Verità e potere. Hannah Arendt e il problema etico dell’arroganza

È forse proprio dell’essenza stessa della verità essere impotente e dell’essenza stessa del potere essere ingannevole? […] la verità impotente non è forse disprezzabile quanto il potere che non presta ascolto alla verità? — H. Arendt, Verità e politica, p. 30

Hannah Arendt ha dedicato molte pagine al problema della verità e del potere, indagando in particolare la questione del ricorso alla menzogna in politica, lo stesso tema sul quale l’amico Alexandre Koyré (2010) aveva scritto un saggio nel 1943.1 I due testi più importanti della Arendt al proposito furono pubblicati più di un quarto di secolo dopo: Verità e Politica apparve nel 1968, in risposta alle feroci accuse generate dal celebre resoconto che l’allieva di Heidegger aveva pubblicato sul processo al criminale nazista Adolf Eichmann;2 La menzogna in politica fu scritto tre anni più tardi, in occasione dello scandalo suscitato dalla diffusione del contenuto dei Pentagon Papers, una ricostruzione in 47 volumi della politica americana nel Sud Est Asiatico dalla fine del secondo conflitto mondiale alla guerra in Vietnam. Il rapporto, che prese il nome dalla sede del committente, il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, aveva rivelato che per decenni le autorità politiche e militari erano ricorse alla menzogna e alla dissimulazione nell’informare la popolazione americana su quanto stava avvenendo; questo episodio spinse la Arendt a riflettere sulla correlazione tra agire politico e falsificazione dei fatti.3

Obiettivo di quanto segue è ricostruire le riflessioni della Arendt riguardo agli aspetti etici del rapporto tra verità e potere, con un’attenzione specifica a ciò che sembra valere per qualsiasi tipo di esercizio del potere. Si lasceranno dunque da parte sia l’interpretazione dei fatti storici che hanno offerto l’occasione agli scritti citati, sia le conclusioni della Arendt che sono applicabili esclusivamente alla sfera politica. (Cedroni 2012a)^[4]

Il saggio in risposta alle polemiche sul caso Eichmann si apre con la constatazione che la storia sembra presentarci come contrapposti verità e politica, quasi che la verità fosse estromessa dalle dinamiche di potere: l’esperienza mostra infatti che chi è sincero viene emarginato o osteggiato con violenza da chi ha potere, mentre chi ha potere manifesta di frequente la tendenza a mentire, anzi «le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista» (1995, 29). Ci troviamo, insomma, di fronte a un’antinomia: se, da una parte, il principio che la verità dovrebbe servire al potente (e dunque il potente dovrebbe ascoltarla), sembra derivabile del principio già formulato da Aristotele secondo il quale per agire volontariamente è necessario conoscere,4 dall’altra parte, si può constatare che tra potere e verità vi è spesso una relazione conflittuale, quasi che la verità debba essere strutturalmente condannata all’impotenza e il potere alla menzogna. Una prima spiegazione a questa apparente dicotomia è individuata dalla Arendt nel fatto che, in chi ha potere, la verità genera ostilità quando impone un comportamento che contrasta con il proprio personale interesse, con qualche piacere, o col diritto di dominio su altri. Al riguardo la Arendt cita il Leviatano, nel quale si afferma che solamente quella verità «che non si oppone ad alcun profitto né piacere umano, riceve una buona accoglienza da parte degli uomini», e osserva che per Hobbes tale affermazione è considerata così importante da essere scelta come frase conclusiva della sua celebre opera (1995, 33).5 Il conflitto tra verità e potere troverebbe allora la sua causa nel fatto che l’uomo diventa ostile alla verità quando questa pone degli ostacoli a ciò che vuole fare, dunque al suo potere. Ora, ci sembra che questa osservazione già riveli la posizione di fondo della Arendt sulla questione, perché riconduce la contrapposizione tra verità e potere alla decisione, laddove si imponga la scelta tra l’una e l’altro, di difendere il proprio potere, a costo di mentire. Ora, obiettivo di quanto segue è arrivare a mostrare che dai testi della Arendt emerge che tale decisione ha come presupposto etico fondamentale l’arroganza, ossia quella smodata stima di sé che conduce ad anteporre il proprio giudizio e il proprio volere ad ogni altra cosa.

1. Il problema della menzogna e le sue affinità col potere

Va innanzitutto rilevato che nell’usare il termine verità la Arendt non intende né la verità ontologica, né la verità come presupposto implicito di ogni azione, dunque la verità pratica: il riferimento è chiaramente alla verità nel senso del dire la verità. Ella infatti afferma, come già aveva fatto Koyré, che il conflitto tra verità e potere non scaturisce dal negare che si dia una verità: piuttosto, presuppone che la verità ci sia, ma che la decisione se occultarla, manipolarla o riscriverla costituisca parte integrante dell’esercizio del potere. Il problema cruciale del rapporto tra potere e verità, insomma, riguarda la veridicità: chi ha potere si trova di fronte al dilemma se dire o non dire la verità, o anche se attestare o confutare i fatti, tramite la propria azione.

Possiamo osservare che ciò ha innumerevoli applicazioni: non solo il politico ha il potere di decidere se ammettere il fallimento rispetto a quanto promesso agli elettori, o celarlo riportando statistiche addomesticate per non perdere i privilegi acquisiti; ma anche il medico può ammettere di aver sbagliato diagnosi, oppure ostinarsi a riconfermare la stessa terapia, nella speranza che nessuno scoprirà l’errore; il docente ha la facoltà di decidere se insegnare onestamente la propria materia o trasmetterla in modo unilaterale, così da adattarla a una certa visione ideologica; lo studente ha il potere di imparare quanto prescritto dall’insegnante, o fingere di aver studiato, copiando all’esame. Fin dall’antichità la questione etica e sociale del dire il vero è emersa con chiarezza, in particolare con il concetto di parresia, che per i Greci indicava la virtù di dire tutta la verità, richiesta soprattutto a chi esercita il potere politico e quello giudiziario,6 riproposta nel dibattito contemporaneo da Foucault con le sue ultime lezioni al Collège de France, nel 1983.7 Speculare al problema di dire il vero è la questione della menzogna, un altro tema presente nella storia del pensiero fin dall’antica Grecia.8 Anche la Arendt affronta la questione del rapporto tra verità e potere a partire da questo concetto, e ne offre un’analisi fenomenologica nel suo testo del 1972, appunto su La menzogna in politica.

In primo luogo, è necessario distinguere il mentire dall’errare, perché l’errore è una carenza involontaria della nostra conoscenza, mentre la menzogna è volontaria, dunque ha un carattere molto più attivo e «aggressivo», in virtù del quale non può essere ridotta a carenze percettive o intellettuali. Fin da Platone, Aristotele e Agostino, la menzogna è identificata proprio grazie al suo carattere intenzionale, per la volontà di ingannare l’altro. Tuttavia, la Arendt non dà una rilevanza prioritaria a questo aspetto che distingue il dire il falso della menzogna dal dire il falso proprio dell’errore.9 Per questo la sua riflessione si pone come un punto di vista differente, ma complementare, a quello sviluppato da altri sulla questione. Ad esempio, Jacques Derrida, in una serie di conferenze che tenne proprio in onore della Arendt alla New School of Social Research di New York nel 1993, mise in evidenza come è il carattere intenzionale ciò che rende la menzogna un problema etico, e non gnoseologico, quale è l’errore (Jay 2008).10 L’impostazione scelta dalla Arendt deriva plausibilmente dal suo interesse che, come accennato, è politico (dunque teso a valutare gli effetti della menzogna a livello pubblico) più che etico (concentrato sul bugiardo prima che sull’effetto del suo mentire).

In secondo luogo, mentire è diverso dal mantenere un segreto, dovere riconosciuto tanto in campo diplomatico quanto in vari altri ambiti della vita umana, ad esempio nell’obbligo di mantenere il «segreto professionale», quella riservatezza che in molte attività lavorative è dovuta riguardo a informazioni personali o di grande rilevanza. Nonostante il dovere di mantenere un segreto sia essenzialmente diverso dal diritto di mentire, la Arendt osserva che di frequente i due vengono confusi, perché sono considerati entrambi come mezzi per ottenere dei fini legittimi che il potere deve raggiungere. (2007, 9) Tale confusione evidentemente facilita la legittimazione della menzogna, considerata con indulgenza non solo dall’uomo comune e dagli uomini di potere, ma anche da molti esponenti della riflessione politica e filosofica. L’analisi deve allora raggiungere una maggior profondità, per verificare se, al di là del fenomeno del mentire, si possano individuare delle caratteristiche essenziali dell’uomo che spiegano il rapporto tra potere e menzogna.

1.1. L’analogia tra mentire e agire

Dalla lettura dei testi già citati emerge che per la Arendt esistono due aspetti tipici dell’uomo, i quali possono spiegare la tendenza umana a considerare la menzogna come un comportamento giustificabile: si tratta, da un lato, della «natura dell’azione», e dall’altro della «natura della nostra abilità di negare nel pensiero e nelle parole qualsiasi cosa ci si presenti davanti». La Arendt riconduce sia la capacità di agire sia la capacità di mentire a una risorsa tipicamente umana: l’immaginazione.11 La capacità di agire è «la possibilità di cambiare i fatti», mentre la capacità di mentire è «la deliberata negazione della verità fattuale», ed entrambe presuppongono che ci sia una realtà, qualcosa di dato (dunque non si parta dal nulla), ma anche che sia possibile rimuovere, cambiare ciò che è presente, innanzi tutto astraendosi da esso e immaginando come potrebbe essere diverso. La capacità di cambiare la realtà attesta che l’uomo è libero.

Se è vero che siamo ben equipaggiati, fisicamente e mentalmente, per comprendere il mondo, è anche vero che non siamo inseriti o insediati in esso come una delle sue parti inalienabili. Siamo liberi di cambiare il mondo e di dare inizio in esso a qualcosa di nuovo. Senza la libertà mentale di negare o affermare l’esistenza, di dire «sì» o «no» — non solo ad affermazioni o proposizioni nei confronti delle quali possiamo dichiararci in accordo o in disaccordo, ma alle cose che sono date, al di là di ogni accordo o disaccordo, ai nostri organi percettivi e cognitivi — nessuna azione sarebbe possibile. (Arendt 2007, 11)

Dunque, alla radice di ogni potere, anche di quello di mentire, sta la libertà umana e soprattutto quella libertà che permette all’uomo di pensare il mondo come diverso da quello che è, tramite l’immaginazione, e poi di intervenire in esso, dando inizio a qualcosa di nuovo, attraverso l’azione.

1.2. I fatti come vittime della menzogna

Esiste però una seconda ragione per cui secondo la Arendt menzogna e politica (ma potremmo di nuovo estendere l’affermazione al potere in generale) sono intrinsecamente connesse: entrambe hanno a che fare con fatti contingenti, ossia con stati di cose che non sono necessariamente, e quindi neppure sono necessariamente veri. La storia, per esempio, nel suo tentativo di ricostruire i fatti accaduti, si appella a testimonianze e testimoni affidabili, così da vincere dubbi e distorsioni. In tal modo rivela quanto la singola affermazione fattuale sia insicura e attaccabile, contrariamente ad asserzioni come «due più due fa quattro», dunque alle verità necessarie. (2007, 13)

La Arendt riprende a questo proposito la distinzione di Leibniz, tra verità di ragione, necessarie e fondate sul principio di non contraddizione, e verità dei fatti, contingenti, che devono essere verificate nella realtà, perché possono essere conosciute solo per esperienza. Ebbene, un contributo specifico della sua riflessione è stato quello di far notare che il conflitto tra verità e potere si gioca non tanto in riferimento a teorie astratte, generali, quanto piuttosto, soprattutto, riguardo alla verità dei fatti, su eventi concreti, spesso di modesta importanza. Ciò in apparenza è paradossale, perché i fatti sono sperimentabili direttamente, possono essere verificati. Ma la Arendt mette in evidenza che sono anche quelli più vulnerabili rispetto alla verità, perché se si negano i fatti, «nessuno sforzo razionale li potrà più riportare». Questa vulnerabilità emerge pienamente nell’ambito del potere. Dato che sono proprio i fatti quelli che costituiscono il tessuto stesso dell’agire, le verità di fatto sono anche quelle che maggiormente vengono fatte oggetto di falsificazione da parte di chi ha potere. Così, conclude la Arendt, «le probabilità che la verità di fatto sopravviva all’assalto del potere sono veramente pochissime; essa rischia sempre di essere bandita dal mondo, non solo temporaneamente, ma potenzialmente per sempre» (1995, 35).

Si può aggiungere che nella maggior parte dei casi le menzogne di chi ha potere riguardano eventi minuti, con scarsa risonanza pubblica. Per questo, nell’ambito di molti contesti professionali, la loro falsificazione ha rilevanza morale non tanto per i danni che la menzogna produce direttamente, quanto perché contribuisce a creare un ambiente che nel suo insieme è mera immagine, apparenza e quindi inganno. Si può pensare all’illusione di decenza e correttezza morale che in molti ambiti della vita pubblica è costruita artificiosamente per coprire situazioni di corruzione e abuso. L’apparenza è costruita proprio attraverso il segreto e la menzogna su tanti piccoli fatti, e non ha neppure bisogno di ricorrere all’elaborazione di principi o teorie per presentarsi come plausibile e verosimile, dunque per giustificare se stessa.

1.3. La sfera delle opinioni e la menzogna

La Arendt individua anche una terza ragione per cui proprio nell’ambito pubblico la deliberata falsità (che come accennato è diversa tanto dall’errore quanto dall’ignoranza perché questi sono involontari), ha un ruolo così importante. Essa deriva dal fatto che «l’opinione e non la verità appartiene ai requisiti indispensabili di ogni potere» (1995, 37).

Platone, osserva la Arendt, contrappone il vero filosofo al politico proprio per il fatto che l’uno ha scienza, l’altro può aspirare solamente ad avere opinioni rette. Hobbes riprende la relazione tra opinione e persuasione, e afferma che ci sono due facoltà contrarie, il ragionamento solido e l’eloquenza efficace: mentre la prima è «fondata su dei principi di verità, l’altra su delle opinioni […] e sulle passioni e gli interessi degli uomini, che sono differenti e mutevoli» (Leviatano, conclusione, citato in Arendt 1995, 38). La Arendt a questo proposito cita ripetutamente anche James Madison (1751-1836), quarto presidente degli Stati Uniti d’America che affermò che «tutti i governi si basano sull’opinione», perciò nell’esercizio del potere non conta il solido ragionamento dei singoli, quanto la forza persuasiva che le opinioni esercitano sui molti.

A prima vista sembra che queste osservazioni sul rapporto tra opinioni e potere non possano essere applicate univocamente a ogni forma di potere, ma siano limitate al potere politico, o tutt’al più a quelle forme di potere che sono basate sul consenso, come le cariche attribuite per elezione in altre sfere della vita sociale. Nel suo saggio Sulla violenza la Arendt ha però messo in luce che ogni potere politico che non sia fondato esclusivamente sulla violenza ha bisogno di qualche forma di consenso.12 In questo la sua posizione corrisponde a quella adottata da Kojève, che distingue tra il potere basato sulla forza, e il potere basato sull’autorità: quest’ultimo implica la rinuncia da parte del suddito a reagire, anche se è in grado di farlo, dunque si fonda su un’accettazione libera da parte di chi subisce il potere.13 Se il potere (escluso quando è mera coercizione) richiede consenso, allora si deve rettificare quanto detto, e affermare che l’esercizio del potere include sempre, almeno in parte, l’esercizio della persuasione da parte di chi lo detiene, dunque il sorgere di opinioni da parte di chi lo deve accettare. La Arendt fa chiaramente riferimento alle opinioni politiche, che emergono dalla discussione pubblica, e quindi hanno uno statuto strutturalmente intersoggettivo. Ma quanto afferma si può riscontrare in altri ambiti del potere umano, come le associazioni professionali, le organizzazioni economiche, ma anche le forme associative a carattere sportivo o di intervento sociale.

Ebbene, la Arendt ritiene che proprio la coesistenza tra verità di fatto e opinioni, tipico delle relazioni di potere in cui è lecita la discussione, costituisce un humus particolarmente favorevole per il sorgere della menzogna. Osserva, inoltre, che nelle società democratiche moderne, nonostante si proclami come universalmente acquisito il principio della tolleranza verso le opinioni altrui, l’ostilità verso le verità di fatto sembra ancora più forte che ai tempi di Hobbes. Le verità osteggiate non sono dei segreti di stato, che sono sempre esistiti e giustificano, se rivelati, l’accusa di tradimento. Sono, piuttosto, fatti pubblicamente conosciuti, verso i quali si proibisce la discussione pubblica, trattandoli come se fossero dei segreti, oppure si attua un processo di neutralizzazione, trasformandoli in opinioni. Eppure, colui che riporta dei fatti fa riferimento a verità che non sono affatto estranee rispetto al mondo in cui parla, anzi, sono «attestate con gli occhi del corpo e non con gli occhi della mente» (1995, 41). Come mai, si chiede la Arendt, nell’ambito politico, si tenta di negare o pervertire proprio queste verità?

L’aspetto peculiare delle verità di fatto — a differenza dalle verità filosofiche che possiedono una trascendenza intrinseca rispetto all’esistenza contingente —, è quella di essere sempre collegate agli altri, di riguardare eventi e circostanze che coinvolgono molte persone, di essere attestate da testimoni: tali verità sono «politiche» per natura, pubbliche. In questo, i fatti non possono essere contrapposti alle opinioni, perché gli uni e le altre appartengono allo stesso ambito relazionale. Tuttavia secondo la Arendt non vi è una reale simmetria tra gli uni e le altre, perché i fatti influiscono sulla formazione delle opinioni, e le opinioni svincolate dei fatti sono ingiustificate. Scrive infatti:

I fatti informano le opinioni e le opinioni, ispirate da differenti interessi e passioni, possono differire molto e rimanere legittime fino a quando rispettano le verità di fatto. La libertà di opinione è una farsa tranne quando l’informazione fattuale è garantita e i fatti stessi non sono in discussione. (1995, 44)

In altre parole, i fatti hanno un primato sulle opinioni, in quanto le opinioni sono legittime solamente quando si possono basare su ciò che accade, altrimenti sono ingiustificate. Se dunque i fatti vengono occultati o falsificati, le opinioni che formano la conoscenza condivisa della sfera pubblica sono in pericolo e la libertà di opinione diventa fittizia. Ciò pone immediatamente la questione epocale della possibilità di discernere tra fatti e opinioni, tra dato e interpretazione. La Arendt è consapevole delle difficoltà che si incontrano nel tentativo di separare gli uni dalle altri, così come del dibattito filosofico che ne è scaturito. Tuttavia, osserva che tali difficoltà, per quanto reali, «non costituiscono un argomento contro l’esistenza della materia fattuale, né possono servire come giustificazione per offuscare le linee di demarcazione tra un fatto, una opinione e una interpretazione, o servire allo storico come una scusa per manipolare i fatti a suo piacimento» (1995, 44-5). L’indicazione è teoretica ancor prima che pratica: per quanto sia difficile individuare i fatti «puri», ad esempio nella narrazione svolta da testimoni, ciò non è un argomento per negare che le cose siano accadute in un certo modo, e non, ad esempio, nel modo contrario. La Arendt cita Clemenceau che, discutendo sull’inizio della prima guerra mondiale, rispose alla domanda su come gli storici a venire avrebbero interpretato gli eventi, affermando «non lo so, ma so per certo che non diranno che il Belgio ha invaso la Germania» (1995, 45).

Quanto visto sul rapporto tra i fatti e le opinioni è allora utile per comprendere perché l’ambito del potere per sua natura si presenta, con le parole della Arendt, come fosse «in guerra con la verità in tutte le sue forme», e perché il rispetto delle verità di fatto è percepito come «un’attitudine antipolitica». Il conflitto deriva dalla differenza essenziale tra verità di fatto e opinione quanto al loro «modo di asserzione di validità» (1995, 46). Come già affermato da Platone nel Timeo (51d-e), mentre le opinioni si affermano tramite persuasione, le verità di fatto si impongono invece da sé, proprio in quanto verità, ossia esercitano una sorta di costrizione ad essere prese per vere. Scrive la Arendt:

Affermazioni del tipo «i tre angoli di un triangolo sono uguali a due angoli di un quadrato», «la terra ruota intorno al sole», «è meglio subire il male che fare il male», «nell’agosto 1914 la Germania ha invaso il Belgio», sono molto differenti riguardo al modo in cui si è giunti ad esse ma, una volta percepite come vere e dichiarate tali, esse hanno in comune il fatto di essere al di là dell’accordo, della discussione, dell’opinione e del consenso. Per chi le accetta, esse non vengono cambiate dal numero, grande o piccolo che sia, di coloro che accolgono la stessa proposizione; la persuasione o la dissuasione sono inutili, perché il contenuto dell’affermazione non è di natura persuasiva ma coercitiva. (Ibid., 46)

L’innegabilità di ciò che è realmente accaduto, per cui parliamo di dati di fatto, impone al potere un limite che è esterno al potere stesso, ma anche indipendente dal volere di coloro che ne sono coinvolti. In virtù della loro validità oggettiva, le verità di fatto costituiscono un ostacolo che si contrappone a quella componente arbitraria che è un pericolo insito in ogni potere. La Arendt allora conclude:

Il nucleo della dialettica tra verità e potere sta proprio qui: la verità, colta e accettata, si impone come un ostacolo invalicabile al potere, sia al potere del tiranno, che vuole imporre la sua verità, sia al potere democratico che vuole affermare la verità tramite consenso. (Idem)

In questo senso la verità ha un carattere dispotico e causa ostilità in chi ha potere: il tiranno rifiuta la sua forza coercitiva perché non la può monopolizzare, mentre chi opera in una democrazia la rigetta perché anela a ottenere il consenso. Come già richiamato, nei regimi democratici si presenta, insomma, una contraddizione insolubile tra l’ostinazione dei fatti che, una volta accaduti non possono essere respinti, e quindi sfuggono alla legittimazione del consenso, e le opinioni politiche, che per natura sono invece oggetto di dibattito. (Ibid., 48) Esiste allora una distinzione essenziale tra opinione e verità, basata sulla loro diversa evidenza. La verità è evidente in sé, dunque si impone senza richiedere particolare mediazione. L’opinione, invece, non è evidente in sé, emerge dal confronto e dalla mediazione, si afferma in modo discorsivo, attraverso la comparazione con le posizioni antagoniste. Eppure, secondo la Arendt l’opinione paradossalmente è trasparente, perché nel processo con cui si forma «una questione particolare è costretta a venire alla luce affinché possa mostrarsi da ogni lato, da ogni possibile prospettiva, fino ad essere inondata e resa trasparente dalla piena luce della comprensione umana». In confronto, l’affermazione di una verità è opaca, perché non può essere illuminata da una ulteriore delucidazione (Ibid., 49). Ora questa opacità, secondo la Arendt, emerge in modo sommamente «manifesto e irritante» proprio quando «siamo messi di fronte ai fatti e alla verità di fatto, poiché i fatti non hanno alcuna ragione decisiva per essere ciò che sono; essi avrebbero sempre potuto essere altrimenti, e questa fastidiosa contingenza è letteralmente illimitata» (Ibid., 47). I fatti sono accidentali, non necessari, e nello stesso tempo si impongono come qualcosa che, una volta che è accaduto, esce dal controllo della volontà umana: non si può pretendere che non siano avvenuti, anche se soggettivamente non li riconosco, oggettivamente sono usciti dalla mera possibilità e sono entrati nella realtà. Hanno un innegabile statuto ontologico. Perciò la loro «ostinatezza» è percepita come irragionevole e intollerabile da colui che sa di essere libero e vuole poter cambiare la realtà tramite la propria azione.

Dall’altra parte, però, al di fuori di ciò che possiamo sperimentare direttamente, l’evidenza dei fatti — il cammino che conduce il soggetto a riconoscerli, potremmo dire, dall’evidenza in sé all’evidenza quoad nos — «è stabilita attraverso la testimonianza di testimoni oculari — notoriamente inattendibili — e di archivi, documenti e monumenti, che si può sospettare siano tutti dei falsi». Se ciò non bastasse, «nel caso di una controversia, non è possibile invocare nessuna terza e superiore istanza, ma soltanto altri testimoni, e generalmente si giunge a una risoluzione attraverso una maggioranza, cioè nello stesso modo in cui si giunge alla risoluzione di conflitti di opinione» (Idem): è sempre possibile che una maggioranza di testimoni sia formata da falsi testimoni. Anzi, la numerosità può favorire la falsa testimonianza. Ecco allora che la verità di fatto, di fronte a coloro che hanno delle opinioni, è vulnerabile tanto quanto la verità razionale filosofica.

Va osservato, inoltre, che la Arendt non solo afferma che le opinioni possono essere legittimate esclusivamente dall’aderenza ai fatti, ma riconosce che esiste anche una dimensione soggettiva, insita nelle disposizioni di chi formula le opinioni, che influisce sulla loro fondatezza. Sempre ne La menzogna in politica si legge che, in quanto ogni opinione emerge dal confronto di punti di vista e posizioni diverse, essa consiste in un «esercizio dell’immaginazione». Tuttavia, la condizione che rende legittimo questo esercizio è «l’essere disinteressati, la liberazione dai propri interessi privati». Potremmo insomma dire che l’opinione è «fondata» solo quando è svincolata dalla proprie preferenze soggettive, e tenta di essere ancorata ad altro da esse, a qualcosa che proviene da fuori rispetto a colui che la formula. La rilevanza di tale intuizione per le relazioni di potere emerge da numerosi esempi. Ad esempio, il potere di influenzare gli altri, nell’educazione, così come nella azioni pubblicitarie, dipende dall’avere un’opinione obiettiva nei loro confronti; oppure, condizione perché la valutazione su una determinata situazione professionale sia corretta è che non sia accecata da pregiudizi, siano personali o del gruppo (o categoria professionale) al quale si appartiene. Chi si rifiuta di prescindere dagli interessi propri o di gruppo può sostenere le proprie opinioni con ostinazione, ma, osserva la Arendt, ciò manifesta «mancanza di immaginazione e incapacità di giudicare». Invece, la qualità di un’opinione (e ciò vale per qualsiasi giudizio) dipende da quanto essa è imparziale (Ibid., 49).

2. Le (tent)azioni dell’uomo di potere di fronte alle verità di fatto

La Arendt analizza allora alcuni tipi di azione che l’uomo di potere può intraprendere di fronte alla verità di fatto, e che potremmo indicare anche come tipi di tentazione: ne possiamo individuare quattro, due sono descritti in Verità e politica, gli altri due ne La menzogna in politica.

2.1. La menzogna deliberata: il contrasto tra il bugiardo e il sincero

Il primo tipo di azione/tentazione di fronte alle verità di fatto è la menzogna deliberata. Essa, pensiamo ad esempio ai fatti storici, «è chiaramente un tentativo di cambiare la storia documentata e, in quanto tale, è una forma di azione». Il bugiardo è un uomo di azione perché nel mentire vuole cambiare la realtà dei fatti, anzi, afferma la Arendt, «è un attore per natura; dice ciò che non è perché vuole che le cose siano differenti da ciò che sono, e cioè vuole cambiare il mondo» (1995, 60s).

Si è già accennato al fatto che per la Arendt la capacità di mentire «appartiene ai pochi chiari e dimostrabili dati che confermano l’esistenza della libertà umana» (Idem): ancora più della capacità di dire la verità, dimostra che l’uomo non è determinato dalle circostanze, e può cambiarle, o almeno ha il potere di tentare di cambiarle. Ciononostante, mentire è sempre un abuso della libertà, che può assumere forme diverse. Ad esempio, la tentazione dell’uomo di potere è quella di sopravvalutare la propria libertà di mentire, giustificando poi la negazione o la distorsione dei fatti. Quando sta per essere scoperto, il bugiardo spesso si difende trasformando la verità di fatto in opinione. Al bugiardo si oppone, evidentemente, colui che dice la verità. Diversamente da chi mente, però il sincero, osserva la Arendt, deve affrontare due problemi. In primo luogo, rischia di essere inefficace, perché il mero «dire i fatti» non conduce ad alcuna azione, anzi tende a far accettare le cose come sono, senza muovere ad alcun cambiamento. In secondo luogo, nel confronto con il bugiardo, chi dice la verità si trova facilmente in svantaggio nel persuadere gli altri, perché il mentitore può adattare i fatti alle aspettative del suo pubblico, fino a trovare la versione più convincente, mentre questa possibilità è preclusa a chi vuole dire le cose come stanno. (Ibid., 62) Questa riflessione è ripresa in La menzogna in politica:

È questa fragilità che rende l’inganno fino ad un certo punto così facile, così attraente. Esso non entra mai in conflitto con la ragione, perché le cose potrebbero essere andate veramente così come dice il bugiardo. Le menzogne sono spesso più plausibili, più attraenti per la ragione di quanto lo sia la realtà, dal momento che il bugiardo ha il grande vantaggio di sapere in anticipo che cosa l’ascoltatore desidera o si aspetta di sentire. Colui che mente ha preparato la sua storia per il pubblico consumo, ben attento a renderla credibile, mentre la realtà ha la sconcertante abitudine di metterci di fronte all’imprevisto, per cui, appunto, non eravamo preparati. (2007, 13)

Mentire, in altre parole, è una tentazione per l’uomo di potere perché può rendergli più semplice ottenere dagli altri ciò che vuole. Serve, insomma, a predisporre una realtà fittizia che, rispetto alla realtà dei fatti, è più facilmente controllabile da parte di chi ha potere, perché è prodotta a suo piacimento.

2.2. L’asservimento della verità agli interessi del potere

Il secondo tipo di azione/tentazione dell’uomo di potere è allora il tentativo, nel dire la verità, di diventare persuasivo, cercando di spiegare perché una certa particolare verità serve a raggiungere gli interessi di un certo gruppo. Si tratta di una tentazione nella misura in cui spinge ad addomesticare la verità di fatto a proprio vantaggio. La Arendt rileva che il parteggiare per i propri interessi o per quelli del proprio gruppo di potere ha una conseguenza per chi ricorre a questo mezzo, in quanto «compromette l’unica qualità che avrebbe potuto far apparire plausibile la sua verità, e cioè la sua sincerità personale, garantita dall’imparzialità, dall’integrità e dall’indipendenza» (Ibid., 60).

In questo passo ella accenna alla questione fondamentale dell’integrità morale dell’uomo di potere, che assume la sua forma esemplare nel dilemma se il compromesso col male, in questo caso con la strumentalizzazione della verità al vantaggio immediato, non contamini in modo irrimediabile lo status morale di colui che ha potere, così da avviarlo sulla via che può condurlo a giustificare ogni nefandezza. Possiamo osservare, a margine, che coloro che criticano l’argomento del «pendio scivoloso» come una fallacia, affermano che non si può dedurre logicamente, da un certo comportamento morale dato, che da esso ne seguirà necessariamente un altro, tendenzialmente peggiore. Se si resta sul piano logico, la loro obiezione è corretta. Costoro tuttavia non colgono che la vera questione non appartiene al piano della necessità logica, bensì a quella del comportamento morale, nel quale, se è vero che anche di fronte a delle inclinazioni personali, l’uomo è libero di decidere in senso contrario a ciò verso cui impulsi e istinti lo inclinano, è altrettanto vero che le qualità morali abituali della persona (virtù e vizi) rendono più facile agire di conseguenza, e più difficile agire in senso contrario. Ad esempio, di fronte ad una contrarietà, per una persona iraconda è molto più difficile mantenere la calma, di quanto lo sia per una persona paziente. Per questa ragione l’adozione di comportamenti ingiusti mette in pericolo l’integrità morale, anche quando non produce effetti negativi immediati: essa pone la persona su un piano inclinato, che anche se non determina necessariamente comportamenti ingiusti, rende più probabile che accadano. Ciò spiega allora la critica della Arendt a chi cerca di addomesticare la verità per persuadere il destinatario del proprio potere.

2.3. La manipolazione

Il terzo tipo di azione/tentazione riguardo alla scelta tra il dire la verità e il mentire riguarda secondo la Arendt l’uso delle verità o delle falsità a fini manipolatori. Ne sono esempio, a suo avviso, gli esperti di public relations e i professionisti della pubblicità, che hanno a che fare solamente con opinioni e con la disponibilità dei destinatari della comunicazione a comprare. La sfera della persuasione riguarda ambiti intangibili, la cui realtà concreta è infima. I maestri della persuasione non possono creare fatti, perciò hanno una possibilità quasi illimitata di inventare, ma mancano «di quella semplice realtà quotidiana che pone un limite al potere e riporta le forze dell’immaginazione con i piedi per terra» (2007, 15). La Arendt ritiene che i metodi per manipolare la condotta altrui siano solo due: il terrore, e il metodo del bastone e della carota. Potremmo forse dire, in altri termini, che è possibile manipolare le opinioni altrui solo ricorrendo alla violenza, e quindi alla paura, oppure soddisfacendo qualche desiderio soggettivo, che sia considerato così importante dal destinatario della manipolazione, da giustificare la rinuncia all’esercizio della propria capacità di giudizio.14 I due metodi indicati dalla Arendt hanno come modelli emblematici quelli del regime totalitario e della società consumistica.

2.4. La negazione dei fatti per uno scopo superiore

Infine, ancora in La menzogna in politica la Arendt descrive l’atteggiamento di coloro che sono disposti a negare ogni fatto contingente, se esso impedisce di raggiungere uno scopo che è giudicato superiore. La Arendt fa riferimento ai problem solvers, quegli esperti con grandi capacità di comando che vengono convocati a risolvere crisi politiche, economiche o militari di vasta portata. Pur essendo moralmente integri e professionalmente capaci, ad esempio, quelli che hanno affrontato la questione della guerra in Vietnam non hanno esitato a mentire. La motivazione non era certo egocentrica, la Arendt parla di una malintesa forma di patriottismo, per cui andava salvata non la sicurezza della propria patria, che non era in pericolo, ma la sua «immagine». Essi però manifestano una tendenza umana più generale, che consiste nella volontà di liberarsi dei fatti, sfruttando la loro contingenza, per adattarli alle teorie o per ottenere un certo obiettivo, se necessario anche grazie alla manipolazione delle opinioni altrui. La Arendt commenta che «gli uomini che agiscono, dal momento che si sentono padroni del proprio futuro, saranno sempre tentati di rendersi padroni anche del passato» (Ibid., 23). Questa tentazione secondo la Arendt riguarda in modo particolare lo storico e il politico, perché costoro hanno il potere di creare la realtà con le proprie decisioni e azioni e dunque «difficilmente avranno la pazienza tipica dello scienziato di aspettare che le teorie e le spiegazioni ipotetiche siano verificate o inficiate dai fatti». Piuttosto «saranno tentati di adattare la loro realtà — che, dopo tutto, è stata creata dagli uomini e avrebbe potuto essere altrimenti — alla loro teoria, liberandosi mentalmente dalla sua sconcertante contingenza» (Idem). Si può osservare che ne possono essere preda anche altre categorie professionali, come i magistrati che giudicano mossi da motivazioni politiche, a costo di negare i fatti, o i professori universitari che utilizzano i concorsi pubblici come strumenti di potere personale, fino a mentire sui candidati che intendono favorire o sfavorire.

Nel saggio già citato Sulla violenza, la Arendt accenna agli esperti «dotati di una mentalità scientifica», che «fanno i loro calcoli basandosi sulle conseguenze di certe costellazioni immaginate in via ipotetica, senza tuttavia essere capaci di verificare le loro ipotesi rispetto alle situazioni reali», così da cadere nel vizio logico per cui «quello che in un primo momento si presenta come un’ipotesi […] diventa immediatamente […] un fatto, grazie al quale danno vita a tutta una serie di analoghi non-fatti». (2011, 9) E aggiunge:

Il pericolo è che queste teorie sono non solo plausibili, perché confermate da tendenze attuali effettivamente discernibili, ma hanno anche, a causa della loro coerenza interna, un effetto ipnotico; esse addormentano il nostro senso comune, che non è nient’altro che il nostro organo mentale che ci permette di percepire, comprendere e avere a che fare con la realtà e con i fatti concreti. (Ibid., 11)

La Arendt rileva il ruolo di velamento della verità che le teorie ben costruite possono esercitare, dovuto al fatto che la ragione umana si lascia affascinare non solo dai sistemi teorici che hanno un fondamento scientifico, ma anche da quelli che riescono a simulare l’apparenza di scientificità. Di fronte ad un costrutto teorico sistematico e organico, il senso comune può essere facilmente emarginato come «non scientifico» e quindi non credibile. Questa è la ragione per cui chi detiene il potere può servirsi delle teorie per negare i fatti. Tuttavia, questo strumento di falsificazione ha due pericolose conseguenze. In primo luogo, l’uomo può liberarsi della contingenza solo ricorrendo ad una distruzione totale, e anche se la storia ci ha presentato esempi di tale desiderio distruttivo, ad esempio in Hitler e Stalin, una distruzione davvero totale richiederebbe un potere tale da rasentare l’onnipotenza. In secondo luogo, — di nuovo ricorrendo all’esempio dei Pentagon Papers — la Arendt osserva che chi è certo di riuscire a ingannare il suo prossimo, facilmente resta vittima della propria sicurezza di sé (2007, 25).

3. Le forme di menzogna e il loro effetto sul potere

Possiamo allora riassumere le forme di menzogna possibili all’interno delle relazioni di potere, a partire da alcuni elementi essenziali dell’agire menzognero. Quanto all’oggetto, la menzogna nell’ambito delle relazioni di potere può riguardare fatti che sono segreti, o perché non sono stati resi pubblici o perché non sono verificabili dagli altri, oppure fatti che sono già noti, o perché sono già stati resi pubblici o perché sono verificabili. Quanto all’estensione, la menzogna può riguardare o dei fatti particolari, oppure avere l’intenzione di realizzare una ricostruzione su vasta scala, ossia di ricostruire tutto il tessuto fattuale, fino a costruire un’immagine della realtà totalmente fittizia. Il primo tipo di menzogna causa un danno molto più limitato alla verità, rispetto al secondo tipo, perché il confronto con la rete degli altri fatti rende facile smascherarla, almeno ad uno sguardo retrospettivo. Quanto all’autore della menzogna, esso può comprendere un numero limitato di soggetti, che sono coscienti dell’inganno e possono preservare la verità, oppure diventare opera di un intera struttura di persone, organizzate gerarchicamente. Quanto al destinatario, la menzogna può essere destinata a coloro che sono considerati «nemici», oppure essere costruita ai danni di «tutti», esterni e interni.

Ora, in Verità e politica (62-64) la Arendt dà il nome di menzogna politica tradizionale a quella forma che include la prima caratteristica di ognuna delle alternative presentate, dunque al mentire su fatti particolari, ad opera di ristretti gruppi di persone, contro i nemici, mentre chiama menzogna politica moderna quella che include la seconda caratteristica di ogni alternativa, dunque è su vasta scala, destinata a tutti, ad opera di organizzazioni ampie e strutturate. La menzogna su vasta scala è molto più grave per varie ragioni. Innanzi tutto, essa sempre include un elemento di violenza: anche se solo i governi totalitari «hanno consapevolmente adottato la menzogna come primo passo verso l’assassinio», «la menzogna organizzata tende sempre a distruggere ciò che ha deciso di negare». Perciò la Arendt conclude che «la differenza tra la menzogna tradizionale e la menzogna moderna equivale il più delle volte alla differenza tra il nascondere e il distruggere» (Ibid., 63). Inoltre, la menzogna su vasta scala tende a sostituire alla realtà un suo surrogato. Ma nel far questo, mina alla radice la nozione stessa di verità, perché l’applicazione sistematica della menzogna mette i bugiardi nella pericolosa situazione di cadere vittima delle loro stesse falsità. Ciò, però, finisce per diventare controproducente, perché l’efficacia della menzogna è, paradossalmente, dipendente dalla persistenza di una nozione di verità nei bugiardi. (2007, 59). Dall’altra parte, però, quanto più il mentitore ha successo, tanto più si espone al pericolo di credere alle proprie bugie. Per descrivere tale rischio, la Arendt cita un aneddoto medioevale, di una sentinella che lanciò per scherzo l’allarme dell’arrivo del nemico, ma poi si convinse della propria menzogna e accorse a difendere le mura (2007, 63; 1995, 65). Tale pericolo è accentuato dal fatto che il mostrarsi convinto delle menzogne rende più attendibile chi mente. Dato che comportano la ricostruzione di tutto il tessuto fattuale, le menzogne moderne sono spesso accompagnate anche dall’autoinganno, perché «soltanto l’autoinganno è capace di creare una sembianza di sincerità, e in un dibattito su dei fatti l’unico fattore persuasivo che può talvolta prevalere sul piacere, la paura e il profitto è l’apparenza personale». (1995, 65)

L’autoinganno è dunque un esito estremo in cui può cadere il bugiardo, molto più grave della menzogna, perché rende difficile retrocedere, tornare alla verità. La Arendt cita la scena nel monastero all’inizio dei Fratelli Karamazov: il padre, un bugiardo incallito, chiede allo starec che cosa deve fare per salvarsi, e riceve come risposta che la cosa più importante è non mentire mai a se stessi. La Arendt allora commenta che

Colui che mente a sangue freddo rimane consapevole della distinzione tra verità e falsità […], dunque la verità che egli sta nascondendo agli altri non è stata ancora eliminata completamente dal mondo; essa ha trovato il suo ultimo rifugio in lui. Il danno arrecato alla realtà non è né completo né definitivo e, per la stessa ragione, il danno arrecato al bugiardo stesso non è né completo né definitivo. (1995, 66)

Esiste una seconda forma di autoinganno — oltre a quella di colui che resta vittima del successo delle proprie menzogne, e finisce per crederci egli stesso. Ne La Menzogna in Politica, quando introduce la figura dei problem solvers, la Arendt descrive l’atteggiamento di chi è così convinto di sé e del fatto che le proprie menzogne avranno effetto, da dare per scontata la fiducia e la credenza da parte degli altri. La distanza che il mentitore mantiene dal mondo dei fatti, unita alla convinzione di riuscire ad ottenere la fiducia e il consenso, gli impedisce, però, di rendersi conto che il pubblico non gli crede. (2007, 65) Il pericolo «per eccellenza» di chi ricorre alla menzogna e all’inganno per esercitare il potere è insomma quello di perdere il contatto sia con ciò che pensano i destinatari del potere, sia con la realtà.

4. Conclusione: La vittoria della verità sull’arroganza del potere e del pensiero

Ora, dagli scritti della Arendt sembra si possa concludere che la radice etica dello scollamento dalla realtà e dagli altri è riconducibile alla superbia, al fatto di non riconoscere che «anche un grande potere è un potere limitato», e di diventare vittima del pericoloso mito dell’onnipotenza (2007, 71). I governanti americani che hanno mentito su ciò che accadeva nel Sud-Est Asiatico, ad esempio, sono caduti preda di una «combinazione micidiale» tra arroganza del potere — la ricerca di una mera immagine di onnipotenza — e arroganza del pensiero — ossia la «fiducia del tutto irrazionale nella possibilità di calcolare la realtà» (2007, 71-73). In altre parole, il fondamento etico del rapporto tra menzogna e potere va ricercato nell’arroganza di chi, ergendosi al livello dell’onnipotenza, ritiene di essere padrone della verità. Se è vero che molte volte il ricorso alla menzogna da parte di chi ha potere riflette le caratteristiche che la Arendt attribuisce alle menzogne politiche «tradizionali», è possibile non sono rari i casi di chi, succube del delirio di potere, finisce per voler governare anche la verità dei fatti. Ora, la Arendt ritiene che, se anche l’uomo può rifiutarsi di dire o di ascoltare la verità, egli non può però fare a meno in assoluto della verità, perché un mondo in cui si smettesse completamente di dire come stanno le cose diventerebbe invivibile.

Mentre possiamo anche evitare di domandarci se varrebbe ancora la pena di vivere in un mondo privo di idee come quella di giustizia e di libertà, stranamente la stessa cosa non è possibile in riferimento all’idea, apparentemente molto meno politica, di verità. Ciò che è in gioco è la sopravvivenza, la perseveranza nell’esistenza (in suo esse perseverare), e nessun mondo umano destinato a durare più a lungo della breve vita dei mortali in esso, potrà mai sopravvivere in assenza di uomini disposti a fare quello che Erodoto fu il primo a intraprendere consapevolmente, cioè legein ta eonta, dire ciò che è. Non è possibile neanche immaginare una permanenza, una perseveranza nell’esistenza, senza degli uomini disposti ad attestare ciò che è e che appare loro perché è (1995, 32).

Questa affermazione riguardo all’impossibilità esistenziale di un mondo in cui nessuno attesta il vero, è pienamente comprensibile alla luce della ricostruzione compiuta da Koyré e ripresa dalla Arendt sui regimi totalitari, nei quali la menzogna diventa uno strumento sistematico per mantenere il sistema dittatoriale. Ma nella Arendt ci sono anche delle osservazioni che hanno una portata metafisica, per quanto ella si rifiuterebbe di ammetterlo. In primo luogo, ne La menzogna in politica si afferma che nemmeno colui che inganna se stesso sfugge alla possibilità che il mondo possa «afferrarlo», perché egli «può astrarre da esso la mente, ma non il suo corpo» (67). Inoltre, in Verità e politica troviamo un argomento decisivo per contrastare l’arroganza del pensiero di chi ha potere, che scaturisce come conseguenza della relazione essenziale, da noi citata nella prima parte dell’articolo, tra menzogna e azione. Così come l’azione umana ha un limite, in quanto non può travalicare l’ambito di ciò che è in potere dell’uomo, anche la menzogna ha un limite, che è dato da ciò che le cose sono. La menzogna, infatti, non è in grado di produrre la realtà, ma solo finzioni, per quanto raffinate e convincenti. Scrive la Arendt che «l’innegabile affinità della menzogna con l’azione, con il cambiare il mondo — in breve, con la politica — è dunque limitata dalla natura stessa delle cose che sono aperte alla facoltà umana di agire». (1995, 71) La menzogna, infatti, «non conduce mai all’instaurazione di una cosa reale, ma soltanto a una proliferazione e a un perfezionamento della finzione» (Idem). Né il passato né il presente (che è il risultato del passato) sono aperte all’azione, ma solo il futuro. La menzogna, invece, pretende di trattare passato e presente come se fossero ancora potenziali. Invece, essi sono stabili — in termini metafisici, potremmo dire attuali — e la loro stabilità è condizione, punto di partenza sul quale basare il cambiamento. La destabilizzazione inserita dalla menzogna condanna dunque l’azione alla sterilità. Potremmo dire che se l’ambito dell’agire è privato della «sostanza» dei fatti, ridotto a pura potenzialità, non esiste alcun punto di riferimento per dare direzione e quindi consistenza all’azione. Basti pensare al problema di come stabilire le scopo dell’azione: se nulla è dato e ha una rilevanza, ma tutto può essere «altrimenti», è impossibile scegliere, tra molte alternative, quale azione sia la migliore. Dunque:

Che i fatti non siano al sicuro nelle mani del potere è evidente, ma qui il punto essenziale è che il potere, per sua stessa natura, non può mai produrre un sostituto della solida stabilità della realtà fattuale, la quale, in quanto appartenente al passato, è diventata una dimensione che è al di fuori della nostra portata. I fatti si affermano con la loro ostinatezza, e la loro fragilità è stranamente combinata con una grande resilienza, la stessa irreversibilità che è il contrassegno di ogni azione umana. (Ibid., 71)

Se il potere ha bisogno di fatti per essere esercitato, si può concludere che questi sono superiori al potere, perché i fatti sono «dati», innegabili, mentre il potere è transitorio, inaffidabile.

Nella loro ostinatezza i fatti sono superiori al potere; essi sono meno transitori delle formazioni di potere, che nascono quando gli uomini si riuniscono per un fine ma scompaiono appena il fine è raggiungo o mancato. Questo carattere transitorio rende il potere uno strumento assai inaffidabile per ottenere una permanenza di qualunque tipo e, di conseguenza, non solo la verità e i fatti, ma anche la non verità e i non-fatti non sono sicuri nelle sue mani. (Idem)

Potremmo allora dire che la virtù intellettuale che l’uomo di potere deve esercitare rispetto ai fatti, consiste nel giusto mezzo tra i due eccessi del determinismo — l’accettazione fatalistica dei fatti, come se fossero del tutto svincolati dall’intervento umano — e della manipolazione — che tenta di trasformare o negare i fatti a proprio piacimento:

L’atteggiamento politico verso i fatti deve in realtà percorrere il sentiero molto stretto che si trova tra il pericolo di considerarli come i risultati di qualche sviluppo necessario che gli uomini non potevano impedire e riguardo al quale non possono perciò fare nulla, e il pericolo di negarli, di provare a manipolarli fuori del mondo. (Ibid., 73)

Da qui allora la conclusione: anche se l’uomo ha il potere di negare la verità, la menzogna può vincere delle battaglie, ma non la guerra. Quindi, alla questione enunciata all’inizio dell’articolo, se la verità sia impotente e il potere sia essenzialmente menzognero, si può ora dare una risposta negativa.

La verità, anche se priva di potere e sempre sconfitta in uno scontro frontale con l’autorità costituita, possiede una forza intrinseca: qualsiasi cosa possano escogitare coloro che sono al potere, essi sono incapaci di scoprire o inventare un suo valido sostituto. Persuasione e violenza possono distruggere la verità, ma non possono rimpiazzarla. E questo vale per la verità razionale o religiosa, così come vale, in modo più evidente, per la verità di fatto. (Ibid., 72)

Un ragionamento analogo è presentato anche nel La menzogna in politica. Per la Arendt la realtà ha il potere di sconfiggere il bugiardo, perché «non esiste sostituto possibile» ad essa. Per quanto la trama delle falsità sia fitta ed estesa, non riuscirà mai a coprire del tutto l’immensità dei fatti. I regimi totalitari hanno nutrito un’immensa fiducia nel potere della menzogna (the power of lying), ossia «nella loro abilità di riscrivere la storia molte volte, per adattare il passato alla «linea politica» del momento o per eliminare dati che non si accordavano con la loro ideologia» (2007, 15). Questo potere di mentire può portare a forme terribili di coercizione. Tuttavia, anche questo potere ha un limite, oltrepassato il quale la menzogna diventa controproducente.

Tale punto si raggiunge quando il pubblico, cui tali menzogne sono rivolte, è costretto ad ignorare del tutto il confine tra menzogna e verità per continuare a vivere. Verità o menzogna — non importa più quale, se la propria vita dipende dall’agire come se si credesse; la verità su cui si può fare affidamento scompare completamente dalla vita pubblica, e con essa il principale fattore stabilizzante nella sfera sempre mutevole degli affari umani. (Idem)

La Arendt allora conclude che la sfera di azione dell’uomo è parte della sua esistenza, non coincide con tutto ciò che egli è, ed è una parte limitata da ciò che egli non può cambiare a proprio piacimento.

Ed è solo rispettando i suoi confini che questo ambito, dove siamo di agire e di trasformare, può rimanere intatto, preservando la sua integrità e mantenendo le sue promesse. Concettualmente, possiamo chiamare verità ciò che non possiamo cambiare; metaforicamente, essa è la terra sulla quale stiamo e il cielo che si estende sopra di noi. (Ibid., 77)

Qui si pone la chiave teoretica per comprendere il nucleo dell’etica del rapporto tra la verità e il potere: l’uomo evita il rischio di credersi onnipotente, solo se comprende che la realtà gli presenta dei fatti che egli non può cambiare, ma anche che tale limite non nega la sua libertà, piuttosto ne stabilisce i confini e ne permette l’esercizio fecondo, creativo ed efficace. Se con la menzogna, egli nega tale limite, la realtà si imporrà ugualmente, ma renderà o vano o distruttivo il suo potere.15


  1. A. Koyré, Sulla menzogna politica, Lindau, Torino 2010. ↩︎

  2. Il processo iniziò nel 1961, la Arendt vi partecipò come inviata del New Yorker, sul quale tra il febbraio e il marzo del 1963 pubblicò gli articoli che poi furono raccolti nel volume Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, II ed. rivista e ampliata, Viking Press, New York 1965. Trad. it. Di P. Bernardini: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1989. Truth and Politics (d’ora in poi indicato con Arendt 1995), fu pubblicato in Between Past and Future, Viking Press, New York 1968, trad. it. Verità e politica, A cura di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995. ↩︎

  3. Il saggio Lying in Politics. Reflections on the Pentagon Papers (d’ora in poi citato come Arendt 2007) nacque da una conferenza tenuta da Hannah Arendt al Council for Religion and International Affairs di Washington nel 1971 e fu pubblicato nell’anno seguente sul New York Review of Books. La tesi della Arendt è che la manipolazione dei fatti non era stata motivata né da questioni di sicurezza nazionale, né dalla necessità di tutelare gli interessi degli Stati Uniti in Asia, ma fu piuttosto dettata dalla volontà di salvare l’immagine del paese come superpotenza che non aveva mai perso una guerra. Tale episodio è per la Arendt esemplare di un nuovo corso della politica, nella quale alla ragion di stato sono sostituite le tecniche pubblicitarie e i metodi delle public relations, per le quali il valore supremo è quello di «salvare la faccia». Ed. it. La menzogna in politica. Riflessioni sui Pentagon Papers, trad. di V. Santini, Marietti, Genova-Milano 2007. ↩︎

  4. Cfr. Etica Nicomachea, III, § 1-6. ↩︎

  5. La Arendt cita anche un altro passo del Leviatano, tratto dal cap. 11 (citato a p. 33 di Arendt 1995): «Non ho dubbi sul fatto che se la dottrina secondo la quale i tre angoli di un triangolo sono uguali a due angoli di un quadrato fosse stata una cosa contraria al diritto di dominio di qualcuno o all’interesse di persone che detengono il dominio, essa sarebbe stata, se non contestata, soppressa con la messa al rogo di tutti i libri di geometria, per quanto ne fosse stato capace colui al quale la cosa interessava». ↩︎

  6. Il termine parresia è attribuito a Euripide, che per primo rileva il collegamento tra la politeia (esercizio del potere politico) e la virtù etica del dire la verità. Tra i cinici la parresia è franchezza nell’esprimersi anche a costo di essere sfrontati. Il termine resta nella letteratura greca e nella patristica, fino a Giovanni Crisostomo. (Cfr. M. Foucault, Il governo di sé e degli altri, Feltrinelli, Milano 2009; L. Cedroni, «Verità, parresia e politica nell’antica Grecia», in Spazio Filosofico 4, 2012, pp. 105-113. ↩︎

  7. Foucault (op. cit. alla nota 5, p. 188), distingue tra parresia politica (l’esercizio del potere dicendo il vero), la parresia giudiziaria (pretendere che si dica la verità per ottenere giustizia) e la parresia morale (confessare la colpa che pesa sulla coscienza) ↩︎

  8. Il Socrate dell’Apologia denuncia l’uso della menzogna fatto dagli uomini di potere per delegittimarlo; Platone descrive il carattere volontario della menzogna nell’Ippia minore (367-370). Egli sembra giustificare il ricorso alla menzogna per il bene dei cittadini (Repubblica III, 389B, Leggi, II 663D), ma ne sottolinea comunque il carattere negativo (Repubblica, II, 382A; V, 474 C-475 E; VI 485 c-d). Agostino ne analizza le caratteristiche e la condanna come sempre illegittima in due opere, La menzogna e Contro la menzogna↩︎

  9. Che la Arendt fosse perfettamente consapevole del carattere intenzionale della menzogna, è comunque indubbio, dato che definisce la menzogna come «deliberata negazione della verità fattuale» e il bugiardo come «uomo d’azione», oltre ad offrire alcune analisi sul rapporto tra l’inganno degli altri e l’inganno di se stessi. Su questi aspetti si avrà modo di tornare in seguito. ↩︎

  10. J. Derrida, J., «History of Lie: Prolegomena». In Without Alibi, Stanford University Press 2002, p. 29: cfr anche K. Jay, «Pseudology: Derrida on Arendt and Lying in Politics», Rivista della /Società Italiana di Filosofia Politica, 4 settembre 2008. ↩︎

  11. Su questo concetto di immaginazione come atto che permette di andare aldilà del mondo, ed espressione di libertà, esistono delle analogie con Sartre, che dedicò due delle sue prime opere a questo tema: L’immaginazione(1936) eL’immaginario (1940). Tuttavia, anche se i due si conobbero ai tempi dei seminari di Kojève su Hegel, all’Ecole des Hautes Etudes di Parigi negli anni trenta, ebbero nella fenomenologia una radice filosofica comune, si incontrarono diverse volte, e la Arendt probabilmente lesse le opere citate di Sartre, non vi fu mai una relazione di simpatia umana né di sintonia intellettuale che possa permettere di parlare di una vera influenza filosofica (E. Young-Bruehl, Hannah Arendt, for Love of the world, Yale University Press 1982, p.149). ↩︎

  12. On Violence, Harcourt, Brace and World, New York 1970; trad. it. di S. D’Amico: Sulla violenza, Guanda, Parma 2011, p. 44. ↩︎

  13. Kojève, A., La nozione di autorità, Adelphi, Milano 2011, p. 20. ↩︎

  14. Su questo punto Vaclav Havel ha scritto pagine magistrali ne Il potere dei senza potere a cura di A. Bonaguro, Itaca, 2013. Cfr. anche P. Premoli De Marchi, «L’etica del potere di chi è senza potere. Il compito morale dell’uomo contemporaneo secondo Vaclav Havel (1936-2011)», in Dialegesthai. Rivista di filosofia online, dicembre 2012. ↩︎

  15. Nel suo saggio sulla violenza la Arendt mette in luce che l’ipocrisia di chi ha il potere è causa legittima di una reazione forte da parte di chi lo subisce, anzi, è tra le cause che rendono la rabbia e la violenza reazioni razionali: «Ci si può fidare delle parole soltanto se si è sicuri che la loro funzione è quella di rivelare e non di nascondere. È l’apparenza della razionalità, molto più degli interessi che vi stanno dietro, che provoca la rabbia». (2011, 71) ↩︎