Poeticità e politicità: Agamben e il coraggio morale della profanazione d’avanguardia

Potentia potentiae

L’avanguardia, in Italia, ha rappresentato un momento di netta cesura con il canone classico prettamente estetico, rompendo le forme, le armonie e la linearità discorsiva. L’atto di creazione avanguardista si presenta come atto di resistenza, gesto sovversivo che mette in crisi la foucaultiana società del controllo, liberando l’arte da qualsiasi tipo di costrizione entro la quale la vita è offesa ed imprigionata. È dal linguaggio stesso, inteso come campo di battaglia, che deve partire la rivoluzione, al fine di non reiterare le forme linguistiche borghesi chiuse nella loro circolarità e continuamente tendenti ad un telos estetico in cui la dialettica potenza-atto trova la più viva possibilità di concretizzazione. Di qui si tenga in considerazione la definizione che Giorgio Agamben fornisce sul concetto di atto di creazione:

L’elemento genuinamente filosofico contenuto in un’opera – sia essa opera d’arte, di scienza, di pensiero – è la sua capacità di essere sviluppata, qualcosa che è rimasto – o è stato volutamente lasciato – non detto e che si tratta di saper trovare e raccogliere.1

Per Agamben la poesia ha il compito di cantare ciò che si è perso, nel tentativo di indagare i movimenti del non-detto a partire da due fondamentali concetti che si pongono sulla scia di Aristotele: potenza (dynamis) ed atto (energeia). La potenza è definita dalla possibilità del suo non-esercizio: colui che la possiede, può liberamente scegliere se metterla in atto o meno, e dunque se esercitarla oppure sospenderla nel passaggio all’atto. Essa, pertanto, è costituita da una potenza e da una impotenza.

Ogni potenza è impotenza dello stesso e rispetto allo stesso (di cui è potenza) […]. Adynamia, “impotenza”, non significa qui assenza di ogni potenza, ma potenza-di-non (passare all’atto), dynamis me energein.2

Sotto la prospettiva agambeniana, allora, l’artista è colui che possiede una potenza e che ha facoltà di decidere se metterla in atto o meno, coesistendo nella dimensione del potere e del poter-non. Si potrebbe allora affermare che l’uomo sia il sovrano della propria potenza e che di conseguenza possa decidere se applicarla o meno, trasformando così in forza produttiva l’effetto collegato alla sospensione del passaggio potenza-atto, recepito come peccato morale dai testi patristici fino all’utilitarismo positivista o a quello neoliberale. In ogni atto di creazione vi è sempre qualcosa che gli resiste, motivo per cui la potenza contiene in sé stessa una forma di resistenza che la lascia sospesa nel passaggio all’atto. È proprio in questo momento di sospensione, di resistenza, che si concretizza il gesto rivoluzionario avanguardista.

Il prodotto d’avanguardia si spinge oltre qualsiasi limite, giungendo fino all’inespressività che spezza l’opera non riconducendola più ad un unicuum totalizzante: essa, opponendosi alla totalità, si sfalda nel tentativo di frenare il suo compimento verso l’atto, resistendo e non esaurendosi unicamente nella fruizione estetica. La potenza-di-non costituisce il vero momento critico all’interno del quale l’opera si disattiva alla sua museificazione. Così facendo, si distrugge completamente l’invisibile catena che agisce nel mantenimento costante della società del controllo per cui:

Prima di tutto, la scala del controllo: non si tratta di intervenire sul corpo in massa, all’ingrosso, come fosse una unità indissociabile, ma di lavorarlo nel dettaglio; di esercitare su di esso una coercizione a lungo mantenuta, di assicurare delle prese al livello stesso della meccanica – movimenti, gesti, attitudini, rapidità: potere infinitesimale sul corpo attivo. E poi, l’oggetto, del controllo: non, o non più, gli elementi significanti della condotta o il linguaggio del corpo, ma l’economia, l’efficacia dei movimenti, la loro organizzazione interna.3

Nel passo sopra citato, Foucault mette un accento sulle modalità di controllo generate dalla macchinazione che impone la propria egemonia sull’economia, la quale si è appropriata della vita e delle sue produzioni che non possono più essere considerate come libere ed indipendenti. Il linguaggio si trova ad essere ingabbiato all’interno di questi processi che, in prima istanza, abitano il tema del politico. Se il fascismo aveva propagandato un ritorno ai canoni ideali classici, sancendo la proliferazione di forme armoniose, musicali e lineari, e dunque favorendo principalmente l’ideale canone di bellezza estetica, al contrario l’avanguardia si propone di distruggere tali direttive di ordine, sottraendosi al controllo, alle regole formali ed agli ideali mitici, nonché alla concretizzazione dell’atto.

L’avanguardia, allora, rimane potenza che non passa all’atto restando libera, inoperosa, ovvero pura potenza. Proprio questa inoperosità, questa potenza-di-non, sancisce il gesto politico che tenta di pensare altrimenti la poiesis, mettendo in questione il fare stesso degli uomini che non riguarda più solo come essi concepiscono il fare arte, bensì come essi concepiscono la politica. La resistenza espressa nelle forme d’avanguardia agisce come istanza critica della potenza che si concretizza in atto, impedendone la sua risoluzione ed il suo esaurimento integrale col desiderio di intervento politico sul presente che abbia uno «scopo morale»4.

Mi scrivo (e piscio) addosso, cara, ormai: (come l’Archimede, Marcello 17, presso Plutarco, un po’): ungimi dunque tanto tutto, soltanto, grassamente tatuami, e trattami, preparandomi la pelle, come un’oleosa lavagnetta magica (e magnetica): e deciframi, perché il mio corpo è un testo, veramente, vivente, da cima a fondo (e imparami a memoria): il cerume nelle mie orecchie, l’unghia incarnata, l’occhio di pernice, la cicatrice nasale, e questo stesso ascesso dentario, che pure combatto con un così antibiotico zelo (con le compresse di rovamicina, ingurgitate a manciate), grigio gergo, per te: ma spero almeno che, se appena io mi muovo un passo, un salto, il domestico dindondan delle mie belle balle, Luciana, ti procuri, prontamente, un significante abbastanza significante (emergendo come un segno particolare, significativamente segnaletico, insomma); in sé e per sé:5

Edoardo Sanguineti rappresenta uno dei massimi esponenti e teorici dell’avanguardia novecentesca in Italia generando, attraverso le linee espressive, una forma di resistenza critica nei confronti del sistema della società.6 L’inespresso di Sanguineti impedisce che le sue forme si risolvano integralmente ed unicamente nella lettura dei versi poetici. Il testo riportato evidenzia chiaramente il procedimento anarchico operato dalle forme poetiche, assumendo la discontinuità come modello nel quale la potenza-di-non esplode in tutte le sue forme sospese nella salvazione dell’imperfezione. Il primo risultato, e forse quello più evidente, è la resistenza all’estetismo: nel momento in cui la creazione non passa all’atto, e dunque non è solo potenza-di, essa non diventa più solo ed esclusivamente esecuzione. La potenza-di-non, ovvero la pura potenza, innesca all’interno dell’opera d’arte un meccanismo per cui il prodotto non è mai un finito. Di qui la necessità di scavare all’interno delle piaghe del non-detto, che altro non è che una potenza che non passando all’atto resta libera da ogni vincolo convenzionale, da ogni tipo di controllo che la società esercita sulle vite.

La potenza-di-non è una resistenza interna alla potenza, che impedisce che questa si esaurisca semplicemente nell’atto e la spinge a rivolgersi a sé stessa, a farsi potentia potentiae, a potere la propria impotenza.7

La poesia, allora, diviene sospensione del linguaggio poiché possiede la potenza di dire e di non dire, di sospendere e di esporre la lingua e le forme, caratterizzata dalla possibilità del suo non-esercizio. Il punto centrale in questione è il concetto stesso di impotenza, intesa come potenza-di-non passare all’atto. La potenza si mantiene in tensione con l’atto per mezzo della potenza-di-non che resiste al passaggio definitivo da un vertice all’altro.

Le poesie di Sanguineti sono disposte lungo un non-ordine nel quale la critica è assunta dalla predominanza dell’elemento anarchico che è di per sé elemento politico: la poesia parla in nome di un’esigenza che però ha perso il suo nome, diventando esigenza di un nome assente. Poiché l’esigenza del poeta, come messo in evidenza da Agamben, è quella di parlare ad un popolo, nel momento in cui esso scompare, la poesia deve parlare in nome della lingua senza popolo.8 Per comprendere meglio il discorso, sarebbe opportuno partire dalla concezione di perdita del popolo, attraverso la quale si sancisce il discorso politico, introdotto da Aristotele all’interno dell’Etica Nicomachea:

Tale è, manifestamente, la politica. Infatti, è questa che stabilisce quali scienze è necessario coltivare nelle città, e quali ciascuna classe di cittadini deve apprendere, e fino a che punto; e vediamo che anche le più apprezzate capacità, come, per esempio, la strategia, l’economia, la retorica, sono subordinate ad essa. E poiché è essa che si serve di tutte le altre scienze e che stabilisce, inoltre, per legge che cosa si deve fare, e da quali azioni ci si deve astenere, il suo fine abbraccerà i fini delle altre, cosicché sarà questo il bene per l’uomo. Infatti, se anche il bene è il medesimo per il singolo e per la città, è manifestamente qualcosa di più grande e di più perfetto perseguire e salvaguardare quello della città: infatti, ci si può, sì, contentare anche del bene di un solo individuo, ma è più bello e più divino il bene di un popolo, cioè di intere città. La nostra ricerca mira appunto a questo, dal momento che è una ricerca “politica”9.

Se già Aristotele aveva considerato la politica come il cuore della società, dalla quale sarebbero dovute poi discendere altre discipline come l’economia e l’arte, nel Novecento, con il rapido avvento del capitalismo che cede il primato all’economico sul politico, anche l’arte si vede subordinata ai movimenti economici che altro non sono che espressione di una egemonia borghese. L’imposizione della classe borghese è imposizione del discorso economico sul politico; l’arte stessa, allora, è assimilata all’interno dei movimenti della merce, reificata e ridotta a museo. L’oggetto artistico, allora, nel suo passaggio dalla potenza all’atto, si esaurisce e si museifica per prestarsi alla pura contemplazione. L’avanguardia, anarchicamente, si sottrae alla linearità e meccanicità dei processi di scambio, spezzando, come prima cosa, le logiche del discorso artistico e resistendo alle imposizioni del bello per riportare all’interno della produzione dell’opera d’arte il discorso politico, che altro non è che un discorso ormai senza popolo.

Poetica e politica

Il discorso politico posto in primo piano dall’avanguardia opera su due versanti: da una parte, rileggendo l’avanguardista Sanguineti attraverso Agamben, si avverte la necessità di ri-pensare il termine poiesis (fare, produrre) a partire dalla sua stretta connotazione tra la poetica e la politica, dal momento in cui fare poesia si avvia a mettere in questione il modo in cui si concepisce la politica. Dall’altra, ricollegandosi al discorso di Aristotele per cui l’opera d’arte ha come compito quello di definire la felicità dell’essere umano, e dunque la sua politica, in una modernità dominata completamente dalle macchinazioni, dagli automatismi, dalla riproducibilità tecnica (non intesa in senso benjaminiano), il vivente è da considerarsi senz’opera: alla mancanza di popolo si somma la mancanza dell’opera nel vivente. Questi due elementi sono fondamentali se si guarda alle teorizzazioni dell’avanguardia in Sanguineti in cui emerge anche la sospensione linguistica nel non-detto: la lingua è esposta e sospesa all’interno del non-verso e può essere recuperata solo ed esclusivamente attraverso il ripristino della coscienza collettiva.

La prassi propriamente umana è quella che, rendendo inoperose le opere e funzioni specifiche del vivente, le fa, per così dire, girare a vuoto e, in questo modo, le apre in possibilità. […] Politica e arte non sono compiti né semplicemente “opere”: esse nominano, piuttosto, la dimensione in cui le operazioni linguistiche e corporee, materiali e immateriali, biologiche e sociali vengono disattivate e contemplate come tali.10

Sanguineti, nelle sue operazioni linguistiche, altro non fa che rievocare i meccanismi di produzione-scambio, sottoponendo la sua stessa arte ai processi di massificazione per criticare direttamente dall’interno il sistema politico-ideologico borghese. Le forme linguistiche esplodono in una ribellione anarchica per cui la potenza-di-non resiste all’atto mostrando il proprio apparato di resistenza critica e rivelandosi nella sua più totale inoperosità, costringendo il lettore a soffermarsi sui versi.

questi che leggi (se mi leggi) sono gli effetti di un’immaginazione guasta e irritata: (queste parole stanno qui trasposte: tu devi mentalmente pronunciarle come virgolette): di un desiderio mal corrisposto: e sono espressioni di tenerezza, di disperazione e di lamento (fine della citazione): e sono il frutto del tuo onirico messaggio: (se è vero che ti perseguito con un doppio martellone di legno, e che mi rompo invece la mia fronte: e mi viene questa emorragia di parole)11:

Fin dall’incipit, il poeta evidenzia che questo suo produrre poesia sia la risultante di un’immaginazione completamente soggiogata ed omologata agli incessanti flussi della merce. Assumendo la poesia stessa la forma della merce, Sanguineti incita il lettore ad una lettura coscienziosa che sia fuori ed al contempo dentro i processi economici, poiché solo trovandosi in una situazione liminare tra le due zone può essere messo in moto un pensiero critico. Il risultato altro non è che un’emorragia di parole che esplodono nella totale assenza di un popolo a cui parlare e che ha perso la politica. La sua lingua diviene, per dirla all’Agamben, inoperosa poiché ha disattivato le sue funzioni utilitaristiche e riposa solo su sé stessa. Questa inoperosità delle funzioni economiche e dell’arte crea nuove possibilità di lettura in un’apertura dello spazio interpretativo verso un nuovo uso. Il risultato della poesia d’avanguardia, e più specificatamente di Sanguineti, è la prova tangibile dell’apertura alla possibilità, che viene resa praticabile dall’inoperosità. L’ inoperosità della poesia considera le pratiche di sospensione e di attivazione dell’attività entro cui la vita stessa è catturata all’interno del movimento sapere-potere; proprio attraverso tale processo il lavoro artistico non è più sfruttato poiché l’arte diviene invenzione sociale e l’opera del potere si arresta sulla vita. All’interno della potenza-di-non, espressa nel processo artistico, si instaura non più una sovranità di linguaggi e di forme, bensì un anarchismo che promulga la totale assenza di comando.

Ogni volta che un potere è in disfacimento, finché qualcuno dà ordini, si troverà sempre anche qualcuno, magari uno solo, che gli obbedirà: un potere cessa di esistere soltanto quando smette di dare ordini.12

Il comando non descrive uno stato di cose ma realizza il fatto verbale; il libero cittadino della società democratica, tecnologica e capitalista è un essere che obbedisce di continuo: si tratta della volontà per cui il discorso si riaggancia al concetto di dynamis espresso nella potenza. Per Agamben, se l’uomo antico è definito come essere di potenza, ovvero un essere che può, al contrario l’uomo moderno è un essere di volontà, un soggetto che semplicemente vuole. Il punto centrale è qui dimostrare come il verbo volere prenda rapidamente il posto del verbo potere, che per Agamben sono entrambi due verbi vuoti. La risultante è che la volontà comanda la potenza imponendo i suoi argomenti. Questo breve excursus permette di ricollegarsi al discorso avanguardistico di Sanguineti, per cui egli delinea un certo tipo di azione poetica per cui la potenza compie un atto sovversivo nei confronti della volontà, creando un sistema comunicativo che ribalta qualsiasi forma di schematismo indetto dal potere politico-economico. L’anarchia si insedia nelle forme dell’arte, svuotandola dei significati dogmatici e distruggendo l’apparenza di un potere che ripete sempre gli stessi schemi.

Ballata dell’automa

che cosa è l’uomo? dove cerchi i suoi segni? è il barometro, l’architettura barocca, il fazzoletto: non c’era il pane, nemmeno, una volta, né i tarocchi, né i fotoromanzi, né il letto:

che cosa è l’uomo? dove sta la sua storia? è la cornice, il cavallo a dondolo, la radio: è la sua vita tutte queste cose, il calendario, l’agopuntura, lo stadio:

che cosa è l’uomo? dove poi te lo trovi? è il gelato alla vaniglia, l’enciclopedia, gli stivali: dove era un niente, sta un significato, per le api le arnie, e per gli occhi gli occhiali:

che cosa è l’uomo? dove sta la sua anima? è il teorema di Pitagora, la chitarra, il giornale: vedi la vanga, le tenaglie, la biro, che fanno il mondo che ti è naturale:

sciogli il tuo braccio, che hai tanto sudato, e lungo è il tempo che ti hanno sfruttato: quando un automa ci avrà faticato, può incominciarci anche l’uomo umanato:13

In questo testo di Sanguineti la volontà viene denunciata attraverso la descrizione dell’uomo-macchina, disumanizzato ed assimilato ai movimenti meccanici indetti dalla mercificazione: esso è ormai un uomo senza contenuto, svuotato dall’azione del potere. Se l’arte definisce, allora, la condizione politica di una determinata società, la prima azione da compiere sarebbe quella di riformarla. Questo progetto di riforma dell’arte fu uno degli obiettivi perseguiti da Sanguineti operando all’interno delle stesse strutture linguistiche ormai decadute, ridotte a pura contemplazione; allo stesso modo, la politica contempla l’economia facendosi pervadere e comandare da essa. L’eclissi della politica è inscindibile dalla perdita dell’esperienza all’interno della società capitalista, ragion per cui il compito del politico sarebbe anche quello di ri-costruire il compito poetico.

Esclusione inclusiva dell’opera d’arte

Nel 1967 Guy Debord pubblica un importante e profetico saggio dal titolo La società dello spettacolo, nel quale vengono enunciate una serie di tesi che mirano ad evidenziare la decadenza dell’aura artistica ed il ridursi della vita umana a semplice spettacolo. Il punto centrale del discorso verte attorno alla feticizzazione dell’esperienza e delle sue produzioni, concentrando l’attenzione principalmente sulla pratica del consumismo e della rappresentazione: è nel consumo che si compie l’alienazione, la quale restituisce una perfetta riproduzione del lavoro sottratto al lavoratore. Ciò che ne risulta è una spettacolarizzazione della vita e delle sue forme espressive, causando la perdita della centralità del politico che assiste alla continua conversione del lavoro (potenza) in merce (atto).

  1. Con la divisione generalizzata del lavoratore e del suo prodotto, si perde ogni punto di vista unitario dell’attività svolta, si perde ogni comunicazione personale diretta tra i produttori. Seguendo il progresso dell’accumulazione dei prodotti divisi e della concentrazione del processo produttivo, l’unità e la comunicazione divengono attributo esclusivo della direzione del sistema. Il successo del sistema economico della separazione è la proletarizzazione del mondo.14

La perdita della comunicazione è riconducibile alla relazione diretta con la cosa: il significato, allora, garantisce la funzione comunicante esattamente come la moneta assicura lo scambio di tutte le cose; il denaro misura le merci appropriandosene così come il linguaggio diviene oggetto di appropriazione e di scambio. Per Agamben, allora, «il linguaggio è il valore spettacolare supremo, perché rivela il nulla di tutte le cose; il denaro è la merce suprema perché mostra in ultima analisi la nullità di tutte le merci»15.

Questa premessa avvalora le scelte linguistiche operate dall’avanguardia di Sanguineti in una indiretta speculazione critica nella quale la potenza-di-non resiste al telos esplicitato dell’atto linguistico che altrimenti si esaurirebbe in una contemplazione passiva del testo mercificato. Se la comunicazione viene assorbita esclusivamente dalla direzione economica entro il processo di scambio, l’avanguardia si inserisce in una zona liminare per cui si esclude e si include nel processo. Di qui la domanda: che cosa comporta per l’avanguardia l’esclusione inclusiva dell’arte nel processo economico? Tenendo sempre come punto di riferimento la produzione di Sanguineti, si può notare come la sua poetica, nella costruzione formale, rifiuti totalmente i meccanismi dominanti che ricercano nell’opera d’arte il telos contemplativo; parallelamente, però, quelle stesse forme vengono inglobate nel meccanismo economico, provocando alienazione, choc, distrazione. Ciò implica una posizione critica e politica per cui l’opera è consapevole della propria situazione liminare per cui potrebbe essa stessa ridursi a museificazione ed essere pertanto assorbita all’interno dei codici vigenti. La resistenza al processo avviene solo nel mancato passaggio dalla potenza all’atto, costituendo un valore critico e politico nei confronti della modernità assorbita dai movimenti del capitale.

[…] poiché il compito politico è oggi costitutivamente un compito poetico, rispetto al quale è necessario che artisti e filosofi uniscano le loro forze. Gli uomini politici attuali non sono in grado di pensare perché tanto il loro linguaggio che la loro musica girano amusicamente a vuoto. Se chiamiamo pensiero lo spazio che si apre ogni volta che accediamo all’esperienza del principio musaico della parola, allora è con l’incapacità di pensare del nostro tempo che dobbiamo misurarci.16

Il compito della Musa che ispira il poeta è stato completamente smarrito dalla società del consumo, così come il compito politico. Alla base di tale perdita si trova lo smarrimento del pensiero che diventa esso stesso una forma reificata, non più in grado di emergere dal flusso insensato delle frasi e dei suoni. Sanguineti stesso, consapevole dello smarrimento del compito musaico, ha incentrato il suo lavoro nella ricerca di uno spazio poetico che, trovandosi nel limite esclusivo-inclusivo del processo, potesse ri-fondare un nuovo ruolo critico e politico della poietica.

Il nuovo compito critico e politico si racchiude in un nuovo concetto di contemplazione che, disattivando l’opera, la rende disponibile ad un nuovo e possibile uso: «veramente poetica è quella forma di vita che, nella propria opera, contempla la propria potenza di fare e di non fare e trova pace in essa»17. La creazione di un nuovo uso è realizzabile solo ed esclusivamente disattivandone uno vecchio, rendendolo inoperoso; di qui la necessità del rimarcare la valenza positiva del concetto di inoperosità che apre alla possibilità. Nell’impossibilità di utilizzare il luogo topico della Musa, reso inoperoso, esso si converte in Museo: Sanguineti fa dell’avanguardia un Museo, specchio del più autentico labirinto moderno che trova la sua più alta esemplificazione in Laborintus; egli accetta le regole del gioco imposte dal mercato senza però glorificarle, ma demistificandole. Viene così presentata la catastrofe della cultura borghese, esperita e raffigurata come linguaggio, come disastro linguistico: il mondo qui è fine-del-mondo ma anche mondo-che-comincia, poiché la connessione dialettica pone il testo poetico non come immediata significanza dei fatti o dei dati empirici, ma al contrario come elaborazione linguistica di determinate circostanze di senso, nonché di situazioni semanticamente già annotate. L’avanguardia riscopre così un nuovo uso nella sua inoperosità, testimoniando un’accettazione dei nuovi valori culturali che impossibilitano la fuoriuscita dalla Palus putrendis moderna.

e ormai un sogno respinto ma in masticazione ma il sogno ma il sogno stesso era una vita e masticazione e vita e produzione e sogno in cerebro meo soltanto in cerebro meo dove l’orizzonte è seriamente orizzonte il paesaggio è paesaggio il mundus sensibilis è mundus sensibilis la coniunctio è coniunctio il coitus coitus ma ormai in un orizzonte orizzontale per forza di serietà ricuperare ma ormai ricuperare in me per forza di sogno ma ormai i paesaggi del mare e il re marino tutti i paesaggi sensibili del mare tutti i paesaggi ricuperare in me e lo scheletro maturo del re marino e lo scheletro cerebrale della figlia del re marino et in cerebro meo ricuperare in me e respingere nei giorni e in comprensione e comprensione e comprensione ma ormai18

Il discorso si conclude con la rassegnazione verso le nuove norme del museo-labirinto; la poesia diviene un’arte da museo che subisce l’alienazione, proclamandone un nuovo uso che è di tipo politico. Questa operazione sanguinetiana disattiva qualsiasi dispositivo di potere, operando direttamente dall’interno delle forme, pertanto profanando l’uso normalizzato e restituendo l’arte al suo compito politico. Giorgio Agamben, all’interno del saggio Elogio della profanazione, indaga le modalità attivate attraverso tale processo, partendo dal presupposto che «pura, profana, libera dai nomi sacri, è la cosa restituita all’uso comune degli uomini»19. In questo frangente si evidenzia la relazione tra usare e profanare in cui il gioco segna il passaggio dal sacro al profano, riabilitando l’usanza religiosa all’interno della sfera profana e, dunque, lasciando cadere la sfera del mito. Questo stesso concetto del jocus è riscontrabile all’interno della poetica sanguinetiana, la quale spezza qualsiasi legame con la sfera mitica per concedersi, invece, alla sfera più propriamente storica, critica e politica. Con la rottura del legame mitico, Sanguineti apre alla favola, ritenuta capace di riattivare materiali culturali rimossi, avvicinandosi ad una visione critica della realtà che condanna e denuncia nelle sue operazioni di occultamento. A tal proposito si voglia volgere uno sguardo agli studi sul mito compiuti da Furio Jesi – fortemente influenzati dalla visione critica benjaminiana –20:

La macchina mitologica diviene un congegno pericoloso sul piano ideologico e politico, anziché soltanto un modello gnoseologico provvisoriamente utile, quando ci si lascia ipnotizzare da essa. Dunque: quando ci si lascia subire la sua indubbia forza fascinatoria – quando si accetta la sua esortazione: “Non badate tanto al mio modo di funzionare, quanto alla mia essenza”21.

Con il sintagma «macchina mitologica» Jesi intende un tipo di funzionamento automatico che genera l’illusione stessa di nascondere il mito entro i propri confini. Per Sanguineti, la circolarità indetta dal mito viene abbattuta dalla funzione favolistica, permettendo la fuoriuscita dal processo di ripetizione; le favole didattiche avrebbero potuto spingere il lettore ad una più solida coscienza ideologica che il mito non offriva. La potenzialità favolistica, allora, è intesa con un nuovo uso volto a ripristinare la sua funzione più propriamente politica. È evidente che il nucleo del discorso ruoti attorno al tema del politico o, più nello specifico, lungo il risveglio della coscienza collettiva, liberata dalle mistificazioni ideologiche dei processi borghesi. Profanando le modalità espressive dell’opera d’arte, si aprono nuove possibilità di lettura che rifiutano l’automatismo spettacolare, convertendo il concetto di estetica in quello di politicità. Il processo di ripetizione, di matrice borghese, ingabbia il fruitore nei meccanismi delle false ideologie, proiettandone la lettura unicamente dal punto di vista dei vincitori. Scardinare il continuum delle forme implica un processo sovversivo per cui l’uso e la profanazione sono percepititi come modelli alla base del progresso sociale; la potenzialità, allora, si erge a forma critica dell’atto ingabbiato nella macchina borghese, da cui è necessariamente importante liberarsi sabotando e praticando le vie dell’arte al fine di rovesciare qualsiasi rapporto di forza nell’orizzonte vitale che risvegli il coraggio morale della coscienza collettiva.


  1. Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, Nottetempo, Roma 2014, p. 40. ↩︎

  2. Ivi, p. 44. ↩︎

  3. Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, tr. it. di Alcesti Tarchetti, Einaudi, Torino 1993, p. 46. ↩︎

  4. Edward Said, Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, Il Saggiatore, Milano 2007, p. 140. ↩︎

  5. Edoardo Sanguineti, 45, in Mikrokosmos. Poesie 1951-2004, Feltrinelli, Milano 2004. ↩︎

  6. «Quando la Filosofia di Adorno cristallizza il quadro, in un supremo tentativo di interpretazione globale, ciò si rende possibile, come e di buona norma, proprio perché il processo, compiuto sino in fondo, si è alfine esaurito, e si è fatto così pensabile e descrivibile in modo totale, secondo tutte le valenze pratiche e ideologiche. Ma sarà anche in quel momento medesimo, di necessità, che la cristallizzazione si rompe. È nata la musica “novissima”, la musica “aperta”». Edoardo Sanguineti, Cultura è realtà, Feltrinelli, Milano 2010, cit., p. 327. ↩︎

  7. Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, 2014, p. 52. ↩︎

  8. Cfr. Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, 2014, p. 70. ↩︎

  9. Aristotele, Etica Nicomachea, tr. in it. di Carlo Natali, Laterza, Bari 1999, p. 9 ↩︎

  10. Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, 2014, p. 59. ↩︎

  11. Edoardo Sanguineti, 31, in Mikrokosmos. Poesie 1951-2004, 2004. ↩︎

  12. Giorgio Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, Neri Pozza, Vicenza 2017, p. 96. ↩︎

  13. Edoardo Sanguineti, La ballata dell’automa, in Mikrokosmos. Poesie 1951-2004, 2014. ↩︎

  14. Guy Debord, La società dello spetacolo, a cura di Paolo Salvadori, Vallecchi, Firenze 1979, p. 14. ↩︎

  15. Giorgio Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, Neri Pozza, Vicenza 2017, p. 127. ↩︎

  16. Giorgio Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, 2017, p. 127. ↩︎

  17. Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto, 2014, p. 142. ↩︎

  18. Edoardo Sanguineti, Laborintus, 1954, vv. 25-60. ↩︎

  19. Giorgio Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, p. 84. ↩︎

  20. Per Benjamin il mito rappresenta il dominio di una apparenza che porta all’essere in colpa, nonché ciclicamente ed eternamente in debito; una peculiarità del mito sta proprio nel suo carattere ciclico, nonché appiattimento della storia e sbarramento della redenzione. La condizione mitica rappresenta dunque un assoggettamento al destino, al dominio delle cose. ↩︎

  21. Furio Jesi, Mito, Mondadori, Torino 1980, pp. 108-109. ↩︎