1. Introduzione. La questione metafisica e il tempo
Cosa significa incontrare un pensatore come Levinas? Come è possibile concepirne la portata storica, l’obiettivo profondo e rinnovativo? Le domande sulla parola del filosofo francese, di origini lituane e di discendenza ebraica, sono innumerevoli, molte ancora senza risposta. Quello che ci proponiamo di portare a termine è una ricerca leale e approfondita sulla prima produzione diLévinas, nel periodo comprendente la salita al potere del regime nazionalsocialista, la II Guerra Mondiale e, prima di ogni cosa, l’Olocausto.Cosa e in che modo pensare dopo Auschwitz? Questa la domanda apicale che E. Baccarini, nel suo testo su Levinas. Soggettività e Infinito,1 estrapola nella riflessione generale sulle sue opere. La soluzione sembra chiara, ma non ve ne può essere una più complessa e impegnativa: postulare l’etica prima dell’ontologia. Etica come filosofia prima — metafisica — trascendenza. L’Olocausto è un episodio storico, questo non deve essere dimenticato. Episodio nella tragedia del cammino umano.Capitolazione dell’umano, o ri-capitolazione dell’esperienza universale dell’essere al mondo, esito di una deliberazione antica, paternale,rassicurante. Episodio che «salta addosso», schiaccia e non lascia respirare liberamente il pensiero,lo anestetizza o lo sospinge. Episodio che per noi è occasione. Levinas era cosciente dell’opportunità epocale della riflessione filosofica sul tema dell’esistenza. Evasione metafisica—evasione dalla prigionia.
Profeticamente, già nel ’35 Levinas aprì, con voce magistrale, alla possibilità dell’uscita dall’avvolgente intelaiatura dell’essente nell’essere, dal silenzio della notte.La rimostranza contro la filosofia dell’essere in quanto filosofia della totalità e della guerra, viene trascritta linearmente nella Prefazione di Totalità e Infinito.2
In essa [nella guerra],la realtà fa a pezzi le parole e le immagini che la nascondono e finisce con l’imporsi nella sua nudità e nella sua durezza. Dura realtà […], dura lezione delle cose, la guerra si produce3 come l’esperienza pura dell’essere puro, nello stesso istante in cui brucia con le sue folgori i veli dell’illusione.4
Il conflitto è il segno della violenza dell’anonimato, della brutalità dell’esistere indifferente. Esso trae a sé la soggettività, la reclude nell’oscurità della ambizione oggettiva — superbia della totalità, la guerra è interruzione della distanza dall’essere, e, dunque, assenza di esteriorità — spoliazione.Ontologia ed escatologia sono contrarietà nella relazione con l’esistenza in generale: asservimento e affrancamento. L’escatologia, di fatto, non suggerisce la finalità dell’essere nella sua totalità, poiché,se così fosse, resterebbe interna alla totalità stessa. Essa governa l’essere, in quanto cammino verso la pace messianica, nell’:
[…] al di là della totalità o della storia […] . Essa è relazione con un sovrappiù sempre esterno alla totalità, come se la totalità oggettiva non soddisfacesse la vera misura dell’essere, come se un altro concetto — il concetto di infinito — dovesse esprimere questa trascendenza nei confronti della totalità, non-inglobabile in una totalità e tanto originaria quanto la totalità.5
Solo nell’idea della trascendenza escatologica — giudizio interno alla singolarità di ogni istante, «tempo dei vivi», in cui i vivi possiedono una identità prima del termine della storia — è possibile la venuta all’essere degli enti dotati di parola. Il giudizio è appello e testimonianza. La totalità scientifica porta alla luce il fondamento della guerra, albergante esattamente nei suoi confini, e, di conseguenza, impiantato nell’immanenza dell’essere, a cui la totalità stessa attende.Evasione dall’essere — la soggettività trova dinanzi a sé l’idea dell’Infinito. Questo il significato originale della questione metafisica.
Pensare Auschwitz è pensare l’essere in relazione all’esistente, e l’esistente in relazione al proprio esistere, ovvero a se stesso. Coscienza, tempo, altri; l’operazione dell’umano è a partire da quell’essere annullato che è presenza dell’assenza, impersonalità scevra di nominalità, il fatto che il y a: l’essere del «campo di concentramento. Con la domanda della trascendenza si sollecita il movimento dell’io, dell’identità, che ha cura di sé, che vive il tempo; ma si dimena nell’essere in modo circolare, staticamente. Non va avanti né indietro, sta fermo nella assistenza verso se stesso.
Il tempo assistenziale è il presente, appiattito, economico. Si capisce perché «[…] il futuro, un istante vergine, è impossibile per un soggetto solo».6 Altri deve visitarmi. Altri deve soccorrermi. Altri deve portarmi nell’avvenire, in cui io posso — nella sollecitazione della trascendenza d’altri - progettare nella temporalità.
Tutto ciò è generato dall’il y a, e l’uomo non deve rimuovere lo spazio taciturno della verbalità, entro cui nessuno è chiamato e può chiamare, dove non vi sono consiglio,comando e devozione; e dove il rischio della rovina incede imperante nella progressione dell’umanità. Evadere dall’a-peiron, ascoltare l’indicazione che fluisce dal prossimo, aver fede nell’annuncio. Andare senza sapere dove si arriverà — esodo. La discendenza di Abramo è ancora sulle vestigia del padre, in viaggio senza conoscere la meta, verso la «terra promessa» — volto e infinito — e, insieme, verso il «nuovo pensiero» contro la barbarie della civiltà moderna. Dobbiamo specificare ulteriormente il tentativo analitico che qui presentiamo. Tutto sorge nella posizione di una domanda fondamentale: quanto detto, certamente vero e verificabile nei testi levinasiani, mantiene aperta una problematica ancor più profonda, che connette le opere che verranno ivi prese in considerazione accuratamente e le opere immediatamente seguenti, soprattuttoi saggi di Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger,7 anticipatori delle più articolate trascrizioni di pensiero (Totalità e Infinito,Saggio sull’esteriorità 1961;Altrimenti che essere, o al di là dell’essenza, 1974).
La problematica è la seguente: dell’eversione metafisica in opposizione all’ontologia, decretata dalla regressione inesorabile della soggettività autarchica e chiusa, che preclude all’altro il suo spazio esistenziale; di questa eversione, che richiede, come ovvio, una lacerazione del tessuto individualistico, si deve poter rendere ragione secondo la sua possibilità strutturale — giuridica, istituzionale — che ne permette la realizzazione attuale. In altri termini: va bene uscire dall’essere, ma qual è il fondamento ultimo della liberazione ad opera dell’alterità? Dove essa interviene, invertendo la direzione dell’io economico?
Mostreremo, crediamo con sufficienti convalide testuali, che il responso alla questione deve essere trovato nella temporalità in maniera specifica, in quanto ostacolo immediato alla apprensione spontanea della rappresentazione e al rovesciamento teoretico dell’intuizione. Il primo incontro con altri è già subito tempo. La sensibilità, che senza dubbio preserva un valore altissimo per Levinas, come prossimità, es-posizione, vulnerabilità; la sensibilità non toglie però il rischio della comprensione della percezione o dell’intellezione, organizzata — a priori — dalla soggettività. Il tempo è il custode dell’alterità in quanto tale, la esclude in primo luogo (già contatto!) dalla violazione egoistica. Per confermare questa supposizione, esamineremo il fondo anonimo dell’essere, il rapporto dell’esistente con l’esistere — la sorgenza del soggetto nell’oblio ontologico — e, infine,l’avvento di altri e l’evasione dell’essere secondo il tempo,8 per la de-stituzione e de-posizione dell’io autonomo.
2. Il y a. Essere e anonimato
Il pensiero9 di Levinas progredisce nella radicalità della presa di coscienza maturata,necessariamente (per un sincero pensiero filosofico), nella dimensione critica dell’epoca del totalitarismo. La semplice analogia tra la totalità dell’essere, percepito nel suo anonimato e nella pervasività, e il sistema inglobante della politica nazionalsocialista, non deve essere, però,considerata come una forma di giovanile ingenuità. Piuttosto, essa è cifra di una ispirazione prodromica, focalizzata sulle derivazioni (e derive) dell’instaurazione dell’onnicomprensione violenta dell’anti-filosofia10 hitleriana.10
Dobbiamo, innanzitutto, notare l’implicazione teoretica del testo Dell’evasione (’35-’36), in riferimento al sistema complessivo della riflessione germinale di Levinas. In esso troviamo, in primo luogo, il concetto dell’essere «in generale», ovvero l’il y a, e la conseguente nozione di evasione, categoria innovativa nel panorama speculativo. Siamo al cospetto di una traslazione tecnica perfettamente coerente con il sentimento poetico — sia perdonato l’ulteriore spostamento semantico, giustificato però dall’uso frequente, da parte di Levinas, della letteratura moderna — ma,prima di ogni cosa, coerente con la coscienza di una relazione sofferta con il persistente travolgimento della normale parentela dell’io con l’essere. Il problema, di fatto, non è nell’individuazione delle caratteristiche antropologiche della soggettività, delle affezioni, delle emozioni e della sensazione nauseante causata dalla convinzione della propria finitudine. Il problema non è nemmeno, come Levinas chiarirà nelle successive opere, quello di cogliere il fondamento trascendentale dell’ontologia dell’io, ovvero la comprensione delle condizioni di possibilità della presenza dell’io, dello strappo prodotto dal soggetto nominale (nominabile)nell’essere anonimo; poiché ciò sarebbe insufficiente per l’esplicazione della categoria dell’evasione,che verrà a coincidere con la posizione del sostantivo nel verbo (o ipostasi). Il punto teoretico essenziale è altrove: è il rilevamento dell’evasione in quanto momento fondativo dell’identità e della presenzialità, in quanto categoria dell’essente che dimora nell’essere. È fenomenologia. Descrivere l’uomo che rifugge non la propria limitatezza esistenziale, ma il fatto dell’esistere in se stesso. Mal-essere, reclusione, bisogno della fuga.Nel primo capitolo, Levinas scrive:
La verità elementare che c’è dell’essere — dell’essere che vale e che pesa — si rivela con una profondità che dà la misura della sua brutalità e della sua serietà. […] il fondo della sofferenza è costituito da un’impossibilità di interromperlo e da un acuto sentimento di essere incatenati. […] Ciò che conta, in tutta questa esperienza dell’essere, non è la scoperta di un nuovo carattere della nostra esistenza ma del suo fatto stesso, della stessa inamovibilità della nostra presenza.11
Ciò non significa, di per sé, la soluzione e assoluzione della primitiva tematica filosofica circa la possibilità escatologica del ritorno all’essere puro — reditus,ristorazione — (che sia Dio, l’Uno, il Bene), in quanto unica via per la liberazione dell’individuo dalla materialità; evasione è evasione dall’essere in sé, nella sua essenzialità — evasione da qual si sia forma o definizione della pesantezza dell’essere.12 Anche Dio, se considerato nell’ordine dei gradi ontologici13, appare insufficiente nella diserzione dell’umano. Persino il concetto di slancio creativo, mirabilmente lodato dalla filosofia contemporanea, possiede una struttura carente per l’uscita dall’essere. La creatività, nonostante sia rottura della presenza cristallizzata, avvalora «[…]un asservimento all’essere»,14incapace di affrancarsi da esso, poiché condizione (e conclusione)dell’opera stessa di creazione.
Il «vizio di forma» consiste nella concezione, ormai assimilata,dell’opposizione tra essere e divenire. Levinas smentisce questo caposaldo della letteratura filosofica. Lo slancio creativo si cura della metamorfosi della mondanità, la governa magistralmente; ma esso, nella sua possessione dell’essere, non fuoriesce da quest’ultimo; anzi,proprio nello slancio poietico si ossifica la preminenza dell’essere nella categoria della destinazione.Correre verso l’ignoto è pur sempre dirigersi verso «qualche parte». Levinas, al contrario desidera cogliere il bisogno di evasione nella sua autenticità, in quanto:«ricerca di un’uscita, ma non nostalgia della morte, perché la morte non è un’uscita, come del resto non è una soluzione. Il fondamento di questo tema è costituito — ci sia concesso il neologismo — da un bisogno dieccedenza [excedance]».15
Tirarsi fuori — farsi osceno. D’altronde, osceno è ciò che viene imputato di inumanità, e, noi crediamo, potrebbe assurgere a concetto esplicativo per il seguente passaggio.Poiché l’essere è, naturalmente, identità, all’uomo si conferisce il dovere« […] di spezzare l’incatenamento più radicale, più irremissibile, il fatto che l’io è se stesso»,16 innestando,nell’unità, una dualità. «È l’essere stesso, il «se stesso» che essa fugge, e non la sua limitatezza»;17 messa in questione della fattualità (ineludibile) dell’essere e non delle modalità dell’essere (lo scarto dei compossibili, la finitezza, l’ingordigia genetica dell’uomo).La lacerazione con il pensiero idealistico classico assume qui la sua massima limpidezza.Il superamento dialettico permetteva la contrazione del molteplice nell’uno sintetico, nullificando le eventuali contrarietà dei differenti modi dell’essere (la cui conflittualità si manifestava nel non-io),per un «bene superiore» immanente all’essere stesso nella sua assolutezza. La totalità accoglie gli attributi e fa sì che essi tacciano nel compimento della pace ultima, commerciale, incarnata dallatotalità stessa. L’uomo rompe la pace, grida nel malessere, vuole sedersi sconsolato nella propria miseria e rivendicare il proprio diritto — emula Giobbe. La nostra analisi è ancora incompleta. Dobbiamo prendere in esame i testi seguenti al saggio Dell’evasione, ovvero Dall’esistenza all’esistente(1947) e Il Tempo e l’Altro(conferenze del biennio ’46-’47), in cui la stessa questione acquista una ramificazione teoretica maggiore.Già nella Prefazione alla prima edizione (1947) di Dall’esistenza all’esistente, Levinas anticipa il contenuto generale dell’opera, guidata, come egli afferma, dal principio platonico del «Bene al di là dell’Essere». Ovverosia: «[…]il movimento che conduce un esistente verso il Bene non è una trascendenza attraverso cui l’esistente si eleva a un’esistenza superiore, ma un’uscita dall’essere e dalle categorie che lo descrivono: una ex-scendenza [excedance]».18 Questo sarà il fondamento di tutta la ricerca levinasiana, fino a giungere alle problematiche di Totalità e Infinito.Essenziale è, tuttavia, la Prefazione alla seconda edizione, del 1978. Ormai sono state elaborate le maggiori opere di Levinas, Totalità e Infinito e Altrimenti che essere, summae della sua riflessione,ma alcuni concetti espressi in Dall’esistenza all’esistente permangono nella loro costitutività. Con leparole di Levinas:
La nozione di il y a che viene sviluppata in questo libro, scritto trent’anni fa, ci sembra restarne l’elemento di permanenza. Una negazione che pretenda di essere assoluta, pur negando ogni esistente […] non può porre fine alla «scena» sempre aperta dell’essere, dell’essere in senso verbale: essere anonimo che non viene rivendicato da nessun essente […], il y a impersonale.19
La neutralità dell’essere muto e sordo occupa la parte centrale della cogitazione. Con l’ipostasi, avvento del nominale nel verbale, la de-neutralizzazione si effettua. Eppure, la liberazione dall’essere non è ancora soddisfatta, poiché l’ipostasi, in quanto puro conatus essendi, èschiavo di se stesso e del proprio essere.20 L’inefficienza dell’atto immediato dell’ipostasi,soggettività definita dall’egologia esistenziale, apre ad una nuova dimensione riflessiva, che qui non può che essere solo accennata. Defezione nella scissura ipostatica — eversione dall’il y a — tutto ciò propone al soggetto una «terza via» oltre il sé e il mondo, edificata a partire dalla prossimità dell’altro.La presenzialità circolare può tramutarsi in temporalità.21 Il solipsismo decade nel trionfo dell’asimmetria relazionale, nel terribile «faccia-a-faccia». L’essente vince sull’essere: «questo capovolgimento sarà il primo passo di un movimento che, aprendosi su un’etica più antica dell’ontologia, permetterà delle significazioni che vanno al di là della differenza ontologica, il che senza dubbio coincide, infine, con la significazione stessa dell’Infinito».22L’esito della teoresi esposta è il cominciamento di un «neue denken», così arduamente ambito dopo la tragedia dell’Olocausto.L’Introduzione considera la validità della gestazione teoretica di Levinas. Il nutrimento della filosofia, o, meglio, il radicamento della filosofia converge con la domanda sulla relazione tra esistente ed esistenza (essente-essere): «é quasi una vertigine per il pensiero affacciarsi sul vuoto del verbo esistere di cui sembra non si possa dire nulla e che diventa intelligibile solo nel suo participio — l’esistente —, in ciò che esiste».23
La confusione, storicamente certificata, a proposito della questione del rapporto tra ente e atto di essere, rapporto sopra cui abbiamo innumerevoli ipotesi, deve affrontare una depurazione definitiva, acciocché sia distintamente manifesta la soluzione. L’enigma dell’ontologia non alberga nella domanda ontologica stessa, ma nel suo dispiegamento. Ma perché queste caotiche elaborazioni?
Derivano dall’abitudine di porre l’istante, atomo del tempo, al di là di ogni evento. […] Ci si può però chiedere se questa aderenza tra l’«essente» e l’essere sia data semplicemente nell’istante, se non sia invece lo stare stesso dell’istante che la realizzi; se l’istante non sia l’evento stesso attraverso il quale nell’atto puro, nel puro verbo essere, nell’essere in generale, si pone un «essente» […] . Il cominciamento, l’origine, la nascita offrono proprio una dialettica in cui questo evento, in seno all’istante, diviene sensibile.24
Di fatto, anche nella creatio ex nihilo, la creatura deve compiere, seppur passivamente (nell’obbligo della creazione), un atto sul proprio attributo, sull’essere che ivi — nell’individualità — dimora.Dunque, l’istante rivela una articolazione intrinseca, che lo distingue dall’eternità. Che cosa significa la generalità dell’essere? «L’essere rifiuta ogni specificazione […] non aggiunge nulla al soggetto».25 Affermare che «un ente è» non dice alcunché sopra l’ente esaminato. Persino un oggetto di fantasia è nel momento della sua definizione. L’essere in generale è impersonalità — questo è ciò che possiamo dire. Questo enunciato seguirà come la linea guida del pensiero di Levinas. Da qui, egli si colloca in una corrente di riflessione del tutto idonea alla contemporaneità,secondo cui il peso insopportabile della vita risiede nella coscienza della prigionia dell’io nell’essere, nel fatto stesso dell’essere, non nella mondanità. L’ontologia heideggeriana mostra la sua insufficienza, intendendo l’esistenza come estasi, «[…] estasi verso la fine […]»,26 e come comprensione del nulla nell’angoscia dell’esistente. Nulla in quanto svelamento del difetto essenziale — nullificazione in quanto male d’essere — così, tra le mani dell’uomo si dilegua la pienezza dell’essere.27 Scansare questa logica è l’obiettivo di Levinas. L’angoscia intenziona,certamente, la morte, ma essa si protrae verso l’essere puro, in modo ancor più originario. In primo luogo, è il fatto dell’il y a, l’inesorabile irruenza dell’essere innominato. Allora, la morte non consiste nella suprema scappatoia dell’esistenza. La condanna alla libertà è, in realtà, condanna ad essere.Dobbiamo ora riflettere più precisamente sulla questione dell’il y a. Riprendendo l’espediente teorico di Husserl28 sulla «fine del mondo», Levinas scrive:
Si tratta di un momento limite che proprio per questo porta con sé alcuni insegnamenti privilegiati. Infatti, là dove il gioco incessante delle nostre relazioni con il mondo si trova ad essere interrotto, non si incontra, come a torto si potrebbe pensare, né la morte, né l’«io puro», ma il fatto anonimo dell’essere.29
Tuttavia,in tal caso non possiamo postulare una «relazione originaria». Affinché ci sia una relazione, è necessaria la resistenza dei termini, ovvero dei sostantivi; ma, nel brusio dell’essere, il nominale è tolto e sommerso dal verbale. Si può pertanto definire una «[…] relazione per analogia».30Il «fatto che si è, il fatto che il y a» è cifra della anteriorità dell’impersonalità dell’essere all’emersione dell’ipostasi economica, e ciò determina la coincidenza dell’esistenza con il peso dell’esistenza stessa. L’io è già sempre sorpreso dall’essere.
Come scopriamo questo il y a? La risposta di Levinas matura nella disamina del concetto di esotismo, nel capitolo intitolato Esistenza senza mondo.31La manovra levinasiana prende le mosse da una riflessione estetica, per arrivare, infine, ad una ontologia dell’impersonale.
Nella nostra relazione con il mondo possiamo staccarci dal mondo. […] L’arte le fa uscire [le cose] dal mondo, e le strappa, con ciò, dall’appartenenza a un soggetto. […] E questa modificazione [delrapporto io-oggetti] non deriva dall’illuminazione e dalla composizione del quadro, dal proposito e dalla disposizione del narratore, ma già dalla relazione indiretta che noi abbiamo con essi — dal loroesotismo, nel senso etimologico del termine.32[…] Gli «oggetti» sono fuori, e senza che questo fuori si riferisca a un «interno», senza essere già naturalmente «posseduti».33
L’operazione dell’arte consiste nell’interruzione del rinvio della qualità all’oggetto possidente questa qualità —spaccatura della normale apprensione dell’universo oggettuale da parte delle facoltà umane. Essa riabilita la sensazione, in quanto stato primigenio della percezione, arrestando il processo di sintesi della sensazione stessa (qualità estetica) con l’oggetto referente. Se cade il principio oggettivo della percezione (esteriorità), allora cadrà anche il suo correlato soggettivo (interiorità). Nell’arte, si abolisce la divaricazione «interno-esterno», avviando il ritorno « […] all’impersonalità dell’elemento».34 Dunque, la psicologia kantiana, che attesta la disorganizzazione come requisito della sensazione, sarà insufficiente. L’arte rompe il processo di unificazione, e, ciò fatto, apre all’evento estetico. Persino nella poesia, il cui mezzo è la parola, è possibile il risorgere dell’elemento sensibile (per la musicalità e l’ambiguità di senso che la denota).
In conclusione,Levinas considera l’intenzione della pittura contemporanea, per traslare il discorso sul piano ontologico.
Lo sguardo è un potere di descrivere curve, di disegnare insiemi in cui gli elementi vengono a integrarsi, orizzonti in cui il particolare appare in quanto rinuncia ad essere tale. Nella pittura contemporanea, invece, le cose non hanno più importanza in quanto elementi di un ordine universale che lo sguardo fissa come una prospettiva. […] Il particolare risalta nella sua nudità di essere.35
La materialità degli elementi, diversamente dall’interpretazione adorniana della resistenza (cfr. Nota 33), deve essere posta nel disordine dell’essere in generale, dell’essere senza nome, e, in definitiva, dell’il y a. Siamo così al punto di svolta: l’incontro con il verbo essere. La pervasività di quest’ultimo viene descritta attentamente nel § II del presente capitolo, denominato,con intelligenza, Esistenza senza esistente. Esistenza senza esistente — anteriorità dell’anonimato — assenza dell’io; questo è, in ultima analisi, il concetto dell’essere bruto. Anche nella sparizione assoluta di qual si sia esistenza, alla ragione non resta che accogliere l’idea di un eminente «brulichio dell’essere».36 L’annotazione teoretica essenziale ci sembra essere la seguente: «nozione che non ricaviamo da un «ente» qualsiasi — che si tratti delle cose esterne o del mondo interno. L’il y a trascende infatti tanto l’interiorità quanto l’esteriorità, di cui non permette neppure la distinzione».37Non dobbiamo semplificare l’idea di «essere in generale» come un caos primordiale degli elementi periodici. C’è — senza oggetto e soggetto, nessuno che pronunci o subisca la proposizione. «Assenza universale» — «presenza inevitabile». Ancora:
Il y a, forma impersonale, come «piove» o «fa caldo». Anonimato essenziale. […] Non è più dato; non è più mondo. […] La scomparsa di ogni cosa e la scomparsa dell’io pervengono a ciò che non può scomparire, al fatto stesso dell’essere a cui, volenti o nolenti, si partecipa senza aver preso l’iniziativa, anonimamente.38
Orrore della privazione di rifugio. Nel tessuto oblioso dell’essere, non vi è coscienza a cui rivolgersi, non vi è soggetto a cui confidarsi, solo eco d’essere, spazio vuoto.Tuttavia, non è l’inconscio che sovranamente si innalza. Piuttosto, la coscienza viene meno in uno stato di «vigilanza impersonale».39L’essere si instaura dovunque; soggiacenza e ubiquità — è, senza altro da addizionarvi. La coscienza non può che accondiscendere ad una partecipazione alla trama dell’essere. Non mimesi, non metessi, ma mistica: accorpamento dell’uno nell’altro, indifferenza di sostanza. L’abominio del «fondo indistinto» sopprime la personalità del soggetto, precludendo ogni via d’uscita. Il verso magnifico dell’Amleto conferma l’irremissibilità dell’essere. Morire, per mano propria o altrui, è ritornare all’essere. Nell’orrore dell’essere, l’uomo non svela l’angoscia della morte e della sofferenza. Non si teme neppure il «Nulla», la cui comprensione Heidegger affida al sentimento d’angoscia.40 «Noi contrapponiamo […] la paura d’essere alla paura del nulla»,41 la presenza dell’assenza alla assenza schietta. Cosa indica questa «presenza dell’assenza»? È forse un «qualcosa che resta», una sedimentazione oscura dell’essere in se stesso? Levinas, a partire dal confronto di Bergson, chiarifica nuovamente quanto prima enunciato. La positività della negazione bergsoniana, che esclude la possibilità della nullificazione dell’esistenza, poiché, da una parte, il nulla è un «essere cancellato», e, dall’altra, lo scarto di un ente avviene per la flessione interiore su un altro ente; questa positività, applicata alla totalità dell’essere, si svuota di senso. L’immersione nel nulla implica la sopravvivenza della coscienza della nullità, quindi pensare il nulla è di per sé impossibile. È necessario che «qualcosa» esista, anche come oscurità della posizione del contenuto della coscienza, che si deposita come «atmosfera», campo di energia. Non si dice «ex nihilo nihil fit», né si consente l’identificazione di essere e nulla, come in Heidegger42 (e prima di lui, in Hegel43); si dice, specificamente, la necessità dell’esistenza, sia anche ingenua, indeterminata, bruta.Questa oscurità, presenza dell’assenza, è, in realtà, «[…] evento impersonale, a-sostantivo della notte e dell’il y a. È come una densità del vuoto, un mormorio del silenzio»,44 la radiazione di fondo dell’universo. In conclusione, prima di passare all’ipostasi, nome nel verbo, Levinas ribadisce il carattere destrutturato dell’il y a, che non va intuito secondo lo schema organizzativo universale dell’oggettità, bensì come desolazione, dismissione. Ogni ente si frantuma nell’altro: complexio oppositorum.
Ci serviremo de Il Tempo e l’Altro45 solo per concludere il discorso sul problema dell’il y a.Inoltre, esso presiederà il movimento di passaggio dalla tematica dell’essere alla tematica dell’essente. Qui Levinas prenderà definitivamente le distanze da Heidegger, soprattutto riguardo al rapporto Sein-Seiende.Solo un paragrafo, nominato L’esistere senza esistente (si noti la somiglianza con Esistenza senza esistente, prima esaminato), si occupa pienamente della questione dell’essere in generale, e, noteremo, con una vicinanza contenutistica e terminologica rispetto al testo,maggiormente sistematico, del 1947. Heidegger è il luogo da cui partire. Egli ha, come Levinas riconosce, concepito la distinzione de:
[…] i soggetti e gli oggetti — gli esseri che sono, gliesistenti — dal loro stesso atto di essere. Gli uni si esprimono per mezzo di sostantivi o di participi sostantivati, l’altro per mezzo di un verbo. Questa distinzione […] permette di eliminare certi equivoci sorti nel corso della storia della filosofia, allorché si partiva dall’esistenza per arrivare all’esistente che possiede l’esistenza nella sua pienezza, cioè Dio.46
L’argomento ontologico viene meno. È questo il grande merito di Essere e Tempo. Eppure, Levinas trova un difetto tecnico nella riflessione di Heidegger. Nel concetto di Jemeinigkeit, si postula la possibilità di scoprire l’esistere esclusivamente nell’esistente. In Heidegger c’è divisione, ma non separazione. Ma nel concetto di Geworfenheit, si insidia una via di transito verso l’il y a. Esso si definisce come il «fatto-di-essere-gettato-dentro» l’esistenza, e, quindi, ci indica un’esistenza antecedente all’esistente, entro cui il nominale deve essere posizionato originariamente. La anteriorità è cifra di preminenza, e da ciò sembra obbligatorio dedurre la sovranità inconcussa dell’essere. «Così si fa strada l’idea di un essere che si fa senza di noi, senza soggetto, di un esistere senza esistente».47 Anche in questo caso, Levinas avanza l’artificio espositivo della «fine del mondo», postulando la permanenza di una presenza, seppur nell’assenza, ovvero il fatto che c’è. Dobbiamo rammentarci alcune proposizioni,per comprendere approfonditamente il cammino dall’essere all’essente. «L’esistere a cui stiamo tentando di accostarci è l’atto stesso di essere, che non può essere espresso con un sostantivo, che è verbo»,48. Come l’insonnia, in quanto veglia senza fine, azione a-telica, l’il y a è una «vigilanza senza alcuno scopo»49 senza la cognizione del principio e del termine. L’esposizione inesorabile esplica appieno il concetto dell’essere anonimo: pericolo — rovina — affermazione. Proseguiamo.
Si può anche caratterizzare l’esistere con la nozione di eternità, poiché l’esistere senza esistente non ha nessun punto di partenza. Un soggetto eterno è una contradictio in adjecto, poiché soggetto è già un cominciamento. […] L’eternità non è in quiete, perché non ha un soggetto che l’assuma su di sé.50
Nonostante l’esistere sia stato formulato nell’analogia con la vigilanza, non deve indurre in errore, ritenendolo analogo alla coscienza universale. La coscienza, scrive Levinas, è «[…] la possibilità di sottrarsi alla vigilanza; […] possibilità di dormire; […] potere di uscire dalla situazione della vigilanza impersonale».51Proprio nella vigilanza notturna, la coscienza sorge, rompendo il velo taciturno dell’anonimato.
Una voce dall’oscurità — il nominale evade il verbale, ma come si evade una richiesta indebita, un dovere incompreso, un olocausto insensato. È l’ipostasi. Ipostasi nel senso scolastico, sostantivazione del verbo, preliminare. Si tratta di una svolta «epocale» nella storia dell’essere, che smarrisce la propria patria, approdando in una terra di nomi: il «nuovo mondo» della soggettività.
3. L’evento dell’ipostasi. Separazione e mondo
Vi è un momento in cui l’esistente s’impadronisce dell’essere, in cui lo conquista.Seguiamo il discorso di Levinas:
La luce illumina ed è naturalmente compresa, è il fatto stesso della comprensione. Ma per una sorta di sdoppiamento, all’interno di questa correlazione naturale tra noi e il mondo, si impone una domanda: la meraviglia di fronte a questa illuminazione. […] Ciò che è sorprendente è proprio l’intelligibilità della luce […]. Potremmo affermare che la sua stranezza deriva proprio dal fatto che vi sia esistenza. La domanda d’essere è proprio l’esperienza dell’essere nella sua stranezza. Ed è quindi un modo di assumerlo.52
L’assunzione dell’essere è la motivazione effettiva del differimento reiterato della risposta alla questione «che cos’è l’essere?».53 Da ciò, un ammirevole testamento filosofico:
La filosofia è la domanda sull’essere, ma è anche immediatamente assunzione dell’essere. E se è qualcosa di più di questa domanda, lo è solo in quanto permette di superarla e non di rispondervi. Se c’è qualcosa di più di questa domanda, non è una verità ma il bene.54
Ecco perché la questione metafisica risulta, a nostro avviso,fondamentale per l’ascolto della voce levinasiana; ed ecco il motivo del presente saggio.Ritorniamo al problema della separazione dell’io dall’essere. Assumere l’esistenza significa assumere un atteggiamento verso l’esistenza. Esso si caratterizza, primariamente, come una «lotta per la vita», la soddisfazione della pulsioni istintuali. Una precisazione è d’obbligo. Nel pensiero di Levinas, è impossibile concepire il meccanismo fattivo della formazione dell’ipostasi.«Non potremo evidentemente spiegare perché questo fatto si produce: non esiste fisica in metafisica».55 Non c’è scienza della nascita dell’identità. Dunque, nella ricerca circa la separazione dell’identità dall’essere, dovremo limitarci a constatare l’avvenimento in quanto tale, traendone,possibilmente, il moto germinale. Per Levinas, neppure la lotta per la sopravvivenza, già perennemente in atto, è sufficiente all’intento.
Dobbiamo invece riuscire a cogliere questo evento di nascita all’interno dei fenomeni che precedono la riflessione.56 La fatica e la pigrizia, che non hanno mai interessato un’analisi di filosofia pura, estranea a ogni sorta di preoccupazione morale,nel loro stesso compiersi, sono delle posizioni nei confronti dell’esistenza.57
Queste due categorie dell’atteggiamento umano non devono essere inizialmente poste come «contenuti di coscienza».Esse lo sono, ma solo per mezzo dell’elaborazione della riflessione. La loro natura, la loro essenza è misurata nel rifiuto con cui esse si impongono. Sono rifiuto stesso, non «intenzioni di» rifiuto. Nella lassitudine, stato di accentuata e continua stanchezza, l’indolenza verso la vita è portata al parossismo. Si deve evadere — evasione verso nessun luogo — exscendenza.
La lassitudine non si impone come un giudizio sul mal d’essere, […] un «contenuto» di lassitudine. Essere stanchi di tutto e di tutti significa abdicare all’esistenza prima di ogni giudizio. Il rifiuto è nella lassitudine; la lassitudine, con tutto il suo essere, realizza questo rifiuto d’esistere […].58
Si sente l’eco della trattazione giovanile di Dell’evasione. Già nel ’35, Levinas aveva posto la nausea come manifestazione pura della sofferenza verso il peso dell’essere sull’esistente,59 giustificando la diserzione da quest’ultimo, al fine di scovare un’alternativa di pensiero. Allora, proprio il male d’essere acquisiva una validità e una valenza positiva — spinta all’uscita, tentativo di fuga. La fatica e la pigrizia sono incarnazioni dell’oppressione dell’essente.La pigrizia «[…] è fondamentalmente legata al cominciamento dell’atto: scomodarsi,alzarsi. La pigrizia è un’impossibilità di cominciare o, se si preferisce, il compiersi del cominciamento»,60 è, cioè, la stasi dopo il via-libera. Il cominciamento è qualcosa e ha qualcosa, anche fosse se stesso. L’istante dell’avviarsi è «[…] già un’appartenenza e una cura di ciò a cui esso appartiene e di ciò che gli appartiene. […] È cura di se stesso».61 Nel momento dell’incamminamento, il viaggiatore è già tale e può voltarsi per salutare la propria dimora: questo,se ci è perdonata metafora, è il senso profondo dell’istante. Dunque, al contrario di Heidegger,secondo cui la cura è atto al confine con il nulla, per Levinas, tutto si gioca sulla solidità dell’essere.Si è inalienabilmente se stesso, si è una «iscrizione» nella pietra dell’essere. E non si può tornare indietro. Ecco l’assurdità e la tragicità della pena di Sisifo. La lassitudine si intromette come esitazione ad esistere, come refrattarietà a partecipare. Eppure, essa non è una quiete. Nell’apparente disimpegno, si è ancora presi nella «relazione con l’esistenza e con l’atto».
Il fatto di esistere implica una relazione in base alla quale l’esistente stipula un contratto con l’esistenza. Esso è dualità. […] L’io possiede un sé in cui non solo si riflette, ma con il quale ha a che fare come con un compagno o con un partner, una relazione che chiamiamo intimità.62
È l’ombra di sé da cui non si evade, che ci perseguita — ombra della pubertà, della confessione, dello specchio. La gravità del sé diviene «detestabile», sovraccaricando l’io della duplicazione. La riflessività dell’esistenza si traduce in verbo: non «si è», ma «ci si è». Irremissibilità dell’esser se stesso — assedio. La negazione dell’atto «[…] è ancora un compimento dell’essere […] . E anche in questo caso, l’esistenza appare come relazione con l’esistenza».63 L’essenza della pigrizia risiede però nella relazione che essa stabilisce con la temporalità. Essa, di fatto, rimane ferma all’istante dell’atto, e sancisce l’astensione dal futuro. È «fatica del futuro» e statuisce (inconsapevolmente) il bisogno di altri per l’avvenire.64 Nella fatica assistiamo alla medesima negazione dell’essere, malgrado una formulazione diversa del rifiuto. Levinas scrive: «[…] al fondo del «si deve fare» abbiamo scorto un «si deve essere» […]».65 La fatica è l’allentamento dello sforzo, la degenerazione della capacità di proseguire, l’abbandono dell’oggetto che si tiene stretto fra le mani. Soprattutto, è lasciar cadere,perseverando labilmente nella contrazione muscolare; lasciar cadere a terra ciò che, duramente estratto, aveva un valore (economico e affettivo). Nello sforzo, l’uomo è servo della propria laboriosità. L’atto creativo, divino, segna una distanza assoluta tra il Creatore e la creatura. Nel lavoro, al contrario, si è già «istallati» nell’opera da compiere, si è sporcati dalla terra e dall’inchiostro. Slancio e caduta si ripetono uno dopo l’altra: si progetta, si agisce, si è piegati; e di nuovo daccapo.«Lo sforzo non è una conoscenza, ma un evento. Nel vantaggio su di sé e sul presente, nell’estasi dello slancio che brucia il presente anticipandolo, la fatica segna un ritardo su di sé e sul presente».66
sicché l’uomo, nella (ad-) prensione della propria esistenza, ossia nella possibilità dell’anticipazione della sintesi e della cura, precipita incessantemente all’indietro, viene trainato controcorrente dall’affaticamento. La regressione dell’atto implica una soggezione a qualcosa. Diciamo immediatamente che non è una naturale afflizione dell’essere finito, che si dimostra incapace a realizzare, nella concretezza, le proprie ambizioni. Per esplicare la nozione dell’atto, in relazione allo sforzo, dobbiamo enucleare il fondamento dell’istante stesso, con la dialettica interna che lo denota. Al contrario della magia, a cui la durata non serve, «il lavoro e lo sforzo umano sono invece un modo di seguire passo a passo l’opera che si compie».67 Nella melodia musicale, noi esperiamo il sacrificio dell’istante nella continuità melodica, e lo facciamo al di là di ogni ulteriore appuramento, secondo cui si può sì sezionare la durata, ma lo si può fare nella misura in cui si riconferma l’inevitabile morire degli istanti, «il presente non svanisce solo per la riflessione che lo dichiara incoglibile; è evanescente per il suo stesso modo di prodursi in unamelodia. È intaccato dalla nullità».68
Nella scissura dell’istante da se stesso, la musica si fa«gioco». Per contro, l’opera umana è la serietà, la rigidità, l’ossessione. Nel ritardo sull’istante, lo sforzo è vincolato ad esso nella misura in cui si adopera per la propria finalità. Dunque, la fatica mira all’istante, al presente, e desidera terminare in questo tempo (che non è temporalità), si accovaccia sempre di più nella precisione dei dettagli, riversandosi, per intero, nel presente, e chiudendo la porta dell’avvenire: «È alle prese con l’istante in quanto presente inevitabile in cui si impegna senza ritorno. Nello scorrere anonimo dell’esistenza, c’è arresto e posizione. Lo sforzo è il compimento stesso dell’istante».69Così, si rivela la nozione dell’attività: «agire è assumere un presente. Il che non equivale a ripetere che il presente è l’attuale, ma che, nel brusio anonimo dell’esistenza, il presente è apparizione di un soggetto alle prese con questa esistenza, che è in relazione con essa e che l’assume. L’atto è questa assunzione».70
L’io è sorpreso nell’impiego delle proprie energie in un istante senza tempo, in sé conchiuso, principio e fine, servilità e obbligo. Per la prima volta, abbiamo la chiara manifestazione di «qualcuno che è». Lo stesso presente è «presa in carico» del presente. Divaricazione — oltraggio all’essere puro — spaccatura preliminare. Nello sforzo, l’istante in sé si dilata pervadendo la temporalità generale dell’esistenza. Ma non prolungandosi verso l’avvenire e il passato: tutto viene accentrato con una sistole in cui l’esistente è bloccato, senza via di fuga — «condanna al presente». Levinas introduce così uno dei termini essenziali de Il Tempo e l’Altro, la solitudine dell’io. Essa è «[…] solitudine di un essere che non si segue più, che […] non si raggiunge nell’istante in cui, tuttavia, è per sempre impegnato».71 L’essere che previene l’essente, l’essente sottomesso all’essere — il disappunto dell’esistente sull’essere che costituisce il presente indica il significato profondo della fatica. Nella negatività del gioco, possiamo però celebrare la prima apparizione dell’esistente in seno all’esistenza. L’essere dell’esistente è l’assunzione dell’essere stesso (proprio), e dunque l’esistenza dell’esistente è essenzialmente atto. Se ciò è vero, allora l’esistente resiste nell’attività anche nell’inazione. Non un paradosso, ma «[…] l’atto stesso di posarsi sul suolo, il riposo nella misura in cui non è una pura negazione, ma proprio la tensione del mantenersi, il compimento del qui».72 Il riposo — alba della coscienza — coinciderà, logicamente, con il sorgere dell’ipostasi. Sonnolenza allo stremo, in cui Levinas matura la convinzione di una destinazione superiore della spinta lavorativa dell’umano — coscienza nel recupero, vulnerabilità e ferimento dinanzi ad altri. Quanto finora esposto deve essere compreso chiaramente attraverso alcune precisazioni.La fatica e la pigrizia sono momenti di una torsione fondamentale nel rapporto dell’esistente con l’esistenza, luoghi in cui l’ipostasi emerge confusamente, viene all’essere «senza luce». Presa nella materialità, l’ipostasi è solitudine, asservimento intrinseco. L’identità (l’io che è inevitabilmente il sé) si capovolge in rilassamento su di sé. Nella relazione con il mondo essa manifesterà la possibilità della sua trascendenza. Nella nascita dell’ipostasi, la solitudine custodisce un senso metafisico teoreticamente essenziale. Questo sentimento è chiamato all’opera fin dal principio de Il Tempo e l’Altro, avendo una funzione esplicativa adempiente per la concezione dell’idea della materialità e del tempo nell’ipostasi, e di tutte le aperture filosofiche consequenzialmente effettuabili.
Vogliamo presentare la solitudine come una categoria dell’essere, mostrare il suo posto in una dialettica dell’essere o, piuttosto — poiché il termine di dialettica ha un senso più determinato — il posto della solitudine nell’economia generale dell’essere. […] il carattere tragico della solitudine deriva forse dal nulla, o dalla privazione di altri [autrui] che la morte sottolinea.73
Per Levinas occorre il superamento del mit heideggeriano. L’uomo deve stare «faccia-a-faccia», non accanto all’altro. L’ambiguità del pensiero levinasiano è concentrata in questo spazio. Muoversi tra al-di-qua e al-di-là, dall’io all’altro, nella morte come mistero e nella morte come annullamento: ciò non ha niente di definitivo e chiaro.
È banale dire che non esistiamo mai al singolare. Siamo circondati da esseri […] . Tutte queste relazioni sono transitive: io tocco un oggetto, io vedo l’Altro.Ma io non sono l’Altro. Sono da solo. È dunque l’essere in me, il fatto che esisto, il mio esistere che costituisce l’elemento assolutamente intransitivo, qualcosa ch’è senza intenzionalità, senza rapporto.^[74]
Esistere significa essere isolato nel fatto di esistere, non avendo altro come oggetto verso cui dirigersi, ma rimanendo chiuso nel fatto del mio-esistere. Il monadismo è ciò che segnala la relazione originaria dell’esistente con l’esistenza. La solitudine non si applica volontariamente nella decisione della taciturnità verso altri, né, tanto meno, nell’isolamento sociale, fisico, dell’io; la solitudine è nell’ontologia monadica, solipsistica, dell’essente, nell’«unità indissolubile fra l’esistente e l’atto del suo esistere». L’evento mediante il quale l’esistente assume l’essere si denomina ipostasi.La solitudine proviene dall’azione dell’ipostasi, che vive in sé, domina l’esistere nella forma delpossessivo e nella «libertà del cominciamento» ed è, perciò, non riduzione e degrado, ma virilità e coraggio.74Tuttavia, questa libertà d’iniziativa, che è a partire da sé, implica necessariamente anche un ritornare a sé. L’ipostasi si postula come identità, ovvero entità circolare, che «va da» e «viene a» sé. È occupazione, ingombro del proprio essere in sé; «l’identità non è una relazione inoffensiva con sé, ma un asservimento a sé; è la necessità di occuparsi di sé. […] La sua libertà immediatamente limitata dalla sua responsabilità. È questo il suo grande paradosso: un essere libero è già non più libero perché è responsabile di se stesso».75
La contrarietà concettuale si trasmuta in conflitto reale con il sé. Libertà e/è responsabilità. La solitudine è il problema della materialità stessa dell’io.Giunti a questo punto, dobbiamo esaminare il concetto di mondo, come è esposto in Dall’esistenza all’esistente, che ci condurrà anche esso al tema dell’intenzione e della luce,accompagnandoci poi alle problematiche ultime dell’ipostasi (prima dell’avvento di autrui), ovvero il lavoro, la coscienza e il tempo. Con l’idea del mondo, la formazione dell’ipostasi in quanto esistente sottomesso al proprio esistere si rivela in modo sensibile. Mentre nella materialità l’io era sorpreso nella relazione con l’evento anonimo dell’essere, nell’inscrizione nell’essere; nella mondanità, l’esistente affronta la presenza degli oggetti. La pura distesa del verbo viene sostituita con una serie di determinazioni qualitative e di informazioni strumentali, le cui origini ci sono ignote, ma di cui possiamo farne un utilizzo soggettivo, egoico. Le cose acquistano un valore.L’intenzionalità è il sigillo dell’essere al mondo e alle cose. Essa non va intesa nel senso medioevale o husserliano (disincarnato, a parere di Levinas), ma nella sua vicinanza al desiderio.«Desiderando non mi prendo cura d’essere, vengo invece assorbito dal desiderabile, da un oggetto che riuscirà ad estinguere completamente il mio desiderio. Sono tremendamente sincero».76 Oltre il desiderabile in quanto tale non si individua alcuna concreta destinazione. Fine in sé — disinteresse.Nella descrizione del desiderabile in quanto telos stesso, l’inconscio è chiamato in causa. Dalla sua scoperta, l’inconscio è colto nell’opposizione alla luminosità della coscienza, ordinamento sotterraneo rispetto alla normalità razionale. L’insieme dei segreti pulsionali incrementa la pressione psichica dell’individuo, ricoprendone una larga parte dell’attività complessiva della dimensione intellettuale. Rimozione, sublimazione, cristallizzazione. Dunque, il mondo è plasmato dalle mani sagge della coscienza.
Ponendo l’essere nel mondo come intenzione si afferma innanzi tutto […] che il mondo è il campo di una coscienza e che, in ogni caso, la struttura particolare che caratterizza quest’ultima domina e dà senso a tutte le infiltrazioni dell’inconscio nel mondo. Il ruolo specifico dell’inconscio si situa quindi «prima» del mondo.77
La filosofia ha da sempre recepito il desiderabile nell’ordine della teleologia. «La coppia essere-valore non è affatto antitetica. La realtà della cosa è costituita proprio dalla sua finalità».78 In quanto accostato ad una capacità valoriale,l’oggetto diviene partecipe del movimento della soggettività nel mondo, ed acquisisce il modo d’essere. L’idealismo si fonda sulla convergenza dell’esistenza con l’intenzionalità. L’io trascendentale configura la forma del tessuto empirico, nonostante esso resti soggettivamente costituito, in quanto unico modo d’apprensione, in Kant. Da Fichte a Stirner, la questione della struttura soggettiva procede verso la sua incauta universalizzazione. La posizione egoica e la proprietà individuale formano essenzialmente l’essere dell’oggetto. Si ha il riempimento della natura formaliter spectata. Neppure il realismo esclude questa onto-logia. Tuttavia, «[…] il dato non proviene da noi, ma noi lo riceviamo. Ha già un aspetto che lo rende termine di un’intenzione».79 L’oggetto è, nel regime della coscienza, «a disposizione». Le intenzioni compiono un movimento continuo di processione, consapevoli della fruibilità dell’oggetto. Gioia e desiderio del mondo — è il mondo. La manifestazione della realtà oggettuale è il destino stesso della realtà, la sua finalità.Luce: «L’oggetto mi è destinato, è per me».80 Il desiderabile è, quindi, nel medesimo tempo,anteriore e posteriore al desiderio: esso era là, soggiacente — esso è là, rivelato. Distanza e possesso:datità del Mondo. Altri, scrive Levinas, è oggetto solo nella visualizzazione dell’abito. La situazione sociale condiziona la reificazione dell’alterità. Senza l’impiantarsi della forma nel mondo, accade lo scandalo. Ciò che destabilizza la normalità categoriale viene collocato (ricacciato) nella dimensione «notturna», intima — ciò che definiamo extraterritorialità. L’abito appone una forma all’informe.«Per questo la relazione con la nudità è la vera esperienza […] dell’alterità d’«altri»».81 Nella convivenza civile, la prossimità si estrinseca nella complicità. Gli uomini non sono uno «di fronte» all’altro, ma uno «accanto» all’altro «intorno» ad un’opera, ad un ideale, etc. L’io non è mai oltrepassato.
Nel mondo tutte le relazioni concrete fra gli uomini mutuano il loro carattere reale da un terzo termine. Sono comunione. […] La salute, questo movimento sincero del desiderante verso il desiderabile, questa buona volontà, che sa perfettamente ciò che vuole, dà la misura della realtà e della concretezza dell’essere umano.82
Il mondo viene accolto, per mezzo della sincerità dell’intenzione, nella sua potenziale munificenza, capace di soddisfare. Già in Aristotele, il raggiungimento della forma (entelechia) legiferava sulla intelligibilità stessa dell’oggetto. Levinas si divincola (muovendovisi attorno) dall’ideale della pulsazione della durata negli oggetti, percepiti nella loro solidità, su cui Merleau-Ponty aveva scritto nel ’45, in Fenomenologia della percezione.83La forma concilia le prospettive, stabilendo i lineamenti dell’oggetto nella definizione, ma non coincide con lo schema corporeo, apertura della mondanità stessa.84 Complessivamente, possiamo osservare una divisione essenziale: da una parte, il cammino dell’uomo nel mondo; dall’altra parte, il significato ontologico fuori dal mondo. «Non è nel mondo che possiamo dire il mondo».85 Questo il valore della riduzione fenomenologica, e della messa tra parentesi dell’«atteggiamento naturale». In dirittura d’arrivo, Levinas affronta nuovamente Heidegger e la sua concezione della mondanità in connessione all’utilizzabilità dell’oggetto. In altri termini, Levinas protesta contro l’idea di una «finalità ontologica» della cosa, «ciò che è dato nel mondo non è un mezzo. […] La formula «la casa è un mezzo d’abitazione» è palesemente falsa, e in ogni caso non riesce a dar ragione del posto eccezionale che l’essere «presso di sé» occupa nella vita dell’uomo della civiltà sedentaria […]».86
Questa tematica era stata anticipata già in Dell’evasione, dove il bisogno non rappresentava affatto una forma di privazione, bensì la vera pienezza d’essere — attaccamento ontologico. Il piacere prodotto nella soddisfazione del bisogno implica, al contrario della tradizionale riflessione, soprattutto edonistica, la frammentazione dell’istante, non la sua concentrazione. Il mezzo oggettuale non termina nella liberazione dal desiderio, piuttosto lo riproduce. Il fine del piacere è allora interno all’essere stesso che lo ricerca, dunque è un fine in sé,nella forma dell’evasione dall’essere. L’esistente si reprime sotto il peso dell’essere, poiché è questo essere, vi aderisce profondamente, e, ergo, il suo atto rivolto all’essere (evasivo) ritorna in quest’essere stesso, come un’azione riflessiva, orientata su di sé.87 L’evoluzione terminologica e concettuale che si ha in Dall’esistenza all’esistente non si discosta tuttavia da questa primigenia configurazione.
Questa relazione è caratterizzata dalla completa corrispondenza tra il desiderio e la sua soddisfazione. […] La voluttà è il perseguimento di una promessa88 sempre più ricca; è una fame che aumenta e che si libera da ogni essere. Non c’è scopo, non si intravede un termine. […] Consuma tempo puro che nessun oggetto riempie e delimita. La «soddisfazione» non è un soggiorno nell’al di là, ma un ritorno a sé, in un mondo univoco e presente.89
La vita è, in sé, sincerità dell’intenzione. Essa non eccede né manca: vivere puro. «Essere nel mondo significa […]la possibilità stessa del desiderio e della sincerità».90 Così, il mondo incarna la positività della relazione dell’esistente con l’esistenza, essendo la possibilità dell’evasione dall’anonimato dell’essere, dell’ipostasi. Detto ciò, dobbiamo avanzare ulteriormente, nella ricerca sulla soggettività impegnata nel mondo, in termini di alimento, ragione, coscienza, che è «sospensione», «arresto» dell’operato umano. Questa coscienza è sufficiente per il distaccamento dall’essere, ed è adatta anche per l’edificazione della temporalità nell’esistente? Proseguiamo.
4. La posizione della coscienza. Luce e presente
Nella riflessione seguente, Levinas analizzerà la relazione dell’ipostasi con il tempo. Se una ipostasi è, come detto, legata inequivocabilmente a se stessa, quale sarà il tempo da lei vissuto?Avrà la capacità di proiezione e rammemorazione? Attesa, attenzione e memoria, che Agostino, nel libro XI91 delle Confessioni, aveva posto in quanto formulazione spirituale della temporalità, sono attive nell’ipostasi? «Cos’è dunque il tempo? Se nessuno mi interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo».92 Prima di far ciò, dobbiamo ritornare sul concetto di Mondo e sulla possibilità di separazione dell’io da sé che esso incarna.Abbiamo in precedenza osservato la trasmutazione della libertà in responsabilità verso di sé, asservimento, obbligazione. La pattuizione dell’io con se stesso diviene sempre più una aberrazione attitudinale, una ossessione, sicché l’individuo si rinchiude egoicamente nella dimensione che gli appartiene. Hic et nunc — presenzialità. La luce rappresenta la finalizzazione della globalità dell’ipostasi. Inizialmente tentativo di elusione di sé, essa si manifesta attraverso il godimento e la razionalità dell’io. Cerchiamo di comprendere l’elaborazione levinasiana di queste nozioni fondamentali per l’avvento dell’alterità, seguendo i movimenti di interconnessione tra Dall’esistenza all’esistente e Il Tempo e l’Altro.
Il mondo è ciò che ci è dato. Aderendo all’oggetto, la forma ce lo libera. […] Non abbiamo forse immaginato […] la contemplazione teorica delle forme come condizione dell’attività pratica e del desiderio? È vero, non abbiamo tenuto conto di questa distinzione; ma solo perché nel dato da cui siamo partiti il pratico e il teorico si ricollegano. La contemplazione si dirige sull’oggetto come se fosse qualcosa di dato. Essa è quindi più che «contemplazione pura», è già elemento di un’azione. E non per metafora, ma in quanto intenzione, cioè desiderio, movimento del prendere, dell’appropriarsi […].93
Questo lungo passo è stato trascritto per il valore filosofico che esprime. Anche la visione intellettuale, operazione vertente sull’esteriorità dell’oggetto, è un atto pratico. È nella concezione dell’intenzione, che l’io svela la proprio distanza dall’oggetto. Seguiamo il percorso tecnico di Levinas, che affronta l’intenzionalità di Husserl. L’io partecipa alla datità dell’oggetto, ma quest’ultimo è posseduto, ci viene addosso, e noi non convergiamo con esso.Questa la differenza tra intenzione e godimento.
Questo possesso a distanza, a mani libere, è l’intenzionalità dell’intenzione. La scoperta di questa nozione, soprattutto in un’epoca in cui l’io veniva pensato come come al di fuori del mondo, è stata accolta come scoperta di una nostra presenza in esso […]; ma l’altro aspetto del fenomeno è altrettanto fondamentale. È infatti importante sottolineare che per mezzo dell’intenzione la nostra presenza nel mondo è tale attraverso una distanza, che una distanza, certamente superabile ma che rimane pur sempre una distanza, ci separa dall’oggetto dell’intenzione.94
Dobbiamo ora trasportare il principio della scissura dell’io con il mondo alla relazione dell’esistente con l’esistenza. La dualità che viene espressa si modifica radicalmente da quella dell’intenzionalità, poiché, pur essendo evento, l’esistenza non è un termine,non è un sostantivo; piuttosto, essa si sovrappone all’io, lo assimila. Non vi è alcun indirizzamento verso, ma un incantamento soggiogante. La sovversione dell’intenzione sta esattamente nella divaricazione della soggettività dalla pesantezza dell’essere, compiuta nell’oggettualità dell’oggetto,che viene incontro. È la forma dell’oggetto — manifestazione e possibilità di presa. Così, solo nel mondo della vita, il soggetto ha la facoltà di ritirarsi dalle cose, di congedarsi dall’esteriorità,discendendo (metaforicamente) nell’interiorità.L’intenzionalità viene intensa anche nella Sinngebung, come origine di senso. Essa è adeguazione già ultimata dell’esterno all’interno, o riferimento esaustivo del primo al secondo; «il senso è la possibilità stessa di essere permeato dallo spirito, permeabilità che caratterizza già ciò che chiamiamo sensazione; oppure, se lo si preferisce, è la luminosità».95Senza luce non vi è apprensione e conoscenza. Qualsivoglia genere di attuazione dell’umano si origina dall’esperienza luminescente della realtà. Si noti qui la differenziazione estrema dell’anonimato e della mondanità.Il primo, come abbiamo visto, si caratterizza per l’oscurità e l’assenza di determinazione; il secondo,ora, si profila come chiarezza e luce, sensazione e visibilità, termine, «fenomenologicamente, la luce che riempie il nostro universo […] è la condizione del fenomeno, cioè del senso. […] È grazie alla luce che gli oggetti sono un mondo, sono cioè nostri. La proprietà è costitutiva del mondo:mediante la luce, esso è dato e appreso».96
La luce è strumento della ragione che vuole costruire l’orizzonte di senso della realtà, ovvero che desidera adoperarsi come cogito e significazione. In tal guisa, l’oggetto, esteriorità, è già come proveniente dall’interno, dall’intelletto che lo dispone in un ordinamento stabilito da esso stesso. Il mondo non si definisce nella numerazione onnicomprensiva degli oggetti, quanto piuttosto in questa opera sintetica del cogito. È ciò che Kant aveva teorizzato più di un secolo prima, nell’idea della sintesi appercettiva, costitutiva della struttura normativa dell’universo inteso nella possibilità della conoscenza.97 La filosofia occidentale ha sempre identificato sapere e spiritualità. Ogni forma gneosologica, perfino quella empiristica, viene ricondotta alla appropriazione spirituale di quanto è conosciuto. In questo modo, lo spirito è già prima dell’evento conoscitivo e percettivo, è retrostante all’oggetto: «il soggetto è un potere infinito di indietreggiamento, il potere di collocarsi sempre dietro ciò che ci succede. […] è già libertà di fronte ad ogni oggetto, un indietreggiamento, un quanto a sé. In questo senso, […] il sapere è condizione di ogni azione libera».98La luce è la capacità della libertà, astensione dal compromesso con l’oggettualità, limpidità. Essa è, dunque, «sospensione»; estrapolazione dalla storia e dall’insieme delle cose. Il sapere per mezzo della luce consiste, in definitiva, nell’ipostasi stessa. Prendiamo in esame, brevemente, il concetto di alimento, legato a quello di mondo, così come è espresso in Il Tempo e l’Altro. Nell’alimento termina sì il moto dell’intenzione, ma esso non è strumento, non è utensile; è fine in se stesso. L’oggetto corrisponde al desiderio, senza rimando ulteriore alla cura d’esistere. Il mondo si rivela: l’io pone un intervallo all’interno di sé: «ogni forma di godimento è una maniera di essere, ma anche una sensazione, cioè luce e conoscenza.Assorbimento dell’oggetto, ma distanza nei confronti dell’oggetto. Al godere appartiene essenzialmente un sapere, una luminosità».99Notiamo la somiglianza terminologica con quanto finora estratto da Dall’esistenza all’esistente. Il concetto di Mondo prima rappresentato100 ci aveva aperto la formalità dell’oggetto in quanto esibizione luminosa e, dunque, possibilità, che qui abbiamo affrontato, della conoscenza dello stesso. Solo nel mondo, l’uomo può liberarsi dall’incatenamento dell’esistere. Nella materialità, il soggetto è interamente servo di sé, subalternità pura ad un essere con cui s’immedesima in continuazione, che gli è al di sopra come divinità a cui votarsi. La materialità è l’inflessione della ipostasi in se stessa, morte prematura della libertà e nascita della costrizione. Il superamento della pesantezza del sé si può compiere nella relazione con il mondo, in cui sia intervenuta la luce. La «salvezza» dell’ipostasi dimora nell’evasione della materialità per mezzo della quotidianità, o sia nel rapporto diretto con l’alimento «a portata di mano».
Essa contiene già un oblio di sé. […] La prima forma di abnegazione. Ma l’oblio di sé, la luminosità del godimento non rompe l’attaccamento irremissibile dell’io al sé se si separa questa dall’evento ontologico della materialità del soggetto nel cui contesto si colloca e se, sotto il nome di ragione, si eleva questa luce al rango di assoluto.101
Malgrado la presa di distanza, il soggetto in cui la luce si tramuta in razionalità universale, è ancora circondato dal sé. Come sopra è stato detto, la luce è il mezzo dell’alterità dell’oggetto, «[…] ma già come se uscisse da me. […] La sua trascendenza è avvolta nell’immanenza».102 Il problema dell’evasione dalla materialità dell’io,una volta che è stata postulata l’ipostasi nella solitudine, è cruciale per la probabilità dell’incontro con altri. Materialità e luce vengono a corrispondersi nella derivazione effettiva; «la ragione e la luce di per se stesse danno compimento alla solitudine dell’essente in quanto essente, realizzano il suo destino d’essere il solo e unico punto di riferimento per tutto. Inglobando il tutto nella sua universalità, la ragione si ritrova a sua volta nella solitudine».103È la contestazione dello spirito assoluto della filosofia hegeliana. Autosufficienza, tautologia, unità, totalità — il solipsismo è la struttura della ragione. La soggettività si amplifica nei vicoli ciechi della mondanità, li tocca e se ne appropria, e l’alterità è seppellita. La costituzione trascendentale è predestinazione dell’io alla ri-caduta su di sé.Dobbiamo ora tematizzare il concetto di posizione descritto in Dall’esistenza all’esistente,senza di cui non possiamo procedere, e che riprenderà in parte le nozioni suesposte, aggiungendo nuove conoscenze sull’unicità irremissibile dell’io, destinato inesorabilmente a sé.La coscienza sembra opporsi dialetticamente all’inconscio, come il sonno alla veglia.Caratterizzando l’il y a come vigilanza impersonale, si dovrà definire l’ipostasi come la possibilità di sospensione, possibilità di dormire. In altri termini, come coscienza. Cosa significare essere coscienza? Essere una res cogitans, dice Levinas.
Qui la parola cosa è mirabilmente precisa.L’insegnamento più profondo del cogito cartesiano consiste proprio nello scoprire il pensiero come sostanza, cioè come qualcosa che si pone. […] Non si tratta solo di una coscienza della localizzazione, ma di una localizzazione della coscienza che non si riassorbe a sua volta in coscienza, in sapere.104
Essere coscienza implica la posizione della coscienza stessa, una collocazione del pensiero in una testa umana. È il qui dell’intelletto. Il pensiero rifluisce e si profonde nel mondo, ma esso può raccogliersi nel tempio della mente, in un punto preciso della realtà. Dormire al riparo dalla oggettività: soggettività del soggetto, esclusione dallo spazio della gnoseologia, ritiro e riposo. È dunque un «evento interiore». Ma il sonno è anche la circoscrizione della coscienza in un luogo:« Il luogo non è un «qualche posto» indifferente, ma una base, una condizione. […] Coricandoci, rannicchiandoci in un angolo per dormire, ci abbandoniamo a un luogo — a un luogo che diviene il nostro rifugio in quanto base».105In ciò, si realizza la sospensione dell’essere, e, a partire dall’intersezione con un luogo caldo e sicuro (posizione), sorge la coscienza. La coscienza è quindi conseguente, secondaria.
Non si tratta del contatto con la terra […] . Ciò che qui è «oggetto» di conoscenza non sta di fronte al soggetto, ma lo supporta a tal punto che è grazie al fatto di appoggiarsi sulla base che il soggetto si pone come soggetto106.Conditio sine qua non. Antitetica alla posizione non è la sublimazione della soggettività, ma la sua distruzione. Essa si annuncia nell’emozione, che è uno sconvolgimento. […] L’emozione non mette in questione l’esperienza, ma la soggettività del soggetto; gli impedisce di raccogliersi, di reagire, di essere qualcuno.107
Vertigine sull’abisso dell’il y a. Levinas introduce qui la distinzionecon il Dasein heideggeriano, in cui il mondo è anteriore alla posizione della coscienza. Il qui, alcontrario, è abbrivio di ogni orizzonte, di ogni comprensione. Lo stare della coscienza in se stessa,con i suoi moti apparenti interni, è «[…] il cominciamento della stessa nozione di cominciamento».108 Da quanto enunciato, deduciamo che il corpo non è soltanto una cosa, ma la posizione stessa, dunque è evento. Per suo mezzo, abbiamo «esperienza». Inoltre, precedendo ogni simbolicità e strumentalità, il corpo è «condizione di ogni interiorità».Prima di ricongiungerci definitivamente alla solitudine ontologica dell’ipostasi,analizziamo il concetto di tempo ipostatico. Nella separazione della coscienza, nella costituzione della soggettività, emerge una dimensione temporale circolare e chiusa, il presente. «Il sonno,questo ripiegarsi nel pieno, si realizza nella coscienza come posizione. Ma la posizione è l’evento stesso dell’istante in quanto presente».109 Tradizionalmente, il presente si identifica con l’evanescenza dell’essere, la fugacità, il transeunte. Eppure, l’istante è unica possibilità di evasione dall’anonimato, «essere a partire da se stesso. Per l’istante questo modo di essere significa essere presente. […] Il presente è quindi una situazione nell’essere in cui non c’è solo essere in generale, ma in cui c’è un essere, un soggetto».110La fragilità temporale è il rischio della soggettività, che però emerge esclusivamente in essa. Insorgenza dell’ipostasi, del nome nel verbo. Al presente si conferisce il segno dell’ipostasi, in quanto suo compimento, ma non come cristallizzazione, bensì nel riavvolgimento reiterato dell’arco cronologico. Nella storia della filosofia occidentale, l’istante viene ripudiato nell’ordine dell’astrazione, campo tensionale e instabile del tempo: «il che non significa che essa [la filosofia] abbia pensato volgarmente il tempo come composto di istanti. […]in tutta la filosofia moderna l’istante trae la propria significazione dalla dialettica del tempo; non ha una dialettica propria».111L’esistenza stessa viene computata nell’estensione della temporalità.L’eternità è l’unica forma di resistenza al tempo. Eppure, l’eternità somiglia ad una esistenza duratura. «Ecco perché il tempo è un’immagine mobile dell’eternità immobile. […] L’esistenza viene pensata come una persistenza nel tempo […] ».112 L’istante è sotteso nella relazione con la serie di istanti contigui l’uno all’altro. Abitualmente, l’esiguità ontologica dell’istante si svuota della significazione interna, riunendosi ad una serialità, senza di una dialettica privata. Nella «creazione continua» di Descartes e Melabranche, l’istante è spogliato di ogni dinamismo, incapace di avanzare autonomamente. In Melabranche però non vi è un ricorso perseverante alla successione degli istanti,quanto piuttosto il richiamo insistito alla «efficacia divina». La posizione di Levinas propone in diversa veste questa drammaticità dell’istante.
Prima di essere in relazione con quelli che lo precedono o lo seguono, l’istante nasconde un atto attraverso cui esso acquisisce per sé l’esistenza.Ogni istante è un cominciamento, una nascita. […] In quanto cominciamento e nascita l’istante è una relazione sui generis, una relazione con l’essere, un’iniziazione all’essere.113
Nascita del nascimento — contemporaneità del cominciamento prima dell’essere e dell’essere prima del cominciamento. L’avviamento non può vibrare nell’istante prima dell’avviamento — regressus ad infinitum. È un contraccolpo del principio nella fine; «è l’evanescenza dell’istante ciò che costituisce la sua stessa presenza; e condiziona così la pienezza di un contatto con l’essere che non è affatto abitudine, che non viene ereditato da un passato, e che è precisamente presente».114Nella fissità dell’istante si compenetrano la padronanza dell’esistente sull’esistenza e la gravità dell’esistenza sull’esistente. Il presente raffigura la presa assoluta, l’impegno apicale, lo sforzo conclusivo. «Il presente è termine, e, in questo senso, arresto. L’essenziale dell’istante è il suo stare. Ma questo arresto nasconde un evento. L’evanescenza del presente non distrugge il definitivo e infinito attuale del compimento dell’essere in cui consiste la stessa funzione del presente. Ma lo condiziona: a causa dell’evanescenza l’essere non è mai un’eredità, ma la conquista di una dura lotta».115 Sembra che tutto venga a concentrarsi nella cavità ontologica dell’istante. Acme della guerra — eroismo dell’azione. La morte è stigmate della nullità, una nullità che non nullifica la presenza del presente, ma istituisce la presenza stessa di un fallimento, di un’eresia, di una confutazione — disse il Corvo: «mai più». L’irremissibilità del presente prestabilisce la sua stessa solidità e indistruttibilità: «il presente è assoggettato all’essere, gli è asservito. L’io ritorna fatalmente a sé; può dimenticarsi nel sonno, ma ci sarà sempre un risveglio. […] L’essere assunto è un peso. E così ciò che comunemente chiamiamo il tragico dell’essere viene colto nella sua stessa origine».116Essere della coscienza che è posizione, posizione che è cedimento all’essere,risarcimento infinito della lesione prodotta con l’ipostasi. Nondimeno, nel tempo potrà esservi libertà. Il presente dell’istante è un «cominciamento puro», responsabilità verso la consistenza dell’io nell’atto immediato della posizione; «il paradosso più profondo del concetto di libertà è il suo legame sintetico con la propria negazione. Solo l’essere libero è responsabile, il che significa che è già non libero».117L’io è costretto alla duplicazione di se stesso nella forma del sé. «Le moi est haïssable». Anche in Descartes, il cogito, che inferisce la sua evidenza dall’evidenza di Dio,sostiene la propria certezza d’essere per mezzo del presente. Essa è intimità dell’io con se stesso,confidenza, non una meditazione essenziale della cogitazione. Relazione dell’io con il verbo alla prima persona singolare. Verbo che rinvia all’adoperarsi dell’io — fatica, sforzo. In esso si manifesta la grandezza della natività dell’ipostasi, vincolata al gesto verso di sé, all’affare dell’essere.
Rispetto ad ogni azione e ad ogni lavoro diretti sul mondo, la posizione rivela invece una assoluta originalità. […] il luogo calpestato dalla posizione del soggetto sostiene lo sforzo non solo come resistenza, ma anche come base, come condizione dello sforzo. […] La sua azione non consiste nel volere, ma nell’essere. Nell’atto diretto sul mondo la fatica è affiancata da uno slancio verso il futuro […] . L’atto della posizione, invece, non si trascende.118
È il nucleo della presenza del presente, l’existenza convertita in substanza. Al contrario della filosofia di Heidegger, in cui la particella «ex» individua l’esistenza stessa, Levinas vuole sovvertire il dominio indebito della soggettività, sempre legata a se stessa, sotto-posta. Siamo dinanzi ad una «rivoluzione copernicana»,il disvelarsi di una verità da sempre vera, ma misconosciuta nel tradimento della riflessione.La posizione della coscienza si attua come affermazione della stessa, ancoraggio di un esistente al fondale dell’essere, concepimento. Per mezzo di questa posizione, in cui l’io si è esibito in modo limpido, nella sua relazione ontologica, abbiamo in seguito mostrato la necessità della prigionia dell’essente nell’essere. Il nome dell’esistente echeggia interminabilmente nelle valli dell’esistenza. L’il y a viene interrotto dall’ipostasi, che assume il suo essere. La dispersione s’incontra in una precisa località, il presente posizionale dell’io. Tuttavia, l’ipostasi non è ancora libertà. La materialità, la razionalità, l’intenzionalità — l’agire dell’io è egoico, «l’io ha sempre un piede nella propria esistenza, preso in essa. […] Questa impossibilità dell’io di non essere sé rivela l’innata tragicità dell’io, il suo essere inchiodato al proprio essere».119Né la mondanità né la scienza eludono la Ichhaftigkeit dell’io.
La libertà del sapere e dell’intenzione è negativa. È il non impegno. […] Il rifiuto del definitivo. […] Quest’ultima [la libertà dell’intenzione e del desiderio] però non mi libera dal carattere definitivo della mia esistenza, dal fatto di essere sempre con me stesso. E tutto ciò, questo carattere definitivo, è la solitudine.120
L’uomo può recepire l’irruenza dell’avvicendamento degli istanti che edificano l’identità («senza passato» e «come se non ci fosse un domani»), ma egli non potrà mai manomettere l’isolamento ontologico che lo denota.Il senso della temporalità dell’ipostasi deve essere chiarito ulteriormente nell’esperienza del lavoro, che si colloca, in entrambi i testi, sulla linea di transizione all’apertura di altri. L’io deve poter essere considera come sostanza, identità stabile nella mutazione accidentale. Ma ogni modificazione dell’attributo della sostanza è anche una trasformazione della sostanza stessa. Come evitarlo? L’esperienza del sapere, in cui l’oggetto resta a distanza, al di fuori dell’identità, è la soluzione dell’enigma. Identità e coscienza. Tuttavia, ragionando in questi termini, rischiamo il consenso alla sovrapposizione dell’idea logica dell’identità con quella dell’evento ontologico della posizione dell’esistente nell’essere. L’opzione dell’evasione dal sé viene invocata anche nell’idea della libertà, nel pensiero dell’indipendenza, «il pensiero o la speranza della libertà spiegano la disperazione che, nel presente, caratterizza l’impegno nell’esistenza. […] Ecco cos’è il pensiero della libertà che è solo un pensiero: un ricorrere al sonno, all’incoscienza, fuga e non evasione […]».121
Nella lamentazione dell’idealità, il soggetto esperisce il presentimento dell’alterità, di qualcosa che non può in alcun modo possedere, che è destinato a sparire all’orizzonte. Nondimeno, non vi è alcuna atmosfera di attesa e stallo. Il presente della coscienza si snoda come irreparabilità.L’avvenire è allora ospitato nella possibilità della consolazione e della cura, anche se ciò non può consumarsi «[…] in quella concezione del tempo ricalcata sulla nostra vita nel mondo che noi chiamiamo — e si vedrà il perché — il tempo dell’economia».122 La monetizzazione della fatica umana diretta verso il mondo, indica il senso della possibilità del mondo. Il «salario» scandisce l’opera quotidiana. Il godimento e il dolore, nell’alternarsi discontinuo, formano il tempo del mondo.L’economia non si limita alla materialità, ma abbraccia: «[…] tutte quelle forme della nostra esistenza in cui l’esigenza di salvezza era stata mercanteggiata, in cui Esaù ha già venduto il proprio diritto di primogenitura».123
Il processo di coniugazione degli istanti in durata, la ottimizzazione della produttività — gli utensili manovrano l’elargizione del tempo economico. La disperazione della soggettività dirottata dal suo presente non si redime nell’autarchia dell’oikos, è altrove. La carezza può deviare il soggetto dal ritorno doloroso a sé. Si pensa solitamente che solo l’eternità sia in grado di detergere la ferita del tempo. Nell’economia, però, possiamo scorgere la redenzione e resurrezione dell’istante. Nell’arco dell’istante seguente, l’io predice una «nuova nascita», cifra dell’equivalenza con se stesso e della possibilità di incidere positivamente, come gli sussurra la speranza stessa rivolta al presente, sul presente dell’ipostasi. «Bisogna partire dalla speranza per il presente come da un fatto originario per poter comprendere il mistero dell’opera del tempo».124Allora, il tempo è vissuto in quanto «resurrezione dell’istante insostituibile» e l’io, invece di roteare nel tempo, si fa operatore dinamico del presente. L’io è al servizio del ri-cominciamento, del ripetuto ammutinamento del tempo al definitivo: «esigenza del non-definitivo».
La «personalità» dell’essere è il suo bisogno del tempo come di una miracolosa fecondità nell’istante stesso attraverso cui ricomincia come altro. Ma esso non può dare da sé quest’alterità.L’impossibilità di costituire il tempo in modo dialettico è l’impossibilità di salvare se stessi, e di farlo da soli.125
Il tempo ci viene da altri. Senza l’alterità d’altri, la rinascita, l’appagamento del desiderio della salvezza, non è possibile. L’offerta d’altri avanza senza la nostra deliberazione.Siamo ormai all’avvento di altri nella vita dell’io. Dobbiamo, prima di passare alla temporalità effettiva, focalizzarci di nuovo sulla questione del presente e sulla via di evasione da quest’ultimo, come sono esposte in Il Tempo e l’Altro. «L’evento dell’ipostasi è il presente. Il presente parte da sé, meglio ancora, è l’atto di partire da sé».126 Non siamo dinanzi ad alcuna composizione temporale, poiché il presente è solo «evento» dell’esistere e del tempo, non una ferma e definitiva esistenza, come si è visto in precedenza.127 Il presente, in quanto provenienza da sé, si riduce ad una forma di auto-diseredazione, prima e dopo non conservano alcun significato ontologico per la compilazione della presenza. Nel presente approda l’io. Io che è un modo d’essere ancor prima dell’esistente, materialità e solitudine. Esso è, e ciò è stato detto, «libertà del cominciamento».128 L’io è — postulato indefettibile, verità eterna, evidenza. Questo essere però pone una croce sulle spalle dell’io, l’istanza della ineludibilità di se stesso — solitudine. «La pena e il dolore: ecco i fenomeni ai quali si riduce in ultima analisi la solitudine dell’esistente […]».129 Il lavoro, causa della sofferenza umana, sofferenza fisica inoppugnabile, ci porta alla conoscenza dell’alterità. Il malessere, «assenza di ogni rifugio», è una esposizione piena all’essere.130 L’io è irremissibilmente un essere. Accade la morte. Accade come trasalimento, previsione, atmosfera. Emozione che travolge — prossimità. La morte appare come incomprensibile:«[…] l’ignoto della morte significa che la relazione con la morte non può accadere nella luce; che il soggetto è in relazione con ciò che non viene da lui. Potremmo dire che è in relazione col mistero».131Se l’esperienza si caratterizza per la ricchezza del particolare, per la luminosità dell’incontro; allora la morte oltrepassa l’esperienza e la semplicità, è passività e, dunque, dovrà opporsi all’essere-per-la- morte di Heidegger, centro di forza della temporalità, presa in carico, virile splendore. La possibilità dell’impossibilità che si emana nell’essere-per-la-morte viene rovesciato in riverenza, tributo,prostrazione.
L’adagio antico: «Se ci sei tu, non c’è la morte; se c’è la morte, non ci sei tu», che aveva lo scopo di dissipare il timore della morte, se ne lascia sfuggire senza dubbio tutto il paradosso, perché cancella la nostra relazione con essa, che è una relazione con l’avvenire.132
La morte deve poter mantenere il principio di inafferrabilità, altrimenti smarrisce il suo insito valore nell’apertura dell’avvenire. Al contrario di Heidegger, per Levinas la mortalità è segno di regressione, singhiozzo, irresponsabilità.
C’è sempre, prima della morte, un’ultima possibilità,che l’eroe tenta di afferrare, e non la morte. L’eroe è colui che riesce a vedere sempre un’ultima possibilità; è l’uomo che si ostina a trovare delle possibilità. […] La speranza non si aggiunge alla morte con una specie di salto mortale, con una specie di incoerenza; essa si trova nel margine stesso che, nel momento della morte, è dato al soggetto che sta per morire. Spiro-spero.133
Ma la morte non è una potenza contro cui nulla si può. Essa è il luogo dove muore il potere di potere. È caduta della sovranità, del progetto, del desiderio. La limitazione drastica del soggetto è provocata dall’intervento dell’alterità della morte. Se ciò è vero, allora la solitudine «[…] non è confermata dalla morte, ma è spezzata dalla morte».134 Viene l’altro; e lo fa con irruenza, brutalità. L’esistente si perde da se stesso.Concludiamo, per transitare all’esame dell’alterità d’altri. Abbiamo finora visto come nel tessuto impersonale dell’il y a s’insinui una forma di esistenza determinata, localizzata: l’ipostasi.Nella fatica e nella pigrizia, nella materialità, l’ipostasi è essenzialmente solitudine. Questa solitudine è l’accadere nel presente della soggettività. Evento dell’io e ricaduta nel sé. Con la posizione della coscienza, conferma dell’esitente, l’io non fuoriesce da sé, poiché, per mezzo della apprensione nella luce, gli oggetti, tenuti a distanza, sono «a partire da» esso stesso. Godimento e coscienza ritornano come solitudine. Il tempo dell’economia, in cui l’ipostasi si mette all’opera, in cui si compie il lavoro, dove si è suscettibili di sofferenza e pena; il tempo dell’economia è la prima apertura ad altri. La prossimità della morte e la consolazione della carezza, in cui il soggetto diviene passività estrema, collasso della possibilità di potere, situano l’io faccia-a-faccia con il Mistero.Impossibilità di fuga — impossibilità di salvarsi da sé. Altri ci soccorre.
5. Altri e avvenire. Femminilità e paternità
Il tempo non sorge nella soggettività autonoma, impegnata nel proprio essere. Io incorro nell’alterità dell’avvenire, non ne dispongo volontariamente. La distensio animi di Sant’Agostino,formazione tripartita della cronologia (memoria-attenzione-attesa), è costitutivamente soggettiva,ma possiede, essendo una spiegazione scientifica del flusso temporale, una oggettività. La simultaneità e la successione, il tempo in quanto senso interno, risentono di questo incipit agostiniano. Tuttavia, si rammenti il fatto che, in Kant, il tempo ha un fondamento trascendentale,ovverosia produce (effettuazione — messa in luce) il tessuto normativo della possibilità stessa dell’apprensione degli oggetti. È noto che il tempo abbia un valore forse superiore rispetto allo spazio. La connessione degli oggetti, anche fosse nella costruzione trascendentale, è, per necessità,basata sulla simultaneità cronologica, dunque temporale. Senza il senso interno del tempo,l’esperienza risulterebbe discontinua. Siamo ancora nell’ordine della gnoseologia. Con Levinas, il problema del tempo si affaccia sulla possibilità dell’alterità di fronte all’io. Ratio essendi e ratio cognoscendi della temporalità convergono nell’alterità di altri. Tuttavia, la terminologia è qui imprecisa. Non si può aver ragione di un avvenimento di cui nulla si conosce e a cui non si può prendere parte (nell’essere); ovvero: «io non sono e non posso essere altri» e «io non conosco e non posso conoscere altri». Altri mi viene incontro, e, come sarà poi in Totalità e Infinito, è Volto che nell’avvenire già non è più presente — traccia. L’alterità d’altri non è una qualità, una categoria sociologica secondo descrizione e misurazione. Durkheim non si è spinto oltre l’affiancamento dell’io all’altro, ma esso è inefficiente. Anche il Miteinandersein di Heidegger minaccia la frontalità della relazione con altri. Si è con (mit) altri, attorno ad un compito, un partito. Per Levinas, erede del principio dialogico di Buber, si deve opporre l’io-tu dell’incontro relazionale. Già in Simmel, nei saggi Sull’intimità, si erano intuiti gli azzardi della collettività vasta, passibile di impersonalità e disinteresse. Contro la comunione d’intenti, Levinas postula il «temibile faccia-a-faccia». ««Altri»,in quanto «altri», non è solo un alter ego. Esso è ciò che io non sono: è il debole mentre io sono il forte; e il povero, «la vedova e l’orfano»»135. Asimmetria e disuguaglianza — non-rettitudine — sono i caratteri dell’intersoggettività. L’esteriorità dell’altro non è solo il segno della liberazione dell’io da sé, ma è la liberazione stessa, il tramonto delle categorie dell’ipostasi solitaria. L’incontro con l’esteriorità accade nell’eros, dove la prossimità e la dualità sono preservate; «la positività della relazione risiede proprio in ciò che si presenta come lo scacco della comunicazione nell’amore;quest’assenza dell’altro è precisamente la sua presenza come altro».136
Assenza nell’inconoscibilità,nell’inafferrabile istanza del Volto di altri — dichiarazione di una vicinanza nella lontananza. Altri è fuori dalla luce. La civiltà spesso oblia il significato dell’asimmetria, in forza della norma di reciprocità. Affinché si abbia la fraternità — sostituzione, incarico — si deve partire dalla concezione dell’eros. Eterogeneità assoluta — io che non è l’identico e altri che non è il diverso. Questa disposizione può, di fatto, indurre in tentazione. Se l’Altro è il differente, allora esso dovrà essere ricondotto al Medesimo. Ma così non è se consideriamo altri come Volto, vestigia della trascendenza.
Solo nell’eros la trascendenza può essere pensata in modo radicale, solo nell’eros essa può portare all’io che è preso nell’essere, che ritorna fatalmente a sé, qualcosa di diverso da questo ritorno, sbarazzarlo della propria ombra. […] L’intersoggettività asimmetrica è il luogo di una trascendenza in cui il soggetto, pur conservando la sua struttura di soggetto, ha la possibilità di non ritornare fatalmente a se stesso, di essere fecondo e — ma è un’anticipazione — di avere un figlio.137
Anticipazione sviluppata già in Il Tempo e l’Altro, che vedremo in seguito. Questaapertura alla generatività non è presente nel pensiero dialogico in generale, sopratutto in Buber,dove la reciprocità trionfa sull’asimmetria. «Ich und Du» sono termini coestensivi della relazione,non intercambiabili, ma identici nella pronunciazione, di «pari diritti». In Levinas si fa avanti il bisogno di una relazione imperfetta, che obblighi l’io verso altri, che sia comando, magistero,espiazione. Tutto Totalità e Infinito non è che una esplicitazione della responsabilità verso il Volto. Il cammino de Il Tempo e l’Altro è leggermente diverso. Inoltre, quest’opera amplia il discorso sulla tematica dell’eros e della fecondità, dirigendosi verso i testi successivi della produzione filosofica. Levinas scrive: «ciò di cui non è possibile appropriarsi in nessun modo è l’avvenire; l’esteriorità dell’avvenire è totalmente differente dall’esteriorità spaziale proprio per il fatto che l’avvenire è assolutamente sorprendente. […] L’avvenire è l’altro».138La morte è l’evento che non possiamo assumere ulteriormente. La posizione della coscienza (intenzione, luce) viene travolta dall’alterità e si allontana da sé. Ma come può, stando così le cose, essere, una morte, la mia morte? In che modo il soggetto difende il diritto di soggettività, vittoriosa sull’il y a, dall’evento mdella morte? Non dobbiamo sicuramente intenderla nell’ordine della assunzione di una possibilità:l’imminenza della sparizione è la fine della possibilità, del potere di potere. Nell’accadimento della morte, l’uomo si pone, contemporaneamente, in un duplice modo: negazione della morte, timore —desiderio di fuga, sottrazione.
Questa situazione in cui l’evento accade ad un soggetto che non l’assume, che non può potere nulla nei suoi confronti, ma in cui tuttavia esso gli è in un certo modo di fronte, è la relazione con altri [autrui], il faccia a faccia con altri [autrui], l’incontro con un volto che, nello stesso tempo, dà e sottrae altri […] . L’altro «assunto» è altri [autrui].139
Indecifrabilità dell’assunzione, ignoranza di ciò che si è assunto. La situazione dialettica prima descritta individua in altri^[141] la sua soluzione. È qui che Levinas colloca il significato della trascendenza.Nondimeno, vi è ancora un dilemma teoretico. Se l’avvenire è altri, e altri è alterità assoluta rispetto al soggetto, allora come sarà possibile estrarre da questo crocevia la temporalità dell’ipostasi? Se altri resta altrove, allora il tempo è incompiuto in quanto mancante di presenza.Perché si abbia temporalità l’avvenire deve entrare in contatto con il presente, forse sussumendolo,o forse facendosi sottintendere: «la relazione con l’avvenire, la presenza dell’avvenire nel presente sembra ancora realizzarsi nel faccia a faccia con altri [autrui] . […] La condizione del tempo sta nel rapporto fra esseri umani o nella storia».140
Nel concetto di durata, Bergson affida al presente la briglia dell’avvenire. La libertà nella durata attende l’atto della creazione — germinazione della presenza nel futuro, guida. Solo nel rispetto della misteriosità, l’avvenire può stipularsi in quanto trascendenza. «Più che il rinnovamento dei nostri stati d’animo, delle nostre qualità, il tempo è essenzialmente una nuova nascita».141 Dissomiglianza con l’istante — il tempo esaudisce l’istanza della generazione. Non un risveglio dopo un lungo sonno, ma resurrezione. La resurrezione implica personalità dell’io nella relazione con altri. Solo così la soggettività del soggetto è intatta nella rovina della possibilità di potere, «mi si è obiettato che nella mia relazione con altri [autrui], non è soltanto il suo avvenire ciò che io incontro, che l’altro in quanto esistente ha già un passato per me e che, di conseguenza, non ha il privilegio dell’avvenire».142
Dobbiamo scavare ancora. L’avvenire n cui altri si manifesta di fronte a noi non ci legittima a esplicitare il principio dell’alterità d’altri nel fatto dell’avvenire. È vero il contrario. L’avvenire si illumina nell’alterità d’altri. La stessa civiltà umana, prospezione della relazione originaria con altri, nasce all’interno della dialettica di questa relazione. Espressione, trascendenza dell’espressione, volto che viene reconditamente da un non-luogo in cui subito si ritrae.143 Dove l’alterità si apre nella sua purezza? «io penso che il contrario assolutamente contrario, la cui contrarietà non è modificata in nulla dalla relazione che si può stabilire fra esso e il suo correlativo, la contrarietà che permette al termine di restare assolutamente altro, è la femminilità».144
L’incontro con la femminilità, non una antitesi generica, ma una alterità profonda, contrarietà assolutamente contraria; questo incontro orienta il discorso verso una ricerca superiore, è uno slancio iniziale verso il «nuovo pensiero». La femminilità rappresenta la forma eccelsa dell’espatrio della soggettività, che non mette a tacere la sua origine, ma che si apre ad altri nella sua genuinità.
Anzitutto essa non risulta da una distinzione puramente logica, ma ha un contenuto empirico semplicemente non deducibile razionalmente. In secondo luogo, il femminile non si ottiene semplicemente negando il maschile, ciò che consentirebbe una sorta di conversione di un termine nell’altro. In terzo luogo, i due termini non sono complementari, perché non suppongono una totalità preesistente, né riescono effettivamente mai a crearla (il che sarebbe appunto l’aspetto patetico del rapporto sessuale).145
Altri si incontra, si rispetta, si distanzia. La femminilità diviene la condizione di possibilità della relazione d’amore, dell’espressione dell’eros. Poiché il femminile non è una sporgenza di una unità d’essere preposta, l’eros è rinnegamento della fusione. Silenzio dinanzi al mistero, arretramento al cospetto dell’intangibile; «ciò che mi sta a cuore in questa concezione della femminilità, non è soltanto l’inconoscibilità, ma un modo di essere che consiste nel sottrarsi alla luce. […] Il modo di esistere della femminilità consiste nel nascondersi, e questo fatto di nascondersi è appunto il pudore».146
Il sentimento del pudore — non-esponibilità di altri — sta a fondamento del mistero del femminile. Non dobbiamo qui, a nostro avviso, considerare l’elaborazione di Levinas come una forma di conservatorismo. Altri è, di per sé, nella sua essenza profonda, un angolo buio della percezione. Sfuggire alla luce, rivolgersi nell’oscurità, destarsi continuamente nell’incompreso — questo è il significato del pudore. Ri-velazione. Il malinteso potrebbe semplificare la tesi di Levinas. Prima di essere altrui libertà, altri è pudore. Se l’altro è recepito nell’ordine giuridico della libertà e del diritto, allora non rimane che la dialettica conflittuale servo/padrone. Le libertà sono in lotta per l’autoaffermazione.
Ponendo l’alterità d’altri [autrui] in termini di mistero, definito a sua volta dal pudore, non la pongo in termini di libertà identica alla mia e alle prese con la mia, non pongo un altro esistente di fronte a me, ma pongo l’alterità. […] Ed è per questo che abbiamo cercato questa alterità nella relazione assolutamente originale dell’eros, relazione che è impossibile tradurre in termini di potere e che non bisogna tradurre in quel modo, se non si vuole falsare il senso della situazione.147
Pudore ed eros collaborano nella manifestazione di altri in quanto altri. Nessuna intenzione, nessun potere devono applicarsi alla relazione amorosa con la femminilità, o essa viene meno. L’unica trascendenza dell’alterità termina nell’ignoto. Opposizione alla luce — trascendenza inversa alla coscienza. Il significato della carezza è proprio nella ricerca infinita di qualche cosa in altri, un tentativo fallimentare. Il fatto di «non sapere» quale sia l’oggetto indagato, smentisce la attendibilità dell’indagine stessa. Tuttavia, questo scacco della manualità conserva un valore sommo per la cessione del diritto di trascendenza ad altri. Miracolo della decenza, la carezza addolcisce la discrepanza dell’io con l’altro, ma non colma la distanza tra di loro. Altri è già sempre fuori dalla mia visuale intenzionale. «La relazione con altri [autrui] è l’assenza dell’altro; non assenza pura e semplice, non l’assenza del puro nulla, ma assenza in un orizzonte di avvenire, un’assenza che è il tempo».148 In conclusione, ritorniamo al problema della morte e della possibilità del superamento dell’io, e del suo presente, nell’avvenire puro, senza che si abbia una ricaduta nefasta dell’io in sé.L’eccitazione del presente non deve manipolare l’avvenire, o la soggettività assimila l’alterità. «In che modo l’io potrà diventare altro nei confronti di se stesso? Questo è possibile in un modo soltanto: con la paternità».149 La paternità è relazione con un’entità che è nel medesimo tempo estranea e identica all’io. Altri si accende nella progettualità, nell’abnegazione, nel sacrificio. Il figlio è, in parte, me stesso e, in parte, altri. Esistenza nella discendenza — esistenza nella trascendenza. Il significato della prole converge nella promessa fatta da Dio ad Abramo, è ciò che costringe alla partenza, solo perché l’io si conosce nell’alterità d’altri. Eredità generosa — dinanzi al figlio il padre non svilisce la propria potenza, ma si slancia fedele nel mistero. Libertà verso di sé — bontà; «mi premeva di far risaltare che l’alterità non è assolutamente l’esistenza di un’altralibertà a fianco della mia. […] La sessualità, la paternità e la morte introducono nell’esistenza una dualità che interessa l’esistere stesso di ciascun soggetto».150
Il tempo è evento dell’alterità, è altri.Nella paternità, nella figura del figlio, incomincia il tempo. Se altri è accomunato a sé, nel pronome del «noi», allora l’io e il tu si affiancano nel partitismo. Tuttavia, nel rincasare, l’io si raccoglie nuovamente nella solitudine dell’intenzione, nella valutazione qualitativa e nella luce, si smaschera della socialità. Soltanto nella prossimità e nella dualità si ha la cessazione della retrocessione. L’io,di fronte ad altri, viene sospinto sempre di più verso la terra vergine dell’avvenire — è improntamento.
6. Il tempo come metafisica? Le origini del progetto filosofico di Levinas
«Avvenire» è il termine con cui terminiamo la nostra esposizione del pensiero germinale di Levinas, non casualmente, ma per un motivo specifico. La questione metafisica, partita dall’apparizione dell’ipostasi nell’il y a, giunge alle soglie dell’alterità, in cui traspare la possibilità del futuro. Una soggettività chiusa, nel godimento e nella coscienza, inadeguata alla trascendenza,non può che spegnersi lentamente, nella sterilità della presenza. Non è vero che nell’istante presente transita l’eternità, o, anche se così fosse, non è questa eternità ciò di cui dobbiamo prenderci cura.Immobilità, stasi, perpetuità, sono termini dell’assenza d’altri. Altri è la possibilità della progettazione, l’invito a proseguire, incoraggiamento a guarire che si rafforza nella visitazione — già subito tempo. Il perdono, dopo la delusione e il fallimento, accade nella temporalità. La crocefissione e l’espiazione sono opere nel tempo. Rimedio all’errore commesso — la reversibilità della caduta esiste soltanto nell’intercessione incarnata, non con un «colpo di mano», ma con una mano inchiodata ad una croce: «sperare significa quindi sperare la riparazione dell’irreparabile,sperare per il presente. […] Ma non appartiene forse proprio all’essenza del tempo il fatto di rispondere a questa esigenza di salvezza? […] L’avvenire non è innanzi tutto una resurrezione del presente?».151
Nell’istante — posizione della coscienza nel presente, io — la soggettività discosta il velo della cura economica (sempre tardiva rispetto al piazzamento dell’istante), accedendo alla legislazione della temporalità divina del perdono, risorgere dell’io nell’istante, in cui si presagisce una «nuova nascita». La filosofia classica ha dimenticato il bisogno d’altri affinché ciò si potesse realizzare, e così facendo «[…] passava a lato di quella libertà che non consiste nel fatto di negarsi,ma nel farsi perdonare il proprio essere dalla stessa alterità d’altri».152 Il tempo monadico viene sostituito dal tempo diacronico — irrecuperabile in quanto convocazione e sostituzione.Siamo però già oltre il nostro limite. La diacronia, concetto fondamentale in Altrimenti che essere, o al di là dell’essenza, avrà la funzione cardine nel rovesciamento dell’economia e dell’ontologia in etica, in quanto svuotamento della soggettività — altro-nel-medesimo, psichismo e sostituzione -, ma è un concetto tardo. Desideriamo restare, per concludere la nostra breve trattazione, ai testi relativi agli anni della prima produzione di Levinas, seguendo attentamente la provocazione contenuta in Levinas. Soggettività e Infinito, di E. Baccarini, dove è scritto:«La ricerca sul tempo e sulla temporalità, nella sua terribile complessità, è, a mio avviso, tra le più avvincenti e più decisive per il futuro della filosofia».153
Questa ci sembra indiscutibile: il tempo e la forma umana del tempo rappresentano una delle problematiche essenziali della filosofia contemporanea, ma sopratutto, così pensiamo, per il pensiero levinasiano, in quanto possibilità della evasione dell’essere e della preservazione dell’alterità in quanto essere d’altri. Levinas è mosso da una consapevolezza indefettibile, ovvero che nella concezione del tempo alberga e si perora la relazione dell’io con l’esteriorità. Scrive ancora Baccarini:
La concezione del tempo a cui siamo abituati è legata alla strutturazione di una coscienza soggettiva che dà il tempo ai propri vissuti. Se scompare questa soggettività, come in Levinas, salta la concezione del tempo come possibilità della rappresentazione e si manifesta invece la «pazienza» del tempo […].154
Il residuo dell’attività della coscienza teoretica nella fondazione del tempo, come nella Urimpression in cui si presenta l’incolmabile differenza — intervallo — tra senziente e sentito, dove si distende un lasso temporale,cioè il consistente trascorrimento dell’intenzione primordiale che va dal primo al secondo — «scarto della sfasatura» — e che, intuitivamente, sottende già le forme intenzionali della ritenzione e della protenzione, in cui il presente ri-tenuto accede ad un nuovo presente pro-tenuto.
Il tempo è in primo luogo coscienza del tempo, ma la coscienza del tempo è subito temporalizzazione. Ritenzione e protenzione sono i modi del flusso temporale. Il tempo è il «sentire stesso della sensazione»,iterazione al fondo della Urimpression, scarto interno dell’originale produzione della temporalità che rinviene immediatamente in se stessa, come fosse un «contraccolpo». Sfasatura che è il principio della intenzione idealizzante — che possiamo definire come «identificazione ideale»,ovvero l’intendimento del «questo in quanto questo» e del «questo in quanto quello», atto dell’individuare -, sfasatura che si muove nella antistante non-idealità della impressione originaria,in cui però la novità del contenuto, imprevisto e imprevedibile, si configura secondo la Urzeugung(o Urschöpfung), creazione primigenia, genesis spontanea, che, secondo questa analisi, si realizzacome tempo. Tempo in quanto attività basilare, «rudimentale», della soggettività incarnata. Anzi,incarnazione stessa. Movenza nativa di una soggettività sempre costituente, nonché sempre immersa nel costituito.Già in un saggio del 1940,155 pubblicato due anni dopo la morte di Husserl, Levinas affronta la vasta e complessa filosofia fenomenologica. Tra le tematiche esposte, troviamo anche il tempo. Nell’undicesimo paragrafo di L’opera di Edmund Husser,^[158] intitolato L’io, il tempo e la libertà, possiamo osservare una prima dimostrazione della comprensione levinasiana della problematica temporale in relazione alla libertà. Ovviamente, qui non abbiamo ancora una autonoma riflessione filosofica, ma questo momento della formazione di Levinas è essenziale per delineare e aver chiaro lo sviluppo della sua opera. In altri termini, la modalità di posizione del tempo della soggettività condiziona, fino a determinarla completamente, la fondazione della soggettività stessa, ed ogni successiva relazione con l’esteriorità.
L’analisi della coscienza del tempo compiuta da Husserl nello Zeitbewusstsein si confonde con la descrizione della coscienza di sé che caratterizza ogni atto della coscienza. […] L’origine di ogni coscienza è l’impressione prima,Urimpression. Ma tale passività originaria è nello stesso tempo la spontaneità iniziale.L’intenzionalità prima in cui essa si costituisce è il presente. Il presente è il sorgere stesso dello spirito, la sua presenza a sé.156
dunque non desta meraviglia la improrogabile preoccupazione di Levinas di approfondire, fino all’ultimo sedimento infrastrutturale, le possibili conseguenze di questa impostazione teoretica. Spirito e presente convergono nella genesi della realtà intelligibile.Intellezione che però è subito in movimento, ma in che modo? Secondo il modo della libertà. Lo spirito è libero, affrancato da ogni legalità che non sia stata preventivamente statuita da esso stesso.Lo spirito è libero in quanto pro-iettato verso l’avvenire, che avverrà come predeterminazione spontanea della soggettività. Lo spirito avanza verso ciò che esso ha liberamente designato come «avvenire»: «Il tempo non è quindi una forma che la coscienza assume dall’esterno. È il vero segreto della soggettività: la condizione di uno spirito libero. Proprio come l’intenzionalità diretta sull’oggetto trascendente, il tempo esprime la libertà stessa».157Pretesa occupazione di una località ancora occulta, dove tutto è predetto secondo la libera espressione del soggetto, che si riproduce,rinnovandosi, come flusso — deliberazione confermata in ogni istante che si lega e slega ad altri istanti, secondo i procedimenti interni della ritenzione e della protenzione. In questa dimensione,spontaneità e passività non soggiacciono ad una antinomia, ma si unificano nella libertà dello spirito. Qui si ha la manifestazione del senso. Il tempo del pensiero teoretico (formale) è il dispiegamento dello spirito nella propria libertà — fedelmente alle «intenzioni metafisiche fondamentali» di Husserl — in quanto «intimità di un senso con il pensiero».Non possiamo vagliare con attenzione il testo per intero, poiché estremamente vasto nei contenuti e ci porterebbe fuori contesto. Giungiamo dunque alle Conclusioni, dove Levinas esordisce con questa proposizione:
La fenomenologia di Husserl è, in fin dei conti, una filosofia della libertà, di una libertà che si realizza come coscienza e si definisce attraverso di essa; di una libertà che non caratterizza solamente l’attività di un essere, ma che si pone prima dell’essere, e rispetto alla quale l’essere si costituisce.158
La libertà fonda l’essere, ne riempie gli interstizi che essa stessa produce nel suo slancio teoretico, intellettuale — non «hyleticamente», ma nella sua opera di significazione. Le sue norme sono le norme dell’essere. Ma la libertà è coscienza informante e, di conseguenza, in essa si dispone il modo della manifestazione di senso. A partire dalla «rivoluzione fenomenologica» si giustifica l’originarietà della libertà dell’io, in quanto possibilità del solipsismo.L’intenzionalità è una monade: prima di qualsiasi intervento dell’estraneità, o su di essa, l’approccio alla cosa si effettua come intellezione. Al fondo dell’impegno nel mondo, si posa la spontaneità originaria dello spirito, uno spirito «non impegnato». Ciò non provoca l’assorbimento della cosa nella coscienza, come per l’idealismo, ma vi è una conformità pura della trascendenza dell’oggetto alla significazione del pensiero che mira a questo oggetto. Da dove viene questa significazione? La risposta ci è data poco dopo: «in Husserl il fenomeno del senso non è mai stato determinato dalla storia. Il tempo e la coscienza rimangono, in ultima analisi, la «sintesi passiva» di una costituzione interna e profonda che non è più un essere».159Scendendo fino alla temporalizzazione del presentevivente, si postula il principio fondamentale della esperienza del mondo stesso. Significazione,donazione di senso — ciò che proviene dall’io si è proprio l’esigenza originaria di accogliere un senso che è già costituito dall’io stesso. Soltanto qui si disvela l’autenticità della Urimpression. Essere a livello della impressione originaria implica da subito una suscettibilità affettiva nei modi del tempo — la ritenzione e la protenzione —, in quanto luogo legale della affezione.160
Notiamo come il tempo abbia una funzione cardine nella concezione fenomenologica della possibilità di una esperienza del mondo. Se ciò è vero, allora la posizione della coscienza-tempo sarà assunta come posizione stessa della alterità che mi affetta. Non nella dimensione hyletica, ma nella costituzione del senso. Come detto prima: «conformità» della trascendenza (esteriorità) al senso intimo dell’intellezione(interiorità). La Sinngebung della coscienza-tempo, che fino all’ultimo preserva la sua attività basilare,ovverosia l’intenzionalità, è proprio il locus husserliano che Levinas vuole sin da subito destrutturare.161 Liberare l’io dalla temporalità formulata a partire da sé, grazie all’intercessione dell’alterità che spalanca l’avvenire: questo l’obiettivo primario della filosofia levinasiana. Risultano fondati allora i molteplici riferimenti alla questione del tempo: sin dalle prime righe diDell’evasione, per giungere ai paragrafi finali di Dall’esistenza all’esistente e alle conferenze de Il Tempo e l’Altro. Dobbiamo ancora esaminare un momento essenziale della formazione levinasiana: la lettura ed interpretazione della filosofia dell’esistenza di Heidegger. Due saggi ci sembrano cruciali:L’ontologia nel temporale e Dalla descrizione all’esistenza. In essi, la prospettiva heideggeriana viene gestita in stretta correlazione, quasi fondativa, con il tempo. Sein und Zeit — congiunzione già copula. L’ontologia è, secondo Hiedegger, il rapporto stesso dell’uomo con l’esistenza: in quanto Dasein, occupante una posizione speciale, eccezionale, nella compagine dell’essere, esso si approccerà in modo altrettanto speciale ed eccezionale con l’essere dell’ente (das Sein des Seienden). La comprensione di ogni oggetto pretende, dapprincipio, una comprensione dell’essere,cioè una ontologia. Siamo però costretti a circoscrivere la nostra analisi. Sein und Zeit, si è detto.Cose indica questa unione, collocata nel titolo dell’opera principale di questo autore, per Levinas?Dopo aver trattato con attenzione gli esistenziali della Cura (Geworfenheit, Entwurf e Verfallen,ossia «derelizione» — o gettatezza —, «progetto» e «deiezione»), Levinas scrive nel § IV, La morte e il tempo:«Ma l’analisi del Dasein in quanto Cura, con la sua triplice struttura d’essere avanti a sé (Entwurf), già sempre (Geworfenheit) nel mondo e presso le cose (deiezione) non caratterizza la totalità dell’esistenza del Dasein».162
L’esserci dell’uomo è sempre una esistenza in relazione con i propri possibili, i poter-essere. Tuttavia, gli esistenziali ci rammentano, ad ogni passo teoretico, il fatto dell’esistenza, la sua attualità, la sua effettività. Effettività che descrive, in quanto fatto, il modo concreto di esistere, cioè la serie infinita di possibilità perdute o colte. Cosa significa accedere ai propri possibili, rapportarsi ad essi? Nella deiezione, ossia la quotidianità divertente (in senso pascaliano), incontrare un possibile implica già una sua attuazione, una realizzazione, il farsi reale della possibilità, che, ipso facto, smarrisce il proprio contenuto di possibilità; «Ma la relazione ontologica dell’esistenza con la sua possibilità d’esistere non può avere questa struttura, dal momento che esistere significa comprendere il possibile in quanto possibile e che esistere un possibile non equivale a renderlo reale».163È necessaria una «anticipazione della possibilità», in cui però la possibilità stessa, nell’approssimarsi, si sospinga sempre più in avanti. Questa forma di aggiornamento (che in Levinas sarà presente nelle opere successive), è situata nella morte. Ecco perché l’esistenza si definisce come essere-per-la-morte, in quanto rapporto esistenziale con la possibilità. Ritorneremo a breve su questo punto (che, a nostro avviso, dà origine all’allontanamento dalla filosofia di Heidegger), per concentrarci su alcune previe considerazioni. Qual è il senso dell’essere-per-la-morte nella esistenza del Dasein? In quale modo, esso, nella sua posizione privilegiata, perviene alla estrema possibilità dell’essere? Risposta: con l’avvenire. Il principio fondamentale dell’ontologia, ente superiore — eccentrico, secondo la terminologia mutuata da Plessner — che si relazione all’essere, è un principio temporale. Avvenire, ma in che senso? Esso non si concepisce nella prefigurazione di ciò che deve giungere a compimento. E come? Già nel rivolgimento al passato, nella assunzione di ciò che avvenne. Solo mediante il futuro, il passato è discoperto. Eppure, il movimento del Dasein non può terminare in questa stasi nostalgica.Ritornando all’avvenire, l’uomo — ente supremo — riceve autenticamente il suo Da, la sua esistenza effettiva. La prospezione e la retrospezione convergono nella presa in carico della vita personale, al di fuori del «si» e del «tutti», esattamente nel luogo temporale dell’istante. L’avvenire, che evidentemente mantiene una sorta di primato nella funzione iniziale dello spostamento cronologico,viene assunto, in definitiva, nella temporalità originaria — unità esistenziale di passato, presente e futuro. Cosa accade in questa temporalità originaria? Che attività segnala nell’esistente umano?Diamo subito il responso a questo quesito: essa fonda e giustifica la interiorità dello Stesso senza alcun riferimento all’esteriorità e all’alterità. Questa locuzione ci conduce intuitivamente a tutta la trattazione «matura» della riflessione levinasiana. Cerchiamo di spiegare. L’avvenire, in quanto prospezione, è cifra di un atto estatico dell’esserci. Nell’esistenza privata dell’uomo si svela la dimensione della possibilità inattuale, dell’avvenire sempre a venire. Tuttavia, a questa temporalità non si applica l’idea o la forma di un esistente antecedente alla relazione dell’ente con l’essere -rapporto con i propri poter-essere -, poiché la relazione dell’ente con l’essere, in primo luogo, si temporalizza. Non possiamo dire che essa sia. La temporalizzazione presiede il fondamentale legame tra esistente e atto d’essere. «Si potrebbe dire che il tempo è l’anticipazione attraverso cui l’uomo si iscrive nell’essere e lo assume».164 La vita dell’uomo è, ad ogni modo, finitudine.Finitudine nella delimitazione del tempo stesso, in cui però acquisisce un nuovo significato, non più quantitativo, ma connesso all’apertura sul nulla determinata dall’angoscia,^[168] Il nulla di fronte a cui il Dasein si trova non può che determinare la sconfitta dell’alterità. Nulla che, proprio per questa ragione, verrà superato da Levinas nell’il y a, al di là dell’artificio espositivo. Prima di passare all’ultimo saggio,retrocediamo ad un passo precedente, dove, come detto, già dimora il seme del distacco da Heidegger. Quanto esposto sorge nella scoperta del Dasein in relazione al Sein, in quanto essere-per-la-morte. Levinas scrive:
Egli [l’esserci] è-per-la-morte in ogni momento della propria esistenza, e ciò non attraverso il pensiero ma attraverso il compimento della propria esistenza […] .Possibilità estrema del Dasein, l’essere-per-la-morte è la sua possibilità più propria, la più sua. […]In essa, il Dasein […] si comprende a partire da se stesso.165
L’«io» — ipseità —, a differenza del soggetto idealista, si svela a sé in quanto «persona» nella finitudine, nella mortalità. Ma la mortalità richiede l’isolamento dell’io esistente. Eroismo, gesto all’estremità dell’essere, al cospetto della possibilità così preoccupante e terribile della non-esistenza. Già in Il Tempo e l’Altro, Levinas criticherà questo portamento dell’individualità. Si pensi anche alla conclusione di Totalità e Infinito,in cui si trova il medesimo svilimento.166 Eppure, soltanto in questa angoscia del nulla il Dasein esperisce la propria autenticità, ma anche, e ciò è maggiormente importante, la propria libertà.Morte, io, libertà — nozioni paradigmatiche che per Levinas segnano il trionfo della filosofia egoistica che annichilisce l’alterità. Filosofia del potere, a cui deve opporsi, con una radicale contestazione delle istanze normative che la riguardano, una filosofia della vulnerabilità e della responsabilità. Libertà per la morte, solennità indisturbata che esige di restare tale, non curandosi di colui che bussa alla nostra porta, nella veste del prossimo. La filosofia di Heidegger, ci dice Levinas, culmina nella regalità dell’io come eroe tragico: «nella temporalità originaria, o nell’essere-per-la-morte, condizione di ogni essere, essa scopre il nulla su cui poggia, il che significa anche che essa non poggia su nient’altro che su se stessa».167
Dunque, come uscire da questa circolarità dell’essere dell’io, del suo esserci più intimo che si preclude ogni esteriorità e alterità? Se tutto ciò, in Heidegger, accade a causa del tempo, allora proprio grazie al tempo questo sarà possibile. Secondo quanto analizzato, a partire dai primi tentativi sistematici (o a-sistematici) di Levinas, fino a giungere ai testi prettamente interpretativi della filosofia di Husserl e Heidegger, una problematica si è manifestata in tutta la sua urgenza: la problematica del tempo. Il tempo dell’ipostasi, essente che assume il proprio essere, ente in relazione all’atto dell’esistere; questo tempo non può che ricadere nella presenzialità autonoma ed isolata. Il tempo è l’altro, ci viene donato e noi siamo costretti ad accoglierlo nella sua misteriosità intrinseca, come evento irrecusabile. Evadere l’essere significa incontrare il tempo. Non il tempo dell’istante destinato alla sparizione e alla ripetizione anonima, ma il tempo della redenzione e della risurrezione. Ri-cominciare di nuovo come essere rinnovato nella epurazione etica dell’egoismo.Torsione che non si attua nell’individualità al riparo, bensì nella esposizione somma alla morte e alla fecondità attraverso l’avvento del volto. Non pensiamo di aver tolto la sensibilità, la realtà fattuale della epifania dell’altro. La concretezza così cara a Levinas dell’etica — il levarsi il pane dalla bocca — non viene minimamente lesa. Vogliamo in questo luogo affermare un principio chiaro della riflessione di Levinas, che, da Dell’evasione, si protrarrà fino ad Altrimenti che essere, ossia: la forma del tempo, evento dell’alterità, è il principio di conservazione e difesa dell’alterità in quanto tale, la sua irrecuperabilità e irrappresentabilità assoluta. L’epifania è già un evento temporale,«luogo» in cui il volto dell’altro si ritira immediatamente, come avvenire o, come sarà in seguito,nella diacronia non-assumibile della traccia. La portata dell’etica è la possibilità di relazione nell’assoluzione dei termini, ma questa assoluzione si preserva soltanto in quanto temporalità «a partire dall’altro». Solo il tempo impedisce di comprendere chi mi sta di fronte. L’ontologia si configura in primo luogo come l’assorbimento nello Stesso di ogni dimensione dell’essere ed ha origine proprio con la temporalità originaria. Heidegger ce lo ha mostrato.
Ma il rapporto dell’uomo con l’essere è unicamente ontologia? […] Detto altrimenti, l’esistenza si compie forse intermini di dominio? […] In quanto creatura o in quanto essere sessuato, l’uomo non intrattiene nessun’altra relazione con l’essere se non quella di una potenza su di esso, o di una schiavitù, di attività o di passività?168
Questa è la domanda che avvierà lo scavo archeologico alla ricerca di una soggettività in grado di sostenere la maestosità di altri.Che ruolo occupa, in definitiva, l’ontologia? Essa ha una positività: senza la relazione primordiale dell’esistente con l’esistere (materialità), e senza il legame servile dell’ipostasi con il proprio essere (godimento e coscienza), il mondo non sarebbe possibile. L’incontro con altri sorge all’interno della mondanità, che, prima dell’intervento dell’alterità, è chiusa nella sua solitudine e nel solipsismo. Ancora nessuno ci attende. Ontologia da cui si muove l’ipostasi, entro cui l’io si assicura a se stesso. L’oggetto esterno viene colto e assimilato, è in partenza riposto nell’ordinamento sintetico — luce e violenza, appropriazione. La questione metafisica rappresenta allora il desiderio già espresso in Dell’evasione, quello di una fuga dalla brutalità dell’essere e dall’indifferenza dell’anonimato. Il bisogno si genera nella pienezza d’essere e ci trascina verso l’evasione, il divincolarsi dall’esistere. Inizio nella sottomissione, condanna prima del processo — il peso è indiscernibile da ciò che, o da chi, assume questo peso. L’essere ha dominato la filosofia occidentale, persino nelle sue forme idealistiche. La speculazione è condizionata dall’ontologismo. « Il pensiero contemplativo, la teoria, è nel suo fondamento la condotta di colui che porta per sempre le stigmate dell’esistenza: è essenzialmente sottomessa all’esistente e, quando non parte dall’essere, gli va incontro».169Tutta la filosofia di Levinas contesta il primato dell’ontologia,avanzando la proposta di un «etica come filosofia prima». Ogni intento si è mostrato inefficace per la salvaguardia della soggettività, che è stata, ripetutamente, soppressa dalla gravità dell’essere e insabbiata dalla propria esistenza. Etica come evasione — etica come respiro dell’io. Ricordiamo quanto detto nell’Introduzione. Se l’etica è filosofia prima, allora l’evasione avrà senso nella dimensione della pratica, della realtà dell’azione. «Ogni civiltà che accetta l’essere, la disperazione tragica che comporta e i crimini che giustifica, merita il nome di barbara».170 La tragedia dell’Olocausto è l’ultimazione della società dell’ontologia, l’avverarsi della minaccia alla soggettività intravista nell’essere. Controvertere la regolamentazione impersonale, l’indecenza dell’anonimato, la sordità dell’il y a — avere fede in altri. Se la rettitudine nell’opera e la persistenza nell’impegno venissero meno, cosa aspettarsi nell’imminente se non la morte della diplomazia? Il castigo della storia resta sempre in allerta, dove l’io si compiace di sé nella desolazione della ascesi.Prestare ascolto ad altri nel tempo da cui esso viene a noi — questo il significato etico dell’evasione. Inevitabilmente, quando altri subisce l’afflizione dell’immanenza, nella depredazione identitaria (o totalitaria), allora anche il soggetto si avvilisce nell’esistenza in solitudine. Il tempo si restringe ad un epitome dell’insistenza dell’io nel sé, che si atrofizza nell’astensione. Quando,invece, altri si dice nel mistero, testimoniando per se stesso; quando slega la temporalità dal presente domestico (istante defunto), secondo l’avvenire dell’enigma; quando il significato dell’alterità d’altri viene lasciato integro, senza tuttavia l’immolazione dell’io e dell’altro; allora la soggettività è capace di impegno, di fede e di speranza. Soggettività a cui tutto viene richiesto,nell’appello alla testimonianza del comando prima del consenso, dell’obbligo in-condizionato.Soggettività «faccia-a-faccia» con la trascendenza. Soggettività che è bontà — ospitalità e responsabilità — a cui non spetta né la prima né l’ultima parola.
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E. Baccarini, Levinas. Soggettività e Infinito, Studium, Roma 1985, pp. 11-26. ↩︎
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In E. Levinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 1977, trad. it. A. Dell’Asta, introduzione di S. Petrosino, pp.19-28. ↩︎
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Nel duplice senso della «effettuazione» e della «messa in luce», in Ibidem, p. 24. ↩︎
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Id, p. 19. ↩︎
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Id, p. 21. ↩︎
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E. Levinas, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986, trad. it., F. Sossi, p. 23. ↩︎
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Useremo in questo studio: E. Levinas, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Raffaello Cortina Editore,Milano 1998, trad. it. F. Sossi. ↩︎
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Questa ipotesi è nata dallo studio del testo di E. Baccarini, prima citato, in cui è presente una breve, ma ineludibile provocazione,vedi: Levinas.Soggettività e Infinito, p. 173. Inoltre, diciamo subito che la disamina che Levinas compie della filosofia husserliana e di quella heideggeriana, rappresentano già una forma germinale di pensiero autonomo e sono fondamentali per la comprensione della seguente speculazione. ↩︎
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Prendiamo in esame in questa sede principalmente i seguenti testi di E. Levinas: Dell’evasione, Elitropia, Reggio- Emilia 1984, trad. it. D. Ceccon, Franck-Ceccon (a cura di) ; Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Genova 1986, trad. it. F. Sossi; Il Tempo e l’Altro, Il nuovo melangolo, Genova 1997, trad. it. e a cura di F.P. Ciglia. ↩︎
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Dobbiamo qui prendere una chiara posizione terminologica. Definire l’hitlerismo come “filosofia” non è errato sulla base di una considerazione morale. In tale operazione, si minaccia lo statuto stesso del pensiero filosofico in generale. La concentrazione (od ossessione) sul tema della “superiorità razziale”, su cui, teoreticamente, si fonda il sistema nazionalsocialista, non conserva nulla di teoretico. Non vi sono, storicamente, delle verificazioni empiriche sulla possibilità della predestinazione di una specifica “razza” per il predominio politico, sociale, etico. Neppure possiamo porre in atto la considerazione di una “spinta fideistica” nei confronti di una simile ipotesi. Non vi è fede in ciò che si ritiene essere empiricamente (visibilmente) valido. Da ciò deduciamo, onestamente, l’impassibilità della fede verso il miracolo. L’affidamento ad una potenza esterna, divina, abdica nell’intervento di una constatazione concreta di tale potenza. Altrimenti la fede è confusa con la serenità, e ciò mina la saldezza della fede stessa. ↩︎
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Dell’evasione, pp. 16-17. ↩︎
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«Il bisogno di evasione, al contrario, si trova assolutamente identico a ciascun punto di arresto […]» ( Ibidem, p. 18), ovverosia esso indica la repulsa per l’essere “in generale”, non per una sua determinazione. ↩︎
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Consideriamo, ad esempio, l’argomento ontologico nella prova dell’esistenza di Dio, elaborato da Sant’Anselmo, nel Proslogion. ↩︎
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Id, p. 18. ↩︎
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Id, p. 19. L’ex-scendenza verrà successivamente trattata in Dall’esistenza all’esistente. È un movimento diverso sia dalla trascendenza che dalla immanenza, attività inefficaci per l’uscita dall’essere. ↩︎
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Id, p. 20. ↩︎
-
Id, p. 20. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 3. ↩︎
-
Ibidem, p. 5. ↩︎
-
Questa dinamica è anticipata nella nausea in Dell’evasione e verrà ampiamente indagata nelle opere successive. ↩︎
-
Questa la finalità de Il Tempo e l’Altro, come vedremo in seguito. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 7. ↩︎
-
Ibidem, p. 11. ↩︎
-
Id, pp. 11-12 ↩︎
-
Id, p. 12. ↩︎
-
Id, p. 13. ↩︎
-
Critica già anticipata, implicitamente, in Dell’evasione, dove la nausea — sintomo eccellente del malessere — sorge nella solidità dell’essere, non nella carenza. ↩︎
-
In Baccarini, Op. cit., pp. 33-34. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 15. ↩︎
-
Ibidem, p. 15-16. ↩︎
-
Id, p.45. ↩︎
-
La radice “ex” rimanda all’uscita, all’estasi. Uno “stare fuori” che è star fuori dell’oggetto dal mondo—mediazione lacerante del supporto nell’apprensione della cosa. ↩︎
-
Id, p. 45. ↩︎
-
Id, p. 46. La distinzione con l’estetica kantiana non potrebbe essere maggiore. All’apprensione della forma, in quanto organizzazione armonica riconosciuta, non nell’oggetto concreto, ma dall’insieme (dal gioco) delle facoltà umane, comuni negli esseri umani, e ricondotta al sentimento soggettivo, che invoca il consenso sul sentimento stesso e non sull’oggetto occasionale (consulta L. Scaravelli, Osservazioni sulla «Critica del giudizio», il capitolo Giudizio di gusto e rappresentazione); Levinas oppone un’opera d’arte intesa nella propria materialità — materialità scevra di determinazione, a cui, tuttavia, non corrisponde il naturale e il fisico (come è in Adorno, in cui la materialità dell’opera è eccedenza positiva, espressa nello scardinamento del processo sintetico della ragione, o identificazione dell’identità — vedi G. W. Bertram, Arte. Un’introduzione filosofica, Einaudi, Torino 2008, pp. 206- 209), ma che convergerà, come vedremo, nell’il y a, nell’elementare. ↩︎
-
Id, p. 49 ↩︎
-
Le stesse immagini metaforiche, nella descrizione dell’il y a, si troveranno anche in Il Tempo e l’Altro. ↩︎
-
Id, p. 50. ↩︎
-
Id, p. 51. ↩︎
-
Vedi in Id, pp. 52-53. ↩︎
-
Rimandiamo, per un rapido intendimento, al testo Che cos’è metafisica?, in cui Hiedegger scrive: «Accade nell’esserci dell’uomo uno stato d’animo in grado di portarlo dinanzi al Niente? Questo accadere è possibile e, benché assai di rado, è pure reale, solo per degli attimi, nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia (Angst)»,in M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 49. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 55. ↩︎
-
Vedi il Poscritto (1943) a Che cos’è metafisica?, dove è detto: «l’essere non è una qualità esistente dell’ente. A differenza dell’ente, l’essere non si lascia rappresentare e produrre come oggetto. Questo assolutamente altro rispetto a tutto l’ente è il non-ente. Ma questo Niente è essenzialmente (west) in quanto essere. […] dobbiamo unicamente prepararci ed essere pronti a esperire nel Niente la vastità di ciò che dà a ogni ente la garanzia (Gawähr) di essere. Questo è l’essere stesso» (p. 76). ↩︎
-
Hegel, in Scienza della logica, asserisce: «Il puro essere e il puro niente è dunque lo stesso», citato in Che cos’è metafisica?, p. 63. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 56. ↩︎
-
Il testo raccoglie una serie di conferenze tenute da Levinas al College Philosophique (fondato da Jean Wahl), durante il biennio ’46-’47, durante la stesura conclusiva di Dall’esistenza all’esistente (’47) ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, p. 17. ↩︎
-
Ibidem, pp. 17-18 (corsivo mio). ↩︎
-
Id, p. 18. ↩︎
-
Id, p. 19. ↩︎
-
Id, p. 19. ↩︎
-
Id, p. 21. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 16. ↩︎
-
In altri termini, come già Heidegger aveva scritto, la domanda metafisica giace nel profondo dell’umano. In quanto tale, l’uomo si pone la domanda metafisica; ma quest’ultima resta perpetuamente oscura, poiché riposa nell’interiorità dell’uomo stesso. In Heidegger, le due dimensioni giungeranno a coincidere: il metafisico è l’umano. Vedi Che cos’è metafisica?, alle pp. 64-65. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 17. ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, p. 21. ↩︎
-
Con riflessione, Levinas concettualizza la problematica della “cura di sé”. Cura di sé intesa come effetto della meditazione sul «senso della vita», o possibilità di attenzione o derelizione a proposito della propria esistenza. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 18. ↩︎
-
Ibidem, p. 19. ↩︎
-
Si veda Dell’evasione, in particolare i §§ III e VI. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 19-20. ↩︎
-
Ibidem, p. 21. ↩︎
-
Id, p. 22 ↩︎
-
Id, p. 23. ↩︎
-
Questo sarà il tema conclusivo di Dall’esistenza all’esistente e Il Tempo e l’Altro. ↩︎
-
Dall’esistenza all’essere, p. 23. ↩︎
-
Ibidem, p. 25. ↩︎
-
Id, p. 26 ↩︎
-
Id, p. 26. ↩︎
-
Id, p. 27. ↩︎
-
Id, p. 27. ↩︎
-
Id, p. 28. ↩︎
-
Id, p. 29. ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, pp. 13-14. ↩︎
-
Ricordiamo la somiglianza di questo sentimento con la caratterizzazione “eroica” del sentimento d’angoscia nella filosofia di Heidegger. Si legga Che cos’è metafisica?, p. 78. ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, p. 24. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 31. ↩︎
-
Ibidem, p. 32. ↩︎
-
Id, p. 32. ↩︎
-
Id, p. 33. ↩︎
-
Id, p. 33. ↩︎
-
Id, p. 34. ↩︎
-
Id, p. 35. ↩︎
-
Rimando alla lettura de Il corpo, §§ II-III; in M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003-2012, trad. it. A. Bonomi, P.A. Rovatti (a cura di). ↩︎
-
Non basta, per compiere ciò, la sussistenza terrena, la motilità della corporeità, o, in generale, l’“immersione situazionale”; serve, fortemente, l’impegno dell’uomo nel mondo e l’illuminazione degli oggetti al suo cospetto. ↩︎
-
Vedi il capitolo seguente. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 36. ↩︎
-
Ibidem, p. 36. ↩︎
-
Si vedano in particolare Dell’evasione, §§ II-IV. ↩︎
-
Questa nozione si trova anche in Dell’evasione. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 37. ↩︎
-
Ibidem, p. 38. ↩︎
-
Confessioni XI, 28: 37. ↩︎
-
Confessioni XI, 14: 17. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 39. ↩︎
-
Ibidem, p. 40. ↩︎
-
Id, pp. 40-41 ↩︎
-
Id, p. 41. ↩︎
-
In riferimento però alla legislazione trascendentale dell’universo, quindi ad una sua significatività generale, senza alcuna determinazione empirica. ↩︎
-
Id, p. 43. Principio la cui origine socratica è indiscutibile, sebbene sia ora usato per un altro fine, ovvero la comprensione della sua insufficienza per la liberazione effettiva dell’uomo. ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, p. 31. ↩︎
-
Cfr. II capitolo, pp. ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, pp. 31-32. ↩︎
-
Ibidem, p. 32. ↩︎
-
Id, p. 33. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 62. ↩︎
-
Ibidem, p. 63 ↩︎
-
Id, p. 64. ↩︎
-
Id, p. 64. ↩︎
-
Id, p. 65. Possiamo qui spiegare il senso dell’ordine della nostra esposizione. L’approfondimento sistematico in Dall’esistenza all’esistente, non così puntuale in Il Tempo e l’Altro, ci è sembrato affatto importante per la disposizione delle tematiche al fine di una comprensione chiara e lineare. Tuttavia, abbiamo tentato di condurre l’esame delle due opere in modo parallelo, laddove possibile. La motivazione si trova espressa in una proposizione de Il Tempo e l’Altro in cui Levinas scrive: «Il paradosso non è più tale se si capisce che l’“io” non è all’origine un esistente, ma il modo di esistere per eccellenza, ch’esso, a rigor di termini, non esiste» (p. 23). Ebbene, incominciando dai brancolamenti dell’ipostasi, nelle forme contenute nella materialità, siamo giunti al concetto di mondo, in cui si diffonde la luce, possibilità del godimento e della ragione. Ma la posizione della coscienza occupa un ruolo eccezionale in questa progressione. Essa rappresenta una forma assuntiva che sta a fondamento della possibilità stessa della vita nel mondo (localizzazione, lavoro) e, dunque, della possibilità di altri. Il concetto è stato perciò volontariamente posto prima della transizione all’avvento d’altri. ↩︎
-
Id, p. 66. ↩︎
-
Id, p. 66. ↩︎
-
Id, p. 67. ↩︎
-
Id, p. 68. ↩︎
-
Id, p. 69. ↩︎
-
Id, p. 70. ↩︎
-
Id, p. 71. ↩︎
-
Id, p. 71. ↩︎
-
Id, p. 72. ↩︎
-
Id, pp. 73-74. ↩︎
-
Id, p. 76. ↩︎
-
Id, p. 77. ↩︎
-
Id, p. 81. ↩︎
-
Id, p. 82. ↩︎
-
Id, p. 82. ↩︎
-
Id, p. 84. ↩︎
-
Id, p. 85. ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, p. 22. ↩︎
-
Cfr. III, p. 26. ↩︎
-
Cfr. II, p. 18 e III, pp. 26 e sgg. ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, p. 35. ↩︎
-
Si ricordi quanto è stato trascritto di Dell’evasione, in cui il bisogno, origine del malessere, viene intuito nella pienezza dell’essere, nella sua irrevocabilità, e non, tradizionalmente, come una privazione. ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, p. 36-37. ↩︎
-
Ibidem, p. 38. ↩︎
-
Id, p. 39. ↩︎
-
Id, p. 40. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, p. 87. ↩︎
-
Ibidem, p. 87. ↩︎
-
Id, p. 88. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, pp. 41-42. ↩︎
-
Abbiamo una spiegazione precisa dell’utilizzo di questa forma linguistica. «L’espressione francese autrui, pronome indefinito invariabile, che rifiuta in ogni caso l’articolo, sia quello determinativo che quello indeterminativo, indica nel francese corrente l’altro uomo, l’altro uomo in quanto tale, in quanto differente da me, in definitiva, il prossimo […]. Nella lingua filosofica di Levinas, […] autrui, né determinato, né indeterminato, bensì indeterminabile o inafferrabile con gli strumenti del pensiero, è l’interlocutore del soggetto, […] all’interno di una relazione etica sempre originariamente duale […]»(NdT, Il Tempo e l’Altro, p. 57). Autrui descrive perfettamente l’idea della extra-ordinarietà dell’alterità, alterità non come attributo ma come essenza di altri, come l’essere stesso di altri. ↩︎
-
Id, p. 44. ↩︎
-
Id, p. 46. ↩︎
-
Id, p. 47. ↩︎
-
Ritrarsi—movimento “a corrente alterna” tra i due poli della rappresentazione e della sottrazione—già non è più. ↩︎
-
Id, p. 49. ↩︎
-
L’eccezionalità del femminile, in G. Salmeri, L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas, in Dialegesthai (rivista telematica su mondodomani.org/dialegesthai). ↩︎
-
Il Tempo e l’Altro, p. 50. ↩︎
-
Ibidem, p. 51. ↩︎
-
Id, p. 53. ↩︎
-
Id, p. 53. ↩︎
-
Id, p. 55. ↩︎
-
Dall’esistenza all’esistente, pp. 83-84. ↩︎
-
Ibidem, p. 86. ↩︎
-
Levinas. Soggettività e Infinito, p. 173. ↩︎
-
Ibidem, p. 171. ↩︎
-
Contenuto in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, pp. 3-57. ↩︎
-
Ibidem, p. 44. ↩︎
-
Id, p. 44. ↩︎
-
Id, p. 53. ↩︎
-
Id, p. 56. ↩︎
-
Rimandiamo al puntuale articolo M. Deodati, «Il mondo ci tocca da vicino. Una riflessione sul concetto di affezione a partire da Husserl», in Dialegesthai (Rivista telematica di filosofia), disponibile su World Wide Web all’indirizzo: https://mondodomani.org/dialegesthai/marco-deodati-05. ↩︎
-
Si pensi ai saggi Riflessioni sulla “tecnica” fenomenologica (1959) e Intenzionalità e sensazione (1965), in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger. ↩︎
-
L’ontologia nel temporale, in Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, p. 97. Invitiamo il lettore a confrontarsi personalmente con il testo per intero, che qui, purtroppo, non possiamo affrontare ↩︎
-
Ibidem, p. 97. ↩︎
-
L’ontologia nel temporale, p. 101. ↩︎
-
Ibidem, p. 98. ↩︎
-
«Agli antipodi del soggetto che vive nel tempo infinito della fecondità, si situa l’essere isolato ed eroico che è prodotto dallo Stato con le sue virili virtù»(Totalità e Infinito, p. 315). ↩︎
-
L’ontologia nel temporale, p. 102. ↩︎
-
Dalla descrizione all’esistenza, pp. 121-122. ↩︎
-
Dell’evasione, p. 45. ↩︎