«Questo retrogusto di violenza». Della violenza contro la violenza

Mi piacerebbe provare a spiegare il legame tra tre violenze: da una parte, la violenza di qualcuno, la mia violenza, quella di Levinas o ancora quella dello Stato che risponde a questa prima violenza; da un’altra parte, la «violenza contro la violenza», per parafrasare una celebre perplessità di Levinas a proposito del «diritto alla violenza»;1 infine, il gusto di violenza che resta in bocca, nella gola, «questo retrogusto di violenza»2 o «un qualsiasi retrogusto di disgusto».3

1. Formulare la questione del terzo: difficoltà teoriche

Prima di abbordare questo resto e di introdurre la questione del terzo in Levinas (cioè, lo statuto della politica, dello Stato e dell’istituzione — la legittimità della «violenza necessaria» e della «necessità etica», espressioni che Levinas impiega molto raramente), mi piacerebbe soffermarmi, come preambolo, su qualche difficoltà. Ne riscontriamo tre: Levinas le incontra in quanto mettono in discussione qualsiasi ospitalità e apertura ad altri (alla violenza dell’altro o alla violenza del prossimo). Queste tre difficoltà o queste tre esitazioni di Levinas hanno origine nella fenomenologia, in un rapporto che è nello stesso tempo di fedeltà e di resistenza nei confronti di Husserl:

- La prima difficoltà riguarda la violenza limitata. Mi sembra che le prime spiegazioni di Levinas su ciò che sia esattamente la violenza non permettano di limitare l’estrema violenza o la violenza di annichilimento.4 Levinas dà al contrario l’illusione che il primato dell’altro sia infinito, che l’accettazione dell’altro sia incondizionata e che l’ospitalità sia assoluta, senza nessuna frontiera. Nei quattro testi dell’inizio degli anni ’50, Levinas considera la violenza come una «negazione parziale»,5 l’omicidio come la negazione totale, essendo già, nel 1951, mitigato dal fatto che Levinas ripete costantemente come sia impossibile uccidere in presenza del volto d’altri, «faccia a faccia».6 Benché queste prime definizioni della violenza siano segnate dall’influenza di Éric Weil,7 Levinas elabora tre nuove idee: la prima, è che «è violenta qualsiasi azione nella quale si agisce come se si fosse soli […], è violenta, di conseguenza, ogni azione che subiamo senza essere in tutto e per tutto compartecipi»;8 due anni più tardi, in Liberté et commandement, Levinas dimostra che tutto avviene come se la violenza venisse dall’esterno e non esistesse in principio tra due esseri; la terza idea si trova in Le Moi et la Totalité, uno dei suoi testi più importanti nel quale egli scopre l’origine della vera violenza fuori dalla «società intima» («società dell’amore», «società chiusa», coppia, entre-deux) — «vera» società che rinvia al terzo («terzo uomo», «terza via», «’tu’ effettivo», «molteplicità del terzo»).9 Tuttavia, Levinas desacralizza totalmente questo spazio della violenza e dell’ingiustizia caratterizzandolo come lo spazio degli affari e delle merci, del corpo e del denaro (non dimentichiamo che l’idea di giustizia è, per Levinas, prima di tutto economica: solo una giusta riparazione tramite il denaro può interrompere la storia della violenza umana).10 Inoltre, anche se il terzo implica l’esistenza di una «ferita reale»,11 sembra che esso non sia il soggetto della violenza. Levinas parla senza sosta in prima persona: sono io che posso ferire il terzo e lederlo.12 Sono io che introduco la violenza, che ferisco, non l’altro o il terzo.

- Ciò ci conduce alla seconda difficoltà che Levinas incontra: chi è il soggetto della violenza e chi la subisce? Chi è violento? Io (lo stesso), l’altro o il terzo? Il vicino o il prossimo? Oppure lo Stato? O ancora, Dio? Chi deve difendersi, chi deve proteggere chi, chi ferisce chi? Non troviamo forse in tutte queste domande, che Levinas ripete a più non posso e che riformula continuamente, i primi dilemmi sulla costituzione del soggetto e le frontiere dell’intersoggettività? D’altra parte, come diminuire la violenza o come cancellarla? Se il perdono e la vendetta non possono infrangere il cerchio infernale della violenza («il male genera il male e il perdono all’infinito lo incoraggia»),13 cosa ci resta? Sarebbe forse necessario mettere in questione qui i primi fondamenti dei testi levinasiani: le storie di violenze atroci e di omicidi non ci dicono forse che il volto non interrompe il crimine, anzi il contrario? E che le ragioni che permettono alla violenza di esistere potrebbero spiegare l’assenza dell’altro? Allora, la violenza è possibile perché l’altro (o il terzo) non è in realtà presente?

La terza difficoltà è d’ordine metodologico ed è probabilmente la più complessa. Mi sembra che sia indispensabile spiegare sistematicamente ed in maniera molto prudente ciò che Levinas intende con «istituzione», ciò che per lui vuol dire «istituire». Questa esigenza preliminare evidenzierebbe la prossimità e la distanza di Levinas nei confronti di Husserl,14 ma anche qualcosa di ben più significativo. Quando Levinas scrive nel 1977 a proposito del terzo, sulla giustizia, sulla relazione ad altri (che è «sempre la relazione con [un] terzo»),15 insiste sulla seguente cosa:

Occorre paragonare, pesare, pensare, occorre fare la giustizia, sorgente della teoria. Il recupero delle Istituzioni — e della teoria stessa — della filosofia e della fenomenologia: esplicitare l’apparire — tutto questo avviene, secondo me, a partire dal terzo.16

È necessario seguire con attenzione la decina di saggi e di variazioni su questa frase, dove Levinas spiega il legame tra la filosofia e l’istituzione che è lo Stato.17 Sin dal 1953 Levinas scrive:

Concepire e realizzare l’ordine umano è istituire uno Stato giusto, il quale, di conseguenza, rende possibile sormontare gli ostacoli che minacciano la libertà. Questo è il solo mezzo di preservarla dalla tirannide.18

Nel 1982 Levinas prosegue:

C’è un accordo possibile tra etica e Stato. Lo Stato giusto nascerà dai giusti e dai santi piuttosto che dalla propaganda e dalla predicazione.19

2. Sul rapporto tra giustizia e violenza: la filosofia e l’istituzione

La filosofia (la teoria, la fenomenologia) deve introdurre la giustizia nell’istituzione o nello Stato. A questo punto, porrei immediatamente due domande: la filosofia è responsabile della regolazione della violenza («dell’opposizione al male tramite la violenza», della «legittimità della violenza», della «giustizia della violenza», della «necessità etica», «eticamente necessaria») e opera in modo che la violenza sia giusta? La filosofia introduce un elemento di giustizia nella violenza o nella guerra?

La prima domanda nasce in realtà dalle celebri affermazioni di Levinas in Totalité et infini (1961), riguardo al fatto che in Occidente la filosofia ha prodotto la guerra ed è strutturata come questa (come la guerra ingiusta e criminale, evidentemente). La seconda domanda è particolarmente problematica: in che modo la filosofia di Levinas rende giustizia all’istituzione, allo Stato o allo Stato mondiale, alle leggi, etc.? Per rispondere a questa domanda si deve risolvere la problematica di saper leggere e tradurre oggi Levinas, come scrivere di lui, se e come la sua teoria può funzionare in uno spazio anglosassone e in Israele, nelle nuove discussioni «sull’etica della guerra» (ethics of war), sull’autodifesa e la difesa delle popolazioni civili, sull’immunità delle popolazioni non combattenti (non-combatant), sul permissible killing, sulla guerra asimmetrica, etc.

Se dovessi abbozzare una breve risposta a questa domanda principale dell’intervento di Levinas sulle istituzioni esistenti o su un’istituzione ideale futura (ma in definitiva sempre presente nel gesto filosofico), comincerei con l’indelebile traccia della violenza. Nei testi e commenti messianici scritti negli anni Cinquanta (e pubblicati nel 1963), che sono in perfetta armonia con la concezione economica della giustizia evocata sopra, Levinas riflette per la prima volta in dettaglio sulla violenza d’altri (dei cattivi) e sulla possibilità di una violenza giusta. Interroga certi passi del Talmud e mette in conto la venuta del terzo (dell’altro, del più proche, del Messia) «come una persona che viene per porre miracolosamente fine alle violenze che governano questo mondo».20 Mettendo da parte la fine della violenza e dell’oppressione politica ai tempi messianici, Levinas teme particolarmente che il Messia non ponga fine alla povertà e alla violenza sociale. Ecco le sue frasi indimenticabili:

La fine delle violenze politiche si distingue dalla fine delle violenze sociali? Shmuel annuncia il paradiso dei capitalisti: non più guerra, non più servizio militare, non più antisemitismo; ma non si toccano i conti in banca e il problema sociale rimane senza soluzione? Un testo parallelo — perché ci sono molti testi paralleli nel Talmud — indica le ragioni portate da Shmuel in favore della sua tesi: «Tra l’epoca messianica e questo mondo non esiste altra differenza che la fine della violenza e dell’oppressione politica, come è detto nella Scrittura (Deut. 15, 11): “il povero non scomparirà dalla terra”» (Berachoth, 34 b).21

Questo problema ne apre un altro: in che modo la violenza e l’ingiustizia saranno eliminate? Levinas prosegue:

Perché nel tempo messianico è necessario che sacrifichi i malvagi ai buoni. Perché nell’atto giusto c’è ancora una violenza che fa soffrire. Anche quando l’atto è ragionevole, anche quando è giusto, comporta violenza […] Ecco perché l’impegno necessario è così difficile per l’ebreo, ecco perché l’ebreo non può impegnarsi senza disimpegnarsi immediatamente, ecco perché gli rimane sempre come un retrogusto di violenza, anche quando si impegna per una giusta causa; in nessun caso l’ebreo partirà in guerra con le bandiere spiegate, con i trionfanti accenti della banda militare, con la benedizione di una Chiesa.22

Levinas cambia prospettiva e smette di definire l’atto violento come tale. L’atto ingiusto o giusto (ragionevole) contiene una violenza, probabilmente perché arreca dolore e sofferenza all’altro (al cattivo, all’ingiusto). Tuttavia, questa violenza non può cancellare né la giustizia né il carattere ragionevole. Ma inversamente, la violenza non può né dissimulare né dimenticare lo Stato, la comunità, “esercito” in marcia, la Chiesa o la religione. L’amarezza in bocca o il residuo di violenza nella gola — in un altro passaggio, Levinas evoca «il retrogusto di cenere e di polvere» dell’esistenza di Abramo23 — è proprio la condizione della testimonianza che la violenza è esistita (e che è imminente) e che esiste sempre un’eterna responsabilità verso di essa. Questo residuo di violenza, che si situa a priori in ogni testimonianza di Levinas e spiega il suo discorso sulla responsabilità per l’altro, ci porta ad interrogare la violenza che l’altro compie nei confronti del terzo, o il terzo nei confronti dell’altro. Ma, lo ripeto ancora una volta con Levinas, «questo retrogusto di violenza» elimina assolutamente il mio discorso o la mia testimonianza sulla violenza che è fatta nei miei confronti. È la grande innovazione di Levinas.

Nella celebre intervista di Levinas del 28 settembre 1982,24 si argomenta anche dello Stato di Israele, dell’ebreo e della violenza che l’altro compie nei confronti del terzo o il terzo nei confronti dell’altro. Prima e dopo questa intervista, in armonia con le difficoltà d’una costituzione giusta dello Stato d’Israele, Levinas evoca «la mia» legittima resistenza alla violenza. Nel 1977, diceva:

La mia resistenza inizia quando il male che egli mi fa è fatto ad un terzo che è anche il mio prossimo. È il terzo ad essere la sorgente della giustizia, e perciò della repressione giustificata; è la violenza subita dal terzo a giustificare che si blocchi con violenza la violenza dell’altro.25

Nell’intervista «Philosophie, Justice et Amour» rilasciata nei giorni 3 e 8 ottobre 1982, Levinas sposterà la prospettiva invertendola:

Quando parlo di Giustizia, introduco l’idea della lotta contro il male, mi distacco dall’idea della non-resistenza al male. Se l’autodifesa fa problema, il “carnefice” è quello che minaccia il prossimo e, in questo caso, fa appello alla violenza e non ha più Volto […] Qui si apre dunque tutta la problematica del carnefice: a partire dalla giustizia e dalla difesa dell’altro uomo, il mio prossimo, e niente affatto a partire dalla minaccia che mi riguarda […] C’è una certa misura di violenza necessaria a partire dalla giustizia […] . C’è una parte di violenza nello Stato, che però può comportare la giustizia. Ciò non vuol dire che non bisogna evitarla, nella misura del possibile. Tutto ciò che la sostituisce nella vita tra gli Stati, tutto ciò che si può lasciare alla negoziazione, alla parola, è assolutamente essenziale, ma non si può dire che non ci sia nessuna violenza legittima. […] Altri vi riguarda anche quando un terzo gli fa del male, e di conseguenza noi ci troviamo dinnanzi alla necessità della giustizia e d’una certa violenza. Il terzo non è lì per caso. In un certo senso, tutti gli altri sono presenti nel volto d’altri. […] «Offrendo la mia guancia a colui che colpisce »… Ma io sono responsabile della persecuzione del prossimo. Se appartengo ad un popolo, questo popolo e i miei vicini sono anche miei prossimi. Hanno diritto alla difesa come coloro che non mi sono vicini.26

Troviamo ancora una variante di questa idea nell’intervista del 1985 «Violence du visage»:

La violenza è giustificata in origine come la difesa dell’altro, del prossimo (che sia il mio parente o il mio popolo!), ma è violenza per qualcuno.27

Levinas non tematizza da nessuna parte la differenza tra prochain e proche. Probabilmente è per questa ragione che «proche» si traduce in inglese con «kin», come «qualcuno che mi è near» (il «prochain» è sempre «neighbour»). Tuttavia, il proche è colui che mi è più proche del prochain (il proche può essere mio amico pur essendo di altra nazionalità). Levinas lo dice implicitamente. Ripeterò alcuni suggerimenti di Levinas che sarebbero le basi d’un prossimo testo sul problema principale di Levinas: «l’autodifesa». Si può o ci si deve difendere dall’altro (dal terzo)? Chi e quando?

3. Sacrificio per l’altro: responsabilità e violenza

Questi suggerimenti restano subordinati alla trasformazione del timore di Levinas (il mio timore) di ferire il terzo (nel 1954) e del mio timore per l’innocente (nel 1969) nel «mio timore per altri»28 (nel 1983). Levinas introduce così consapevolmente la possibilità che altri o un terzo possa agire con violenza. E la sua risposta è esplicita: sono responsabile di questo, perché devo fare uso della violenza per proteggere l’altro, devo morire per l’altro, sacrificarmi per l’altro, etc. Due elementi nuovi compaiono: a differenza di Heidegger, la mia preoccupazione è qui sempre una preoccupazione per l’altro; a differenza di Hobbes, l’esistenza necessaria d’uno Stato giusto (una istanza protettrice) è la conseguenza del mio timore per la vita e la sicurezza d’altri.29

Ecco ciò che Levinas propone: (a) dà lo stesso nome, il prochain, sia a colui che è il mio altro sia a colui che è il mio terzo; (b) il proche non beneficia di alcun privilegio rispetto a colui che non è il mio proche (entrambi vantano un diritto alla difesa); (c) «avere il diritto alla difesa» è una formula ambigua: «avere il diritto» di difendermi da solo o «avere il diritto» di essere difeso da qualcuno; (d) la posizione privilegiata del proche rispetto al prochain — solo il proche ha il diritto alla difesa: quest’ultimo «diritto», Levinas lo annulla definitivamente perché a volte altri aggredisce terzi, e a volte un terzo che è altri. Il mio proche può dunque essere violento verso colui che non è mio prochain.

Nell’intervista del 28 settembre 1982, tenutasi immediatamente dopo un massacro di civili, Levinas riprende quest’idea che la violenza non sia sempre diretta nello stesso modo. Levinas gioca qui con i pronomi personali, gioco che comincia con la violenza che «noi» subiamo o che «io» subisco, ma che si conclude definitivamente con la sofferenza «degli altri».

Non credo affatto che la responsabilità abbia dei limiti, che la responsabilità in «me» abbia dei limiti. L’io, lo ripeto, non è mai affrancato da altri. Ma penso, e bisogna anche dirlo, che tutti coloro che ci attaccano in un modo così odioso non ne abbiano il diritto, e che di conseguenza, c’è certamente vicino a questo sentimento di responsabilità illimitata un posto per una difesa, perché non si tratta sempre di «me» ma dei miei proches che sono miei prochains. A questa difesa attribuisco il nome di politica, ma di politica eticamente necessaria. Di fianco all’etica, c’è un posto per la politica.30

Tuttavia gli altri che bisogna difendere sono proprio quelli dai quali bisogna difendere certi altri.

La mia definizione dell’altro è del tutto diversa. L’altro è il mio proche, non necessariamente il mio prochain, ma anche il proche. E in questo senso, essendo per l’altro, siete anche per il prochain. Ma se il vostro prochain attacca un altro prochain o è ingiusto con lui, cosa potete fare? Qui l’alterità prende un altro carattere, qui, nell’alterità può comparire un nemico, o almeno qui si pone il problema di sapere chi ha ragione e chi ha torto, chi è giusto e chi ingiusto. Ci sono persone che hanno torto.31

«Ma se il vostro prochain attacca un altro prochain o è ingiusto con lui, cosa potete fare? ». L’origine e il limite di questa domanda, di questa precauzione, di questa esitazione di Levinas, non è forse da rintracciare in una spiegazione anteriore: «Ecco anche perché l’impegno necessario è tanto difficile per l’ebreo, ecco perché l’ebreo non può impegnarsi senza disimpegnarsi subito dopo, ecco perché gli rimane sempre questo retrogusto di violenza, anche quando si impegna per una giusta causa … »?


  1. Cfr. E. Lévinas, Nouvelles lectures talmudiques, Minuit, Paris 1996, p. 70; tr. it., Nuove Letture Talmudiche, Se, Milano 2004, p. 71. ↩︎

  2. E. Lévinas, Textes messianiques, in Difficile liberté. Essais sur le judaïsme, Albin Michel, Paris 1963, p. 109; tr. it., Testi messianici, in Difficile Libertà. Saggi sul giudaismo, a cura di Silvano Facioni, Jaca Book, Milano 2004, p. 106. ↩︎

  3. E. Lévinas, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982, p. 66; tr. it., Di Dio che viene all’idea, a cura di Silvano Petrosino, Jaca Book, Milano 2007, p. 56. ↩︎

  4. L’espressione «assolutamente altro» (nel 1957, Lévinas afferma che questa espressione è di Jankélévitch; viene anche da Hegel) non ha mai connotazioni negative. Quando Lévinas impiega in certi punti il termine “ennemi” o “inimitié/hostilité”, cerca esclusivamente di delineare la figura che è assolutamente altra e che non è possibile assimilare: «Il nemico o il Dio sul quale non ho potere e che non fa parte del mio mondo, resta ancora in relazione con me e mi permette di volere, ma in base ad un volere che non è egoistico, un volere che si introduce nell’essenza del desiderio il cui centro gravitazionale non coincide con l’Io del bisogno, un desiderio che è per Altri». E. Lévinas, Totalité et Infini, M. Nijhoff, La Haye 1961, pp. 212-213; tr. it., Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano 2006, p. 241. ↩︎

  5. E. Lévinas, L’ontologie est-elle fondamentale? (1951), in Entre nous, Grasset & Fasquelle, Paris 1991, p. 22; tr. it., L’ontologia è davvero fondamentale?, in Nomi Propri, a cura di Francesco Paolo Ciglia, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 171, poi confluito in Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, a cura di Emilio Baccarini, Jaka Book, Milano 1998, p. 38. ↩︎

  6. Ibid., p. 22 (tr. it., p. 172): «Essere in relazione con l’altro [autrui] faccia a faccia significa non poter uccidere». Lévinas evoca per la prima volta il «visage» nel testo Le Temps et l’Autre, pronunciato nel 1946-1947, e pubblicato nel 1948. ↩︎

  7. In Éthique et esprit (1951), Lévinas menziona il libro di E. Weil, Logique de la philosophie (1951), per l’importanza della sua concezione della violenza «nella sua opposizione al discorso» (Difficile liberté, cit., p. 19; tr. it., p. 21). ↩︎

  8. E. Lévinas, Difficile liberté, cit., p. 20; tr. it., p. 21. ↩︎

  9. E. Lévinas, Le Moi et la Totalité, in «Revue de Métaphysique et de Morale», n. 4, 1954, p. 358 (ora in, Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, Grasset, 1991, pp. 25-52; tr. it., Tra noi. Saggi sul pensare all’altro, a cura di Emilio Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, pp. 41-68). Notiamo che Jacques Derrida analizza questo testo in Violence et Métaphysique↩︎

  10. Lévinas parla di giustizia economica laddove, al contrario, Derrida parla costantemente di «esigenza della giustizia come diritto». ↩︎

  11. E. Lévinas, Le Moi et la Totalité, in Entre nous, cit., p. 32; tr. it., p. 48. ↩︎

  12. E. Lévinas, Le Moi et la Totalité, in «Revue de métaphysique et de morale», cit., p. 365. ↩︎

  13. Ibid., p. 373. In questo testo, Lévinas formula l’ipotesi di una giustizia che possa interrompere la violenza. Ricordiamoci che Lévinas non collega ancora strettamente la giustizia allo Stato o al diritto. Del resto, Lévinas userà ulteriormente solo in rari casi il termine “droit”. Il problema dell’interruzione della violenza in Autrement qu’être ou au-delà de l’essence (1974) è risolto con l’invito alla pazienza. ↩︎

  14. Penso qui alla comprensione levinasiana dei concetti originariamente husserliani «institutionnaliser» (stiften, urstiften), come pure ai primi lettori e traduttori in francese di Husserl che hanno scritto a proposito dell’istituzione (Merleau-Ponty, Ricœur, Lyotard). Paradossalmente, la responsabilità d’aver tolto consistenza e singolarità a questi termini ricade su Lévinas, che traduce il termine tedesco Urstiftung, nelle Méditations cartésiennes (1929), in due modi diversi. Al §38, Lévinas e Pfeiffer (Alexandre Koyré ha supervisionato la traduzione) traducono Urstiftung con «formation première», poi nel celebre §50 con «création première». E. Husserl, Méditation Cartésiennes. Introduction à la phénoménologie (1931), a cura di G. Pfeiffer e E. Levinas, Vrin, Paris 1992, pp. 135, 181 (segue l’edizione tedesca, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, Vol. I della «Husserliana», a cura di S. Strasser, M. Nijhoff, Den Haag 1950; tr. it., a cura di F. Costa, Bompiani, Milano 1960). ↩︎

  15. E. Lévinas, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982, p. 132; tr. it., Di Dio che viene all’idea, a cura di Silvano Petrosino, Jaca Book, Milano 1986, p. 106. ↩︎

  16. Ibid. ↩︎

  17. «Le istituzioni e lo Stato stesso possono essere ritrovati a partire dal terzo che interviene nella relazione di prossimità. Possiamo risalire alle istituzioni a partire dalla definizione dell’uomo “lupo per l’uomo” piuttosto che ostaggio dell’altro uomo? Che differenza c’è tra le istituzioni che nascono da una limitazione della violenza e quelle che nascono da una limitazione della responsabilità? Almeno questa: nel secondo caso ci si può rivoltare contro le istituzioni nel nome stesso di ciò che ha dato loro origine». E. Lévinas, Dieu, la Mort et le Temps (1976), Grasset, Paris 1993, pp. 211-212; tr. it., Dio, la morte e il tempo, a cura di Silvano Petrosino, Jaca book, Milano 1996, p. 250. (Cfr. E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, 1978, pp. 248, 251, 256, 263; E. Lévinas, Totalité et infini, 1961, pp. 276, 282, 284). ↩︎

  18. E. Lévinas, Liberté et commandement, (1953), Fata Morgana, Paris 1994, p. 39; tr. it., Libertà e comando, in E. Lévinas, A. Peperzak, Etica come filosofia prima, a cura di Fabio Ciaramelli, Guerini e Associati, Milano 1989, p. 19. ↩︎

  19. E. Lévinas, Philosophie, Justice et Amour (1982) in, Entre nous, cit., p. 139; tr. it., pp. 155-156. Cfr.: «Occorrono delle istituzioni che facciano da arbitri e un’autorità politica che la sostenga. La giustizia esige e fonda lo Stato». De l’Unicité (1986), in Entre nous, cit., p. 216; tr. it., p. 230. ↩︎

  20. E. Lévinas, Difficile liberté, cit., p. 83; tr. it., p. 83. ↩︎

  21. Ivi, pp. 86-87; tr. it., p. 86. In un testo del 1969 sul giudaismo e la rivoluzione, Lévinas ritorna sul tema della violenza giusta (una violenza che può porre un termine ad ogni violenza futura), della violenza necessaria contro il male, sul «Dio degli eserciti». Cfr. E. Lévinas, Du sacré au saint. Cinq nouvelles lectures talmudiques, Minuit, Paris 1977, p. 45 (tr. it., Dal sacro al santo, Citta nuova, Roma 1985). ↩︎

  22. Ivi, pp. 108-109; tr. it., p. 106. ↩︎

  23. E. Lévinas, Nouvelles lectures talmudiques, cit., p. 92; tr. it., p. 93. ↩︎

  24. Cfr.: E. Lévinas, Israël: éthique et politique, in «Les Nouveaux Cahiers», vol. 18, n. 71, inverno 1983, pp. 1-8. Questa intervista è stata spesso criticata in questi ultimi anni in Inghilterra e negli Stati Uniti. Cfr.: «The well-known fiasco of Lévinas» (S. Zizek, Organs without Bodies, Routledge, London 2003, p. 106). È stata tradotta in inglese con il titolo: Ethics and Politics, in The Levinas Reader, a cura di Sean Hand, Basil Blackwell, London 1989. Come introduzione a questa traduzione, viene chiarita la genesi dell’incidente che ebbe luogo il 15 settembre, quando i «soldati cristiani massacrarono diverse centinaia di persone a Sabra e Chatila, in un campo palestinese, mentre le forze armate israeliane non lo impedirono. Sin dall’inizio, Begin rifiutò la richiesta di un’indagine, dopo aver annunciato sul New York Times del 26 settembre 1982: “Goyim kill Goyim, and they immediately come to hang the Jews”» (Ivi, p. 288). ↩︎

  25. E. Lévinas, De Dieu qui vient à l’idée, cit., p. 134; tr. it., p.108. ↩︎

  26. E. Lévinas, Philosophie, Justice et Amour, in Entre nous, cit., pp. 123-125; tr. it., pp. 139-141. ↩︎

  27. E. Lévinas, Violence du Visage, in Altérité et transcendance, Fata Morgana, Saint-Clément-la-Rivière 1995, p. 173 (tr. it., La violenza del volto, Morcelliana, Brescia 2010). Mi sembra che il «prochain» (l’altro nel senso morale del termine, come dice Lévinas) appaia per la prima volta nel testo del 1967, Langage et proximité. Lévinas lo scrive con la maiuscola, il Prochain. Nella sua prefazione a L’Au-delà du Verset: Lectures et discours talmudiques (Minuit, Paris 1982; tr. it., Guida, Napoli 1986), scritto nel settembre 1981, Lévinas parla del «suo popolo» e della «sua» famiglia che, come gli stranieri, chiedono giustizia e protezione (sono gli altri che mi sono proches, e i miei prochains). ↩︎

  28. E. Lévinas, La conscience non intentionnelle (1983), in Entre nous, cit., p. 148; tr. it., p. 165. ↩︎

  29. «Significa uno Stato nel senso completo del termine, uno Stato con un esercito e delle armi, un esercito che possa avere una funzione dissuasiva, e se necessario difensiva. La sua necessità è etica: è in effetti, una vecchia idea etica che comanda con precisione di difendere i nostri prochains. Il mio popolo e i miei proches, sono ancora i miei prochains. Si difende il prochain quando si difende il popolo ebreo; ogni ebreo in particolare difende il prochain quando difende il popolo ebreo» («Les Nouveaux Cahiers», cit., p. 4). ↩︎

  30. «Les Nouveaux Cahiers», cit., p. 5. ↩︎

  31. Ibidem. ↩︎