La questione dell’immagine sacra ha rappresentato un problema di carattere storico, artistico, filosofico, che ben presto si è introdotto in un dibattito pienamente cristologico e centro di questa teologica dell’icona è il concetto cardine della cristianità: l’Incarnazione. Non si tratta, quindi, tanto di negare o affermare il culto dell’icona per questioni meramente storiche o estetiche; la portata del problema è ben più delicata, di mezzo vi è la fede cristiana. Il Secondo Concilio di Nicea (787) ha legittimato l’icona come «luogo» dell’incontro tra uomo e Dio, tra umano e trascendente, tra visibile e invisibile.1 E che l’icona sia il luogo di incontro dell’esperienza autentica dell’invisibile era accettato sia dagli iconoduli sia dagli iconoclasti. Entrambi, infatti, prendevano le mosse dagli stessi testi, dalle medesime formule dottrinali, dai medesimi argomenti e concetti, giungendo a due differenti conclusioni riguardo l’icona: da una parte la condanna di qualsiasi immagine sacra sinonimo di idolatria, dall’altra, il culto della venerazione e promozione artistica dell’icona come epifania del divino.
1. Il Sofista di Platone
Per comprendere appieno la teologia dell’immagine cristiana non si può prescindere dai presupposti teologico-spirituali che l’hanno resa possibile. Punto di partenza è un’affermazione cardine del Concilio: «L’idolo e l’icona sono due cose opposte l’una all’altra».2 A ben vedere, l’opposizione teorica tra icona e idolo risale già al pensiero antico e, in particolare, al Sofista di Platone nella distinzione tra logica della differenza e logica della somiglianza, ovvero l’immagine.3 Nel Sofista, Elea interroga il giovane Teeteto su quale sia la vera essenza dell’immagine. A tenere banco nel pensiero platonico è la relazione che intercorre tra l’immagine e la cosa della quale essa è immagine; una relazione allo stesso tempo di somiglianza e dissomiglianza: da una parte l’immagine è copia dell’originale, dall’altra però è pura parvenza poiché solo l’originale è reale. Scrive Giuseppe Di Giacomo, sintetizzando in maniera efficiente il pensiero platonico:
[…] per Platone, ogni attività produttrice di immagini rientra nel campo dell’attività imitatrice. Non solo, ma tutte le produzioni rappresentative, comprese quelle che noi oggi chiamiamo «opere d’arte», in quanto frutto di un’imitazione, consistono in una semplice «parvenza» e non hanno altra realtà che il fatto di essere simili a quei modelli – gli unici reali – dei quali esse non sono che la replica illusoria. In definitiva, per Platone l’immagine non si confonde con il modello, come nel precedente pensiero arcaico, ma è puro visibile e perciò irreale.4
L’immagine, dunque, definendosi come mera «falsa parvenza», manifesta solo l’esteriorità del modello, dell’idea, che è l’unica vera realtà, separata da essa, ma l’unica in grado di dare senso a ciò che è visibile. Se da una parte la concezione platonica del rapporto tra originale e copia ha negato ogni valenza ontologica dell’immagine, successivamente la filosofia neoplatonica invece ha definito ontologicamente l’immagine come «emanazione» dell’originale: «Il punto centrale di tale concezione è che l’essere dell’originale in questa “emanazione” risulta non impoverito, bensì aumentato».5 Ed è proprio a partire da questa chiave ontologica che si capiscono meglio le posizioni degli iconoclasti e iconoduli che hanno accompagnato non solo la storia della Chiesa cristiana bensì l’intera storia delle arti figurative. Da una parte gli iconoclasti, riprendendo la logica platonica dell’imitazione, rifiutano qualsiasi venerazione all’immagine in quanto «falsa parvenza», in quanto intermediaria tra mondo sensibile e mondo reale; dall’altra i Padri del Secondo Concilio di Nicea che, negando la logica iconoclastica e platonica, sostengono come sia proprio nell’icona che il visibile e l’invisibile si incontrino, non più separati dall’imitazione, in una relazione di identità e differenza.
2. Visibile e invisibile nell’icona
La produzione di un’icona non rientra in un genere pittorico, ma è considerata una «dottrina della visibilità dell’immagine».6 Comprendere il rapporto tra visibile e invisibile significa armarsi di un importante bagaglio concettuale sul quale costruire l’analisi della disputa iconografica. Tutto questo era ben chiaro al filosofo, teologo e presbitero russo Pavel Florenskij. Già a partire dalle prime righe del suo saggio «Le porte regali», Florenskij inquadra la questione del rapporto e della relazione che intercorre tra i due concetti cardini dell’argomento, il visibile e l’invisibile: il primo esperibile sul piano del tangibile, dello spazio e del tempo; il secondo, ontologicamente superiore, ha a che fare con la metafisica. Scrive Florenskij: «[…] nella confessione di fede chiamiamo Dio “Creatore delle cose visibili e delle invisibili”, Creatore così delle visibili come anche delle invisibili. Questi due mondi – il visibile e l’invisibile – sono in contatto. Tuttavia la differenza tra loro è così grande che non può non nascere il problema del confine che li mette in contatto, che li distingue ma altresì unisce. Come si può intenderlo?»7
Influenzato dalla filosofia platonica, ma da essa separato, il filosofo e teologo russo sostiene una relazione stretta tra i due mondi e l’esperienza del contatto del visibile e dell’invisibile non riguarda solo il mondo dell’arte bensì, come ogni «questione metafisica»,8 interessa l’uomo fin dal profondo. Florenskij fa l’esempio dell’anima («In noi il velo del visibile per un istante si squarcia e attraverso ad esso, mentre ancora si avverte lo squarcio, ecco, invisibile soffia un alito che non è di quaggiù»9) e del sogno («Al valico del sonno e della veglia, prima che si varchi l’intervallo fra i due territori, al confine dove si toccano, la nostra anima è circondata da visioni»).10 Ed è proprio servendosi di un aggrovigliato discorso sui sogni che Florenskij introduce un primo rapporto di corrispondenza tra visibile ed invisibile, di contaminazione di un mondo nell’altro: l’immagine onirica, seppur «soltanto sogno, un nulla, nihil visibile»11 è il risultato di influenze giornaliere della vita reale; il sogno è «un segno del trapasso dall’una all’altra sfera».12 Analogamente, l’esperienza artistica vive al trapasso della sfera visibile ed invisibile, «l’arte ha il compito di incarnare in immagini reali un’esperienza più alta»13 scrive M. Giovanna Valenziano parlando dell’estetica di Florenskij. E a tal proposito annota il teologo russo:
Nella creazione artistica l’anima è sollevata dal mondo terreno ed entra nel mondo celeste. Lì senza immagini si nutre della contemplazione dell’esistenza del mondo celeste, tocca gli eterni noumeni delle cose e, impregnata, carica di conoscenza ritorna al mondo terreno. E tornando giù per la stessa strada arriva alla frontiera della terrestrità, dove il suo acquisto spirituale è investito in immagini simboliche – le stesse che, fissandosi, formano l’opera d’arte. Sicchè l’arte è un sogno sostenuto.14
Florenskij però sottolinea bene la necessità della doppia via, del transito attraverso i due mondi, della salita dal basso e discesa dall’alto. Florenskij parla di «abolizione dionisiaca dei ceppi del visibile»15 e di «visione apollinea del mondo spirituale».16 Nella prima l’anima si inebria del visibile e distaccandosi si eleva al piano dell’invisibile; nella seconda essa cala di nuovo nel visibile ed è in questo momento che sopraggiungono le immagini simboliche del mondo invisibile Perciò Florenskij ha modo di affermare che «l’icona è reminiscenza d’un archetipo celeste»17 (riecheggiano alle orecchie le parole di Nietzsche sull’apollineo e l’abisso dionisiaco affrontate nel capitolo precedente). Tale processo trova sostanzialità nel concetto spirituale ed artistico di volto. Il volto, non solo umano ma inteso in senso lato, ci svela la realtà del mondo terreno, è «manifestazione […] della coscienza diurna»,18 vale a dire un contatto con l’invisibile alternativo al sogno che è manifestazione notturna. Ma per capire meglio tale concetto, Florenskij adopera una duale distinzione tipologica di volto, secondo il suo valore conoscitivo: lo sguardo e la maschera. In virtù della qualità ontologica e gnoseologica del volto, Florenskij definisce «sguardo» la manifestazione pura, «manifestazione dell’ontologia»,19 vale a dire, di Dio, per cui il volto realizza «la dignità della sua struttura spirituale».20 Ed è così che il volto si tramuta in sguardo, e lo sguardo è «somiglianza a Dio resa presente sul volto».21 Solo in quanto sguardo il volto assume il suo senso, mediatore tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, simbolo qualitativamente elevato. Contrapposto al concetto di «volto come sguardo» è quello di «maschera» (o larva) che Florenskij definisce come «qualcosa che ha una certa somiglianza col volto, che si presenta come volto, ed è preso per tale, ma che dentro è vuoto, sia nel senso materiale, fisico, sia in quanto a sostanza metafisica».22 Le maschere non sono altro che i modi con cui il volto si presenta quando non riesce a rendersi immagine simbolica. La maschera, dunque, è inganno, simula il ruolo di mediatrice tra conoscente e conosciuto, ma in realtà disgiunge e non connette i due elementi: «il suo significato diventa negativo quando in luogo di svelarci l’immagine di Dio, non solo non offre niente per questo verso, ma altresì ci inganna, indicandoci con frode delle cose inesistenti».23 La maschera è maligna, così come Satana ingannò l’uomo promettendogli di diventare con Dio, ma appunto non nella sostanza, ma soltanto ingannevolmente nell’apparenza. Così facendo, Florenskij si pone in contrasto con la tradizione filosofica occidentale, in particolare col quella di Kant. Se infatti per il filosofo tedesco l’essenza del fenomeno (noumeno) resta sempre inconoscibile, secondo un netto dualismo fenomeno-noumeno, per il teologo russo il fenomeno, in quanto volto resosi sguardo, è manifestazione e trasfigurazione del noumeno: il fenomeno è simbolo della realtà noumenica e divina che sta alla base del mondo visibile. «Nell’iconografia bizantina, il volto diventa il centro della rappresentazione: esso è il luogo della presenza dello Spirito di Dio, perché la testa è la sede dell’intelligenza e della saggezza».24
La comunicazione tra mondo visibile e mondo invisibile è un’azione reciproca che non trova fondamento solo nella fede umana in Dio e dalla potenzialità dell’uomo di ascendere al visibile (la «coscienza notturna» e «coscienza diurna» a cui si faceva riferimento precedentemente), bensì esistono entità al confine tra visibile e invisibile, e che di per sé sono invisibili: queste sono le creature sante. I santi sono uomini, quindi entità del mondo tangibile che vivono carnalmente sulla terra, che si possono «scorgere nel visibile, libere dalla conformità a questo secolo, avendo trasfigurato il corpo e rinnovato la mente, rimangono […] nell’invisibile. […]. Sono anche testimoni dell’invisibile, testimoni mercé se stesse, mercé il loro aspetto, mercé il loro sguardo».25 E ancora: «Esse sono testimoni […] sul confine del visibile e dell’invisibile, come immagini simboliche della visione al trapasso da una coscienza all’altra».26 I santi, attraverso il loro percorso ascendente e discendente si fanno testimoni del mondo angelico, facendo accedere, attraverso il loro sguardo, all’invisibile. «[…] voi vi siete limitati a rimuovere ciò che ne velava la luce. Voi ci avete aiutato a liberarci delle scaglie che coprivano gli occhi dello spirito. E adesso noi, grazie a voi, vediamo […]»27 afferma Florenskij parlando dei santi. Scrive Evdokimov: «Dal momento che si tratta di un mistero, il suo senso non è mai dato direttamente, ma è rappresentato attraverso intermediari e mediatori: un angelo, un simbolo, un’icona, tutti messaggeri portatori di un messaggio segreto».28 Nel processo iconico quindi non vi è solo in atto un dualismo soggetto-oggetto ma un vedere e visto che si tramutano in sguardo nel quale si è anche guardati. Nell’icona si è vedenti e visti e di conseguenza l’icona non deve essere solo vista bensì pretende di essere vista attraverso. Si nega la logica mimetica dell’immagine. Scrive Florenskij: «La pittura d’icone per gli occhi è come la parola per le orecchie. Così non perché l’icona ripete fondamentalmente il contenuto di un discorso, ma perché sia l’icona sia il discorso come loro oggetto immediato da cui sono inscindibili, nella cui enunciazione è tutta la loro essenza, hanno un’unica e identica realtà spirituale».29 Solo considerandola così l’icona si sottrae alla critica iconoclastica. L’icona non offre l’immagine visibile dell’invisibile, bensì la paradossalità di presentare nella forma visibile un invisibile proprio in quanto invisibile, che perciò rimane tale. Scrive Di Giacomo:
Nell’icona la rinuncia all’assolutezza dell’immagine fa tutt’uno con il mostrarsi del Cristo come una figura sfigurata. La disfatta dell’immagine, che si compie con la sfigurazione del Cristo, lascia apparire quell’invisibile che ci guarda, dal momento che, proprio perché non si dona per se stessa ma richiede una kénosi dell’immagine, l’icona rende possibile che si passi attraverso essa fino al prototipo invisibile.30
3. L’iconografia tra rappresentazione e manifestazione
A tenere banco è il nodo che dal principio ha accompagnato l’intera questione: immagine come rappresentazione e immagine come presentazione. Qui non si tratta di una separazione tra visibile ed invisibile, dove la realtà fenomenica rappresenta un invisibile al di là di esso, piuttosto un invisibile che si rende visibile rimanendo pur sempre invisibile,che si dona al visibile, e perciò inaspettato, imprevedibile. «La pittura religiosa dell’Occidente, incominciata col Rinascimento, fu una radicale falsità artistica e pur predicando a parole la prossimità e fedeltà alla realtà raffigurata, gli artisti non avevano niente da fare con quella realtà che pretendevano e ardivano di rappresentare».31 Al contrario della pittura occidentale, «le icone materialmente segnano questi penetranti e memorabili sguardi, queste idee sovrasensibili e rendono quasi pubbliche le visioni inaccessibili».32 La questione platonica della rappresentazione come copia era stata ben che superata dai Padri della Chiesa. Per Platone si è visto come l’immagine fosse «falsa apparenza», copia della cosa che imita; il Modello, l’Idea, è altro dall’immagine in quanto da esso separato ontologicamente. I Padri della Chiesa invece vedevano nel concetto di «incarnazione» lo snodo teologico per una definizione di immagine iconica. Così come Dio si è incarnato offrendosi al mondo come dono, il kairos per eccellenza, l’evento imprevisto ed inspiegabile, il Cristo «che è nel mondo ma non è del mondo»33 così come dice anche l’apostolo Giovanni (Cfr. Gv 17, 14), allo stesso modo l’immagine iconica presenta qualcosa altro dal visibile ma che tuttavia si rivela nel visibile. Scrive Florenskji: «Sull’icona […] si costruisce ciò che non è dato dall’esperienza sensibile e di cui perciò sia pure schematicamente abbiamo bisogno di fornire una rappresentazione visibile. […] Noi utilizziamo il mondo visibile, per unirci in parte con la conoscenza al mondo invisibile».34
Partendo dal presupposto che due oggetti possono essere identici e distinti allo stesso tempo, gli iconoduli ritengono che l’attitudine verso le icone deve essere di venerazione35 e non di adorazione, poiché «l’onore tributato all’icona passa al suo modello»36 o come dicevano i Padri Conciliari con la formula di Gregorio di Nissa: «Colui che guarda l’icona è condotto alla visione del prototipo».37 E ribadiva Giovanni Damasceno: «Veneriamo quindi le immagini, rivolgendo la venerazione non alla materia ma, attraverso di esse, a coloro che in esse sono raffigurati!».38 Questo afferma un aspetto fondamentale delle icone: il loro essere immagini epifaniche, il loro manifestare, nel visibile, l’invisibile che viene verso di noi: «Ed è proprio l’invisibilità, ovvero l’irriducibilità a messa in immagine, che definisce il prototipo dell’icona».39 E ancora: «Gli iconoclasti non si resero conto che, accanto alla rappresentazione visibile di una realtà visibile (copia, ritratto), esiste un’altra arte, nella quale l’immagine presenta il visibile dell’invisibile, come nel caso dell’icona di Cristo».40 «L’icona rifiuta infatti la riduzione della visibilità, che è in essa, a semplice spettacolo, poiché richiede una “venerazione”, richiede cioè che si guardi attraverso l’immagine l’altro che si dà, ritraendosi, nell’immagine stessa».41 Non si trattava quindi più di l’icona come luogo di rappresentazione e perciò oggetto di culto e in quanto tale idolo, bensì di luogo di manifestazione, epifania divina, attraverso l’immagine stessa, attraverso i forma e i colori: l’icona, come afferma Florenskij, è «annuncio per mezzo di colori del mondo spirituali».42 E prosegue il teologo russo: «Le icone testimoniano con la loro forma artistica immediatamente e graficamente della realtà di queste forme: esse pronunciano in linee e colori – trascritto coi colori – il Nome di Dio, perché cos’è l’immagine di Dio, la Luce spirituale del santo sguardo, se non il Nome di Dio tracciato sul volto santo?»43 L’icona è la «porta» di cui parla Florenskij, attraverso la quale l’invisibile, il prototipo, fa irruzione, si mostra, e non viene rappresentato come invece affermavano gli iconoclasti.
In particolare nell’icona cogliamo l’assenza di ogni immagine, intesa come rappresentazione logica: è questa l’ ‘astrazione’ dell’icona, astrazione come sarà intesa, teorizzata e messa in opera da tanta parte della pittura del Novecento. Quello che l’icona mostra non è discorsivamente esprimibile e, se essa può far valere la propria imprescindibile implicazione di senso di contro alla critica iconoclastica, è perché mostra l’inesprimibile in quanto inesprimibile. È proprio questa paradossalità dell’icona a permettere di superare l’iconoclastia, per la quale non può che porsi l’alternativa schiacciante tra un assoluto realismo e un assoluto silenzio. L’icona è la «porta regale», come voleva Florenskij, attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si trasfigura il visibile: in essa non c’è né imitazione, né rappresentazione, ma comunicazione tra questo e l’altro mondo. Così nell’icona la dimensione epifanica finisce per coincidere con la sua dimensione apofatica.44
Per chiarire meglio l’intero processo, risulta centrale per Florenskij il concetto di «evocazione». Le icone, così come proferirono i Padri della Chiesa e i Padri conciliari di Nicea II, evocano l’invisibile a cui si riferiscono, che epifanicamente manifestano nelle loro forme e colori, «evocano per coloro che pregano i propri archetipi» e, guardando le icone, il fedele «solleva la mente dalle immagini agli archetipi».45 Già Damasceno, prima di lui, affermava che come colui venera la croce non venera la materia del legno bensì colui che è evocato, allo stesso modo chi venera l’icona non venera il materiale stesso bensì colui che vi è raffigurato, vale a dire il prototipo: «Come tu, quando venere il libro della Legge, non venire la natura delle pelli e dell’inchiostro, ma le parole di Dio che sono contenute in esso, così anche io venero l’immagine di Cristo e non la natura del legno e dei colori – non sia mai –, ma venerando la figura inanimata di Cristo ritengo di avere con me e di venerare Cristo stesso attraverso di esse».46 Le icone dunque non si caratterizzano solo come finestre dalle quali appare il trascendente, «finestre sull’eternità»47 bensì una vera e propria porta attraverso la quale il trascendente entra nel mondo sensibile. «Ogni credente vede nell’icona il riflesso della gloria di Dio, il nome di Dio in senso metafisico-sapienziale, un’epifania».48 Scrive Evdokimov: «[L’icona] favilla di gioia e canta con i suoi propri mezzi la gloria di Dio. La vera bellezza non ha bisogno di prove. L’icona non dimostra niente, essa mostra; evidenza folgorante, essa si pone come argomento “kalokagatico” dell’esistenza di Dio».49 Ma è la presenza che rende l’immagine inaccessibile, nella quale la logica della rappresentazione svela tutta la sua impotenza, in favore appunto di una immagine iconica dove emerge «la presentazione prima che questa affiori alla rappresentazione, l’opacità prima della trasparenza».50 È dare presenza all’assente e, di conseguenza, sottrarsi ad ogni forma di rappresentazione. Continua Di Giacomo: «Non si tratta di mostrare l’invisibile in luogo del visibile, l’irrappresentabile in luogo del rappresentabile. Si tratta in definitiva non di condividere un punto di vista nichilista, ma di fare emergere il paradosso, lo spazio della docta ignorantia, pensando il tessuto della rappresentazione con la sua lacerazione».51 Facendo ciò, mostrando l’irrappresentabile, l’inesprimibile, l’icona supera l’iconoclastia. «L’icona […] non rappresenta il santo testimone ma è testimone».52 Il problema viene inquadrato meglio se preso da un punto di vista Cristologico: come Cristo è figura sfigurata di Dio, come l’assoluto si mostra ma mai del tutto – Mosè può vedere solo le spalle di Dio (Cfr Es 33; 34) – così l’invisibile si manifesta sedimentato. Perciò immagine è rappresentazione ma anche presentazione di un qualcosa di sfuggente, e quindi mai definibile del tutto. E come Cristo è figura di Dio, rivelazione di Dio in una corporeità pienamente umana e visibile, allo stesso modo l’icona diventa il luogo fenomenico della manifestazione di Dio senza che questi venga ridotto interamente in esso: «Nelle rappresentazioni delle icone noi, perfino noi, vediamo gli sguardi benedetti e sfolgoranti dei santi, e in essi, in questi sguardi è svelata l’immagine di Dio e Dio stesso».53
4. Prototipo e ipostasi
Un concetto a cui i padri fanno frequentemente riferimento è quello del ritratto in una concezione ben differente da quella iconoclastica. Il ritratto infatti, secondo i Padri, rimanda al modello, senza però affermare in nessun modo la sua presenza reale bensì solo le sue qualità. I padri avanzano l’esempio dell’immagine-ritratto dell’imperatore: «Come, infatti, quando le effigie imperiali vengono introdotte in città e ad esse si fanno incontro capi e popolo, essi non onorano la tavola o la pittura a encausto, ma l’immagine dell’imperatore; così anche la creatura non onora l’aspetto terreno ma venera la figura celeste».54
Se vedo il ritratto di Caio ho, alla mia coscienza, Caio, e nello stesso tempo sono fatto certo dell’assenza dell’individuo Caio. Il ritratto non è in altre parole che un modo, per Caio, di apparirmi assente […]. Se vedo un’immagine di Giove o di un imperatore bizantino non ho alla coscienza né Giove né l’imperatore, ma sono fatto certo che le qualità inerenti alla loro essenza sono presenti e operanti.55
A tenere banco è dunque il rapporto tra immagine e modello. «Altro, infatti, è l’icona, altro il suo modello, e nessun uomo assennato cerca in alcun modo nell’icona le proprietà del modello».56 L’icona dunque, secondo i padri, si rende doppio, ma non certo doppione. Non si tratta di doppia essenza o doppio modello, ma «si percepisce il modello nell’immagine e l’immagine come modello».57 Il punto centrale di quest’affermazione sta in quella particella «nel». Il modello non si identifica con l’immagine, il modello non è l’immagine, ma si manifesta nell’immagine, viene percepito nell’immagine pur mantenendo la sua distanza. «L’icona visibile ha in comune con l’archetipo solo il nome e non l’essenza. Questi balordi [gli iconoclasti] invece dicono che non c’è distinzione tra icona e prototipo».58 Gli iconoclasti denunciavano l’arte religiosa proprio in funzione del mancano nesso ontologico tra immagine ed archetipo, vale a dire un’arte di mera rappresentazione, accusando ogni forma di devozione ad essa come idolatria. Scrive Florenskij:
Gl’iconoclasti […] insistevano proprio sul significato soggettivo-associativo delle icone, ma negavano ad esse un nesso ontologico con gli archetipi, e allora ogni venerazione, ogni bacio alle icone, ogni preghiera ad esse, a qualsiasi di esse, l’accensione di lampade e candele ecc., cioè ogni culto alle ‘rappresentazioni’ contrapposte come cose esterne e aliene agli archetipi, questa venerazione dei sosia di questi, non poteva che essere equiparata a una superstiziosa idolatria.59
Altro punto di discussione riguarda il concetto stesso di prototipo, e l’impossibilità, avanzata dagli iconoclasti, di rappresentare la divinità di Cristo o al contrario la sua umanità senza dover negare l’unione ipostatica. In realtà, per risolvere la questione, san Nicèforo, patriarca di Costantinopoli, propone una distinzione terminologica, ma essenziale, tra «circoscrizione» (perigraphé) e «somiglianza».60 Per il culto dell’immagine non si può parlare di circoscrizione, perché essa si può riferire solo ad un luogo, ad un tempo, ad una forma, e perciò si dona solo all’intelletto. La proprietà dell’immagine invece «è la somiglianza visibile con il prototipo».61 Stesso intento, ma con mezzi differenti, viene inseguito dalla dimostrazione di san Teodoro Studita. Prendendo le mosse dall’incarnazione di Dio, il Verbo invisibile che si è reso visibile all’uomo, nella sua incarnazione ipostatica. «Pertanto l’icona di Cristo non rappresenta solo la sua natura, ma anche la sua ipostasi».62 Scrive Teodoro Studita, citato da Sendler:
Infatti come si potrebbe dipingere l’immagine di una natura che non fosse vista in un’ipostasi? Pietro, per esempio, non è rappresentato in quanto essere ragionevole, morale, dotato di intelligenza e di comprensione, poiché tutto ciò non definisce solo Pietro, ma anche Paolo, Giovanni e tutti coloro che appartengono alla stessa specie. Dipingiamo invece Pietro in quanto possiede, oltre la definizione comune, certe proprietà […] che lo distinguono dagli altri individui della stessa specie.63
Analogamente il Verbo, incarnandosi, «ha assunto natura umana e, poiché questa sussiste solo in individui ben determinati, non è divenuto un uomo in generale, ma un certo uomo, il personaggio Gesù di Nazaret».64 In quanto le particolarità sono proprie della persona e non della natura, Teodoro afferma che i tratti del volto di Gesù sono quelli della divinità. In altri termini per Teodoro è l’insieme dei tratti caratteristici che distinguono gli esseri tra loro. Questi tratti sono assunti dalla natura, ma divengono l’espressione unica e peculiare dell’individualità di una persona. Teodoro dunque è il primo a confermare il paradosso dell’incarnazione: «L’ipostasi di Cristo è circoscritta, non secondo la divinità che nessuna ha mai vista, ma secondo l’umanità che è contemplata in essa (ipostasi) come un individuo».65 L’icona quindi circoscrive il Verbo di Dio, poiché il Verbo stesso si è circoscritto diventando uomo. L’icona circoscrive, ma non la natura, bensì la persona rappresentata. Si capisce quindi come in questo modo diventi inutile la distinzione precedentemente avanzata da san Nicèforo.
5. Prototipo e presenza
Teodoro poi si concentra su un’altra questione centrare dell’iconografia: la presenza del prototipo nel visibile dell’immagine. Se in San Paolo Cristo è «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1, 15), l’icona, come dicono i teologici greci, è «deuterótypos del protótypos», vale a dire, riflesso della realtà di Dio. Servendosi di una terminologia damasceniana, ma da esso separatosi, Teodoro afferma come il prototipo non sia presente nell’immagine secondo l’essenza bensì secondo la somiglianza. Scrive san Teodoro: «Il prototipo non è nell’immagine secondo l’essenza, altrimenti l’immagine sarebbe anch’essa chiamata prototipo e, in modo inverso, il prototipo immagine: il che non è conveniente perché ogni natura (quella del modello e quella dell’icona) ha la sua definizione. Il prototipo è dunque nell’immagine secondo la somiglianza dell’ipostasi».66 San Giovanni Damesceno invece sosteneva come l’icona fosse in un certo senso riempita della grazia di Dio, come se il corpo di Cristo rappresentato infondesse santità all’icona, quasi fosse un sacramento. «L’icona, essendo manifestazione, energia, luce di un’essenza spirituale, e per essere precisi, della misericordia di Dio […]»67 scriveva per l’appunto Florenskij. Teodoro invece rifiutava categoricamente l’energia come forma di presenza del Verbo nel visibile. L’energia è sempre energia di natura, perciò l’energia divina santificherebbe l’icona solo in modo naturale. «Non vi è dunque presenza di un’energia ma presenza dell’ipostasi, espressa con i tratti caratteristici del prototipo».68 L’icona non si fa partecipe della sostanza di Cristo ma, per relazione, all’ipostasi di Cristo, perciò non può appartenere all’ordine dei sacramenti. L’eucarestia è corpo di Cristo in quanto partecipa della sostanza di Cristo. L’icona invece è riconosciuta in quanto è riconducibile ad una persona, e con essa è in «comunione intenzionale».69 Per chiarire la questione Teodoro ricorre ad un esempio:
Prendiamo per esempio un anello sul quale sia incisa l’immagine dell’imperatore: che lo si imprima nella cera, nella pece o nell’argilla, il sigillo resterà immutabilmente lo stesso in ciascuna materia che, al contrario, si distingue bene dalle altre. Il sigillo non resterebbe lo stesso nelle diverse materie, se partecipasse in qualche modo alle materie stesse. In effetti è separato da queste e resta nell’anello. Analogamente la somiglianza di Cristo, anche se impressa in una materia qualunque, non è in comunione con la materia nella quale si esprime, ma rimane nell’ipostasi di Cristo, alla quale appartiene.70
Il Sinodo di Costantinopoli affermava come «sia mediante la contemplazione della Scrittura, sia mediante la rappresentazione dell’icona […] noi ci ricordiamo di tutti i prototipi e siamo introdotti presso di loro».71 E ancora: «Ciò che il Vangelo ci dice con parola l’icona ce l’annuncia con i colori e ce lo rende presente».72 Della medesima opinione è Giovanni Damasceno che descrive l’icona come via alla santità:
Io venero l’immagine di Cristo in quanto Dio incarnato, l’immagine della Madre di Dio, Signora di tutti, quale madre del Figlio di Dio, e l’immagine dei santi in quanto amici di Dio, i quali fino al sangue hanno combattuto il peccato, hanno imitato Cristo con il versamento del loro sangue per lui, che ha effuso il suo sangue per loro, e sono vissuti seguendo le orme di lui. Dio questi io faccio in modo che siano dipinte le nobili azioni e le sofferenze, poiché per mezzo di esse io sono condotto alla santità e sono spinto all’ardente desiderio di imitarli.73
Riprendendo la tradizione iconografica cristiana, Endokimov precisa la teologia della presenza nel culto dell’immagine:
Certamente l’icona non ha realtà propria; in se stessa non è che una tavola di legno; precisamente perché trae tutto il suo valore teofanico dalla sua partecipazione al «totalmente altro» mediante la rassomiglianza, non può racchiudere niente in se stessa, ma diviene come uno schema d’irradiamento. L’assenza di volume esclude ogni materializzazione; l’icona traduce una presenza dinamica che non è localizzata né rinchiusa, ma irradia intorno al suo punto di condensazione.74
Quella proposta da Evdokimov è una vera e propria «prospettiva sacramentale della presenza»,75 nella quale «l’icona testimonia la presenza del santo, esprime il suo ministero d’intercessione e di comunione».76 L’icona è «veicolo della presenza».77 In un passo de L’Ortodossia Evdokimov precisa: «L’icona non ha ovviamente una realtà propria in sé – un pezzo di legno – ma proprio perché trae tutto il suo valore dalla partecipazione al “totalmente altro” essa non può rinchiudere nulla in se stessa, ma diviene un punto schematico di irradiamento della presenza».78 L’icona, dunque, attesta, nella sua figurazione, una presenza irradiante che trabocca la stessa figurazione, legando il suo valore ad una teologia della presenza che separa l’icona da qualsiasi semplice opera artistica a soggetto religioso. In questi termini, risulta chiaro come a venire meno sia proprio l’intera logica della rappresentazione razionale dell’immagine-copia, dove un soggetto (l’artista o l’iconografo) vede e riproduce la realtà (vale a dire il suo oggetto) che gli è difronte, sia esso attraverso immagini o parole. «Questo significa separare la nozione di “immagine” da quella di “logica” e, in questo modo, aprirsi allo sguardo e attendere che il visibile ci sorprenda. C’è nell’immagine qualcosa di “opaco” che scava il visibile: è la presentazione nella rappresentazione, l’opacità nella trasparenza, il non-visibile nel visibile».79
Ma andando più in profondità, ciò che non ha possibilità di esistenza è proprio lo stesso paradigma soggetto-oggetto. Se la logica della rappresentazione richiede un soggetto che parla, riproduce, rappresenta un oggetto fuori da sé, al di là della rappresentazione il soggetto e oggetto fanno tutt’uno, entrando in comunione diretta fuori da qualsiasi logica razionale, mediazione, logos. L’opera quindi non riproduce il suo oggetto, non parla di esso, non lo rappresenta. Ciò che, quindi, l’immagine riproduce è di per sé sfuggente alla conoscenza e alla stessa rappresentazione e riproduzione. Scrive Di Giacomo: «È proprio della natura dell’immagine infatti il suo presentarsi sempre chiusa e insieme aperta, opaca e insieme trasparente, vicina e insieme lontana: nell’offrirsi all’occhio, essa cattura il nostro sguardo. È necessario tornare, al di qua del visibile rappresentato, alle condizioni stesse dello sguardo, della presentazione».80 Cadendo la logica rappresentativa dell’immagine-copia, oggetto non-oggetto dell’opera diviene l’invisibile, l’altro del visibile, il nascosto, ma che può emergere solo attraverso la creazione artistica. Scriveva per l’appunto Giovanni Damasceno: «Ogni immagine è rivelatrice e dimostratrice di ciò che è nascosto».81 A tal proposito, molto chiare risultano le parole di Evdokimov: «Ogni quadro fisso riproduce visualmente qualcosa che non esiste più […] e attesta perciò l’assenza o l’inesistenza di quello che è rappresentato (questo avviene in modo così sconvolgente e doloroso per ogni fotografia) – il tempo è irreversibile (non si può ritrovar due volte il medesimo volto».82 Tutto ciò conduce Wittgenstein a definire l’immagine non come «copia del reale» ma come «icona», come rilevazione nel visibile di ciò che di per sé si nasconde, è invisibile, irrappresentabile. Wittegenstein cita il silenzio, con il quale chiude il Tractatus, che non può dirsi giacché esso mostra se stesso: «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere».83 Il linguaggio quindi è destinato a non poter uscire fuori dai propri limiti poiché esso è impossibilitato ad essere altro da ciò che è. Considerare il mondo del linguaggio come donatore di senso assoluto, tutto questo è superstizione. Il silenzio è abitabile, perfettamente. Parallelamente l’immagine iconica, nel momento stesso in cui rappresenta, presenta e nasconde sempre un qualcosa. È il luogo di un sapere-non-sapere, di un «sapere sedimentato». «L’immagine è il luogo di un sapere che è insieme un non-sapere, poiché nel suo essere rappresentazione si pone al contempo come luogo del presentarsi di qualcosa che si ritrae nel momento in cui si offre in essa. In questo senso l’immagine non è riducibile al modello di verità come corrispondenza […]»84 L’icona, dunque, presentando se stessa presenta l’Altro da sé nella manifestazione, nella presenza dell’Altro, prima ancora della stessa manifestazione. Il percorso finora affrontato ha definito il sostrato estetico che regge l’intera questione iconografica, affermando e legittimando un’asserzione basica e fondamentale che costituisce il nocciolo della questione: per capire ed interpretare rettamente l’icona religiosa bisogna innanzitutto intendere correttamente la relazione visibile-invisibile in un processo di presentazione dell’altro e non rappresentazione dell’altro da sé, dell’assente, del latente. La questione iconografica non riguarda tanto Cristo che è nell’icona, ma l’icona che è verso Cristo, che non cessa di sottrarsi. L’immagine iconica è kenotica, cioè manifesta sempre la presenza di un’assenza; essa non può che manifestare questo sottrarsi. L’icona, inoltre, non può racchiude in sé l’Essere che manifesta, proprio perché l’icona ritrae l’Essere che da essa stessa si sottrae.
-
Sull’icona come «incontro» cfr. R. Salizzoni, Incontrare l’invisibile, in L. Russo (a cura di), Nicea e la civiltà dell’immagine, (Atti del seminario di studio: Palermo, 10-11 ottobre 1997), Aesthetica Preprint Palermo, 1998, pp. 87-96. ↩︎
-
L. Russo, (a cura di), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, Aesthetica, Palerno, 1997, p. 79. ↩︎
-
Cfr. G. Carchia, La teologia dell’immagine come idoloclastia, in L. Russo (a cura di), Nicea e la civiltà dell’immagine, cit., pp. 11-12. ↩︎
-
G. Di Giacomo, Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell’immagine, in L. Russo (a cura di), Nicea e la civiltà dell’immagine, cit., p. 71. ↩︎
-
Ivi, p. 72. ↩︎
-
G. Di Giacomo, Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione, in «Aesthetica», (Aprile 1999), n.55, p. 26. ↩︎
-
P. Florenskij, Le porte regali, Adelphi, Milano, 1977, p. 19. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 20. ↩︎
-
Ivi, p. 32. ↩︎
-
Ivi, p. 33. ↩︎
-
M. G. Valenziano, Florenskij: la luce della verità, Studium, Roma, 1986, p. 126. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., p. 34. ↩︎
-
Ivi, 35. ↩︎
-
Ivi, 36. ↩︎
-
Ivi, p. 87. ↩︎
-
Ivi, p. 42. ↩︎
-
Ivi, p. 43. ↩︎
-
Ivi, p. 44. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 45. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
E. Sendler, L’icona. Immagine dell’invisibile. Elementi di teologia, estetica e tecnica, Edizioni Paoline, Roma, 1984, p. 62. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., p. 54. ↩︎
-
Ivi, p. 55. ↩︎
-
Ivi, p. 65. ↩︎
-
P. Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Edizioni Paoline, Alba, 1990, p, 171. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., p. 175. ↩︎
-
G. Di Giacomo, Icona e arte astratta, cit., p. 26. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., pp. 63-64. ↩︎
-
Ivi, p. 64. ↩︎
-
L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, cit., p. 18. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., p. 140. ↩︎
-
Sulla venerazione dell’immagine cfr. G. Damasceno, Difesa delle immagini sacre, a cura di V. Fazzo, Città Nuova Editrice, Roma, 1997, pp. 135-145. ↩︎
-
L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, cit., p. 147. ↩︎
-
Ivi, p. 20. ↩︎
-
G. Damasceno, op. cit., p. 145. ↩︎
-
G. Di Giacomo, Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell’immagine, in L. Russo. (a cura di), Nicea e la civiltà dell’immagine, cit., p. 77. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 79. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., p. 77. ↩︎
-
Ivi, p. 64. ↩︎
-
G. Di Giacomo, Icona e arte astratta, cit., p. 10. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., p. 67. ↩︎
-
G. Damasceno, op. cit., p. 164. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., p. 71. ↩︎
-
M. G. Valenziano, op. cit., p. 47. ↩︎
-
P. Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, cit., p. 185. ↩︎
-
G. Di Giacomo, Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell’immagine, in L. Russo (a cura di), Nicea e la civiltà dell’immagine, cit., p. 18. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., p. 192. ↩︎
-
Ivi, p. 65. ↩︎
-
Ivi, p. 25. ↩︎
-
G. Pucci, La statua, la maschera, il segno, in M. Bettini (a cura di), La maschera, il doppio e il ritratto: strategie dell’identità, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 124. ↩︎
-
L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, cit., p. 85. ↩︎
-
L. Pizzo Russo, La questione dell’immagine, in Genesi dell’immagine, Mimesis, Milano, 2015, p. 25. ↩︎
-
L. Russo (a cura di), Vedere l’invisibile. Nicea e lo statuto dell’immagine, cit., p. 82. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., p. 68. ↩︎
-
Cfr. E. Sendler, op. cit., p. 44. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Theodorus Studita, Antirrheticus, PG 99, Lutetiae Parisiorum, Migne, 1960, col. 405. ↩︎
-
E. Sendler, op. cit., p. 45. ↩︎
-
Theodorus Studita, op. cit., col. 450. ↩︎
-
Ivi, col. 420. ↩︎
-
P. Florenskij, op. cit., pp. 66-67. ↩︎
-
E. Sendler, op. cit., p. 47. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Theodorus Studita, op. cit., coll. 504-505. ↩︎
-
P. Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, cit., p. 182. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
G. Damasceno, op. cit., cit., p. 55. ↩︎
-
P. Evdokimov, Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, cit., pp. 182-183. ↩︎
-
Ivi, p. 184. ↩︎
-
Ivi, p. 182. ↩︎
-
Ivi, p. 196. ↩︎
-
P. Evdokimov, L’Ortodossia, EDB, Bologna, 1981, p. 321. ↩︎
-
G. Di Giacomo, Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell’immagine, in L. Russo, (a cura di), Nicea e la civiltà dell’immagine, cit., p. 84. ↩︎
-
G. Di Giacomo, Icona e arte astratta, cit., p. 10. ↩︎
-
G. Damasceno, op. cit., p. 125. ↩︎
-
P. Evdokimov, L’Ortodossia, cit., p. 322. ↩︎
-
L. Wittgenstein, Tractatus logico philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino, 1968, p. 82. ↩︎
-
G. Di Giacomo, Icona e arte astratta, cit., p. 17. ↩︎