sfera non umana, trascendente o comunque inattingibile in questa vita. Le riflessioni che svilupperemo in conclusione sull’ispirazione divina dei rapsodi che magneticamente «attraggono» il pubblico, confermeranno che, quando Socrate parla di divina ispirazione, del rapsodo come «uomo divino», non allude ad alcun aldilà oltreumano, bensì ad un divino che è umano e politico. ↩︎
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Teagete, 129e-130a. ↩︎
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Sull’associazione tra le figure del profeta e del poeta, in quanto «ispirati dal dio» e «accecati», cfr. Emilia Di Rocco, Io Tiresia. Metamorfosi di un poeta, Editori Riuniti, 2007. Cfr. in particolare pp 245-212. ↩︎
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La mania di Tiresia, dice Curi, è duplice come pharmakon che, ad un tempo, intossica e guarisce: la mania, infatti, dona la vista delle cose future ma acceca il veggente circa le cose che lo circondano. Sull’analogia tracciata tra la cecità di Tiresia, legata alla sua capacità di prevedere il futuro, e la cecità di Stesicoro descritta nel Fedro, cfr. Umberto Curi, Endiadi. Figure della duplicità, Feltrinelli, Milano, 2000, cfr. in particolare pp. 57-58. ↩︎
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Ione, 533 d-e ↩︎
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Ione, 534 d ↩︎
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E’ questa la spiegazione dell’enigmatico rapporto tra scienza e virtù proposta da Gabriele Giannantoni, tra i più noti studiosi della dialettica platonica. ↩︎
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Il riferimento è a due celebri immagini descritte da Socrate in Repubblica VIII: quella dell’uomo timocratico, che vive cercando pubblici onori mentre in privato «si toglie le voglie di nascosto, come fanno i bambini col padre»; e quella dell’uomo democratico, che vive passando con cieca indifferenza da un desiderio all’altro, ora militare, ora asceta, ora nell’ebbrezza e tra suoni di flauto, ora tra digiuni e brindisi d’acqua, a volte avendo addirittura l’aria di darsi alla filosofia, dice Socrate, ma senza mai identificarsi con le azioni che compie e con le identità superficiali che di volta in volta sceglie di indossare, come fossero maschere acquistate al mercato. ↩︎
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Tutto ciò che viene detto nel dialogo, dice lo Straniero di Elea nel Politico, non vale per il valore che in se stesso riveste, non per il suo significato oggettivo: ogni parola pronunciata nel dialogo vale solo all’interno del dialogo stesso, come condizione per un sempre maggior coinvolgimento dei dialoganti. Un coinvolgimento che nel Politico è definito come un «render gli interlocutori abili dialettici in tutti i casi». Dunque, qualsiasi discorso pronunciato da Socrate o da altri personaggi dei dialoghi platonici, anche quelli che paiono godere di uno statuto epistemico ben preciso, anche quelli che la tradizione interpretativa ha isolato come cardini della dottrina di Platone, varranno in realtà solo se lasciati nel contesto dialogico in cui sono inseriti. Estrapolarli per ricavarne un’oggettiva filosofia platonica, significherà ignorare la spinta iconica che la scrittura di Platone, sommo esempio di mythologein, intende esercitare sul lettore, e in tal modo voltare le spalle alla natura eminentemente politica dei dialoghi. ↩︎
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Ci sembra dunque fuorviante la lettura che di questi passi propone Franco Trabattoni, il quale si domanda: «Credeva veramente Platone che i poeti sono ispirati dalla divinità? Non è necessario pensarlo. L’ispirazione qui indica la felice contingenza di chi riesce bene per doti naturali, o perché fortunato, «baciato dalla dea bendata (come potremmo dire oggi, con termini molti distanti dallo spirito platonico). Con questo Platone vuol dimostrare che la cultura poetica non ha titolo per assumere nella città un ruolo normativo e pedagogico, perché alle sue spalle non v’è nessun sapere, e dunque nessuna capacità di insegnare». Franco Trabattoni, Platone, Carocci, Roma, 2001, cfr. soprattutto pp. 51-54. Platone non teorizza, forse, la fantasia al potere (per giocare con un’altra espressione ancor più lontana dallo spirito platonico) ma ciò non implica affatto, come stiamo verificando, che la mania dei poeti e dei rapsodi possa esser ridotta, come vorrebbe Trabattoni, al rango di felice quanto vacua contingenza. ↩︎
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Per approfondire l’analisi della funzione iconica del mythologein in Platone, soprattutto in relazione alla natura mimetica della poesia, cfr. Daniele Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, Roma-Bari, 2003, soprattutto pp. 37-74. ↩︎
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L’espressione celebre è utilizzata da Socrate nel Fedone, poco prima, e non è certo un caso, di affrontare la sua propria morte, immagine estrema del suo sapere, del suo essere interamente risolto nel dialegesthai. ↩︎
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«L’uomo — scrive Alessando Biral — cercando di raggiungere la felicità divina, non compie un salto oltre la sua condizione mortale, ma proprio in questo suo tendere a essa permane fedele e su di essa si china per prendersene cura». Alessando Biral, Platone e la conoscenza di sé, Laterza, Bari, 1997, cit., pp. 140-141. ↩︎