Una zuppa di sasso e la prospettiva esistenziale di Heidegger e Hersch. Parole extra-filosofiche sulla missione dell’uomo nel mondo

1. Introduzione

Nel 1720 viene pubblicata per la prima volta Soupe au Caillou, in un’edizione estesa di lettere di Madame de Noyer, una giornalista e scrittrice di fama internazionale, morta nel 1719.1 La storia riferita dalla narratrice racconta di due Gesuiti affamati e della zuppa di sasso che essi preparano in un villaggio della Normandia, per vincere la diffidenza dei paesani e riuscire a soddisfare il proprio appetito. È la prima apparizione in forma scritta del racconto popolare di origine ungherese A kőleves, già da tempo tramandato oralmente e destinato a diventare una delle favole più famose, tanto da stabilirsi alla posizione 1548 dell’Indice Aarne-Thompson, universalmente adottato per classificare le fiabe.2 Nel tempo la favola si è diffusa in tutta Europa e anche oltre, sedimentandosi nelle tradizioni locali e arricchendosi di personaggi e situazioni inedite: dalla zuppa di sasso di un monaco, nelle versioni portoghese (Sopa da pedra), tedesca (Der schlaue Pilgrim) e cinese, alla zuppa di ascia russa (Каша из топора), passando per la zuppa di chiodo di cui si narra nei Paesi del Nord Europa e della Penisola Scandinava, oppure per i riadattamenti che hanno per protagonisti soldati di ritorno in patria e persino animali. In ogni rivisitazione rimangono due tratti comuni: lo schema fisso della trama, con un viandante che riesce a far breccia nella solitudine degli interlocutori inizialmente sulla difensiva, risvegliandoli al nutrimento della condivisione, e i vuoti narrativi, tipici delle fiabe, che lasciano spazio all’interpretazione del lettore.3

Il presente contributo intende concentrarsi sulla libertà interpretativa offerta da questa favola e sulla posizione esterna alla filosofia del suo genere letterario, per esplicitarne la possibile continuità con la sensibilità di matrice esistenziale, affermatasi nel Novecento. Confrontando Une soupe au caillou di Anaïs Vaugelade con le esemplificative interpretazioni filosofiche dell’Antigone di Heidegger e del mito della Creazione di Hersch, si cercherà di rileggere il racconto della zuppa di sasso come un’efficace rappresentazione pratica del giusto atteggiamento grazie al quale l’uomo può conquistare la propria esistenza abitando il mondo, secondo la tradizione esistenzialista. Da un lato, ci si aspetta l’emersione della rilevanza della parola extra-filosofica, meno razionalmente logica ma al tempo stesso più viva ed evocativa, nella riflessione sulle dinamiche che caratterizzano l’abitare umano nel mondo. Dall’altro, si mira a definire una serie di principi esistenziali che possano orientare tale abitare, per mezzo dei tratti comuni e del dialogo tra i percorsi delineati in questi tre contributi.

2. L’esserci come deinon nelle lezioni di Heidegger sull’Antigone

2.1 L’ontologia fondamentale e la sua Umwelt nell’evento

Sebbene inquadrare Heidegger semplicemente come un filosofo esistenzialista possa risultare limitativo, non c’è dubbio che le sue riflessioni sull’esistenza siano un caposaldo della filosofia contemporanea. Considerando il ruolo rilevante del pensatore tedesco e l’interesse per l’incontro tra la dimensione letteraria e quella filosofica che anima questo contributo, l’interpretazione heideggeriana della tragedia dell’Antigone si rende un riferimento imprescindibile. Heidegger si sofferma per la prima volta sul discorso del coro all’inizio del primo stasimo dell’Antigone in un corso tenuto nel 1935 e poi pubblicato nell’Introduzione alla metafisica, per tornare ad occuparsi della storia dell’eroina sofoclea nella sua interezza nel 1942, in un corso sulla poesia innica di Hölderlin.

Ogni comprensione e contestualizzazione di quanto detto dal pensatore tedesco passa per la sua opera più nota, Essere e tempo, che definisce il linguaggio e le modalità di ricerca di una nuova ontologia fondamentale, per riportare alla luce la domanda sull’essere, nella curvatura storica della relazione tra esserci ed ente o essente. Seguendo le efficaci definizioni con cui Ardovino chiarisce il linguaggio heideggeriano, l’esserci è «l’insieme delle possibili modalità d’essere uomo»,4 ciò che tiene insieme nel nucleo più intimo del soggetto la sua situazione e le determinazioni concrete che lo definiscono, come essere-nel-mondo che fa da condizione di ogni esperienza e, al tempo stesso, si può cogliere solo se direzionato nel rapporto con qualcosa.5 L’ente è esattamente il qualcosa con cui l’esserci ha a che fare, «il mondo di volta in volta proprio del nostro esserci»6 verso cui si orienta l’intenzionalità del soggetto. L’esserci è condizione formale da riempire con gli enti e l’ente è una potenzialità formale che necessita di una concrezione esistenziale nell’esserci, dunque tra le due parti deve sussistere un rapporto di cura e non di semplice sfruttamento strumentale. In questo virtuoso rapporto, l’essere che l’esserci guadagna attraverso l’ente è «il modo in cui l’ente ci è manifesto, cioè ci si presenta»,7 quel frammento della totalità che fa da orizzonte all’intero movimento descritto ed è contenuto nell’utilità dell’ente per l’esserci.8 L’essere dell’ente che si manifesta in un caso specifico non va mai scambiato per la totalità dell’essere, così come l’esserci non si esaurisce mai in una delle situazioni in cui si concretizza. Questi due principi sono alla base della differenza ontologica. Dal momento che l’essere necessita di un esserci che lo scopre nei vari enti, sembra possibile modificare parzialmente il titolo dell’opera heideggeriana e affermare che essere è tempo.9 Per cogliere l’essere non sono sufficienti le infinite esperienze degli esserci che lo temporalizzano nel proprio ci, anzi, è esattamente grazie ai soggetti che l’essere può perfezionarsi manifestandosi, attraverso modi inediti che ne scoprono sensi originali, guardando gli enti da nuove angolazioni. La svolta (Kehre) che caratterizza il pensiero heideggeriano a partire dagli anni ’30 cerca di incarnare l’ontologia fondamentale precedentemente formulata, ancorandola ad un habitat familiare da vivere quotidianamente (Umwelt). Come testimonia Contributi alla filosofia (dall’evento), è a questo punto che l’evento irrompe nella triade essere-esserci-ente, grazie alla storia come luogo in cui avvenire e al linguaggio come fonte privilegiata di trasmissione.

Se la svolta heideggeriana, dopo aver delineato i meccanismi di funzionamento dell’ontologia fondamentale, deve confrontarsi con le condizioni concrete in cui l’essere si offre all’esserci nell’ente, il fulcro di tale Kehre può essere solo l’evento appropriante, come avvenimento di un esserci soggettivo che, in determinate condizioni storiche, si assume il compito di diventare pastore dell’essere rinvenuto nell’ente,10 disvelandolo nella comunicazione. Il parziale cambio di tono della filosofia heideggeriana nel corso degli anni ’30 è dovuto alla nuova consapevolezza che l’ontologia fondamentale non si rivolge a il mondo, bensì ad un mondo, quindi sono decisivi anche l’atto incarnato di risposta all’appello dell’essere da parte dell’uomo e il modo in cui la risposta alla chiamata viene trasmessa. La cura del senso dell’essere ha già tematizzato il primo aspetto,11 mentre il secondo passa per l’attenzione al portare a parola l’essere nel linguaggio. Qui si esplicita l’incontro tra filosofia e comunicazione extra-filosofica: per accettare la responsabilità di custodia dell’essere e prendersene cura bisogna anche nominarlo in modo opportuno, perché l’esperienza dell’essere nell’ente va trasmessa e, in questo senso, il linguaggio è la casa dell’essere. In tale opera di comunicazione, per Heidegger, la poesia tragica greca può completare la filosofia.12

2.2 Le lezioni sul discorso del coro nel primo stasimo dell’Antigone

L’interesse iniziale di Heidegger per l’Antigone risale ai primi passi mossi nella Kehre, ed è strumentale al duplice scopo dell’Introduzione alla metafisica di ricercare nuove strade oltre la tradizione metafisica dopo il fallimento dell’impegno politico filonazista e individuare un fondamento inedito nel linguaggio istitutivo per sensibilizzare alla chiamata patita dall’uomo.13 Una simile indagine non può essere una risposta, ma solo una continua domanda storica che interroga direttamente l’essere, e in questo contesto l’ascolto della parola poetica greca sull’esser-uomo contenuta nel discorso del coro è, per Heidegger, un aiuto decisivo. Il filosofo tedesco si propone di percorrere tre vie per estrarre dai versi un’interpretazione capace di rischiarare l’essenza umana con il lume poetico.

La prima via rintraccia le tre parole che descrivono l’uomo. Il coro esordisce: «Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia di più inquietante dell’uomo s’aderge».14 L’uomo è τò δεινóτατον, il più inquietante (das Unheimlichste), in un duplice senso, sia come oggetto della violenta potenza dell’essere che si manifesta nelle forze naturali, sia come soggetto che prova a servirsi di tali forze.15 Qui Un-heimliche è letteralmente ciò che in-quieta, ovvero estromette dalla quiete dell’abituale e della sua sicurezza familiare, invitando a uscire violentemente dalla propria comfort zone, per ingaggiare quella lotta che forgia il carattere dell’esserci. Secondariamente, l’uomo è παντοπόρος (per ogni via) ἄπορος (senza direzione),16 come pellegrino che «si apre in ogni direzione la via, si arrischia per tutte le sfere dell’essente, del dominio del predominante, e proprio allora vien gettato fuori da ogni strada»,17 consapevole che il proprio chiamarsi fuori dalla quiete non troverà mai la via per la tranquillità, ma soltanto vicoli ciechi che costringono a rimettersi in cammino. Il climax ascendente heideggeriano prosegue e, in terzo luogo, il viandante che si allontana da casa non solo non trova il riposo della giusta via, ma nemmeno il ristoro di un luogo ospitale, perché il suo destino è essere ὑψίπολις ἄπολις (l’essere senza fondamenta in ogni luogo dominato).18 L’uomo è ciò che più sorprende e inquieta perché ha l’onere di fare la storia, aprendo incessantemente strade nuove che non lo portano alla meta e fondando poleis in cui non riesce a trovare dimora.

La seconda via tenta di indagare le dinamiche che regolano il peregrinare in-quietante dell’uomo. La violenza dell’uomo deve riuscire a padroneggiare sia le forze della prima strofe, come il mare, la terra, gli animali viventi, che dominano all’esterno (umwalten), sia le forze della seconda strofe, tra cui la parola del linguaggio, l’intelletto, il sentimento e la passione, che dominano dall’interno (durchwalten). Tali forze sembrano concedersi all’uomo, ma di fatto gli nascondono la propria essenza e gli si offrono solo quel tanto che basta a compiere l’evento/avvento dell’esserci nel mondo e il dischiudimento parziale dell’essere nell’essente, utilizzando la terminologia precedentemente introdotta. Tenendo presenti le coordinate generali all’interno delle quali si muove il primo Heidegger, quello che si ha di fronte non è un processo di familiarizzazione, ma un’aspra lotta tra parti coessenziali che cercano di maturare la consapevolezza di essere: grazie al riconoscimento da parte dell’esserci, l’essente si scopre mare, terra e animale; domando la forza dell’essente con il nominare del linguaggio, l’esserci si realizza come essere storico.19

Ascoltando il discorso del coro, il conflitto avviene tra δίχη e τέχνη. Da una parte, più che alla giustizia o alla norma, la δίχη corrisponde in questo caso all’ordine naturale che, per mezzo delle forze esterne dell’essente, si costituisce λόγος originario per imporre la φύσις. Dall’altra parte, la τέχνη è una tecnica come sapere con cui l’esserci mette in opera l’essere come questo o quell’essente,20 rischiarando storicamente in modi inediti la φύσις stessa. Si chiarisce così il rapporto tra le due differenti accezioni in cui l’uomo è τò δεινóτατον: l’esserci si serve della τέχνη per fare violenza alla δίχη e far emergere l’essere di se stesso e dell’essente che è la δίχη stessa, ma in questo suo peregrinare storico rimane sottomesso alla δίχη, che non è mai vinta definitivamente né violata nella propria essenza, e continua a gettare l’uomo da una parte all’altra dell’ordine e del disordine. Ciò che c’è di inquietante in questo processo in cui l’uomo si fa è che, a prescindere dalla vittoria o dalla disfatta, si verifica sempre una fuoriuscita dal familiare: «Ottimamente esperto, il saper-fare / possedendo al di là della speranza, / cade talvolta in condizione vile / del tutto, altra ad eccelsa riesce. Tra lo statuto fisso della terra / e il diritto giurato dagli dèi prosegue la sua via».21

La terza via deve esercitare un’ulteriore violenza sul testo, per interpretare oltre la lettura scientifica, in cerca dell’essenziale.22 Heidegger vuole fare chiarezza sulla parola poetica con cui il coro bandisce l’uomo dal focolare cittadino: «Non divenga egli intimo del mio focolare, / né delle sue illusioni il mio sapere partecipe sia, / colui da parte del quale si compiono cose siffatte».23 Sono contenuti tutti in questi versi, per il filosofo tedesco, il destino dell’uomo e il suo compito di fare la storia, che chiudono il cerchio delle riflessioni del primo Heidegger e aprono la strada al suo pensiero successivo alla Kehre. L’essere affida al soggetto sempre lo stesso compito di curarsi del familiare per arrivare ad eromperne con tutta la violenza di cui la sua τέχνη è capace, dunque l’uomo non potrà mai conoscere l’appagamento del successo o la tranquillità del riconoscimento, perché il predominante ha bisogno del suo fare per apparire nella propria predominanza.24 Chi cercherà rifugio presso il caldo riparo della polis ne verrà bandito, in quanto a ognuno è richiesto di essere quel varco in·cidente per cui l’essere si apre nell’essente.25

2.3 Le lezioni sull’Antigone come dramma del farsi-di-casa

Le battute dedicate ai versi conclusivi del discorso del coro sono insufficienti, e la cura del non detto propria del verbo poetico non è ancora completa per Heidegger, che sette anni dopo la propria rilettura ritorna sull’Antigone, come emblema di quel farsi-di-casa storico al centro di una svolta ormai ben indirizzata e consapevole della meta da raggiungere. In occasione di un corso pubblicato soltanto nel 1984, nel volume L’inno der Ister di Hölderlin, il filosofo tedesco prova a riconsiderare la storia di Antigone nella sua interezza, per rappresentare con tonalità meno aspre e più quotidiane la posizione dell’uomo nella declinazione storica dell’ontologia fondamentale. Heidegger riprende da dove si è fermato, interrogando le vicende narrate da Sofocle per ritornare sul ripudio del coro: «Chi è ripudiato, qui? Da quale focolare è tenuto lontano il condannato? Chi condanna, qui? Chi è presso il focolare e che cos’è il focolare?».26

Il primo aspetto da considerare è che l’Antigone, e, oltre Heidegger, tutta la Saga dei Labdacidi sembrano ruotare intorno a differenti modalità di παθεῖν τὸ δεινὸν, una sopportazione attiva del destino inquietante dell’uomo, in cui la commistione di azione e passione promette un’esperienza autentica soltanto a chi accoglie il proprio mandato. A ben vedere, tutti i principali protagonisti della saga entrano in contatto con il δεινόν. Edipo, «d’opulento, / fatto mendico, e di veggente, cieco»,27 tenta di affrontare la sorte di straniero che lo attende, prima fuggendo dai presunti genitori Merope e Polibo, per timore della profezia di Apollo, poi invocando l’esilio da Tebe quando scopre che la profezia si è avverata, ma di fatto ciò a cui mira è sempre una stabilità che non può essergli concessa e che, nella propria impossibilità, lo condanna ad un’esistenza di rimorso e rancore.28 Ismene si mostra sensibile alla chiamata del δεινόν, anche se non abbastanza, infatti soffre per le pene del padre ma non lo segue nel momento della cacciata da Tebe e, all’inizio dell’Antigone, si preoccupa per la sorella, ma risponde comunque negativamente all’appello dell’essere oltre i ragionevoli confini della δίχη: «Ma dare la caccia come inizio a ciò contro cui non si può erigere nulla è fuori della disposizione».29 Creonte va oltre la paura di Ismene e il risentimento di Edipo, «si abbassa a mero vagheggiamento e si irrigidisce»,30 imponendo a sé e al popolo una legge di fatto arbitraria: «E palesemente osi violare questa (mia) legge?».31 La risposta di Antigone alla domanda dello zio è chiarificatrice:

Non fu Zeus, infatti, ad ordinarmelo, né colei che è di casa tra gli dèi inferi, Dike, i quali posero questa legge tra gli uomini e il tuo ordine non mi sembrò tanto forte da poter superare con il suo umore tutto umano la sentenza di dèi non scritta non oscillante. Questa legge non è in vigore solo ora, né lo è stata ieri, ma è stabilmente in vigore. E nessuno sa da dove mai provenga.32

Più forte della voce di un sovrano superbo è il richiamo dell’essere a un destino umano che dischiude la verità di esserci, ente ed essere a quell’inquietudine che può dare dimora solo a chi accetta di allontanarsi da ciò-che-è-di-casa. Alla fine della saga sofoclea, l’unica che riesce ad accasarsi è colei che ha sacrificato la propria giovinezza alla guida dell’esule padre cieco, non temendo di andare incontro alla morte pur di rimanere fedele al proprio inquietante destino. Antigone è l’eroina che accetta di abitare il patimento e l’esperienza di quell’essere che è destinato ad apparire, riabilitando così la storia dei Labdacidi.

Heidegger ha finalmente tutti gli elementi di cui necessita per rispondere alle domande lasciate in sospeso. Il focolare di cui parla il coro è Παρέστιοσ,33 lo stare presso il cuore ardente che fa da sede domestica di ogni esserci ed ente, che può farsi dimora solo per chi accetta il πέλειν, un sopravanzare muovendosi e un riposare in sé durante il cambiamento. Un pellegrino che supera lo spaesamento per una δίχη violentante e continua ad accasarsi con la propria τέχνη. Chi, come Antigone, accoglie il proprio destino, fa la storia senza scordare da dove viene. A meritare il duro ammonimento contenuto nel bando del coro è chi invece, come Edipo, Ismene e Creonte, si lascia sopraffare dall’inquietudine e dimentica che l’essere-di-casa può realizzarsi solo passando per l’essere-spaesato. Ad ammonire sono gli anziani di Tebe, ormai padroni di un sapere autentico circa il focolare («delle sue illusioni il mio sapere partecipe non sia») e consapevoli del destino umano. Essi, come nonni saggi, cercano di spronare i protagonisti della tragedia, evidentemente inesperti delle cose del mondo, a non lasciarsi spaventare dal salto nel vuoto che li separa dalla dimora di un’esistenza autentica nell’essere («Non divenga egli intimo del mio focolare»). Edipo, Ismene, Creonte e Antigone sono già tutti nel focolare dell’essere dall’inizio alla fine della loro storia, ma affrontano il suo inevitabile δεινόν in modi diversi. Alla fine, conclude Heidegger, l’Antigone non è la tragedia del conflitto tra stato e religione, ma il dramma del farsi-di-casa: l’esser-spaesato autentico di Antigone dischiude l’essere nell’ente, recuperando così il proprio senso di appartenenza al focolare, mentre l’esser-spaesato inautentico degli altri si fa arrogante di fronte all’ente e dimentica il focolare.34

3. La creazione dell’uomo incarnatore nell’elaborazione mitica di Hersch

3.1 L’elaborazione di un’ontologia della forma

I contenuti dell’interpretazione heideggeriana risultano a questo punto piuttosto chiari. Ciò che va ulteriormente esplicitato è la duplice evoluzione dell’analisi del filosofo tedesco. Da un lato, l’iniziale intenzione di raggiungere il fondamento originario per vie dirette attraverso un’ontologia fondamentale viene presto delusa, passando progressivamente dall’intelletto certo matematico ad un phronein che parte dal cuore ed è inverato dall’essere. «All’inizio, se mai può esserci l’essenziale, non ci siamo noi»,35 quindi ogni discorso sul principio viene sempre dopo e lo scarto va colmato attraverso la paziente attenzione alle occasioni in cui esso si dischiude, in un vuoto e una possibilità che non saranno mai un dato e un pieno possesso. Ecco l’importanza del linguaggio e della parola poetica, per cogliere meglio una genesi dell’uomo che si ritrae anche mentre si dà. Dall’altro lato, l’impossibilità di una via diretta necessita del passaggio per la dimensione pratica, così alla considerazione della sola dinamica generale teorica dell’evento dischiudente nelle lezioni sul discorso del coro deve seguire la poetizzazione dell’evento dischiudente in un caso pratico nelle lezioni sull’intera Antigone. Una techne che si limita a piegare meccanicamente la forza dell’essente per costruirsi un riparo dalla violenza del deinon rischia l’inautenticità della dimenticanza del focolare e dell’essere, se non si inserisce in una phronesis vissuta che, con sguardo fisso all’obiettivo da raggiungere, lavora quotidianamente per proseguire il proprio cammino di autenticità, senza lasciarsi distrarre dall’impeto con cui la dike resiste all’opera di in·cisione dell’essere.36 Tali indicazioni sono essenziali per poter confrontare Heidegger e Hersch.

A differenza del filosofo tedesco, Hersch si è più volte definita un’esistenzialista, dal momento che si è sempre concentrata sull’irriducibilità della libertà e sulla paradossalità della condizione umana che ne consegue.37 Questa indicazione suggerisce un primo punto di contatto con Heidegger, perché anche la riflessione della ginevrina ruota intorno all’originale condizione umana, che non può avere accesso diretto all’essere, pur essendo l’uomo il solo che può curarsi del dischiudimento dell’essere stesso. Forte dell’interiorizzazione del pensiero del suo maestro Jaspers e di Kant, nella propria tesi di dottorato, intitolata Essere e forma, Hersch muove dall’impossibilità kantiana di conoscere la cosa-in-sé e cerca di chiarire le dinamiche attraverso cui ogni soggetto si crea la propria realtà a partire da ciò che gli rimane degli oggetti incontrati. Muovendosi nel mondo, il soggetto incontra oggetti che attirano la sua attenzione, e allora cerca di esercitare la propria presa su questa materia. Dallo scontro tra la presa, che cerca di conquistare l’essenza della materia, e la materia, che nella sua durezza impenetrabile di cosa-in-sé si lascia soltanto scalfire, il soggetto ricava una forma, la scheggia dai lineamenti soggettivi che si è staccata dalla materia nell’urto, e che il soggetto collezionerà nella propria realtà, insieme ad altre forme, nel tentativo infinito di ricostruire l’unità celata dalle cose-in-sé. Alla fine di Essere e forma, l’obiettivo dell’uomo è essere l’incarnatore, ovvero colui che supera la prova d’esistenza e riesce a trovare uno spazio nel mondo alle forme prese.38

Nel 1950, quattro anni dopo la pubblicazione di Essere e forma, La transcendance du singulier presenta alcune rilevanti aggiunte. Il soggetto è attirato da ciò che ancora «non è, ma che merita di essere»,39 grazie alla libertà di cui è dotato. Ricordando la cifra jaspersiana, in questi oggetti il soggetto intravede qualcosa che per lui ha valore, di qui la scelta di esercitare la presa su quella materia che costituisce un segno singolare della trascendenza, un’indicazione dell’Essere che solo quella libera interpretazione del soggetto può cogliere e va incarnata in una forma, pena la perdita dell’occasione di esistere e di mettere al mondo un’incarnazione del singolare. In un mondo governato dalla causalità determinista, il libero movimento dell’uomo può incarnare la novità di una singolarità voluta e di un’esistenza che si dà autonomamente un senso e una direzione. L’ontologia della forma herschiana è retta da una teoria gradualista della libertà,40 in cui quanto più un oggetto materiale è singolare, perché contiene il valore della trascendenza, tanto più la reazione della libertà del soggetto è intensa e la presa è vigorosa, incarnando nel mondo forme innovative, più ontologicamente dense di essere esistenziale.

La vicinanza tra il movimento dell’ontologia fondamentale heideggeriana e l’ontologia della forma herschiana è evidente se, passando dal linguaggio heideggeriano a quello herschiano, si sostituiscono l’essere con la trascendenza, l’esserci con l’esistenza e l’ente con il singolare incarnato in una forma. Rimane inoltre l’eco heideggeriana dell’uomo come pastore dell’essere nell’uomo incarnatore herschiano, e dell’inquietudine di un esserci che deve farsi-di-casa con l’innovazione della propria τέχνη tra le forze di una δίχη, se si considera il duro lavoro di incarnazione con cui il soggetto cerca di ricavare uno spazio per la propria esistenza libera tra le mute cose-in-sé materiali del mondo. Enfatizzare eccessivamente la somiglianza tra il pensiero di Heidegger e Hersch potrebbe risultare semplicistico e fuorviante, ma, nonostante si siano fornite solo alcune indicazioni generali sulle riflessioni della ginevrina, non si può non notare una concordanza sull’onerosa condizione umana, costretta a battere strade nuove in un contesto spaesante e responsabile della custodia/incarnazione dell’essere/trascendenza nell’esserci/esistenza e negli enti/forma. Anche Hersch ha elaborato una rilettura extra-filosofica in grado di fare luce sulla natura umana. Ripercorrendola, sarà possibile apprezzare un altro tratto comune ad Heidegger ed Hersch, vista l’attenzione di entrambi alle indicazioni imprescindibili del linguaggio letterario, meno scientifico ma anche più evocativo e originario.

3.2 La nascita di Eva dallo scontro di Dio con se stesso

Circa la creazione e altre questioni che vanno oltre l’umano, Hersch ha sempre sostenuto che non si possono dare risposte logiche, ma soltanto pensabili. Memore della lezione jaspersiana sulla rilevanza dell’alogico, la ginevrina ha tentato a più riprese di spingere la propria filosofia ad esprimersi con linguaggi alternativi, che si staccano dalla forma intellettiva per avvicinarsi al cuore libero dell’esistenza, scrivendo componimenti che completano e incarnano il suo pensiero, «testi in cui la filosofia abbandona i sentieri che le sono consueti, per divenire, semplicemente, più filosofica».41 Starobinski ha raccolto ne La nascita di Eva questi scritti herschiani, in cui la parola si scioglie dai vincoli per scoprirsi libera di inseguire la verità attraverso invenzioni personali di immagini e metafore che trovano risposte primordiali nella concretezza significativa di situazioni particolari. Anche in Hersch, ancora più che in Heidegger, la forma comunicativa deve spingersi oltre la certezza del ragionare scientifico, per stabilirsi in una quotidianità che rende più fedelmente l’esperienza di ciò che il pensiero non può catturare da solo. Il vissuto può prendere in forme nuove la materia che ha valore, e solo per esso passa la sedimentazione incarnativa di tali forme nel mondo e nell’esistenza.42

All’interno de La nascita di Eva, due contributi si servono dell’espressività e dell’immaginazione alogiche del mito per ripensare la Creazione. Il primo componimento è Dio contro Dio, scritto in occasione del sessantesimo compleanno di Jaspers, in cui Dio avverte di essere come assopito nella propria forza immensa, quasi schiacciato dall’essere che eternamente lo contraddistingue, e bisognoso piuttosto della possibilità di una differenza, di uno spazio di manovra, per garantirsi una posizione eccentrica in cui specchiarsi e prendere consapevolezza di sé.43 Proprio la sofferenza per non riuscire a creare qualcosa di diverso permette a Dio di avvertire per la prima volta la mancanza e l’assenza, e, grazie al concepimento di questo scarto da colmare, «la mancanza consentì a Dio di creare fuori di sé».44 Dio riesce così a generare il mondo e, per vincere la propria solitudine, vi crea l’uomo, facendolo suo simile, con un’intelligenza e capace di amare, costringendolo a muoversi per le strade del molteplice con categorie formali senza contenuti precostituiti, spinto dal desiderio per qualcosa che dà senso ma sembra spostarsi asintoticamente con il soggetto, perché un punto di vista storico non potrà mai abbracciare la totalità trascendente.45 L’uomo diventa un «campo di battaglia di Dio contro Dio»,46 in cui Dio stesso impara come amare e rendersi oggetto d’amore, precludendo all’uomo la perfezione, per preservare la differenza, ma lasciandogliene il ricordo, per tener viva la relazione nella tensione verso l’alterità mancante: «L’Altro nacque, mostruoso, i cui vuoti, le cui escrescenze innalzavano, sotto i ritocchi divini, un Possibile che Dio stesso non aveva mai nemmeno concepito. Gli uomini furono. Tanto attratti da Dio, tanto prossimi a Lui che nessun assassinio, nessun gesto blasfemo poteva separarli. E Dio li amò».47

Il secondo componimento, Eva o la nascita eterna del tempo, intravede nell’Eva di Autun, scolpita da Gislebertus, la de-cisione dall’oggetto che fa ex-sistere ogni soggetto,48 che si tratti del Dio di Dio contro Dio o, in questo caso, dell’uomo. Eva, genitrice dell’umano, viene rappresentata nel momento in cui sorge dall’indeterminatezza della materia, l’orizzontalità da cui emerge il bassorilievo, sufficientemente estesa per fare da base, ma che necessita dello spessore verticale dell’intensità con cui il soggetto si dà dei lineamenti nella scelta.49 È questo il momento in cui Eva passa dal presente eterno al presente assoluto, quando la puntualità oggettiva cela la durata soggettiva, perché la donna comincia ad esistere, ancora intorpidita e coi lineamenti duri, aspri, di chi nasce all’esistenza nella colpa dell’esilio. L’atto ribelle, causa del bando divino, sembra passare in secondo piano, perché Eva si tende al primo ascolto stupito e spaventato del mondo e di se stessa,50 eppure la prova del gesto compiuto rimane lì, scolpita nella pietra per l’eternità, in quel frutto rimasto attaccato alla pianta al centro della scena, che scandisce l’estensione verticale del bassorilievo. Proprio il ramo che si slancia verticalmente nell’orizzontalità della materia sembra simboleggiare l’intensità di quella scelta che, nella condanna o occasione di esistere, de-cide tutta la scena nella sua significatività. Dalla disobbedienza di Eva nasce la possibilità di una seconda Creazione nel mondo:

Eva disobbediente, creata per questa disobbedienza che doveva fendere l’eternità e farne sanguinare il fiotto ambiguo di linfa, grazie al quale tutto è iniziato in un unico istante. […] Disobbedienza strumentale, gesto di Eva con cui Dio compie la sua seconda Creazione, affidando la prima a qualcuno che l’amerà diversamente da come Dio ama: sotto minaccia di morte.51

Si comincia a comprendere la rilevanza di Hersch nel discorso che si sta portando avanti: sicuramente il pensiero herschiano è meno noto ed autorevole rispetto a quello di Heidegger, ma la ginevrina sembra spingere ancora oltre il movimento del filosofo tedesco verso la dimensione non scientifica e l’esperienza pratica delle riflessioni teoriche portate avanti, con quella pietas sensibile al reale tipica di tante filosofe del Novecento, quel fare proprio della domestica, riconosciuto ad Hersch da chi l’ha conosciuta personalmente, che lavora umilmente nella quotidianità per fare ordine con buon senso e pazienza, senza che qualche retorica ideologica possa distrarre dalla mansione affidata. La Kehre heideggeriana attraverso la storicità dell’esserci viene fissata dalla pensatrice svizzera nel paradosso morale di un essere umano che può esistere solo incarnando ciò che vuole, attualizzando nel mondo naturale ciò che vale per lui.52 Dal momento che la via diretta alla trascendenza è preclusa, l’unico modo per avvicinarsi ad essa è imboccare una svolta indiretta che la colga in un singolare e le dia una forma reale. Come accennato poco sopra, l’esistenza è un ex-sistere del soggetto che emerge dalla materia indeterminata, scegliendo un oggetto e de-cidendosi da esso e dal resto della materia, ovvero dandosi dei limiti che permettano di riconoscersi dei lineamenti personali.

Se in Heidegger l’essere non si può conquistare una volta per tutte ma comunque lascia all’esserci indicazioni non indifferenti, in Hersch non c’è esilio che possa far dimenticare l’amore per una trascendenza che rimane presente nel singolare, anzi, proprio questa distanza si scopre necessaria a non soffocare l’amore, a rendere possibile un cammino desiderativo di avvicinamento all’amato.53 Si delinea così un’ontologia di carne e vuoto,54 il cui soggetto scopre di essere diventato davvero qualcosa quando prende coscienza della crepa nell’essere che lo separa da ciò che esso non è. Il deinon originario custodito dalla parola del coro è ora un’esperienza di tutti i giorni, la quotidiana alternativa dell’umano tra il possesso della totalità e la libera creazione dell’esistenza. Ad essere inquietante è la scoperta che, per non rimanere nella materia indeterminata, l’uomo deve accettare di essere esiliato dalla trascendenza. Questa è la conditio sine qua non per un rapporto vero con l’Essere, perché nella separazione totale e nell’identità non si dà relazione, e allora solo la consapevolezza della distanza da ciò che si vuole può mantenere in vita uno slancio umano, l’unico che può innovare il determinismo del mondo naturale. Inquietante è de-cidersi a passare dall’esilio forzato della pienezza dell’Essere all’addio consapevole che abbraccia il dono della possibile pienezza di esistere.55 Esistere è accettare i propri limiti e darsene di nuovi, per scolpirsi nel mondo limitazione dopo limitazione, giurando fede a ciò che ha soggettivamente valore e dando ad esso forme incarnate che onorano una possibilità abbandonando tutte le altre. Come afferma De Monticelli, una filosofia dei contorni.56

Qui si inserisce la principale differenza tra Hersch e Heidegger, riscontrabile nell’atteggiamento in risposta alla condizione umana. Hersch è tra i pochi esistenzialisti ad arrivare a cogliere nell’inquietante condizione umana la gioia della possibilità di un minor creare,57 la seconda creazione incontrata ne Eva o la nascita eterna del tempo, che non consiste in una creatio ex nihilo, ma nel dare alla materia già disponibile una forma nuova, quell’organizzazione soggettiva ispirata dall’oggetto di valore, che decristallizza la causalità naturale.58 Ancora con De Monticelli, si può capire la rilevanza di Hersch nel presente contributo, perché, come già intuito con Heidegger, la trascendenza chiama, e l’interpretazione del richiamo può risultare decisiva. La risposta della ginevrina appare essere il giusto stimolo per passare dall’esilio all’addio, perché è concepita nello stupore e nella gratitudine che, nella vocazione incarnatrice bandita dall’Eden, permettono di soddisfare il desiderio di restituzione e consentono di comunicare agli altri, nel pensare e nel fare, la ricchezza di ciò che ha colpito il soggetto.59 Il mondo è pieno di materia da leggere come cifra jaspersiana della trascendenza del singolare e di altre esistenze da mimare,60 per scoprire modi inediti di essere liberi e dialogare con essi, nel tentativo di incarnare sempre meglio la propria realtà. Essere uomo è la tragedia del pellegrino senza via e senza città che si fa protagonista della violenta lotta tra le forze della δίχη e la sua sottomissione con la τέχνη per dischiudere l’essere dell’ente, ma è anche l’occasione di restituire il valore in un’incarnazione che fa fare esperienza della pienezza di un’esistenza libera.61 Al soggetto la libertà di scegliere come prendere la propria missione.

4. Una zuppa di sasso e la prospettiva intersoggettiva della missione umana

Tra Heidegger e Hersch, il linguaggio non scientifico può dire cose essenziali, meno logicamente certe ma più dirette. È il caso della poesia tragica di Sofocle e della parola mitica presa in prestito da Hersch. Una favola, con l’immediatezza e la vaghezza che la caratterizzano, per essere immediatamente percepita come familiare persino da un bambino, pur senza obbligare ad interpretazioni univoche, può esplicitare ulteriormente le potenzialità del linguaggio non scientifico. Se a ciò si aggiunge un autore che non è filosofo, la vicinanza alla semplicità del vissuto e la lontananza dall’astrusità dell’elaborazione teorica raggiungono i massimi livelli. Per questo motivo, l’orizzonte filosofico delineato con Heidegger e Hersch può aiutare a proporre una lettura inedita de Una zuppa di sasso, ma questo racconto può a sua volta incarnare nella concretezza ordinaria le riflessioni sul modo in cui l’uomo abita il mondo, coerentemente con l’obiettivo dichiarato del presente contributo. Come già accennato, c’è una trama comune alle diverse versioni del racconto che si sono affermate nel tempo, ma quella di Vaugelade, scrittrice e illustratrice di storie per bambini tra le più conosciute in Francia, sembra essere quella più adatta a dialogare col percorso fin qui delineato, soprattutto per la scelta di trasformare i protagonisti in animali, rendendo il racconto una favola a tutti gli effetti, e per la spontaneità con cui i personaggi contribuiscono alla preparazione della zuppa di sasso, a differenza delle versioni in cui il viandante raggira o comunque chiede a chi lo ospita gli ingredienti da aggiungere.

È una notte di inverno. Un vecchio lupo sdentato arriva al villaggio degli animali e bussa alla casa della gallina, chiedendole ospitalità. La gallina è spaventata, ma anche curiosa, e accetta di far entrare il lupo, che chiede di preparare una zuppa di sasso.62 Sotto gli occhi della gallina, ancora diffidente ma comunque disponibile verso l’ospite, il lupo stanco e sospirante si fa portare una pentola con dell’acqua, per bollire il sasso. La padrona di casa propone di aggiungere del sedano per dare sapore alla zuppa e l’ospite approva. Uno dopo l’altro, gli animali del villaggio si affacciano sull’uscio della casa della gallina, per assicurarsi che stia bene, ma la diffidenza che si legge sul loro volto è vinta dalla rilassatezza e dalla gioiosità dei compaesani arrivati in precedenza e già riuniti intorno al fuoco, pronti ad assaggiare la zuppa. Ogni commensale aggiunge qualcosa, con la propria personalità, secondo le caratterizzazioni stereotipate degli animali tipiche delle favole, e con un ingrediente segreto, quello che preferiscono quando devono preparare una zuppa.

«Ora tutti siedono in circolo attorno al fuoco. Si raccontano barzellette, discutono. La gallina esclama: “Com’è bello essere tutti insieme! Dovremmo organizzare delle cene più spesso”».63 Il porcello ammette di aver pensato che per cena si sarebbe mangiato brodo di gallina e l’oca chiede al lupo di raccontare qualche storia, ma con uno sguardo risvegliato, l’animale annuncia che la zuppa è pronta. L’atmosfera è ormai leggera, «Il lupo serve tutti gli animali. La cena dura fino a tardi, ognuno si serve per ben tre volte».64 Improvvisamente, il lupo si alza, tira fuori un coltello e infilza il sasso, ma si accorge che non è ancora cotto, allora se lo riprende e si incammina verso la porta, fissando meditabondo la pietra. Gli altri, sinceramente dispiaciuti, lo invitano a rimanere e chiedono se tornerà, ma la testa del lupo è altrove, mentre abbandona i tetti fumanti del villaggio, incamminandosi tra la neve, verso l’oscurità.65 Nella scena successiva, che chiude il libro e il racconto, il lupo è di fronte alla casa del tacchino.

Il lupo, predatore per eccellenza nelle favole, arriva nel villaggio degli animali, in cui la δίχη sembra regnare incontrastata, lasciando scorrere la vita nel determinismo di una quotidianità che procede per inerzia. Ha una fame insaziabile e viene nel villaggio per sconvolgerlo con la sua τέχνη, assolutamente disposto a servirsi dei propri mezzi per raggiungere l’obiettivo prefissato. Il lupo di cui si parla è però sui generis, non segue l’ordine naturale e lo sconvolgimento che sta per portare non è quello che tutti si aspetterebbero. È vecchio e stanco, si sposta di villaggio in villaggio con un sasso che è troppo duro e non riesce a mangiare, perché non ha più denti, forse li ha persi proprio cercando ripetutamente di addentare la pietra. Sera dopo sera, cerca qualcuno che gli dia ospitalità e lo aiuti a cuocere il sasso, per poterlo finalmente mangiare. Ricorda molto da vicino Edipo, condannato all’esilio fino alla morte, e più in generale l’esserci inquietante che imbocca strade sempre nuove, fondando poleis ad ogni incrocio e ripartendo ogni volta verso altre mete, non sentendosi mai veramente a casa. Di Edipo, il lupo non conserva però lo spirito, perché, a differenza del personaggio sofocleo, non cerca affatto di ribellarsi al destino, con la veemenza di chi non si è ancora rassegnato a non avere un rifugio sicuro. Piuttosto, l’animale prosegue stanco e mite il proprio percorso, e non manca di scuotersi prontamente quando, ogni sera, la zuppa sembra finalmente pronta, riflettendo con attenzione e gratitudine sulle esperienze fatte di volta in volta, senza lasciarsi vincere dalla delusione per un sasso che ancora non è abbastanza cotto.

Gli altri animali del racconto conducono una vita tranquilla. Tale tranquillità è diversa dalla mitezza del lupo, perché il vecchio predatore ha accettato il proprio destino inquietante, mentre gli altri animali vivono la piattezza di un’abitudine priva di profondità, scordandosi del calore del focolare che li ospita. Non sembrano avere problemi particolari, ma si sono confinati in un porto sicuro, che non consente di ripartire in mare aperto e riprendere il cammino. Si sono fermati, hanno optato per la quiete del rapporto inautentico con qualche ente, perdendo di vista il senso di appartenenza che deriva da una relazione autentica con l’essere. Pur avendo una casa nel villaggio, è il lupo, lo straniero senza una fissa dimora, a far provare agli altri animali il calore del focolare domestico, nell’incontro e nella condivisione spontanei per perseguire un fine comune, aggiungendo l’ingrediente segreto che solo l’esperienza personale e unica di ognuno può offrire. Gli altri animali avevano dimenticato la pienezza della ricerca, anche se la ricerca in questione è la preparazione di una zuppa a partire da un sasso bollito. Così come avevano dimenticato la pienezza della comunione.

È allora in-quietante l’arrivo del lupo nel villaggio, ma lo stravolgimento della δίχη intorno a cui ruota la favola non va nella direzione della violenza enfatizzata da Heidegger e che ci aspetterebbe da un lupo. Ci sono indubbiamente un oggetto inespugnabile, il sasso che resiste ad ogni cottura, e la difficoltà di un destino, quello del lupo che non conosce riposo, ma la durezza dell’esilio in questione è messa in secondo piano da un addio che ha accettato la propria condizione perché ne vede la grande promessa. A dominare la scena sono, con Hersch, la voglia di provare ancora a fare presa su quella materia di cui non si riesce a raggiungere il cuore, la condivisione del percorso con altri che offrono il loro contributo per cogliere forme sempre nuove, il circolo virtuoso che si genera quando chi porta avanti una ricerca autentica riesce, con il proprio essere,66 a scalfire la ritrosia degli altri, incuriosendoli prima e ispirandoli dopo. L’uscita dalla quiete che ne consegue è il ricordo, grato e stupito, disorientante ma non aggressivo, di quella vocazione che sola, pur tra inevitabili e intrinseche difficoltà, è in grado di farsi-di-casa nell’essere-spaesato e di rimanere in rapporto con la trascendenza soltanto incarnando sempre meglio i limiti che separano da essa. Il momento in cui si può condividere serenamente il calore del focolare come παρέστιοσ non è né quello della tragedia di chi si irrigidisce nel proprio rapporto inautentico con l’ente né quello scolpito nell’incertezza della solitaria cacciata che confina nel mondo terreno, bensì l’incontro tra soggetti che donano la propria unicità per cercare insieme di ammorbidire la durezza di un sasso che non ne vuole sapere di cuocersi.

Il sasso che il lupo non riesce a far ammorbidire in nessun villaggio, con nessuno degli ingredienti che i padroni di casa gli offrono, è quell’essere che la τέχνη umana cerca invano di conquistare attraverso l’ente, o quella cosa-in-sé materiale da cui nessuna presa riesce a ricavare più di una forma soggettiva. Sapere che l’Essere non verrà mai posseduto e il sasso non sarà mai cotto è certamente inquietante, ma, recuperando Hersch, l’impossibilità del possesso è garanzia della relazione con l’oggetto desiderato e del cammino che esso comporta, con tutte le acquisizioni del caso. Se fosse stato possibile bollire il sasso, il lupo avrebbe smesso di vagabondare di villaggio in villaggio, perdendo lo sprone che anima la sua ricerca, non incontrando gli altri animali con i loro ingredienti segreti per fare una zuppa di sasso, mancando l’occasione di risvegliare al focolare e all’esistenza altri suoi simili, smarritisi in una quotidianità che dimentica l’intensità perché disorientata dall’estensione. Senza il sasso da cercare di cuocere con uno sforzo comune, la vita degli animali sarebbe andata avanti quieta nell’inautenticità e il lupo stesso avrebbe perso il senso della propria esistenza, o quanto meno non avrebbe potuto incarnarlo.

L’incontro che anima la favola non ci sarebbe stato senza un lupo vagabondo e il suo sasso impossibile da bollire, ma non ci sarebbe stato nemmeno se il lupo fosse stato l’unico protagonista o se la gallina non lo avesse accolto, e gli altri animali con lei. L’incrocio su cui l’esserci può fondare una polis è l’incontro di soggettività isolate che fa nascere una comunità in cammino verso un fine condiviso. Allora, il vero tassello che Una zuppa di sasso aggiunge all’Antigone di Heidegger e al mito della Creazione di Hersch è l’importanza di condividere la missione umana di dare luce ad una novità nel mondo. L’incontro con l’Essere negli oggetti trovati sul proprio cammino è facilitato e amplificato dalla relazione con gli altri percorsi, che offrono ricette diverse per soddisfare una fame comune, quindi cura e apertura vanno conservati tanto verso l’essere quanto verso gli altri esserci. Con Hersch, il dono di una libertà che consente di incarnare ciò che ha valore è già un’occasione preziosa, ma questo desiderio incarnativo è anche desiderio di restituzione, e non può esserci restituzione se il soggetto non ha altri a cui offrire sé e le proprie forme. La favola di Vaugelade rende immediatamente comprensibili le dinamiche delineate con Heidegger e Hersch, arricchendole con una prospettiva intersoggettiva: per sperimentare la pienezza che ricompensa la missione umana, il soggetto deve offrire agli altri il percorso della propria esistenza e, al tempo stesso, accogliere i percorsi che gli altri offrono a lui. Grazie alla gallina che si af-fida ad aprire la porta e agli altri animali che, progressivamente, non lasciano l’ultima parola alla diffidenza verso il predatore inquietante, il lupo può continuare a fondare poleis e proseguire la propria ricerca, sperando che, la sera successiva, anche il tacchino si af-fiderà.

In conclusione, la parola non scientifica e la dimensione pratica dell’ordinarietà aiutano il soggetto ad accogliere ciò che la sua logica razionale non potrebbe mai accettare da sola, contro ogni seduzione di possesso della totalità o fuga nel rapporto inautentico con qualche ente. L’uomo abita il mondo in un modo tutto suo, come unico tramite tra il mondo naturale e ciò che lo trascende. Finché ascolta e domanda, la peculiarità del soggetto è di poter cogliere nel singolare materiale una traccia dell’Essere trascendente, grazie alla sua capacità di eccentricità rispetto alla pienezza indeterminata della causalità determinista. Poter agire diversamente, in vista di un fine voluto piuttosto che di un effetto causato, significa avere uno spazio vuoto di manovra, una distanza incolmabile come differenza ontologica che separa da una totalità impossibile da possedere. Essere uomini è avere il privilegio di un punto di vista particolare in grado di relazionarsi con l’universale, che intravede ciò che vale e può incarnarlo nel mondo, per aprirvi una finestra che faccia entrare l’aria della libertà; ma tale privilegio significa anche essere limitati e manchevoli, avere la responsabilità dell’atteggiamento con cui si prende la propria inevitabile inquietudine, dover fare delle scelte e avere bisogno dell’aiuto degli altri soggetti, per incarnare una realtà dai connotati sempre più simili a qualcosa di valore, con un’ardente passione desiderativa che non lascia mai spazio al riposo della soddisfazione, gettati in un gioco che non si è mai i primi a cominciare. L’uomo abita il mondo in un modo tutto suo, con l’onere dell’uscita inquietante dall’abitudine per poter realizzare la propria autenticità e l’onore di sperimentare la pienezza nella limitazione di un’esistenza a cui dare lineamenti autentici, con gli altri e nel mondo.


  1. Nella ricostruzione della storia editoriale di questa favola ad opera della rivista letteraria Stone Soup, Soupe au Caillou di Madame de Noyer risulta essere la prima versione pubblicata (Cfr. https://stonesoup.com/about-the-childrens-art-foundation-and-stone-soup-magazine/history-of-the-stone-soup-story-from-1720-to-now/). ↩︎

  2. Cfr. A. Aarne, S. Thompson, The Types of the Folktale: A Classification and Bibliography, The Finnish Academy of Science and Letters, Helsinki 1961. ↩︎

  3. Lo studio Par ici la soupe au caillou! Ou comment des élèves accèdent à l’implicite du texte littéraire à l’école élémentaire offre a tale proposito un’analisi condivisibile: «Lo scenario è sempre lo stesso: un personaggio chiede ospitalità a dei paesani spaventati che gliela rifiutano. Egli chiede allora solo lo stretto necessario per fare una “zuppa di sasso”, e ciò riesce ad attirare l’attenzione dei paesani. Volendo ognuno “mettere il suo ingrediente segreto” nella ricetta, viene così preparata una buona zuppa collettiva e condivisa in una festa in cui i pregiudizi cadono (momentaneamente). La morale è chiara: il visitatore è riuscito a risvegliare la solidarietà, l’altruismo, la generosità nel cuore arido (come un sasso) dei paesani chiusi in se stessi. Li ha trasformati. Almeno per una sera» (D. ULMA, «Par ici la soupe au caillou! Ou comment des élèves accèdent à l’implicite du texte littéraire à l’école élémentaire», in Synergies Pologne, nr. 8-2011, p. 98 [traduzione mia]). E ancora: «Inoltre questo racconto pone un certo numero di problemi legati all’ellissi e alle inferenze, a causa del suo significato simbolico. Presenta infatti ellissi all’inizio e alla fine della storia: da dove viene il personaggio, cosa fa lì? […] Da questo punto di vista, questo racconto è atipico, perché non offre un antefatto contestualizzante o un happy ending. È ideale per un dibattito interpretativo» (Ibidem [traduzione mia]). ↩︎

  4. A. Ardovino, «L’Antigone di Heidegger. La tragedia come parola dell’essere», in P. Montani, Antigone e la filosofia, Donzelli, Roma 2001, p. 153. ↩︎

  5. «L’esserci, al livello più indeterminato, ma anche più condizionante, consiste nell’evento di una comprensione, la comprensione dell’essere, che presiede all’“apertura” del suo mondo, cioè a ciò che per ogni esserci è autenticamente essente. […] “Esserci” non è dunque principalmente un “pensare” o un “agire”, ma più in generale un “esistere”, di cui si fa esperienza avendo di volta in volta un commercio con determinati enti» (Ivi, p. 154). ↩︎

  6. Ibidem↩︎

  7. Ivi, p. 155. ↩︎

  8. «Nell’arco che si tende tra domanda e risposta (“che cosa è” – “questo”) è accaduto qualcosa: abbiamo determinato, dice Heidegger, l’“essere dell’ente”: in qualche modo ne abbiamo fatto esperienza, vi abbiamo avuto accesso in modo consapevole. Ma in base a cosa? In base a ciò in vista di cui questo ente, ad esempio, ci è utile. […] Ciò vuol dire allora che l’“essere” di questo ente, che è il suo “essere-cattedra”, è ciò che noi di volta in volta sentiamo, utilizziamo, nominiamo e comprendiamo come “cattedra”, proprio in vista del “senso” esistenziale predominante che essa ha per noi. Possiamo dire di più: che l’“essere” di questo ente […] è di fatto l’orizzonte all’interno del quale noi comprendiamo l’ente, in cui in certo modo esso ci è già manifesto, ci appare così e così, dotato di questi e questi altri tratti pertinenti» (Ibidem). ↩︎

  9. «Il senso dell’essere, il “rispetto-a-che” della comprensione dell’essere, sta in una temporalizzazione del nostro esserci: il tempo […] si rivela il senso eminente dell’essere» (Ivi, p. 156). ↩︎

  10. «Con la nozione di evento Heidegger fonda la temporalità originaria nel movimento dello stesso Essere [ora scritto Seyn]. Nell’evento le tre estasi temporali si coappartengono, così come era nel parlare [Rede] in Sein und Zeit. Ora è l’essere che si dà, che si consegna, e che si oblia. Heidegger nei Beiträge apre le dinamiche viste in Sein und Zeit, tenta un pensiero che colga l‘essere nella sua essenza [wesen]: essenziale [Wesung]. Se in Sein und Zeit Heidegger diceva che l’uomo è l’ente nel cui essere ne va di questo stesso, ora l’uomo è “quell’essente che in mezzo all’ente sopporta la verità dell’essere”. Nell’evento tempo e essere si raccolgono nel medesimo: “Tempo e essere accadono nell’evento”. L’evento stesso è la totalità nel suo darsi: “Non c’è nulla, al di fuori dell’evento, cui l’evento possa essere ricondotto, in base a cui esso possa essere spiegato”» (C. Paravati, «Le radici storiche della Kehre heideggeriana», in Philosophical readings, 2011, III.2, p. 24). ↩︎

  11. A tale proposito, Heidegger introduce la figura della quaternità (Geviert), tra uomini, dio, terra e mondo. Nell’evento avviene «una sorta di andirivieni tra l’incontro e l’abbandono reciproco, nel quale ciascun elemento scompare dalla vista dell’altro» (A. Ardovino, «L’Antigone di Heidegger. La tragedia come parola dell’essere», cit. alla nt. 4, p. 162). L’uomo deve accettare tanto la coappartenenza di questi elementi, quanto la centralità del proprio ruolo e la conseguente responsabilità di custodia, in quanto dalla sua capacità di lasciarsi interpellare dall’evento dipende il progresso del disvelamento dell’essere nella quaternità↩︎

  12. «Qual è, infatti, oltre alla filosofia, la possibilità dell’esserci in cui si fa avanti nel modo più evidente un’esperienza del linguaggio quale apertura e progetto dell’ente nel suo essere? Questa possibilità, radicalmente storica e contingente, è proprio la poesia, in particolare la poesia tragica, intesa qui come Dichtung. […] Il dicere di una Dichtung non è altro che l’esperienza di un “nominare originario”. Il poeta, in senso epocale, non è mai il custode di un lessico storico, […] ma è il custode di questa stessa tradizione e del linguaggio nel quale essa si attesta storicamente. Questa custodia si esplica secondo Heidegger nell’“apertura dell’essere” in base alla potenza del nominare» (Ivi, p. 164). ↩︎

  13. «Proprio nel tempo dell’indigenza spirituale dei popoli, quando il domandare metafisico sembra essere consunto e dimenticato, proprio allora la domanda metafisica fondamentale – “Che cosa ne è dell’essere?” – si impone come la questione storica più decisiva: “L’essere è una semplice parola e il suo significato evanescente, oppure esso costituisce il destino spirituale dell’Occidente?”» (C. Esposito, Heidegger, Il mulino, Bologna 2013, p. 105). ↩︎

  14. M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, trad. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1968, p. 156. ↩︎

  15. «L’essente nella sua totalità, in quanto si impone (als Walten), è il predominante (das Überwältigende) nel primo senso. Ora, l’uomo è in un primo senso δεινóν in quanto, appartenendo per essenza all’essere, risulta esposto a questo predominante. Ma l’uomo è in pari tempo δεινóν perché è colui che esercita la violenza, il violento nel senso del suddetto. (Egli raccoglie l’imporsi e lo reca in una apertura)» (Ivi, p. 158). ↩︎

  16. «Dappertutto aggirandosi, tutto esperendo per via, senza scampo, inesperto perviene al nulla» (Ivi, p. 159). ↩︎

  17. Ibidem↩︎

  18. «Dall’alto il luogo dominando, dal luogo escluso, tale egli è, a cui sempre è essente il non-essente, per amore del rischio» (Ivi, p. 155). Va qui notato che il temine polis, generalmente tradotto come città o stato, è da intendersi in Heidegger come il crocevia delle strade aperte dall’uomo nell’essente, ovvero il luogo che determina il soggetto, il ci dell’esserci che ne evidenzia la storicità. Una storicità che segna inevitabilmente il soggetto viandante, ma non lo esaurisce, in quanto è soltanto il punto di partenza da cui muoverà l’evento dell’incontro degli enti per diradare (Lichten) l’essere in maniera inedita. ↩︎

  19. «Questo aprirsi dell’essente rappresenta la violenza che l’uomo deve padroneggiare onde essere, in questo far-violenza in mezzo all’essente, se stesso, vale a dire se stesso come essere storico» (Ivi, pp. 164-165). ↩︎

  20. Cfr. Ivi, p. 166. ↩︎

  21. Ivi, p. 156. ↩︎

  22. Dal momento che già in precedenza si è accennato all’importanza di assumere un punto di vista extra-filosofico per superare i guadagni dell’approccio scientifico, in Heidegger come nel presente contributo, vale la pena riportare le parole esatte del filosofo tedesco: «Essa è soltanto l’inizio. L’interpretazione autentica deve farci vedere quello che non è nelle parole e che nondimeno è detto. A questo scopo è necessario che l’interpretazione faccia violenza. L’interpretazione scientifica stigmatizza come non scientifico ciò che oltrepassa i suoi limiti, ma è proprio là dove l’interpretazione scientifica non trova più nulla che l’essenziale deve essere ricercato» (Ivi, p. 169). ↩︎

  23. Ivi, p. 156. ↩︎

  24. «Ora, è proprio l’uomo a trovarsi costretto in una tale situazione, gettato nella necessità di un tale essere, perché il predominante come tale, per apparire nella sua predominanza, ha bisogno di un luogo per la sua apertura. L’essenza dell’essere-uomo ci si schiude solo se è intesa a partire da questa necessità necessitata dall’essere stesso» (Ivi, pp. 169-170). ↩︎

  25. «Quale varco per cui l’essere, messo in opera, si apre nell’essente, l’esserci dell’uomo storico è un in·cidente (Zwischen·fall), è l’incidente in cui, d’un tratto, le forze della strapotenza scatenata dell’essere si liberano ponendosi in opera come storia» (Ivi, p. 170). ↩︎

  26. M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, trad. it. C. Sandrin e U. Ugazio, Mursia, Milano 2003, p. 85. ↩︎

  27. Sofocle, Tragedie, trad. it. Di F. Bellotti, Sonzogno, Milano 1930, p. 24. ↩︎

  28. La complessa situazione di Edipo merita di essere approfondita, per l’importanza attribuitagli nella saga. Come afferma il coro dell’Edipo re, «E quant’ei più si crede in alto stato / viver securo, e più trabocca ad imo» (p. 44). Scoperta la verità, il re di Tebe non la accetta e si rende cieco pur di non vederla: «Ma il veder che valea / a me, se nulla or evvi più, che sia / dolce alla vista mia?» (Ivi, p. 48). Una volta in esilio, nell’incipit dell’Edipo a Colono, Edipo sembra aver finalmente familiarizzato con il proprio destino: «Chi d’alcun picciol dono oggi il ramingo Edipo sovverrà, che poco cerca, / e men del poco anco riceve? E questo / pur basta a me; chè d’acquetarmi a tutto / Le sventure m’insegnano, e la lunga / età compagna, e il forte animo mio» (Ivi, p. 253). Tuttavia, poco prima di morire, il padre maledice il figlio Polinice, venuto a chiedere aiuto, mostrando di non essersi pacificato con il destino di mendicante nemmeno in punto di morte: «E conobbi che l’ira in me trascorsa / era con la pena oltre la colpa, / tardi allor poi fuor la città cacciommi / della sua terra; e quei che al padre allora /potean porger soccorso, i figli miei, / far no’l vollero; ond’io per lo negato / lieve favor di poche lor parole / vo mendico esulando» (Ivi, p. 265). ↩︎

  29. M. Heidegger, L’inno Der Ister di Hölderlin, cit. alla nt. 26, p. 91. ↩︎

  30. Ivi, p. 96. ↩︎

  31. Ivi, p. 105. ↩︎

  32. Ivi, pp. 105-106. ↩︎

  33. «Che cosa intende dire la parola «focolare»? Il focolare è la sede dell’esser-di-casa. Παρέστιοσ (παρά e ἑστία); ἑστία è il focolare della casa, il luogo presso il quale stanno gli dèi del focolare. […] Παρά significa «accanto a», più precisamente «nella cerchia della stessa presenza»; παρέστιοσ è chi è presente nella cerchia dell’interpretazione e dell’intimità proprie della sede domestica ed appartiene allo splendore, al calore, al raggio di questo fuoco» (Ivi, p. 95). ↩︎

  34. «La parola conclusiva nasconde in sé il cenno all’azzardo non ancora dispiegato […], destinato però a compiersi nell’insieme della tragedia, di distinguere e decidere tra l’autentico esser-spaesato dell’uomo e l’esser-spaesato inautentico. Antigone stessa è questo supremo azzardo all’interno dell’ambito del δεινόν. […] Qui diventa chiaro come il gioco degli opposti in questa tragedia si svolga […] intorno alla densità interna dei contrasti del δεινόν stesso, nella misura in cui quest’ultimo è pensato come tratto spaesato: il gioco degli opposti si svolge tra l’esser-spaesato, inteso nel senso della lusinga di attività che nell’ente si risolvono in se stesse, e l’esser-spaesato come farsi-di-casa a partire dall’essere» (Ivi, pp. 106-107). Poche pagine prima, si legge: «Il detto dice del δεινόν e nomina il πέλειν, il sopravanzare che si muove, il riposare in sé continuando a cambiare. […] Qualunque sia il modo in cui il più inquietante cerchi una via di scampo e qualunque sia il modo in cui sia respinto e rimandato indietro, esso ricadrà pur sempre nella cerchia dell’essere. […] Il tratto spaesato continua a rapportarsi a ciò-che-è-di-casa. Posto che vi siano possibilità diverse di questo rapporto, allora vi sono anche modi diversi dell’esser-spaesato. […] Conosciamo solo colui che è spaesato, il quale con la lusinga di attività che si risolvono in se stesse cerca nell’ente ogni volta la via di scampo verso ciò-che-è-di-casa e la sede dell’ente. Tali attività non fanno che capovolgere l’ente nel non-ente. […] La condanna dice che colui che ha il tratto dell’inquietante ha una relazione essenziale con il focolare, relazione che però è di dimenticanza e di accecamento, con la conseguenza che egli non può avere l’essere nello sguardo e nel ricordo» (Ivi, pp. 98-99). ↩︎

  35. A. Ardovino, «L’Antigone di Heidegger. La tragedia come parola dell’essere», cit. alla nt. 4, p. 186. ↩︎

  36. Il rapporto tra techne e phronesis, con un’approfondita contestualizzazione delle lezioni heideggeriane sull’Antigone e un’introduzione al ruolo della tecnica in Heidegger, è tematizzato debitamente ne C. Pearson Geiman, «Heidegger’s Antigones», in R. Polt, G. Fried, A companion to Heidegger’s. Introduction to Metaphysics, Yale University Press, New Haven, 2001. Altri due utili riferimenti per comprendere la crescente rilevanza dell’evento dell’esperienza vissuta in Heidegger sono K. Withy, Heidegger on being uncanny, Harvard University Press, 2015 e J. M. Magrini, «Speaking the Language of Destiny: Heidegger’s Conversation(s) with Hölderlin», in Philosophical Writings, Durham University, 2014, Vol. 42, n. 1. ↩︎

  37. «Se dovessimo indicare in due parole l’oggetto costante del pensiero di Jeanne Hersch, dovremmo dire che il suo oggetto apparente è la condizione umana in quanto condizione paradossale, e il suo oggetto essenziale è quello che lei chiama l’irriducibile. […] “Far intravedere l’irriducibile e l’inesauribile attraverso dei pensieri chiari”. […] L’irriducibile è la libertà. L’inesauribile è ciò che resta, inaccessibile, al di là di tutto il finito che il movimento della libertà umana trascende» (R. De Monticelli, «Jeanne Hersch: una filosofia dei contorni», in Lectora, 2007, 13, p. 166). ↩︎

  38. «Per l’uomo la prova d’esistenza decisiva sarà la trasposizione sul modo d’esistenza della natura. […] Solo quelle creazioni umane che assumono un’esistenza fenomenica, sul modo della natura, esistono con evidenza. Il manifestarsi delle creazioni umane nella materia fenomenica è, per esse, l’incarnazione necessaria che ne verifica la coesione interna e ne misura la forza di realtà. Essere, in termini umani, significa essere anche tra i fenomeni. Ogni attività umana tende a questa prova. […] Tale è la legge dell’uomo. Essere l’incarnatore» (J. Hersch, Essere e forma, trad. it. di R. De Monticelli e F. De Vecchi, Mondadori, Milano 2006, p. 114). ↩︎

  39. J. Hersch, G. Dufour-Kowalska, A. Dufour, Rischiarare l’oscuro. Autoritratto a viva voce. Conversazioni con Gabrielle ed Alfred Dufour, trad. it. di L. Boella e F. De Vecchi, Dalai Editore, Milano 2006, p. 78. ↩︎

  40. Cfr. F. De Vecchi, La libertà Incarnata. Filosofia, etica e diritti umani secondo Jeanne Hersch, Mondadori, Milano 2008. ↩︎

  41. J. Hersch, La nascita di Eva. Saggi e racconti, a cura di J. Starobinski, trad. it. di F. Leoni, Interlinea, Novara 2000, p. 9. ↩︎

  42. Le parole di Starobinski rendono bene la centralità del linguaggio extra-filosofico e dell’ascolto o comunque dell’attenzione al vissuto che incarna praticamente il pensato, comune a Hersch e Heidegger: «Come attingere la più grande libertà di scrittura? Talvolta, paradossalmente, rispondendo al richiamo di un’occasione fuggevole, aggrappandosi all’immagine di un essere determinato, di un istante eccezionale, […] indirizzandosi solo a se stessi e lasciandosi guidare dalla necessità della riflessione suscitata dalla presenza. […] Si parla, allora, a partire da un’inquietudine primordiale, si interroga l’enigma dell’esistere, il sentimento dell’essere prossimi e separati, sino a trovare le parole che sanno dire “l’esilio e l’addio”. Questo modo di scrivere, nella sua libertà, sfugge ai vincoli di forma che legano le discipline dell’intelletto all’obbligo dell’esposizione discorsiva. […] L’invenzione, qui, riceve carta bianca. Tuttavia l’esigenza della forma è ancora desta, e il desiderio di verità non è meno vivo. Altri approcci di ordine filosofico divengono possibili, altri rapporti con il vero possono ora tracciarsi, per vie più dirette o per sentieri obliqui, inattesi» (Ivi, p. 7-8). Prosegue l’autore: «Hersch ha costantemente rivendicato l’esattezza concettuale. Non ha mai smesso di stare in guardia né di mettere in guardia contro l’eccesso o l’indeterminatezza dell’espressione; ma conosce anche i confini davanti ai quali i poteri della dimostrazione si arrestano. Chi vuole passare oltre deve affidarsi alla metafora, deve attendere quegli istanti di grazia in cui, sotto la nostra penna, si libera ciò che mette in luce la libertà dell’uomo» (Ivi, p. 8). ↩︎

  43. «Dio stava, le mani gonfie d’onnipotenza, al centro dell’essere calmo, senza fessure, che nulla distingueva da nulla. Le sue mani gonfie non sopportavano più di essere tanto colme, come soffocate dalla pienezza» (Ivi, p. 19). ↩︎

  44. Ivi, p. 21. ↩︎

  45. Le parole usate da Hersch richiamano in qualche modo l’esserci heideggeriano, destinato a peregrinare per il mondo cercando la propria autenticità nella cura dell’essere attraverso l’ente: «Dio fece balenare l’universale ai margini inaccessibili dell’orizzonte, al fondo dei cieli in fuga. Salvò l’Intelligenza. Le restituì le sfere e i triangoli e i Suoi pensieri eterni, quelli di prima del tempo: li restituì, ma vuoti, separati per sempre dalle prospettive ingombre di paesaggi. L’intelligenza si mise in cammino, tra prospettive di prospettive, verso l’impossibile. […] L’uomo si perse nella selva delle immagini, e ne amò insaziabilmente le superfici esigue e inesauribili» (Ivi, p. 23). ↩︎

  46. Ibidem↩︎

  47. Ivi, p. 24. ↩︎

  48. Cfr. J. Hersch, L’illusione della filosofia, trad. it. di F. Pivano, Mondadori, Milano 2005. ↩︎

  49. «Era nessun luogo. […] Sorge ora dal bordo inferiore del bassorilievo, da quella fascia di pietra orizzontale che, per il bassorilievo, non è che un supporto, indispensabile ma nullo» (J. Hersch, La nascita di Eva. Saggi e racconti, cit. alla nt. 41, p. 13). ↩︎

  50. «Il volto intero ascolta. […] Ascolta la nascita di un ascolto. […] Con una mano Eva coglie il frutto, con l’altra tocca se stessa. Strano gesto: sorpresa, paura, pietà di Eva che si scopre prima di aver detto “io”. […] Eva si sa. Ascolta e sa di ascoltare» (Ivi, p. 15). ↩︎

  51. Ivi, pp. 17-18. Si noti qui la vicinanza all’atto distintivo dell’esserci heideggeriano, che trovando il coraggio di rivoltarsi contro l’ordinario della dike riesce a dischiudere l’essere per mezzo della propria techne↩︎

  52. Cfr. J. Hersch, L’illusione della filosofia, trad. it. di F. Pivano, Mondadori, Milano 2005. ↩︎

  53. «È una realtà d’esilio, quella di Eva, separata. Una realtà che si offre “di profilo”. Una terra inospitale, certo, eppure non ha nulla del paesaggio desertico. Si tratta di seguire la linea di un movimento, di una caffettiera, del bucato steso al sole, per scorgere nella forma il cuore delle cose. Perché la bellezza “orlata d’inesistenza” è il frutto dolce di Eva, e la nascita, la morte, la fedeltà a questo mondo, il solo che possiamo abitare» (R. Guccinelli, Proteo o dell’esercizio di vedere. La gratuità del fare in Jeanne Hersch e Simone Weil, 2012, <http://www.etica-letteratura.it/el-interventi.asp?Item=8, p. 1>). ↩︎

  54. R. Guccinelli, Tempo e decisione, in Fedeltà a se stesse e amore per il mondo, a cura di G. Miglio, ETS, Pisa 2005, p. 78. ↩︎

  55. Cfr. J. Hersch, «Dall’esilio all’addio», in J. Hersch, La nascita di Eva. Saggi e racconti, cit. alla nt. 41, pp. 59-71. ↩︎

  56. «Non ci sarebbe risveglio e richiamo se non ci fosse assenza. Qui il circolo herschiano della vocazione all’essere si chiude su una teologia dell’assenza, cui sobrietà e pudore non concedono più di qualche cenno. […] La forma, “contorno di una presa” umana, è ciò senza di cui nulla di finito esiste per un uomo. L’ontologia positiva di Jeanne Hersch è una filosofia dei contorni. Essere – partecipare in qualche modo dell’assoluto – è dare forma, ma – dicevamo – in questo è darsi forma: dunque contorno, separatezza. Non c’è esistenza che “in esilio”, o “cinta d’assenza”» (R. De Monticelli, «Jeanne Hersch: una filosofia dei contorni», cit. alla nt. 37, pp. 170-171). ↩︎

  57. «Questo essere è fare, plasmare, dar forma: poiein. La “vocazione all’essere” che è propria dell’uomo appare a Jeanne Hersch come una partecipazione alla creazione, come un minor creare. Un fare, imprimendo ovunque a una materia una forma, mediante la presa delle mani umane» (Ivi, p. 167). ↩︎

  58. Cfr. J. Hersch, Essere e forma, cit. alla nt. 38, p. 114. ↩︎

  59. «Questo è un desiderio di restituzione, in cui la meraviglia si accompagna quindi alla gratitudine. È il movimento dell’anima comune a tutti coloro che, “a colpi di limitazioni”, subendo e praticando la dura disciplina della forma, “restituiscono” con il loro pensare e fare (due cose difficili da separare secondo Jeanne Hersch) qualcosa dell’essere che li ha colpiti, senza nominarlo invano. […] L’impensabile dell’esistenza, che non bisogna nominare invano, non è dunque privo di effetti: in qualche modo “chiama”. Forse un tratto che distingue gli interpreti della condizione umana è il modo in cui interpretano questo “richiamo”. Jeanne Hersch sembra viverlo e pensarlo come gioia creativa: “É la gioia di colui che vedendo, udendo, ricevendo un’impressione, s’accorge che può fare qualcosa di questa impressione – che ne farà qualcosa”. Non è dunque privo di effetti questo impensabile: suscita l’opera e l’operare. In quanto chiama all’operare, al fare – al creare – si partecipa, e fa partecipare l’uomo di sé – del Creare appunto» (R. De Monticelli, «Jeanne Hersch: una filosofia dei contorni», cit. alla nt. 37, pp.165-167). ↩︎

  60. Cfr. S. Tarantino, Il «mimo» e lo «stupore» nel pensiero di Jeanne Hersch, in La sentinella di Seir. Intelettuali nel Novecento, a cura di P. Ricci Sindoni, Edizioni Studium, Roma 2004, pp. 95-108. ↩︎

  61. Ne Les enjeux du débat autour de Heidegger, Hersch esprime il proprio parere su Heidegger, conosciuto direttamente durante un soggiorno di studio in Germania negli anni Trenta del Novecento. Se nella ginevrina emerge l’amore grato per la condizione umana, il pensiero del filosofo tedesco sarebbe piuttosto mosso dal disprezzo: «Nel cuore della filosofia di Heidegger troviamo questa forza, la più viva del suo pensiero, che non è, per quanto mi sembra, come è stato detto, la meraviglia di fronte all’essere, ma il disprezzo per tutto ciò che non è questa meraviglia, nella sua nudità e sterilità. Un disprezzo ardente, appassionato, ossessivo, per tutto ciò che è comune, medio e generalmente ammesso. […] Se leggiamo bene Heidegger, vediamo affiorare ovunque l’immensa ambizione che egli nutriva, non tanto per se stesso quanto per la filosofia di cui si sentiva l’incarnazione, di essere “all’origine”, all’“inizio assoluto” o almeno “al ricominciamento” di uno sviluppo unico, suscitato dall’“essere» (J. Hersch, Il dibattito su Heidegger: la posta in gioco, trad. it. di S. Tarantino, in Oltre la persecuzione. Donne, memoria, ebraismo, a cura di R. Ascarelli, Carocci, Bologna 2004, pp. 3-4). ↩︎

  62. «La gallina si spaventa: “Il lupo!” “Non aver paura, gallina, sono vecchio e non ho più neanche un dente. Lasciami scaldare al tuo caminetto e permettimi di preparare la mia zuppa di sasso”. La gallina non sa cosa fare; certo non è tranquilla, ma è curiosa» (A. Vaugelade, Una zuppa di sasso, trad. it. di A. Morpurgo, Babalibri, Milano 2014, p. 7). ↩︎

  63. Ivi, p. 16. ↩︎

  64. Ivi, p. 18. ↩︎

  65. «Poi il lupo tira fuori dal suo sacco un coltello appuntito e… infilza il sasso: “Non è ancora cotto”, dice. “Se permettete me lo riprendo per la cena di domani”. La gallina chiede: “Te ne vai di già?” “Sì”, risponde il lupo. “Ma vi ringrazio per questa bella serata”. “Tornerai presto?” chiede l’oca. Il lupo non risponde. Ma non credo sia mai ritornato» (Ivi, pp. 21-23). ↩︎

  66. Hersch esprime con parole estremamente efficaci la forte testimonianza di chi incarna un’esistenza fedele nel proprio cammino di ricerca: «Saper vivere in comune, avere col prossimo rapporti diversi che con le cose, rimanere libero nell’amicizia e nell’amore amando come la propria la libertà degli altri, sono, queste, attitudini fondamentali che certi esseri viventi conservano nelle circostanze concrete della vita, e che li fanno “essere” a colpo sicuro tanto quanto ogni ricerca speculativa. Reagire dal fondo di se stesso, esserci sempre (donde l’espressione di Heidegger che designa l’essere esistente in quanto soggetto empirico: Dasein), non quale rappresentante di un principio sempre fragile che un sofisma rovescia, ma ponendo semplicemente la consistenza reale e sicura, più fedele di una legge naturale, di un “essere” vero» (J. Hersch, L’illusione della filosofia, cit. alla nt. 52, p. 27). ↩︎