Impressioni sulle tracce. In margine a Maurizio Ferraris, Documentalità

Maurizio Ferraris, Documentalità, Roma-Bari, Laterza, 2009.

La storia della filosofia è costellata lungo il suo corso da imprese di pensiero ardite, da sfide intellettuali epiche, talvolta anche grottesche e un po’ fumose, questa volta Maurizio Ferraris ne tenta una biblica. «In origine era il Verbo», come si legge nel vangelo di Giovanni, andrebbe rimpiazzato con un più corretto «In origine era la Lettera», almeno per ciò che riguarda il mondo sociale: più ferma, più salda, meno incostante e volatile della aerea parola. D’altronde, a pensarci bene, se nelle Sacre Scritture Bibbia significa libro, ma anche lettera, e c’è scritto che il «Logos» è all’inizio, qualche sospetto d’incongruenza sopravviene. Il detto paolino «la lettera uccide, lo spirito vivifica» va contraddetto e capovolto; è la Lettera, secondo Ferraris, infatti, la condizione per cui lo spirito vive e si rallegra, senza questa lo spirito non solo si rattrista, non solo sarebbe povero e muto, ma propriamente morto; sarebbe soltanto un fantasma evanescente del pensiero, una chimera della mente.

Ferraris annuncia e spiega questo rovesciamento nella decima tesi delle undici che costituiscono la spina dorsale del suo sistema: «La Lettera è il fondamento dello spirito […] nessuna produzione dello spirito potrebbe sussistere senza la lettera, la registrazione e il documento; e, più radicalmente, lo spirito trova la sua condizione di possibilità nella lettera, nelle iscrizioni che ci costituiscono come esseri sociali».1 La Lettera precede, è Archè e Prius, in ogni cosa la Lettera è, come l’Acqua e l’Aria nelle antiche catalogazioni; è anzi il fondo e l’origine delle cose del mondo sociale. Perciò la tanto reclamizzata e celebrata, quanto fittizia, società della comunicazione, cioè delle parole, della trasmissione verbale, va sostituita risolutamente con una più pertinente, azzeccata ed «originale» società della registrazione (tesi numero sette). L’intero mondo sociale in questo modo è racchiuso nel registro e nella tracciabilità, vale a dire nei documenti. Insomma, per farla breve, le tavolette di Hammurabi scalzano Ermes con le ali ai piedi.

Troppo spesso e incautamente la Lettera si è data per spacciata, in fin di vita, con le ore contate, mentre ad oggi, e più che mai, dimostra invece di scoppiare di salute: la tecnologia è il termometro di questo stato di benessere scoppiettante, e ce ne rende partecipe ogni giorno di più. L’esplosivo «pop corn» di scritture — post it, sms, messaggi dei social network — , a cui si assiste, ha smentito gli uccellacci del malaugurio, i profeti della inesorabile malasorte della scrittura.

Il bersaglio polemico di Ferraris, il suo avversario teorico è il supposto idealismo di Searle, annidato nella nozione di Intenzionalità collettiva.2 Lo scrive in modo perentorio, senza giri di parole e nascondimenti, Luca Illetterati: «Per dirla un po’ rudemente, la teoria che propone Ferraris — che trova nella legge ‘Oggetto = atto inscritto’ la legge costitutiva dell’oggetto sociale — è un tentativo di “far fuori” l’intenzione collettiva come fondamento dell’ontologia sociale o per meglio dire di togliere quell’elemento di aleatorietà, di mistero (e quindi di sovrannaturalità) che albergherebbe in una nozione come quella di intenzione collettiva».3 Per il filosofo americano, infatti, alla base della realtà sociale ci sarebbe l’«intenzionalità collettiva», il motore, o forse meglio la benzina della macchina sociale, a cui il collega italiano contrappone la teoria della Documentalità. L’Intenzionalità collettiva appare nella formulazione di Searle un’entità che solleva non pochi dubbi e perplessità: la benzina sembra assomigliare al fluido magico delle favole, al lievito per levitare a mezz’aria.

Per Ferraris, lungi dall’essere un’intenzione risultato di accordi e compromessi tra intenzioni individuali all’interno di una collettività considerata, essa è una forma di superstizione, una sorta di superanima, un’entità mitologica che travalica e trascende la realtà effettuale, una specie di vaporoso e fantasmagorico spiritello che aleggia allegramente sul mondo; tutto al contrario della concretezza e della materialità manifesta dei documenti. Se non che, i documenti sotto forma di Documentalità paiono anch’essi perdere di corpo e di peso e, assottigliandosi allo spago, scomparire nei cieli turchini delle idee.

Il documento pian piano evapora nella Documentalità per il semplice fatto che la legge istitutiva degli oggetti sociali è Oggetto = Atto Iscritto, che viene enunciata nella quinta tesi dell’endecalogo predisposto dal filosofo, nella quale puntualizza e specifica che «l’ontologia è una teoria degli oggetti sociali, quelli che rispondono alla regola costitutiva “Oggetto = Atto Iscritto”. Ossia: gli oggetti sociali sono il risultato di atti sociali (che coinvolgano almeno due persone) caratterizzati dal fatto di essere iscritti: su carta, su un file di computer, o anche semplicemente nella testa delle persone».4 L’Atto Iscritto dovrebbe configurarsi, quindi, come una iscrizione senza intenzione, che coinvolge almeno due persone. Anzi è sempre l’intenzione a dipendere meccanicamente dalla iscrizione. Anche le emozioni discendono dalle iscrizioni e dalla Documentalità. L’anima è un genere di i-Pad, la mente una «tabula scripta» e non più rasa, l’uomo nel suo insieme una macchina complessa, sostiene Ferraris.

Allora si può «ben dire» (si fa per dire): «Ecco il fondamento del ‘mondo di creta’: la Documentalità». La creta del documento garantirebbe quella solidità e stabilità che non può garantire l’argillosa e scivolosa intenzione, troppo capricciosa, volubile e soggettiva per essere basilare per un «oggetto sociale», per l’oggettività. Tuttavia anche la creta migliore mostra crepe e presenta insidie, come sanno bene gli storici, che hanno imparato a loro spese, tra cadute ed inciampi, a diffidare dei documenti come riflesso immediato e immacolato di una monolitica e granitica realtà. I documenti che maneggiano gli storici sono diversi dalla Documentalità propagata e sponsorizzata da Ferraris, perché ogni storico che conosce il suo mestiere sa che il documento è un monumento, intriso di intenzioni, comprese quelle di falsificazione, e che parla soltanto se interrogato. L’universo sociale disegnato da Ferraris è, invece, composto da un alfabeto di lettere, da galassie di scritte, da costellazioni di iscrizioni, che nessuno però ha scritto mai. A monte non c’è intenzione, si procede soltanto per interminabile ripetizione. È del tutto escluso in questo modo di vedere la possibilità di una dialettica tra intenzione e documento. L’Oggetto sociale non è, significativamente, un atto scritto, il che implica la rinuncia e l’espulsione di qualsiasi intenzione e scelta.

Sono i documenti che determinano le azioni e le intenzioni, dicevamo. Ma sarà vero il contrario, ci chiediamo? Ovvero chi scrive i documenti? E bene ribadire che il «letteracentrismo ferrarisiano», un vero esorcismo dell’intenzionalità, implica l’assenza di processi dialettici. Tutta la sua teoria è imperniata sulla essenzialità della traccia, sulla sua necessità, infatti se le tracce cessassero, dovremmo dire addio al mondo sociale, e sull’espulsione di qualsiasi intenzione originaria e originale.

L’approdo ultimo a cui porta questa teoria è letteralmente il determinismo, meglio ancora il determinismo letterale. Non facciamo altro che ripetere ciò che è scritto, non scriviamo; seguiamo un tracciato, non tracciamo alcunché, come un computer fa con le schede madri, come un pulcino con mamma oca; saremmo, di fatti, soltanto minuscoli commedianti, tutti quanti, su un palco gigante, che si muovono secondo il «dettato» di un copione stabilito per mettere in scena un grandioso inganno, una grottesca farsa dal titolo grandioso La vita libera e la dignità dell’uomo. Il mondo della Documentalità è Matrix, è la Grande Madre da cui tutto discende e si avvia, a cui siamo attaccati come marsupiali; la nostra vita, solo in apparenza fatta di decisioni e scelte, sarebbe scritta e segnata. Il DNA confermerebbe la nostra natura di esseri programmati, ineluttabilmente determinati. Ma nessuno scienziato serio ha mai creduto ed affermato che il DNA fosse la mappa della vita, magari pure particolareggiata e dettagliata per alcuni scientisti entusiasmati.

In siffatto sistema che non ha esterno — è, per l’appunto, in-scritto, scritto dentro — , ed è chiuso — il mondo sociale è permeato in ogni sua parte dalla Documentalità . -, non c’è possibilità di falsificazione, per cui non è scienza, bensì ontologia. L’ontologia, dice Ferraris, è quello che c’è. L’ontologia, agli occhi di un girovago dilettante, è uno sforzo superfluo, una inutile caccia al chimerico noumeno kantiano. Facciamo, infatti, ogni giorno esperienza di quanto sia superfluo l’essenziale. Un tempo, ad esempio, era considerato essenziale per la sopravvivenza di una famiglia il gran numero dei componenti; oggi non lo è più. Ci sono anche famiglie di due persone, o tre, ed eserciti di single, che vivono benissimo: l’essenziale dov’è finito?

In definitiva non c’è nulla di così essenziale da poter essere elevato in pompa magna ad essenza. Da Talete in avanti, abbiamo imparato a diffidare di elementi essenziali, che, per quanto si vogliono o siano necessari, non sono sufficienti a definire una cosa. Infatti essa è quella cosa, e non altra, per via di una combinazione e articolazione di elementi in un dato momento, che la rendono differente, rendendole una propria identità, rispetto ad altre cose. La teoria della complessità ha acquisito questo dato e lo afferma ormai da tempo. Tolta la pompa, quindi, l’essenziale sparisce, e il gonfiore svanisce. In ultima analisi le essenze sono assenze. Lo stesso presente, che è il tempo dell’ente, è un condizionale compiuto, che apre ad altre condizioni di possibilità da compiersi nel presente. Gli «essenzialisti», che tutto riducono all’osso, non riconoscono la «polpa inessenziale» di cui l’osso è ricoperto e che gli da dialetticamente senso. Nulla si può scartare e considerare superfluo e inessenziale una volta per tutte, capita che il rifiuto di oggi potrà divenire una risorsa domani, nel fluire del tempo. Anche su questo punto, con grande lucidità, coglie nel segno Luca Illeterati quando dice: «Ecco, non credo sia una semplice sottigliezza evidenziare che l’ontologia non è in realtà quello che c’è, ma è il discorso intorno a quello che c’è».5

Attraverso questa annotazione di grande spessore, il critico respinge, e lo facciamo anche noi, la separazione stabilita da Ferraris, nella terza delle tesi composte, tra epistemologia e ontologia: «per quanto non si voglia sostenere (almeno io non lo voglio sostenere) che il linguaggio è uno schema concettuale che ci farebbe vedere il mondo come vuole lui, per cui parlanti lingue diverse vedrebbero anche realtà diverse, penso però che nelle parole ci sia sempre una sorta di residuo epistemologico che non è semplice e immediato grattare via».6 Ne siamo convinti, non si può raschiare in nessun modo il residuo epistemologico, se non al costo di creare una pia illusione. Quello che c’è, se c’è, è inconoscibile; se invece è conoscibile, allora è un discorso su qualcosa e non la cosa in sé.

Volendo si può accettare anche la distinzione metodologica di Ferraris tra ontologia ed epistemologia, che altro non è se non la distinzione kantiana tra noumeno e fenomeno, purché sia vincolata alla imprescindibile condizione discorsiva e linguistica dell’uomo, che rende irraggiungibile quello che c’è, la cosa in sé senza mediazioni di alcun tipo. D’altronde predicare l’esistenza di una cosa e predicare la sua conoscibilità, sebbene si possono formalmente distinguere, restano entrambe, pur sempre, un predicare. Non a caso Wittgenstein invitava a tacere di ciò di cui non si può parlare, e nel momento in cui se ne parla diventava anche ciò, essenze o esistenze che fossero, per ciò stesso, discorso umano, gioco linguistico, entrando, in questo modo, nei confini del nostro mondo.

In buona sostanza, il commentatore sembra dire al neontologo, con sua buona pace, che non è così semplice dire addio e congedare Kant. Si chiede, per esempio, questo avvocato del residuo epistemologico: «Quando noi diciamo di qualcosa che è un organismo siamo davvero sicuri di muoverci dentro una netta separazione tra ontologia ed epistemologia? La risposta data al quesito ci aiuta a capire meglio la completa inconsistenza della supposta dicotomia: «In termini molto generali quando si parla di organismi si parla di quegli enti naturali che sono i viventi. Eppure, se si guarda all’origine moderna del concetto di organismo le cose risultano alquanto complesse. Come alcune ricerche hanno messo in evidenza, la parola organismus, per quanto compaia all’interno di alcune fonti medievali, viene di fatto usata per la prima volta in un contesto scientifico negli scritti di medicina e fisiologia del medico e fisiologo tedesco Georg Ernst Stahl a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo. Quello che però si sottolinea con forza all’interno di queste ricerche è che per tutto il Settecento la parola indica non tanto una tipologia di oggetti, quanto piuttosto una modalità di organizzazione degli oggetti. Sarebbe solo alla fine del Settecento e nei primi anni dell’Ottocento (dunque in seguito alla Critica della capacità di giudizio di Kant) che la parola inizierebbe a indicare quella peculiare tipologia di oggetti che sono i viventi, diventando progressivamente un termine tecnico delle scienze della vita.

Dire che le parole non sono mai neutre e che la loro storia rivela oscillazioni e slittamenti significativi non solo rispetto alle nostre forme di organizzazione e classificazione degli enti del mondo non significa attribuire alle parole la capacità di costruire le cose, ma solo renderci avveduti che i nostri modelli di organizzazione del mondo (e quindi le nostre ontologie) non sono mai del tutto indipendenti rispetto ai modi in cui si vanno a sviluppare i significati delle parole. Significati che evidentemente si svolgono dentro una storia e risentono, in essa, delle nostre pratiche di rapporto conoscitivo con il mondo».7

La conclusione a cui ci porta il ragionamento di questo «avvocato del diavolo» è non solo ineccepibile ma anche condivisibile: «Insomma, quello che non riesco a sottovalutare è il fatto che l’ontologia è un discorso […] gli oggetti sociali, come sostiene Ferraris stesso, proprio in quanto dipendono dai soggetti senza essere soggettivi, non sono e non possono mai essere del tutto impermeabili alle credenze dei soggetti e dunque a ciò che chiamiamo epistemologia. E se l’ontologia in qualche modo dipende dal linguaggio, essa non sembra poter essere immune da strutture epistemologiche che la intenzionano. Questo non significa sostenere che il mondo dipenda dai nostri schemi concettuali. Significa però riconoscere un certo grado di astrazione in una distinzione aproblematica tra ontologia ed epistemologia».8

Il percorso «contropostmoderno» intrapreso da Ferraris prevede come prima tappa neutralizzare Kant, ispiratore del post moderno, e il suo «soggettivismo», come seconda affermare la realtà ontologica ed extrasoggettiva della Documentalità, ed alla fine sboccare in un duro e puro New Realism. Tutta l’operazione ferrarisiana è finalizzata alla costruzione di una realtà ontologica sgombra dalla scomoda presenza del soggetto e senza ombra di intenzioni. Ad ogni modo, abbandonando il rapporto epistemologia-ontologia, la prospettiva teorica di Ferraris toglie all’uomo la libertà, sopprimendo e mortificando l’autonomia degli individui; tutto è, in essa, solo apparenza ed inganno: l’uomo è uno scheletrico burattino, tenuto in piedi dal filo delle tracce. Si ritorna, per farla breve, al meccanicismo deterministico, ma mentre nella «modernità» ad ispirare tali concezioni erano i movimenti ripetitivi e uguali degli orologi, nei tempi «postmoderni» del cinematografo e del registratore i movimenti sono in evoluzione, in proiezione come la bobina di un film, o il nastro di un gigantesco registratore dotato di una carica inesauribile di batterie. Come segugi, seguiamo tracce, in cui non c’è la minima traccia di alcuna intenzione.

La Documentalità, alla fine, pecca dello stesso difetto dell’Intenzionalità: precipita e affonda nell’idealismo da cui cercava di fuggire. All’idealismo dell’intenzione subentra l’idealismo del Documento. Se l’idealismo è un idea che si monta la testa, che prende il largo e che non tocca più con i piedi per terra, non basta ammantare la Documentalità di materialità per sottrarla e metterla al riparo da questo rischio. Infatti la realtà sociale non si condensa solo nel testo, come proclama Ferraris nella sesta tesi, ma è fatta da testa e da testo, dal rapporto reciproco e storico tra parole e scritte, tra intenzioni e documenti. Per uscire dalla strettoia intenzione-documento, può essere di una qualche utilità rammendare la fiaba di Pollicino, che per uscire dal bosco, e far ritorno a casa, lasciava, volontariamente, lungo la strada briciole di pane, tracce che poi avrebbe seguito.

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  1. M. Ferraris, Documentalità, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 360. ↩︎

  2. John Searle espone la sua teoria ontologica nel volume La costruzione della realtà sociale, Milano, Edizione di Comunità, 1996, successivamente sviluppata in altri due libri: Mente, linguaggio e società (2000) e Creare il mondo sociale entrambi editi in Italia dall’editore milanese Cortina. ↩︎

  3. L. Illetterati, Due problemi nella teoria della documentalità, «Rescogitans», http://www.rescogitans.it/main.php?articleid=397 ↩︎

  4. M. Ferraris, cit., p. 359. ↩︎

  5. L. Illetterati, cit. ↩︎

  6. Ivi. ↩︎

  7. L. Illetterati, cit. ↩︎

  8. L. Illetterati, cit. ↩︎