Cent’anni di Panikkar. In dialogo con la filosofia occidentale

I Diari1 di Raimon Panikkar2, appena pubblicati, sono molto interessanti per la comprensione dell’uomo e dell’autore che si celano dietro gli oltre 60 volumi pubblicati in vita (senza contare quelli dell’Opera Omnia)3. Non solo e non tanto per l’importanza dell’intreccio fra la biografia e la bibliografia, quanto per l’evidenza dei riferimenti che confermano il suo pensiero altrove espresso, o lo mettono in discussione – aprendo, puntualmente, prospettive di studio inedite e benvenute.

1. L’uomo

Prima di concentrarsi sul nucleo teoretico, ci si conceda qualche breve appunto sugli aspetti più squisitamente biografici. Dalle pagine dei Diari emerge il ritratto di un uomo che, per quasi tutta la vita, ha sofferto di solitudine4, della mancanza anche di una sola amicizia5 che gli permettesse lo scambio intimo e profondo di cui sentiva il bisogno6; in particolare, Panikkar manifesta il rimpianto di non esser riuscito a coltivare come avrebbe voluto il rapporto con Ivan Illich7, che aveva incontrato in più d’un’occasione e del quale parla almeno sei volte nel testo8. A pag. 204, poi, a proposito di certe sensazioni sul suo stato di salute, dice: «Non credo che siano premonizioni». Confermando lo scetticismo a riguardo di questioni su cui non ha mai inteso pronunciarsi in sede filosofica, quali appunto il cosiddetto «paranormale»9 (mentre non ha mai nascosto la simpatia per certi studiosi «di confine», come ad esempio Rupert Sheldrake o Fritjof Capra)10. Infine, val la pena soffermarsi su una questione di metodo. In alcuni passaggi l’Autore sembra utilizzare il proprio diario non come intimo monologo scritto, quanto piuttosto come un luogo alternativo per proseguire il discorso con mezzi differenti. Come se si trattasse, talvolta, di appunti che si riservi di riportare nelle opere, motivo per il quale sembra che il suo interlocutore non sia la propria interiorità (come ci si aspetterebbe in un diario) ma, comunque, un pubblico. Si legga, ad esempio questo passaggio:

Sento anche che io posseggo una visione integrale, che si inserisce per lo più nella linea di Teilhard11 (sebbene senza la sua diretta influenza), ma va oltre, almeno in quanto io non metto tra parentesi la metafisica12.

Perché, ci si domanda, sottolineare «senza la sua diretta influenza»? Panikkar, nel momento in cui scriveva, sapeva già se era stato influenzato o meno da Teilhard. Che senso ha quell’appunto? L’unica spiegazione sembrerebbe che esso sia rivolto a un (anche solo potenziale) lettore.

Questa mattina altra intuizione (folgorante): il principio di identità (e non solo quello di non contraddizione, come già ho scritto) non vale per la Realtà. Il pensiero deve seguire l’essere e obbedirgli, ma non può cancellarlo. L’essere è la Parola. Lo schema di Parmenide va cancellato. La scienza moderna è perversa. Galileo si è sbagliato: il linguaggio della natura non è matematico13.

Anche qui, l’espressione in corsivo è un po’ strana come promemoria: l’Autore sa bene di aver già scritto sull’argomento. Perché allora prendere quell’appunto? Da ultimo, si legga questo brano:

Il mio testamento intellettuale è costituito da tutti i miei scritti pubblicati e quelli ancora da pubblicare. Sono tutti autobiografici. Non ho parlato di me; però ha parlato il mio essere intero e l’ho fatto con il mio essere totale – pur con discrezione14.

Siamo all’inizio del 1997. Forse qui Panikkar già pensava alla pubblicazione dei suoi Diari?

2. Il teologo cristiano

Si è già affrontato il problema del rapporto fra certe posizioni di Panikkar e quelle della Chiesa cattolica15. I Diari confermano la tesi secondo cui una certa distanza (in certi casi ci si potrebbe forse spingere a parlare apertamente di incompatibilità) rimane ed è stata a lungo meditata e portata avanti dall’Autore. È il caso ad esempio della resurrezione:

La risurrezione non è il trascendere spirituale dell’umano. La risurrezione è – come dicono molti Concili – con queste ossa e questa carne, quindi con il corpo e di conseguenza in questo tempo e in questo spazio16.

E non in un aldilà, né in una eternità, comunque li si voglia intendere. Discorso che continua a proposito dell’anima:

Se il mio corpo muore, anche la mia anima muore17.

Similmente per la morale:

Ho una visione diretta (esperienza) delle dichiarazioni paoline: la Legge è sorpassata, il giusto non ha bisogno della legge, la Vita è una novità radicale e questo non si accorda ad alcuna norma preziosa, ad alcuna legge. […] La via del cielo non ha regole, perché non c’è via18

e per l’idea stessa divinità:

Non riesco a credere in un Essere Supremo. Non solo comporta una cosmologia gerarchica, ma non risolve il problema del Male. […] Non c’è altro Dio al di fuori dell’uomo – sebbene non sia (ancora) fatto19.

3. Il filosofo

Risale a qualche annno fa la proposta di definire l’ontologia di Raimon Panikkar una forma di creatio continua20. Sebbene Panikkar abbia usato quest’espressione nei suoi testi, pare non l’abbia mai fatto a proposito dell’ontologia. Nei Diari la si incontra spesso21, anche qui usata con riferimento ad altri ambiti, per lo più in senso teologico: «Non posso negare di vivere la «creatio continua» (e quindi «nuova creazione») e la «incarnatio continua»»22; «Vivere è sempre creare ex novo»23; «Non posso negare che la vita è una novità assoluta: Creatio continua et incarnatio continua. Lo vivo realmente, ma forse lo comunico poco»24. Fa eccezione, tuttavia, un passaggio di pag. 53, nel quale Panikkar sembra parlarne proprio in termini ontologici:

Dio concede ampiamente tutto ciò che è necessario per la nostra esistenza – e nel momento in cui ciò non accade, semplicemente smettiamo di esistere.

Il punto è di grande rilievo, soprattutto se si considera che la creatio continua25 costituisce la destinazione necessaria26 – ancorché mai evidenziata a sufficienza27 – del cosmoteandrismo28. Questione sulla quale è opportuno soffermarsi.

4. L’ontologia

La realtà è fatta di relazioni29. In quanto queste relazioni avvengono (si costituiscono, perdurano, si sciolgono) nel tempo, è possibile dire che la realtà è costituita da eventi. Eventi che coesistono, si provocano, si susseguono nel tempo: in questo senso la realtà è una «creazione continua». La realtà non è un insieme di cose (oggetti, o enti) che attraversano il tempo, relazionandosi reciprocamente, ma rimanendo fondamentalmente immutate (in sé). Le cose non «sono», bensì, per così dire, «stanno essendo».

I mattoni della realtà non sono dunque le cose, ma le relazioni. Le cose – non gli oggetti (che sono già le cose inquadrate nel mito30 dell’oggettività), bensì i simboli31 – entrano in relazione (è così che diciamo, comunemente; qui potremo meglio dire che entrano in una o più relazioni) e danno luogo alla (creano la) realtà. Ciò può far pensare che le cose preesistano alle relazioni (che esistano in sé e, successivamente, entrino in relazione). Non è così. Nessuna cosa esiste «in sé»32. Sono le cose che vengono «al mondo», cioè nella trama delle relazioni di ciò che già esiste. Basta guardarsi intorno: nulla si dà in sé, ma sempre insieme ad altro, in qualche relazione. Nessuna filosofia noumenica, nessuna scienza empirica, nessuna esperienza personale è mai stata in grado di mostrare l’esistenza di una tale «cosa in sé». Di fatto, nulla nasce o esiste in vacuo. Le relazioni danno forma all’essere. Non c’è essere al di fuori delle relazioni.

Né si può dire che queste cose esistano «in sé» all’interno delle relazioni. Noi chiamiamo «essere» ciò che appare nel mondo, nell’epifania dell’«è». Premesso che di fatto nulla è osservabile (o esperibile, o conoscibile) al di fuori di qualunque relazione33, di diritto si può immaginare – con una astrazione mentale, che non rappresenta più la realtà, dunque, ma una fantasia – una cosa che esista da sola. Al riguardo, si usa spesso l’esempio della particella elementare «sperduta in un angolo remoto dell’universo». Ma ipotizzarla «sperduta» (nel senso di «distante quanto si vuole da qualsiasi altra cosa») non equivale a pensarla come «isolata» (una particella estende infatti il suo campo all’infinito, quindi il suo contatto con tutto il resto non cessa, pur aumentando a piacere la distanza). Ne consegue che non possiamo immaginare in alcun modo nessuna porzione di questo universo – nemmeno la più piccola – come realmente isolata da tutto il resto di ciò che esiste. Non resterebbe che immaginare, se proprio si volesse, un universo costituito da una sola particella elementare: ebbene, si potrà convenire che dichiararla esistente o non esistente sia a quel punto questione di scarsa rilevanza (di diritto; di fatto, non ci sarebbe nessuno a poter emettere tale dichiarazione o ad intenderne il senso). E non perché non sia possibile decidere: ammesso che un tale universo possa effettivamente esistere (e non si sa con quale fisica: si tratterebbe, tanto per cominciare, di un posto in cui non esiste il principio di esclusione di Pauli)34, qualunque cosa riuscissimo a dire attorno ad esso sarebbe inestensibile al nostro universo (dove, ad esempio, il principio di esclusione di Pauli esiste e regola i fenomeni subatomici).

Si potrebbe ancora immaginare che le cose entrino ed escano incessantemente dalle relazioni rimanendo inalterate (conservando quindi un nucleo intrinseco immutabile e magari eterno, in sé). Si potrebbe ad esempio immaginare un uomo cui la vita sottragga ad una ad una tutte le relazioni (gli affetti, poi il lavoro, gli averi, ecc.) e che non di meno continui a vivere e ad essere quell’uomo. Certo, si può immaginarlo; ma non osservarlo: pur immaginando, infatti, lo scomparire progressivo di ogni relazione, dovremmo fermare il nostro processo di spoliazione alla relazione tra quell’uomo e il suo corpo proprio (quand’anche si riuscisse a isolarlo dal mondo materiale tenendolo sospeso a mezz’aria come in assenza di gravità). L’uomo continuerebbe ad essere nella relazione con il suo corpo: privato di questa ultima relazione, ormai senza più un corpo, l’uomo non sarebbe più. Morirebbe.

Resta la domanda su cosa renda l’uomo quell’uomo. È evidente che le relazioni non possono costituire le cose fino al punto che due uomini diversi, sposando la stessa donna, diano luogo al medesimo matrimonio. (Il solo fatto che parliamo, giustamente, di «uomini diversi» attesta che non riconosciamo alle relazioni il potere di creare le cose dal nulla, tanto meno a proprio piacimento). Per dirla con il linguaggio cristiano, ogni uomo è unico (idea espressa anche tramite il concetto di vocazione: ognuno ha la propria). Questo vale per qualsiasi cosa: perfino per quegli oggetti che la scienza ritiene identici (come, appunto, le particelle elementari)35.

Viceversa, la «stessa» cosa si presenta in maniera diversa a seconda delle relazioni in cui entra: la mia pelle brucia esposta al fuoco, ma non all’acqua. Certo, il fuoco non è l’acqua; ma nemmeno è qualcosa di «bruciante in sé»: il fuoco brucia a contatto con la pelle (e con l’ossigeno), ma non con l’acqua. Il fuoco non ha in sé nessuna intrinseca facoltà di bruciare. Si può obiettare che il fuoco e l’acqua siano intrinsecamente diversi (altrimenti, sulla pelle, darebbero luogo allo stesso effetto); e che il «poter-bruciare» in una futura relazione (poter-bruciare che l’acqua, ad esempio, non ha) sia un essere potenziale che il fuoco custodisce in sé. Non è così, tuttavia: poiché essere è un verbo, non un sostantivo36. Non c’è potenza nell’essere, ma solo atto. Come detto inizialmente, non ci sono cose fuori dagli eventi.

Ci si conceda tuttavia un piccolo esperimento mentale, immaginando i simboli, questi «poli delle relazioni», un attimo prima di entrare in relazione: la pelle, da un lato, e dall’altro il fuoco, che non è ancora fuoco (non brucia ancora nulla), ma non di meno non è acqua (esso deve dunque possedere in qualche modo una caratteristica intrinseca che lo differenzi dall’acqua). Sia. Immaginiamo dunque una siffatta fiamma-potenziale in un mondo senza ossigeno. Come sarebbe? Come la vedremmo? A quali effetti darebbe luogo? In un tale mondo, potremmo ancora parlare del fuoco come di ciò che brucia? O ne dovremmo parlare in una maniera completamente diversa? Eppure, nell’esperimento mentale che andiamo conducendo, questo fuoco-potenziale è intrinsecamente lo stesso oggetto. Dire, a partire da queste considerazioni, che il fuoco è intrinsecamente la stessa cosa, sia in questo mondo sia in quell’altro, significa non rendersi conto del rovesciamento operato da questo ragionamento: è perché lo vediamo bruciare (in questo mondo, nella relazione, nell’evento di bruciare) che possiamo ipostatizzare questa qualità in una astrazione mentale (la «bruciantezza» in sé) che poi proiettiamo in un altro mondo (quello senza ossigeno), dove sosteniamo che il fuoco brucerebbe comunque, ma la mancanza di ossigeno glielo impedisce. Non il contrario. Questa è l’evidenza, l’osservazione, ciò da cui dovrebbe partire qualsivoglia osservazione della realtà. Conclusione: nulla esiste in sé. Sono le relazioni a permettere all’essere di essere tale. Non è un problema di linguaggio (quasi come se, in un mondo senza ossigeno, pur venendo meno il modo di esprimerlo, il fuoco rimanga ontologicamente la stessa cosa): l’ontologia è la scienza dell’essere, non del poter-essere. Un essere che non si manifesti non è essere (non è). Per dirla direttamente nell’ottima sintesi di Panikkar, «la realtà è tale perché «appare» reale»37.

Su di un piano più logico che ontologico, si osservi che l’ipotesi di una «bruciantezza» intrinseca della fiamma – che ipostatizzi cioè ciò che si vede a valle, nel fuoco, in un «a monte» noumenico – costituisce innanzitutto una inutile duplicazione: a che pro inserire in questa fiamma potenziale una facoltà latente che vediamo, in forma concreta e attuale, nei fenomeni? Questa astrazione va dunque in primo luogo assoggettata al rasoio di Occam. In secondo luogo, questi esseri-potenziali (dei quali ricordiamo trattarsi di astrazioni teoriche: non esistono nella realtà cose al di fuori da ogni relazione), che pure potrebbero essere tante cose, in realtà non sono nulla al di fuori di quelle relazioni che permettono loro di esprimersi (di attualizzarsi). Come di un uomo che avrebbe tante capacità (potrebbe essere ingegnere, filosofo, idraulico) ma non ne mette a frutto nessuna, finendo per non far nulla, si usa dire che non è nessuno, parimenti di questi esseri-potenziali diremo che non sono nulla. Ciò perché il mondo fenomenico è l’unico mondo che conosciamo, l’unico nel quale e sul quale possiamo dire qualcosa, l’unico in cui incontriamo le cose. Per cui: le cose ci sono e sono in relazione (nel senso che non sono le relazioni a crearle). E nessuna cosa è in sé. La realtà alla quale apparteniamo è fatta così. Il resto è astrazione dell’intelletto. Curioso che i filosofi che prediligono l’astrazione del noumeno pretendano per sé stessi il nome di «realisti».

Ciò non implica che si disconosca l’utilità dell’astrazione operata dal pensiero: il progresso delle scienze, ad esempio, è un caso lampante di successo ottenuto grazie all’astrazione delle cose dal loro contesto (e relativa ricontestualizzazione all’interno dell’esperimento, in cui le cose diventano oggetti). Ma pretendere alla fine di tali processi che le astrazioni così prodotte siano reali o addirittura che siano l’unica realtà vera (mentre il resto non è altro che opinione, mitologia o illusione) è un errore metodologico fondamentale di chi semplicemente ha dimenticato il proprio punto di partenza38.

Tornando per un attimo alla questione del mito, cioè a quella del rapporto fra la mente umana e la realtà, è chiaro che ogni velleità di un pensiero puro, trasparente, che possa giungere alla realtà più autentica (nel senso di intrinseca) delle cose… è destinata a rimanere, appunto, una velleità. Proprio perché il mito accompagna sempre la comprensione ed è impossibile liberarsene. Si può prendere consapevolezza del proprio mito, modificarlo, ampliarlo, finanche sostituirlo integralmente. Ma non si può fare a meno del mito in quanto tale39. Su questo punto convergono l’epistemologia40, la fisica41, la filosofia continentale42 e la logica43, la filosofia della scienza (non solo quella critica, come nel caso di Feyerabend)44, la filosofia del linguaggio45, il costruzionismo46. Praticamente tutti.

Ciò non vale solo per le «cose in sé», ma anche per i cosiddetti «fatti puri», svincolati da ogni interpretazione. Così come non esiste nessuna cosa «in sé», allo stesso modo non esiste nessun fatto «puro». Si consideri il seguente fatto: una valigetta è stata rubata. È innegabile che una certa relazione si sia stabilita: tra quella e colui che l’ha presa (e tutti coloro che, in certo modo, ne sono rimasti coinvolti: il proprietario, in primo luogo; il bambino che ci è sbattuto mentre l’uomo correva via ecc.). Tuttavia, già parlare di «furto» presuppone una realtà sociale e giuridica ben precisa; così come il parlare di «valigia» presuppone una certa concezione di quella cosa. Dunque, per parlare del fatto avvenuto (che non si intende negare) non possiamo fare a meno di riferirci alle cose che sono in gioco e questo riferimento avviene nella realtà che – come dicevamo – non esiste senza le relazioni (relazioni che denominiamo «interpretazioni» quando uno dei due poli della relazione è la mente umana). Oggettivamente, non è accaduto nulla. Proprio perché, oggettivamente, quella valigia non è nulla. Non che la valigia non sia nulla, attenzione: non è nulla oggettivamente. È l’oggettività a non esistere, non la valigia. È infatti la sua valigia, per il proprietario; è una valigia, per chi ne conosca la nozione ovvero l’uso; è una fonte (illecita, nella nostra società) di reddito, per il ladro; e così via.

Va sottolineato qui che quella valigia è un oggetto incomprensibile a chi non ne abbia mai vista una; per noi, invece, è un oggetto familiare. La nostra cultura, che è una cultura, reca con sé una interpretazione: l’uso comune di quell’oggetto a noi ben noto. Il fatto che diamo per scontata quella interpretazione (perché a noi familiare, appunto) non ci autorizza a dire che sia l’unica possibile né, tanto meno, a dire che non sia affatto un’interpretazione ma una visione diretta (oggettiva).

Non è purtroppo possibile qui continuare a seguire Panikkar su questioni che riguardano la critica all’oggettività, i limiti e la portata dell’ermeneutica, la contraddittorietà della nozione di «prospettiva globale», la pretesa (che ha del religioso) della fisica di essere l’unica visione del mondo, l’ipotesi di una interpretazione oggettiva (legata alla cosiddetta «retrocessione del testimone» e all’affascinante quesito: «Cosa accadrebbe alla realtà e alla conoscenza se l’umanità intera cessasse di esistere?»), il rapporto fra la fisica e la metafisica, la possibilità (insussistente) di eliminare la seconda a favore della prima, la singolare (e a tutt’oggi inspiegata) adeguatezza della matematica a certi ambiti della ricerca scientifica47 e la fondamentale relazione tra l’Essere e il Pensiero48.

5. Conclusioni

La filosofia di Panikkar è molto trascurata in Italia, in special modo l’ontologia49. Non sorprende, in questo contesto, che a tutt’oggi Panikkar non abbia avuto l’occasione di confrontarsi a viso aperto con la filosofia contemporanea50. Ora, se rispetto all’ontologia in particolare va evidenziato che Panikkar per primo ha affrontato il problema in maniera discontinua, rinunciando a scrivere un’opera esplicitamente e interamente dedicata all’argomento e disseminandone la trattazione in capitoli e paragrafi sparsi nel resto della sua grande produzione, in generale va sottolineato che il rischio che si corre è quello di relegare il filosofo nell’ambito degli studi interculturali ovvero teologici, e di cristallizzarlo in una specie di icona dalle tinte più new age che greche.

C’è quindi bisogno che la sua filosofia venga presa maggiormente sul serio – e qui non basta un generico rispetto per l’uomo e per la sua opera, ma si richiede un confronto vivido e serrato al livello del fondamento, al di fuori della ristretta cerchia dei suoi affezionati studiosi; resistendo a tentazioni celebrative o, peggio, agiografiche, le quali – ripetendo a oltranza i mantra delle solite parole-chiave: «dialogo», «nuova innocenza», «cristofania», «relatività radicale» – finirebbero per ridurre la figura del filosofo a quella di un santone, anziché di quel «maestro del nostro tempo» quale è stato51. A tal fine, va tenuta viva non solo la brillantezza, ma anche la fondatezza del suo pensiero. Affinché questo – come egli stesso auspicava – possa sempre più rivelarsi e mantenersi all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo.

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  1. Panikkar 2018. ↩︎

  2. Raimon Panikkar (Barcellona 1918-2010), filosofo e teologo, ha partecipato di una pluralità di tradizioni: indiana ed europea, hindu e cristiana, scientifica e umanistica. Ha vissuto e studiato in Spagna, Germania, Italia e India, e si è laureato in Filosofia presso l’Università di Madrid (1946), in Chimica presso la stessa Università (1958) e in Teologia presso l’Università Laterana in Roma (1961). Sacerdote dal 1946 ha esercitato pastoralmente in Barcellona, Salamanca, Madrid, Roma, Mysore e Varanasi. Ricercatore presso l’Università di Madrid, Mysore e Varanasi, e professore in molte altre tra cui Montreal e Buenos Aires. È stato membro del Consiglio Superiore di Ricerche Scientifiche, dell’Istituto Internazionale di Filosofia, e fondatore di varie riviste di filosofia e cultura (Arbor, Weltforum, Kairos, etc.) e centri di studi interculturali. Primo segretario della Società Spagnola di Filosofia, lasciò l’Occidente per recarsi in India ancora nel 1954. Fin dal 1966 ha diviso il suo tempo tra le Università di Varanasi, Roma e Harvard. Nel 1971 fu nominato cattedratico di Filosofia comparata della religione e Storia delle religioni presso l’Università californiana di Santa Barbara, divenendone in seguito professore emerito. Ha tenuto conferenze e corsi in più di cento università di tutto il mondo. È autore di circa cinquanta libri in differenti lingue e più di trecento articoli che spaziano dalla filosofia della scienza alla metafisica, dalle religioni comparate alla teologia, molti dei quali tradotti in diverse lingue. ↩︎

  3. Già decollata, oltre che in italiano, in francese, in inglese, spagnolo e catalano. ↩︎

  4. Panikkar 2018:57; 229. ↩︎

  5. Panikkar 2018:50; 86; 167. ↩︎

  6. Panikkar 2018:69-70. ↩︎

  7. Sociologo austriaco (1926-2002) celebre per il suo spirito critico e per la sua polemica contro le istituzioni, espressa in libri come Nemesi medica, Descolarizzare la società, Elogio della bicicletta. Per una prima introduzione al suo pensiero, ci si permette di suggerire Calabrò 2018. ↩︎

  8. Panikkar 2018:52; 85; 97; 198; 230; 250. In almeno due di questi casi (pagg. 97 e 198) riecheggia negli appunti di Panikkar la lezione di Illich sulla tecnologia (e sulla povertà da essa indotta) e la sua stessa idiosincrasia verso l’istituzione medica. ↩︎

  9. In Panikkar 2012:84 si legge, nel capitolo «Ultimi dialoghi fra maestro e discepola»: «Il mio difetto maggiore è stata la presunzione, l’orgoglio di sentirmi superdotato intellettualmente e con particolari doni spirituali, che mi sono stati elargiti fin dalla giovane età. È un errore fidarsi ciecamente di essi, in quanto possono alimentare una certa superbia, senso di superiorità e di autosufficienza. Questi pericolosi doni sono più diffusi in India, dove forse la natura umana è meglio predisposta ai fenomeni psichici o paranormali» (corsivo di chi scrive). Nel testo appena citato, nonostante si tratti di un capitolo firmato dalla curatrice, due dettagli potrebbero far pensare che sia lo stesso Panikkar a parlare: l’impostazione del dialogo nella forma «maestro e discepola» e il fatto che a pronunciare quelle parole sia proprio la voce maschile. Ora, per quanto mitigato dal «forse», il riferimento esplicito ai «fenomeni psichici o paranormali» appare senza precedenti nell’opera dell’Autore. Pertanto, coerentemente con la linea da sempre adottata da Panikkar (di tenersi cioè alla larga da certe considerazioni), tale inedita affermazione non va in nessun caso attribuita, neanche come suggestione o come timida forma di apertura, al filosofo. ↩︎

  10. Cfr. ad es. Panikkar 2011:106. ↩︎

  11. Teilhard de Chardin (1881-1955), filosofo cattolico la cui prospettiva trinitaria può essere accostata al cosmoteandrismo di Panikkar. ↩︎

  12. Panikkar 2018:81. Corsivo di chi scrive. ↩︎

  13. Panikkar 2018:180. Corsivo di chi scrive. ↩︎

  14. Panikkar 2018:191. ↩︎

  15. Cfr. al riguardo Calabrò 2014, in particolare pagg. 388-394, a proposito dell’anima, di Dio e della morale. ↩︎

  16. Panikkar 2018:150-151. ↩︎

  17. Panikkar 2018:187. ↩︎

  18. Panikkar 2018:163. La questione della morale in Panikkar – in particolare rispetto alla domanda: esiste una filosofia morale nel pensiero di Panikkar? – è stata approfondita in Calabrò 2009. ↩︎

  19. Panikkar 2018:39; 255. ↩︎

  20. Calabrò 2012. ↩︎

  21. Cfr. Panikkar 2018, dove l’espressione è presente almeno cinque volte. ↩︎

  22. Panikkar 2018:198. ↩︎

  23. Panikkar 2018:135. ↩︎

  24. Panikkar 2018:177, corsivo nel testo. L’Autore parla di creatio continua anche a pag. 205. ↩︎

  25. Per una lettura del pensiero di Panikkar al riguardo, in parallelo a quello della Scolastica e del buddhismo, cfr. Calabrò 2012. ↩︎

  26. Cfr. Calabrò 2013. ↩︎

  27. Ciò anche perché Panikkar si è poco dedicato a rendere esplicite certe sue intuizioni, in specie nel dominio dell’ontologia, come egli stesso ha talora ammesso: «Sto cambiando radicalmente la mia visione della realtà – espressa in maniera troppo criptica nella visione cosmoteandrica» (2018:57). ↩︎

  28. Per una trattazione fondante dell’epistemologia del filosofo e della sua metafisica cosmoteandrica (ivi comprese le nozioni di mito, simbolo, pluralismo, relatività radicale e le critiche della cosa in sé, dell’oggettività e dell’universalità), cfr. Panikkar 2000; 2004; 2006. Per un’esposizione sintetica, nella prospettiva del confronto fra il pensiero di Panikkar e le scienze, cfr. Calabrò 2011. ↩︎

  29. Nella realtà, ogni cosa è legata ad ogni altra: non esistono oggetti ma simboli, i poli delle relazioni. Così Panikkar (2004:90): «È questa relatività radicale che sta sullo sfondo della coscienza cosmoteandrica: non possiamo chiudere la comunicazione fra le sfere del reale. Inoltre, questa comunicazione non può essere solo un legame morale o una vaga conoscenza del fatto che le cose sono in relazione. In termini aristotelici, le relazioni devono essere reali al pari degli elementi che pongono in relazione. In altre parole, lo status ontologico della coscienza che unisce le diverse sfere dell’esistenza deve avere almeno la stessa consistenza delle sfere che unisce. In tal modo l’universo o è costituito di relazioni così forti (e così reali) come le cose relazionate, o queste si dissolvono in un universo caotico, disgregato e solipsista. E c’è ancora di più, come dice l’advaita: le relazioni sono la vera realtà; i poli sono in quanto sono poli della realtà: un polo solo non esiste; è una astrazione» (corsivo nel testo). Non è dunque eccessivo, in questa prospettiva, affermare che siano le relazioni i costituenti primi della realtà; le quali, in seconda battuta (ma a ben vedere i due momenti sono uno, come vedremo meglio in seguito), permettono alle cose di essere «al loro interno». ↩︎

  30. Nel senso utilizzato da Raimon Panikkar, cioè di quel sostrato indispensabile al pensiero per evitare il regresso all’infinito nell’ambito della ricerca dei fondamenti di ogni cosa: «Il mito che si vive comprende l’insieme dei contesti che si danno per scontati. Il mito ci dà il punto di riferimento che ci orienta nella realtà; […] è sempre l’orizzonte accettato entro cui si situa la nostra esperienza della verità. Io sono immerso nel mio mito così come altri lo sono nel loro. Non ho coscienza critica del mio mito, così come gli altri non sono consapevoli del loro. È sempre l’altro che, alle mie orecchie, parla con un certo accento. È sempre l’altro che io sorprendo a parlare muovendo da preconcetti infondati» (2000:34-35). ↩︎

  31. «Il simbolo non è né un’entità puramente oggettiva presente nel mondo (quella cosa «laggiù»), né un’entità meramente soggettiva presente nella mente (in noi «quaggiù»). Non vi è simbolo che non sia dentro e per un soggetto, così come non vi è simbolo che sia privo di un contenuto specifico rivendicante oggettività. Il simbolo abbraccia e lega costitutivamente i due poli del reale: l’oggetto e il soggetto» (Panikkar 2000:23). ↩︎

  32. Per una prima critica alla «cosa in sé», cfr. Calabrò 2011 e 2014. ↩︎

  33. In particolare, si utilizza in inglese il termine «theory-laden» per esprimere il fatto che non esiste osservazione che prescinda da qualsiasi teoria. Così ad esempio, sul fronte della filosofia della scienza, P.K. Feyerabend (commentato in Cenedese s.d.): «Non esiste una qualche base osservativa neutrale che funga da pietra di paragone tra sistemi cosmologici in competizione tra loro e che renda possibile la scelta tra paradigmi diversi, i cosiddetti ‘dati osservativi’ sono, in realtà, teorici, sono essi stessi delle interpretazioni» e Kuhn: «La percezione è carica di teoria» (T. Kuhn, citato in Dorato 2007:186). Dal versante della fisica fondazionale, si legge del resto che «Einstein diceva che è la teoria a decidere ciò che è «osservabile». Penso che avesse ragione – l’«osservazione» è una faccenda complicata e condizionata dalla teoria»: Bell 2010, 289. Il termine «theory-laden» risale a Hanson 1978 (citato in Polanyi 2007:34). ↩︎

  34. Nessuna delle descrizioni della fisica può aspirare all’onnicomprensività, né tanto meno alla validità «universale» (cioè in qualunque luogo, in qualunque tempo, indipendentemente dalle circostanze). Cfr. al riguardo l’opinione di Margenau, per il quale se ci si fosse limitati a studiare, per quanto esaustivamente, il comportamento delle particelle singole, il principio di esclusione di Pauli non avrebbe mai potuto essere previsto; anzi «dal punto di vista del problema del corpo singolo il principio non ha significato» (Margenau 1987:26). ↩︎

  35. Circa questa affermazione apparentemente «scandalosa», cfr. Calabrò-Santasilia 2014. ↩︎

  36. Cfr. Panikkar 19922:183, dove l’autore afferma che, per il buddhismo, essere è un verbo e non un sostantivo. Che questa sia anche la sua personale posizione filosofica, è riscontrabile in Panikkar 1998:86. Cfr. inoltre Panikkar 2005:172. L’Essere è nel tempo, nell’evento: le cose sono reali perché appaiono reali. Il padre è padre finché c’è il figlio; quando il figlio non c’è più, smette di essere padre. Le relazioni (ad es., la paternità) non sono qualità che possano venir ipostatizzate negli enti come se si trattasse di un titolo di studio che – una volta attribuito – non possa più esser revocato. ↩︎

  37. Panikkar 2000:22. ↩︎

  38. Il libro di fisica di mia figlia (Fabbri-Masini 2015:15), al primo anno del liceo scientifico, afferma che una grandezza fisica è quella «grandezza che siamo in grado di misurare». Poi arriva l’università e si smette di insegnare che la realtà è più ampia di quella che siamo in grado di conoscere, per quanto raffinata e ambiziosa la nostra fisica giunga ad essere. ↩︎

  39. Panikkar 2000:337. ↩︎

  40. «Se si riscontrano delle differenze tra quanto viene stabilito vero o falso nelle varie situazioni culturali, linguistiche, sociali e/o storiche, esse devono venire accuratamente preservate, poiché non si dà alcuna situazione «superiore» che possieda un accesso privilegiato alla verità (in altre parole, non esiste quello che è stato variamente definito come lo «sguardo da nessun luogo», la prospettiva «dell’Occhio di Dio» o la «concezione assoluta del mondo», rispettivamente da Thomas Nagel, Hilary Putnam e Bernard Williams)» (Amoretti e Vassallo 2010:26-27). ↩︎

  41. «Per poter funzionare, la scienza necessita di una cornice di riferimento, di un’impalcatura di principi e di leggi. Non può spiegare tutto, perché ha bisogno di partire da qualcosa che va dato per scontato, come premessa. Un esempio di punto di partenza sono gli assiomi dei teoremi matematici – asserzioni non dimostrate che vengono accettate come ovvie e perciò si presumono vere – oppure, nelle teorie della fisica, alcune leggi della Natura, come la conservazione dell’energia e della carica elettrica, la cui validità è spesso estesa ben oltre l’ambito entro cui possono essere verificate sperimentalmente» (Gleiser 2011:23). Cfr. Bohr (1979:146), a proposito della meccanica quantistica: «La lezione che ne abbiamo ricevuto sembra averci fatto compiere un passo decisivo in avanti, nella lotta incessante per l’armonia fra contenuto e forma, e averci insegnato una volta di più che nessun contenuto si può afferrare senza uno schema formale, e che qualsiasi forma, per quanto utile si sia dimostrata in passato, può rivelarsi troppo ristretta per comprendere nuove esperienze». Cfr. inoltre Planck (1993:249-253): «Non ci sono grandezze fisiche immediatamente misurabili. Al contrario, ogni misura non acquista senso che attraverso l’interpretazione datale dalla teoria. […] Non si creda infatti di poter giudicare il significato fisico di una questione senza servirsi di una teoria. Succede anzi abbastanza spesso che un certo problema abbia un senso fisico secondo una teoria e non lo abbia secondo un’altra». Sulla stessa lunghezza d’onda Max Born (citato in Gembillo 1987:4): «Dobbiamo accettare il fatto che anche nella fisica, come in tutte le altre attività umane, le convinzioni fondamentali vengono prima del ragionamento», nonché Werner Heisenberg (ivi citato:9): «Ogni lavoro scientifico si sviluppa infatti, consciamente o inconsciamente, a partire da un’impostazione filosofica, da una determinata struttura mentale, che fornisce al pensiero un fondamento stabile. Senza una simile impostazione, difficilmente i concetti e i nessi concettuali potrebbero conseguire quel grado di chiarezza e di univocità che è il presupposto di ogni lavoro scientifico». ↩︎

  42. Così ad es. Carlo Sini (2000:219): «In effetti, se ci rifletti lettore, non vi è legittimità logica nel pensare che, per il fatto che qualcosa accade, è accaduto, continua ad accadere, sempre accadrà, ciò ci autorizzi a identificare quello che accade con l’area dei significati che noi, nei nostri caratteristici e caratterizzanti intrecci di pratiche, ora incarniamo e siamo e frequentiamo, e quindi, per esempio, con le ipotesi «realistiche» del nostro senso comune o con la mentalità «obiettivistica» dei nostri scienziati». Il mito è trasparente a chi lo vive: «Il senso comune è così il motore oscuro delle figure della storia e del sapere ed è null’altro che il movimento continuo del «lavoro», nel suo verum-factum (Marx ne intese ben qualcosa). Chiedere di «vedere» o di «mostrare» questo movimento è un puro non senso: si vede dalla prospettiva, non si vede la prospettiva (se non da un’altra prospettiva)» (Sini 2008:51). ↩︎

  43. «La catena delle dimostrazioni e deduzioni non può risalire all’infinito: bisogna partire da qualcosa di non dimostrato, o non dimostreremo mai nulla» (Berto 2008:16). ↩︎

  44. Cfr. ad es. Dorato (2007:62): «Qualunque richiesta di spiegazione parte sempre da un insieme di credenze di sfondo – che si considerano come non problematiche, o ben comprese – alle quali la spiegazione riconduce il fatto da spiegare». ↩︎

  45. «È segno di impreparazione il non saper riconoscere di quali cose si debba cercare dimostrazione e di quali no; difatti, è senz’altro impossibile che si dia dimostrazione di tutte quante le cose (in tal caso, infatti, si andrebbe all’infinito e, quindi, neppure così si produrrebbe dimostrazione» (Ludwig Wittgenstein, citato in Berto 2008:205). ↩︎

  46. «Nella costruzione di un sistema non si comincia mai da zero. È inevitabile partire da alcune concezioni degli elementi presenti nel dominio e da convinzioni su di essi che ne avviano la costruzione» (Goodman 2011:20). Ed anche (ivi:56): «Non si può avere un’idea del movimento (né di nessun’altra cosa) se non relativamente a una cornice di riferimento». ↩︎

  47. Ciò di cui Panikkar prende atto in certa misura, non senza una stupita ammirazione: «Il funzionamento di un essere pare seguire vie, modelli, modi di comportamento che sembrano ubbidire alle regole del pensiero logico. Che i corpi cadano appartiene all’esperienza sensibile; che nella caduta dei corpi essi sembrino seguire, anzi ubbidire a regolarità che il nostro pensiero logico scopre, è una vera rivelazione circa la natura dei corpi. Non basta dire che queste regolarità le abbiamo «dedotte» da una ripetizione di semplici osservazioni, perché noi scopriamo le stesse leggi (della caduta in questo caso) quando estrapoliamo in condizioni ben diverse. Non possiamo affermare che la natura ubbidisce alla mente, ma dobbiamo riconoscere che c’è un’armonia meravigliosa e misteriosa tra la natura e la mente logica dell’uomo» (2005:168). Ma che stupisce, più di tutti, i fisici: «Il miracolo dell’appropriatezza del linguaggio della matematica nella formulazione delle leggi della fisica è un dono meraviglioso che non comprendiamo» (Wigner 2017:39). ↩︎

  48. Per una prima discussione intorno a questi temi, cfr. Sini 2012, nonché Calabrò 2011, 2012, 2014, Calabrò-Santasilia 2014. ↩︎

  49. Per rendersene conto, basta osservare la produzione bibliografica degli ultimi 5 anni: solo 23 libri editi in Italia, meno di 5 all’anno; di questi, ben 16 di Panikkar e solo 7 di studi su di lui. Di questi ultimi, ancora, almeno 3 autoprodotti (nessuno dei 23 è dedicato all’ontologia, ca va sans dire). Nel 2017, 1 solo libro su Panikkar (Marcato 2017. Ottimo, peraltro; uno dei migliori testi su Panikkar usciti negli ultimi dieci anni); nel 2018, nessuno. ↩︎

  50. Non basta infatti un singolo incontro a creare un dibattito significativo e duraturo. Anche se l’interlocutore di Panikkar, in quell’incontro, era Emanuele Severino. Gli atti sono disponibili oggi in Panikkar-Severino 2014, con l’ottima Introduzione di Luigi Vero Tarca. ↩︎

  51. Nel 2001, Raimon Panikkar ha vinto il Premio Nonino «a un maestro del nostro tempo». ↩︎