Conclusione

Molti dicono, non senza ragione, che la crisi sanitaria che conosciamo da mesi è particolarmente radicale perché universale, tocca l’economia (l’avere), la politica (il potere) e il religioso (il valere) nel mondo intero. Potremmo però dire che mette a nudo situazioni universali, economiche, politiche, religiose, che erano ignorate perché da decenni abbandonate alle loro sorti senza riflessioni adeguate. La crisi non nasce dal nulla, ma dalle nostre distrazioni legate al non voler leggere la realtà com’è; ci siamo lasciati ingannare dai sogni ingenui di una potenza senza limiti. Riconosciamo una sua manifestazione nello slogan «Tutto andrà bene». Esso rivela l’auspicio di ritornare verso uno ieri di consumo e di divertimenti, senza preoccupazione per il futuro e senza desiderio di riconoscere il passato e la sua realtà di violenza. Per l’oggi, inevitabilmente, il passato risulta essere in buona parte mitico. Per definizione, infatti, non è mai presente. Ma neanche il futuro è presente. I programmi d’insegnamento sostenuti dai nostri odierni Stati preferiscono glorificare la tecnologia e non la storia. Essi immaginano che la creatività tecnologica umana sia come quella divina, cioè ex nihilo. Sono decenni, poi, che non pensiamo il futuro. Le previsioni economiche sono di cortissimo respiro. Non parliamo di quelle politiche. Per quanto riguarda l’ambito religioso, nessuno sano di mente s’avventura a pronosticare il suo futuro. Il nostro presente è in sospensione, senza passato né futuro, destinato a non uscire dal narcisismo. Ci mancano criteri per il suo discernimento come evento storico, per decifrarne il senso.

La crisi sanitaria ferisce i corpi e le anime, rivela il nostro vuoto spirituale. Non mancano però iniziative che arricchiscono il presente. I molti fatti di solidarietà, in particolare in ambito della salute fisica, o al livello dell’accompagnamento mentale anche semplicemente con l’amicizia o con l’aiuto della rete, ne sono un esempio. A livello materiale la condivisione di beni alimentari o di strumenti elettronici per la scuola dei ragazzi e ragazze, sono un altro esempio. Le richieste di interiorità e di spiritualità sono aumentate parecchio, evidenziato anche dall’aumento delle proteste per la mancanza di spazi di cultura. Torna il gusto ad essere curiosi, a guardare in direzioni nuove, originali. La "rete" non serve infatti solamente all’evasione o alla distrazione.

La speranza di un futuro a misura di donne e uomini reali cresce oggi discretamente, per esempio con una più grande attenzione alla cura della nostra casa comune, la terra. «Sentinella, quanto resta della notte?» (Is 21,11), domandava Isaia, e Dossetti 30 anni fa. Possiamo rispondere come san Paolo nella lettera ai Romani: «La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce» (Rm 13,12)? Certo. Ma noi filosofi dobbiamo piuttosto rimanere nella notte, e fare nostra la misteriosa risposta della sentinella: «Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate. Convertitevi, venite!». Il tempo del filosofo è quello delle domande in vista di un futuro sensato. Il filosofo non è soltanto lo scriba della minerva di hegeliana memoria. Ha qualcosa del profeta, che annunzia il bene, con la speranza che qualcuno accetterà di lasciarsi provocare dalla sua parola.

Il filosofo non ha nessuna sfera di cristallo. Non pretende di predire il futuro. Ma non è neanche un archeologo alla ricerca di morti. Si interessa al presente, invita a vedervi il germe del futuro e la maturazione del passato. Nessun altro oltre il filosofo è capace di accogliere una tale missione. Di questo, il nostro libro vuole dare una testimonianza.