L’etica del potere di chi è senza potere. Il compito morale dell’uomo contemporaneo secondo Vaclav Havel (1936-2011)

Il mondo è perduto solo nella misura in cui io stesso sono perduto.

— V. Havel, Lettera dalla prigione, 22.1.1983

1. Introduzione

Prima di diventare l’ultimo Presidente della Cecoslovacchia (1989-1992) e il primo Presidente della Repubblica Ceca (1993-2003), Vaclav Havel influì in modo determinante sulla coscienza dei popoli dell’Europa dell’Est oppressi dal blocco sovietico grazie alla sua attività di drammaturgo e saggista e al suo impegno politico in difesa dei diritti umani. In quanto segue, intendiamo mostrare come gli scritti del celebre dissidente, scomparso nello scorso dicembre, non solo hanno una notevole rilevanza storica — ispirarono, tra gli altri, anche i fondatori di Solidarnosc — ma sono anche un’importante occasione di riflessione filosofica sull’essenza e sull’etica del potere.

Havel non ricevette una formazione filosofica sistematica, tuttavia è considerato un allievo di Jan Patocka, grande filosofo ceco del ventesimo secolo. Patocka aveva studiato con Husserl e Heidegger a Friburgo agli inizi degli anni ’30, assimilandone l’impostazione fenomenologica, come analisi dei dati dell’esperienza, ma nello stesso tempo prendendo le distanze da Scheler, che riteneva troppo «oggettivista»; dal trascendentalismo di Husserl, ritenuto troppo soggettivista; ma anche dall’esistenzialismo di Heidegger e Sartre, al quale opponeva una concezione positiva dell’esistenza umana, che è chiamata a giungere a compimento attraverso i tre movimenti del radicarsi nel mondo, dell’adoperarsi con il lavoro, dell’essere per la verità.1 Havel seguì i seminari clandestini tenuti da Patocka negli anni Settanta e ne trasse una particolare sensibilità per la riflessione sull’esperienza e sull’essenza dell’uomo, così come anche alcuni concetti chiave quali la centralità esistenziale e morale del vivere nella verità, il contatto vissuto con la totalità della realtà come compito dell’uomo, la critica al razionalismo scientista, la difesa della coscienza morale, l’affermazione della relazione inscindibile tra libertà e responsabilità.2

Patocka affermava che ci sono cose per cui vale la pena soffrire, e persino sacrificare la vita e darne l’estrema testimonianza. Con Vaclav Havel e Jiri Hajek, alla fine del 1976 rivolse un appello al suo governo, firmato da intellettuali di diversa estrazione, affinché accettasse gli Accordi di Helsinki sulla difesa dei diritti umani (1975). Tale documento divenne noto come Charta 77. Patocka morì nel marzo del 1977, a causa dei postumi di un interrogatorio durato undici ore. Il principale testo di Havel sul potere, Il potere dei senza potere,3 fu scritto alcuni mesi dopo e dedicato proprio al maestro scomparso. Concepito inizialmente come introduzione ad un’antologia di testi scritti da dissidenti polacchi e cecoslovacchi, divenne invece una pietra miliare della riflessione sull’opposizione al totalitarismo.

2. Il potere dei senza potere.

All’inizio di questo saggio Havel descrive il sistema politico che allora controllava i paesi dell’Europa Orientale come l’espressione di una «applicazione brutale e arbitraria del potere».4 In quegli anni la struttura apparentemente monolitica del blocco sovietico iniziava già a mostrare delle crepe, grazie a tante piccole iniziative che, pur nate al di fuori dei normali canali di potere, si andavano configurando sempre più come una forza di opposizione politica. Senza poter presagire che undici anni dopo avrebbe assistito al crollo del Muro di Berlino, nel suo saggio Havel si chiede se il potere dei dissidenti, che per il sistema non avevano potere e non avrebbero mai dovuto averne, avrebbe cambiato qualcosa. Noi oggi sappiamo che la risposta data dalla storia è stata affermativa, ma possiamo anche constatare che la sua analisi aveva, oltre ad un’innegabile carica profetica, anche solidi fondamenti teoretici.

Havel contrappone i sistemi dittatoriali del blocco sovietico alle dittature che definisce «classiche». Queste ultime sono comunemente istituite da un piccolo gruppo di persone che assume il potere con la forza, sono temporanee, prive di radici storiche e spesso periscono alla morte dei loro fondatori. Il loro potere deriva dalla consistenza delle forze armate, ed è sempre esercitato con un margine di improvvisazione.

I totalitarismi dei paesi del blocco sovietico, invece, sono formati da un agglomerato di nazioni controllate da una superpotenza che impone dei caratteri comuni, subordina gli interessi degli stati ai propri ed è pronta a sedare ogni reazione locale grazie alle proprie ingenti forze militari. Inoltre, queste dittature hanno delle radici storiche, e cioè i movimenti socialisti del diciannovesimo secolo; sono vincolate a una forte ideologia, quasi una religione secolarizzata che ha profonde implicazioni per la vita dei cittadini; hanno via via perfezionato un meccanismo raffinatissimo di «manipolazione diretta e indiretta di tutta la popolazione», sostenuto dall’appropriazione dei mezzi di produzione da parte dello stato.5 Accanto a questi tratti, sedimentati nei decenni trascorsi dalla creazione dell’URSS, questi paesi hanno sviluppato anche aspetti nuovi, perché col tempo sono entrati in relazioni sempre più strette con il resto del mondo, fino ad assorbire alcune caratteristiche delle società consumiste occidentali. Tutto ciò spinge Havel a indicare i sistemi dei paesi dell’Europa Orientale della seconda metà del ventesimo secolo come dittature post-totalitarie.

2.1. La definizione del potere

Dato che oggetto della seguente analisi vuole essere l’etica del potere, è necessario chiarire che Havel esamina il potere politico, ossia fa riferimento a quella particolare azione di influenza che presuppone dei soggetti umani sia come principio sia come destinatari del potere: sono esseri umani tanto quelli che detengono ed esercitano il potere, quanto quelli che lo subiscono. Dunque non sono oggetto del saggio di Havel né il potere della natura sull’uomo, né quello dell’uomo sulla natura.6 Il potere politico, d’altra parte, è un tipo specifico di potere dell’uomo sull’uomo, per esempio presuppone il riferimento a una comunità di persone e non semplicemente alle relazioni informali di influenza tra individui, fa riferimento a un’autorità legittimata, è dotato di una struttura di leggi che codificano i rapporti, ha un sistema che fa applicare le norme e permette di difendersi da aggressori esterni e forze disgreganti interne, etc.

Presupposto del nostro studio è che, pur essendo dedicata al potere politico, l’analisi fatta da Havel vale in larga misura per il potere in generale perché descrive il caso più negativo e nefasto di esercizio del potere, ossia quello in cui la capacità di influire dell’uomo sull’uomo è utilizzata su una moltitudine, con lo scopo di renderla schiava, e utilizza la forza per negare ai sottoposti il loro stesso status di uomini, violentando la loro dignità e i loro diritti fondamentali. Le dittature post-totalitarie sono una rappresentazione estrema di quanto il potere dell’uomo sull’uomo possa diventare disumano perché sono riuscite ad asservire intere popolazioni in modo radicale, sistematico e duraturo, ricorrendo ai mezzi più abietti, compresi la manipolazione, la menzogna, la tortura e lo sterminio. Per questo motivo l’analisi di Havel assume un valore paradigmatico per comprendere la categoria stessa del potere — il potere in quanto tale e non solo nella sua declinazione politica -, a partire dal suo opposto negativo, la sua forma più malvagia di abuso.

Ci sembra che per presentare tale analisi possiamo raggruppare le questioni affrontate da Havel su due assi fondamentali, che rispecchiamo la sequenza tra la prima e la seconda parte di Il potere dei senza potere: da un lato, le questioni sollevate dalla natura dei regimi post-totalitari, come sistemi assolutistici disumani; dall’altro, le questioni legate alla possibile reazione a questo potere da parte delle sue vittime. Il primo gruppo di questioni è utile soprattutto per delineare l’essenza del potere. Con il secondo, invece, entriamo più direttamente nell’ambito dell’etica del potere e, in particolare troviamo un’analisi che riguarda chi subisce il potere ancor più di chi lo esercita. Per questo il titolo di questo studio cita l’etica del potere di chi è senza potere.

3. Il sistema post-totalitario come paradigma dell’abuso di potere

Nella prima parte del saggio Havel tocca le seguenti questioni: 1) Perché l’uomo accetta un potere che lo priva delle libertà più fondamentali?; 2) Che importanza ha il conformismo degli oppressi per rafforzare il potere?; 3) Quale senso ha il potere in rapporto al sistema?; 4) Quale rapporto lega il potere alla verità o alla menzogna?; 5) Quale spazio ha l’individuo nel sistema? Cerchiamo di presentare le analisi di Havel alla luce di una riflessione più ampia sul potere.

3.1. Perché l’uomo accetta di essere ridotto in schiavitù?

La domanda su che cosa può spingere un popolo ad accettare di essere ridotto in schiavitù da una dittatura già rivela che il potere interpersonale implica il coinvolgimento di due libertà: quella di chi comanda e quella di chi obbedisce. La questione della libertà di chi è asservito emerge anche nei casi di tirannia più spietata: la vittima, finché non è privata della sua capacità di intendere, conserva sempre la libertà di ribellarsi, nel caso più estremo accettando di morire pur di non sottomettersi. Allora la domanda che segue è: come mai spesso non lo fa? Si tratta sempre e solo di opportunismo o di viltà?

Per Havel non è questo il caso delle dittature post-totalitarie. La chiave che spiega come sia stato possibile creare e mantenere il potere in questi sistemi è l’ideologia: l’uomo è arrivato ad accettare di perdere ogni libertà, egli dice, perché l’ideologia è stata in grado di esercitare un fascino su di lui. E ciò è avvenuto perché essa, l’ideologia socialista, è sorta «in un’era nella quale le certezze metafisiche ed esistenziali sono in uno stato di crisi, nella quale la gente è sradicata e alienata».7 In queste parole Havel implicitamente presuppone che la visione metafisica del mondo non sia affatto avulsa dall’esistenza degli uomini ma, al contrario sia necessaria perché essi si sentano radicati e dunque sicuri. Quando le certezze metafisiche vanno in crisi, l’uomo stesso va in crisi, perché si sente disorientato. Ebbene, l’ideologia socialista, secondo Havel, ha offerto all’umanità errante «una casa immediatamente disponibile», grazie alla quale «improvvisamente ogni cosa diventa di nuovo chiara, la vita assume un nuovo significato, e tutti i misteri, le domande senza risposta, l’ansietà e la solitudine svaniscono».8 Si può osservare che questo è un fenomeno psicologico, perché il bisogno di sicurezza è sperimentato a livello psichico e la sua soddisfazione affetta il benessere psico-fisico della persona. Chi vive nell’ansia e nella paura alla fine si ammala. Ma può essere indagato filosoficamente, perché rivela qualcosa di essenziale della struttura antropologica dell’uomo, e cioè la sua natura intenzionale, la sua capacità di entrare in una relazione consapevole e significativa col mondo, la sua ricerca di senso. L’uomo non si accontenta di sapere che c’è la realtà e come essa è, ma vuole anche sapere che senso ha.

Con Havel comprendiamo allora che il potere interpersonale come tale ha un legame con il desiderio di senso. Nei momenti di crisi culturale e sociale, che sempre portano con sé un generale disorientamento sui valori condivisi, questo desiderio può condurre ad accettare una prospettiva teorica addirittura irrazionale, se questa è verosimile ed è percepita come una risposta soddisfacente al disagio causato dall’assenza di senso. L’ideologia offre, nello stesso tempo, dei criteri per interpretare il reale e la legittimazione a un certo tipo di potere politico, «l’illusione di un’identità, della dignità e della moralità», e si presenta «come la depositaria di qualcosa di sovraindividuale e oggettivo».9 Accettarla costa poco, ma si rivela ben presto una risposta apparente e un’arma nelle mani di un potere ambiguo e pericoloso:

Naturalmente si paga cara la casa con l’affitto basso: il prezzo è l’abdicazione della propria ragione, coscienza e responsabilità, perché un aspetto essenziale dell’ideologia è la consegna della ragione e della coscienza a un’autorità superiore.

Il falso potere è precisamente quello che impone a chi lo subisce il sacrificio della sua ragione, della sua coscienza e della sua responsabilità. È facile vedere che l’analisi di Havel, maturata nel secolo più ideologizzato e più omicida della storia, ha una portata più universale rispetto al suo riferimento storico immediato. Ogni falso potere, quello del genitore autoritario o dell’insegnante intellettualmente disonesto, così come del dirigente dispotico e persino del medico paternalista, manifestano segni di queste patologie, in cui, come Mangiafuoco nella storia di Pinocchio, chi comanda promette benefici immediati in cambio della rinuncia all’uso della propria ragione e libertà. La sopraffazione è l’affermazione della «verità» e della «volontà» del più forte a scapito di quella di chi accetta di essere sottomesso. Ma Havel va ben oltre. L’abdicazione della ragione, della coscienza e della responsabilità si spiega perché «il principio implicato qui è che il centro del potere è identico con il centro della verità».10 Chi comanda, in altre parole, trova agevolmente la propria legittimazione se riesce a presentarsi, nello stesso tempo, come sede della verità e sede del potere. Il potere dunque ha bisogno di persuadere per essere riconosciuto come legittimo e accettato. E fin da Platone e Aristotele sappiamo che la persuasione ha effetto solo se il destinatario ritiene che ciò che gli viene comunicato è vero, o almeno verosimile. La verità può insomma essere efficacemente sostituita da un surrogato, ma solo se riesce a blandire le sue vittime.

3.2. Che importanza ha il conformismo del suddito per il rafforzamento del potere?

Una seconda questione affrontata da Havel riguarda il rapporto tra l’esercizio del potere e il tipo di conformismo richiesto a chi deve accettarlo. Il potere interpersonale è una relazione asimmetrica nella quale qualcuno agisce e qualcun altro subisce, dunque implica un’obbedienza. Ma nell’abuso di potere questa obbedienza assume dei caratteri peculiari. Havel invita a immaginare un fruttivendolo che vive sotto la dittatura sovietica, al quale venga chiesto di esporre, «tra le cipolle e le carote» un cartello con lo slogan: «lavoratori di tutto il mondo, unitevi!». Il fruttivendolo è posto di fronte all’alternativa tra adeguarsi alla richiesta, oppure rifiutarsi di eseguirla.

Se decide di esporre il cartello, egli lancia un messaggio, foss’anche involontariamente, al suo superiore e a potenziali informatori, nel quale comunica che intende adeguarsi alle richieste del sistema, dunque accetta il potere costituito, ma per questo ha il diritto ad essere lasciato in pace.11 Dall’altra parte, esporre il cartello ha anche un significato che trascende il suo caso individuale, perché manifesta una forma ben precisa di esercizio del potere, utilizzato abitualmente da parte delle dittature che si basano su un’ideologia: la richiesta di esporre uno slogan che esprime quella stessa ideologia è il mezzo per controllare la sottomissione dei cittadini al potere della dittatura. Tale controllo viene facilmente ottenuto se l’azione richiesta non ha di per sé una grande rilevanza e non richiede un particolare sacrificio al cittadino.

Questo metodo che il potere utilizza per legittimarsi è pratico e allo stesso tempo dignitoso, aggiunge Havel, perché permette ai cittadini di nascondere, dietro al rispetto della legalità, il proprio conformismo allo status quo e la propria paura di avere problemi. Non si tratta tuttavia di un mero meccanismo di autodifesa. Chi agisce così, aggiunge Havel, lo fa nell’illusione che il sistema come tale sia «in armonia con l’ordine umano e con quello dell’universo».12 La struttura di potere si presenta infatti come se fosse un ordine metafisico che lega tutti i componenti, attraverso regole, limiti e leggi. L’ideologia ha la funzione del collante, senza il quale tutta la struttura collasserebbe: se chi la subisce ritiene che essa abbia un valore veritativo, sia espressione dell’ordine cosmico, ciò che è compiuto secondo l’ideologia diventa ragionevole.13

Tuttavia, l’adesione consapevole all’ideologia non è strettamente richiesta. È anche possibile agire per fede nell’ideologia, ossia dandole credito senza aver esaminato accuratamente gli argomenti che la supportano. Può infatti accadere che chi subisce l’ideologia non ne condivida i presupposti teorici, anzi, che nemmeno li conosca o li comprenda. Il sistema dittatoriale non chiede la convinzione intima, ma solo un’adesione esteriore, il conformismo nelle azioni a quanto prescritto e la rinuncia ad ogni iniziativa personale. Un’azione apparentemente insignificante come esporre il cartello nel negozio di frutta e verdura rafforza il sistema, a scapito della libertà degli individui, perché mantiene il «panorama generale» già creato dall’ideologia, e lo fa anche senza che i singoli ne siano consapevoli.

Quanto più il sistema è stratificato e complesso, tanto più l’ideologia è necessaria per tenere la popolazione legata al regime. Il sistema post-totalitario necessita perciò di un alto grado di conformismo, uniformità e disciplina. La conservazione del potere dipende da quanto i membri della società sono indotti ad operare come ingranaggi della macchina, con quanto meno indipendenza e iniziativa personale sia possibile. Questo vale anche per coloro che fanno parte della gerarchia al potere. Nessuno è importante in se stesso, ma ciascuno lo è solo in quanto alimenta e serve gli automatismi del sistema. Il potere dittatoriale tende insomma per sua natura a spersonalizzare, dunque a trasformare il potere su persone in potere su entità impersonali di una gigantesca macchina che per funzionare deve trattare quanto più possibile i suoi membri come mere parti dell’ingranaggio.14

Anche questa analisi rivela qualcosa dell’essenza del potere in generale. Ogni potere richiede una certa misura di conformismo, proporzionale all’obbedienza richiesta. Il rapporto tra genitori e figli inizia come un potere assoluto, nel quale il neonato può essere abituato a conformarsi in modo molto ampio alle richieste del genitore, a partire dai ritimi di veglia e sonno e dagli orari e dalla composizione dei pasti, fino alla scelta di scuola, amicizie e attività sportive. In seguito però si sviluppa verso un progressivo aumento dell’autonomia individuale del figlio, fino a sfociare nell’emancipazione dal potere genitoriale con l’ingresso nell’età adulta.15 Il potere dittatoriale, però, esprime la versione patologica ed estrema di questa caratteristica essenziale del potere, perché pretende dai cittadini un conformismo totalizzante ed eccessivo, che sacrifica ogni iniziativa individuale alle esigenze del sistema e alla sua autoconservazione e combatte ogni libertà che possa introdurre elementi incontrollati nel tutto.

4. Quale senso ha il potere per il sistema?

Emerge allora una terza questione fondamentale, e cioè quali siano gli scopi del potere e del sistema. In ogni struttura di potere, pensiamo ad un’azienda e alla sua scala gerarchica di comando, così come ad un partito politico, il potere serve a costruire, rafforzare e mantenere un sistema di governo e quest’ultimo, a sua volta, legittima e giustifica le posizioni di potere. Anche nelle dittature post-totalitarie il potere è funzionale a conservare il sistema. Ma ciò che in esse è caratteristico, rispetto ad esempio alle democrazie occidentali, è che il sistema non è salvaguardato per mantenere il potere nelle mani della classe governante. Piuttosto, diventa un fine in sé, al quale la stessa volontà di potere dei governanti deve essere sacrificata. Le esigenze del sistema sostituiscono a tutti i livelli le esigenze delle persone che ne fanno parte, siano esse governanti o governati, potenti o senza potere.

Potremmo dire che le dittature post-totalitarie mettono in luce per contrasto, poiché la negano, la dimensione intenzionale e trascendente del potere: fa parte dell’essenza del potere il fatto che esso assuma un significato, e dunque un fondamento razionale, solo se ha uno scopo che va oltre la struttura nel quale è esercitato. Diventa allora necessario qui introdurre alcune distinzioni essenziali.

In primo luogo, si può applicare la distinzione classica tra finis operis e finis operantis. Nella teoria dell’azione, il primo indica lo scopo cui un’azione tende oggettivamente (ad esempio, nel mangiare, è nutrirsi), il secondo indica la motivazione, che è lo scopo che chi agisce si propone di conseguire (ad esempio, mangio perché ho scommesso che riuscirò a finire venti wurstel in due minuti). Esiste uno scopo oggettivo del potere, ad esempio il potere dei genitori ha lo scopo di accudire ed educare i propri figli, proteggendoli dai pericoli, il potere del docente è quello di sviluppare le conoscenze e le capacità degli alunni, il potere dell’uomo politico, di intervenire nella cosa pubblica. Accanto a questo, si può individuare lo scopo soggettivo che si propone colui che esercita il potere. Ad esempio, il genitore può esercitare il suo potere per affermare il proprio orgoglio personale e forgiare il figlio a propria immagine e somiglianza, oppure per aiutarlo a sviluppare i propri talenti e diventare una persona matura; il docente può esercitare il suo potere per vendicarsi delle proprie frustrazioni su persone deboli, oppure per far fiorire le potenzialità dei suoi allievi. Lo scopo soggettivo equivale alle motivazioni con cui chi esercita il potere agisce. Tali motivazioni possono coincidere con il fine oggettivo di un certo tipo di potere, oppure differire da esso.

Inoltre le motivazioni possono essere ego-centriche, volte a cercare un beneficio per sé, oppure altero-centriche, volte a realizzare qualcosa che è altro da un beneficio per sé. L’esercizio del potere attuato con motivazioni meramente egocentriche, come il tiranno assoluto che agisce solo ed esclusivamente per accrescere il proprio potere e trarne vantaggi personali, conduce sempre all’abuso di potere, perché non riconosce alcun fine trascendente, al di fuori del proprio vantaggio personale. Tuttavia, anche il potente che agisce per fini alterocentrici, ma esclusivamente auto-referenziali, ad esempio solo per salvare il sistema in cui si trova ad operare, facilmente finisce per abusare del potere. Il senso del potere sta in qualcosa che trascende sia il potere stesso, sia la struttura o il sistema nel quale il potere si esercita.

E qui può essere utile una ulteriore distinzione, tra l’esercizio del potere (l’insieme delle azioni che permettono di acquistare, mantenere e utilizzare il potere) e gli effetti di tale esercizio. La dimensione intenzionale del potere riguarda entrambi questi aspetti del potere. Rivela in primo luogo che l’esercizio del potere non ha senso come fine in sé, ma solo in funzione di ciò che il potere serve a realizzare. Perseguire il potere per il potere, come proclamato dalla volontà di potenza di Nietzsche, è intrinsecamente insensato. Ma mostra, in secondo luogo, che anche ciò che il potere crea ha senso solo in funzione di scopi, fini o, seguendo l’identificazione aristotelica tra i fini dell’azione e i beni, dei beni che intende realizzare.

Di conseguenza, quando il potere è esercitato all’interno di una istituzione, la conservazione dell’istituzione in sé non può diventare un fine ultimo, tale da far dimenticare gli scopi dell’istituzione stessa. Leggendo Havel si comprende che se non si rispetta questa condizione, il potere diventa disumano. E che cosa, dunque, rivela questa connessione causale?

Secondo Havel, è la discrepanza tra il sistema creato da un tale potere e l’esperienza che la persona ha di sé. Il sistema post-totalitario è l’esatto opposto della vita, afferma Havel, infatti «la vita nella sua essenza, si muove verso la pluralità, la diversità, la formazione di sé indipendente, l’auto-organizzazione, in breve, verso la realizzazione della sua libertà». Invece, il sistema post-totalitario «esige conformità, uniformità e disciplina». Mentre la vita è creativa e produce novità, apertura, il sistema post-totalitario la costringe entro le sue manifestazioni più scontate e predeterminate, verso l’introversione.

Havel cita la vita anche in Coscienza e Libertà, del 1984, utilizzando l’espressione tedesca Lebenswelt, il mondo della vita, un concetto caro alla fenomenologia, presente in Husserl e Patocka, ma che Havel intende in modo molto semplice. Che cosa differenzia, egli si chiede, il modo di vedere il mondo di un contadino medioevale o di un bambino, da quello dell’adulto del ventesimo secolo? Il fatto che il contadino medievale e il bambino non si sono ancora «alienati dalla loro esperienza di persone», perciò «categorie come giustizia, onore, tradimento, amicizia, infedeltà, coraggio o empatia hanno un contenuto che ha un rapporto con le persone reali ed è importante per la vita vera». E tali valori sono «semplicemente lì, perennemente», perché hanno una fonte che trascende la storia, dunque una radice metafisica.

Tornando a Il potere dei senza potere, più avanti Havel riprende questo aspetto e sottolinea che il punto debole del sistema post-totalitario sta nel fatto che l’ideologia si scontra con la vita, con gli scopi più intimi e fondamentali dell’esistenza pienamente umana, con ciò che egli chiama desideri vitalie che, ad esempio, comprendono

il bisogno elementare dell’essere umano di vivere, almeno in una certa misura, in armonia con se stesso, ossia, di vivere in un modo sopportabile, di non essere umiliato dai superiori e dai funzionari pubblici, di non essere continuamente sorvegliati dalla polizia, di potersi esprimere liberamente, di trovare uno sfogo alla propria creatività, di godere della tutela della legge.16

Secondo Havel questi desideri vitali sono essenziali alla persona umana, quindi «sono presenti per natura in ogni persona», perché «in tutti c’è qualche desiderio della giusta dignità dell’umanità, dell’integrità morale, della libera espressione dell’essere e un senso di trascendenza rispetto al mondo dell’esistenza». Sembra allora di poter concludere che il potere e il sistema acquistano senso e valore solo se hanno un rapporto autentico e profondo con l’esperienza che la persona ha di sé e della sua relazione con il mondo. Solo in questo duplice rapporto è possibile individuare l’orizzonte etico dell’esercizio del potere.

5. Quale rapporto tra potere, verità e menzogna?

Quando il potere rifiuta la propria struttura intenzionale, invece, è obbligato a sostituire la verità con le apparenze, le menzogne e l’ipocrisia.17 Ciò rivela un altro aspetto essenziale del potere in generale, e che in fondo giustifica il ricorso all’ideologia, cioè il fatto che esso sempre necessita di una base di principi ideali che servono come forza aggregante tra chi comanda e chi obbedisce. Ogni potere su esseri umani presuppone dei contenuti che devono essere pensati, espressi e condivisi, anche se solo in minima parte, dalle intelligenze umane. L’etica del potere è sempre anche un’etica dell’intelligenza e un’etica della comunicazione.

Emerge allora una quarta questione cruciale, che riguarda il rapporto tra il potere e la verità. L’esercizio del potere all’interno di un’istituzione dotata di una chiara connotazione ideale porta sempre in sé il pericolo di un distacco progressivo tra i principi teorici dell’istituzione e la realtà, il mondo della vita. Le idee corrono sempre il rischio di imporre un’interpretazione della realtà parziale o addirittura deformante. Lo scollamento dalla realtà dei fatti può essere più o meno pronunciato, ma se è involontario, una volta scoperto, può essere corretto.

Quando, invece, la carica ideale di una istituzione è basata su principi falsi, o devia intenzionalmente dalla verità, questa diventa un peso intollerabile. Havel mette in luce che nelle dittature post-totalitarie il sistema è obbligato a ricorrere alla menzogna per sembrare aderente alle esigenze della vita. E il risultato è grottesco, la burocrazia è chiamata «governo popolare», la popolazione asservita è chiamata «classe lavoratrice», la degradazione dell’uomo è chiamata «liberazione definitiva», l’uso arbitrario del potere è chiamato «rispetto della legge», le elezioni farsa «massima forma di democrazia» e l’occupazione militare «assistenza fraterna». Insomma, «poiché il regime è prigioniero delle sue proprie menzogne, deve falsificare ogni cosa. Falsifica il passato. Falsifica il presente e falsifica il futuro».18 Il ricorso alla menzogna è da sempre parte dell’azione politica e ha raggiunto la sua forma più estesa ed estrema con i totalitarismi del ventesimo secolo.19 Ma è anche un aspetto tipico dell’abuso di potere in generale. Tralasciamo qui la questione se non ci siano dei casi in cui l’uso legittimo del potere può rendere necessario mentire in qualche caso particolare, ad esempio in guerra o per legittima difesa. Ciò che è in discussione ora è se ci siano degli scopi nell’esercizio del potere che giustifichino la dissimulazione e la falsità.

La questione dipende dalla relazione reciproca, intrinseca e necessaria tra potere e conoscenza: da un lato, il potere richiede conoscenza, dall’altro la conoscenza è di per sé potere. A causa di questa relazione reciproca, quando il potere non è al servizio della realtà delle cose, deve servirsi dell’ipocrisia per presentare i fatti nel modo che più gli conviene.20 Nelle società nelle quali c’è una competizione pubblica per il potere, osserva Havel, esiste anche un controllo pubblico sul modo in cui il potere legittima se stesso, e quindi su quanto devia dalla verità; nei sistemi totalitari, invece, nulla può impedire all’ideologia di allontanarsi sempre più dalla realtà.21 All’inizio l’ideologia dà consistenza al potere, in seguito ne diventa la principale garanzia di continuità.

Va notato che il pericolo della menzogna è sempre presente nelle relazioni di potere, di qualsiasi tipo esse siano, perché è una tentazione strutturalmente legata al carattere asimmetrico della relazione. Essa è a sua volta parte della più grande tentazione che è sempre in agguato per chi ha il potere, che è quella di «farsi prendere la mano», ossia di ubriacarsi della soddisfazione prodotta dal senso di potere, fino ad eccedere nell’usare il potere, travalicando i confini dell’esercizio legittimo. Potremmo dire che l’essenza dell’abuso di potere consiste nel suo «super-uso», nello scivolare indebitamente dalla sfera dell’esercizio ordinario a quella dell’esercizio stra-ordinario. Spesso questo passaggio deriva dall’ebbrezza del potere, ma ad un certo punto il potente deve giustificare il proprio agire. E la giustificazione dell’uso indebito non ha altre risorse che la forza e la menzogna, o almeno la dissimulazione.

5.1. Quale potere ha il suddito nel sistema?

Il legame tra ideologia e potere diventa ancora più chiaro laddove l’adesione all’ideologia diventa anche il criterio principale per selezionare coloro che si succedono al governo. Nelle dittature post-totalitarie non scompare la lotta per il potere, anzi, secondo Havel essa può essere estremamente brutale perché è priva di ogni controllo pubblico. Tuttavia, tale lotta resta nascosta, ed è sempre sottoposta alla fedeltà all’ideologia. Ciò rende anche il potere sempre più anonimo, tutti gli individui sono dissolti nel rituale e inglobati nell’automatismo del sistema. La situazione descritta da Havel, pur riferita al caso estremo in cui l’ideologia è il dittatore, mostra chiaramente un altro aspetto cruciale del potere: la dialettica tra individuo e sistema in ogni struttura che conferisce un potere.

Havel osserva (nel 1978!) che i totalitarismi e le democrazie occidentali sono sempre più accomunati dall’automatismo, in gran parte creato dall’avvento della tecnologia. Ora, quanto più una struttura di potere sussiste tramite automatismi, tanto meno gli individui che hanno funzioni di governo avranno libertà di azione, quindi potere personale, e tanto più saranno, spesso inconsapevolmente, «ciechi esecutori delle leggi interne del sistema».22 Addirittura, coloro che hanno ambizioni personali e una volontà indipendente, dovranno assolutamente celarle sotto una «anonima maschera rituale, per entrare nella gerarchia del potere». Ma quando arriveranno al potere, «presto o tardi l’automatismo trionferà, con la sua enorme inerzia, e o l’individuo verrà espulso dalla struttura di potere, come un organismo estraneo, o sarà obbligato a rinunciare gradualmente alla sua individualità»23

Il quadro delineato da Havel descrive perfettamente anche molte strutture di potere dei giorni nostri, come le aziende fortemente burocratizzate, o i grandi studi professionali caratterizzati da una gestione molto accentrata da parte dei vertici, così come i dipartimenti universitari assoggettati a cattedratici influenti. Le giovani leve devono accettare le regole del gioco per salire sul primo gradino della scalata al potere, anche laddove queste regole non riguardano necessariamente aspetti meramente professionali, ma si estendono al modo di vestire, al tipo di auto da guidare, agli ambienti da frequentare nel proprio tempo libero, alla scelta delle letture e alle simpatie politiche. Il conformismo che è richiesto nella fase iniziale della carriera spesso trasforma in qualità definitive quelle che al principio erano scelte subite per opportunismo o per necessità. Così, nel momento in cui i giovani ambiziosi avanzano nella gerarchia del potere, già si sono trasformati a immagine e somiglianza dei loro superiori.

Havel sottolinea che il conformismo diventa tragico quando porta con sé il progressivo distacco dalla realtà dei fatti, un sempre più profondo vivere nella menzogna. Egli è convinto del fatto che ogni sistema basato sulla falsità ha un punto di rottura, e ad un certo punto collasserà. Ma è altrettanto convinto del fatto che tale sistema «funziona finché la gente è disposta a vivere nella menzogna».24 Se dunque ciò che spinge ad accettare l’ideologia è una causa insieme psicologica e metafisica — il bisogno di senso dell’uomo — il motivo per cui la maggioranza, quando si accorge dell’errore, preferisce rimanere nella menzogna, è invece la paura: il timore delle conseguenze di una eventuale ribellione, in particolare di essere esclusi dalla società e confinati nell’isolamento, e di perdere la propria tranquillità e relativa sicurezza. Il sistema regge perché le vittime non vogliono opporsi ad esso.

Non si può pensare, osserva Havel, che si sia arrivati alle dittature post-totalitarie per un incomprensibile errore, un deragliamento inspiegabile dai binari della storia, oppure solo perché una volontà diabolica superiore ha deciso di tormentare una parte dell’umanità. Queste ipotesi toglierebbero all’uomo ogni responsabilità verso la situazione che si è creata. Per Havel, piuttosto, «nell’umanità moderna c’è una certa tendenza a creare, o almeno a tollerare, un tale sistema», ossia gli uomini possono essere costretti a vivere nella menzogna «solo perché sono di fatto capaci di vivere in questo modo».25 È la capacità di adattarsi all’asservimento e al compromesso la vera causa della durata del totalitarismo. La tenuta di ogni sistema di potere dipende infatti dal supporto reciproco tra i suoi membri, in ultima analisi, dal conformismo dei singoli.

Emerge allora un altro aspetto essenziale del potere interpersonale. Coloro che subiscono il potere, proprio in quanto soggetti liberi, e nella misura in cui sono soggetti liberi, non sono mai del tutto passivi rispetto ad esso. Al contrario, il fatto stesso di accettare le regole prescritte serve a rendere effettivo il potere altrui. Chi è vittima dell’abuso di potere, è anche lo strumento che rende efficace quel potere, e a sua volta diventa lo strumento per spingere altri ad accettare lo stesso potere. Havel insomma rileva che ogni sistema di potere dittatoriale tende a utilizzare ogni suddito come anello di una catena che permette di asservire a sé altri anelli della catena. Chi rinuncia alla propria identità a favore dell’identità del sistema acquista un potere: quello di indurre altri a fare lo stesso.26

Questa osservazione può spiegare la mancanza di solidarietà che si riscontra in molti luoghi di lavoro ai nostri giorni. I vertici delle aziende hanno raggiunto il proprio obiettivo di potere sui dipendenti quando riescono a far assimilare le «regole del gioco» al punto che chiunque controlli i propri pari e ne denunci la negligenza nel seguire le norme scritte e non scritte. Se queste norme riguardano giusti aspetti di etica professionale, è evidente che la vigilanza reciproca può essere un metodo efficace per migliorare la qualità del sistema. Ma se invece le pressioni tra pari si applicano in quegli aspetti che sono frutto di un abuso di potere da parte di chi detta le regole, l’effetto è un progressivo rafforzamento del sistema, a scapito della libertà e dell’autonomia individuale, ma anche della bontà delle relazioni e dell’efficacia del lavoro.

Quando il sistema è dittatoriale, l’ascesa sui gradini della scala gerarchica comporta anche un coinvolgimento sempre maggiore nel sistema stesso: il fruttivendolo è meno coinvolto, ma ha meno potere. Il primo ministro ha molto più potere, ma è coinvolto in modo molto più profondo dal sistema. Ciononostante, il tipo di potere degli individui non è qualitativamente differente: nessuno dei due è libero, ciascuno è «sia una vittima sia un supporto del sistema».27 Eppure ciò rivela anche che il potere dell’uomo sull’uomo, pur essendo una relazione asimmetrica, è nello stesso tempo sempre una relazione reciproca. Chi subisce il potere esercita una forma di potere, seppure diversa, su chi apparentemente è il solo ad avere potere.

6. Una sintesi sull’essenza del potere dell’uomo sull’uomo

Possiamo allora riassumere le caratteristiche del potere dell’uomo sull’uomo che possono essere individuate attraverso le analisi di Havel.

Il potere interpersonale è la capacità che l’uomo ha di influire sull’altro uomo, dirigendo in qualche modo la sua azione, le sue convinzioni e le sue abitudini. In quanto relazione tra persone, deve far leva in qualche misura sulla capacità di intendere e volere dell’altro. Quanto all’intelligenza, chi comanda deve legittimare se stesso o il sistema di cui è rappresentante attraverso dei contenuti ideali, comunicabili e comprensibili dai sottoposti; chi obbedisce, invece, lo fa perché aderisce con la convinzione alla verità che l’altro presenta come giustificazione del proprio potere, oppure perché si lascia persuadere da argomenti verosimili (magari falsi), oppure ancora perché rinuncia alla questione della verità e adegua il proprio comportamento esteriore a quanto comandato dal potente, per comodità, per paura o per rassegnazione. Quanto alla libertà, la relazione di potere coinvolge la volontà sia di chi comanda, sia di chi obbedisce. Chi subisce il potere resta infatti libero di adeguarsi o di ribellarsi.

La relazione di potere, di conseguenza, è nello stesso tempo asimmetrica e reciproca. L’influenza ha sempre una direzione, ma il fatto stesso di avere un potere su un altro genera nell’altro un potere, seppure differente, nei miei confronti. Il potere ha inoltre un carattere intenzionale e trascendente. È insensato il potere per il potere, così come il potere che ha come unico scopo conservare il sistema che lo rende possibile. Il potere non ha senso o valore di per sé, ma attinge il suo significato al di fuori di sé, in fini o scopi che lo trascendono. E prende piede quando riesce a rispondere a qualche bisogno dell’altro, soprattutto quando si propone come risposta al bisogno di senso che ogni uomo ha.

Da qui deriva la relazione essenziale tra il potere e la verità delle cose, soprattutto con la verità sulla persona. Quando il potere si svincola dal suo ancoraggio metafisico, degenera nell’abuso, nel falso potere. La causa di questa degenerazione è data dal fatto che il potere tenta l’uomo e rischia sempre di prendere il sopravvento su di lui, di ubriacare il potente e di muoverlo all’eccesso. Quando invece il potere resta fedele alla vita, alle cose in se stesse, trova il proprio limite. Ad esempio, chiede a chi lo subisce il conformismo minimo necessario ai suoi scopi specifici, lasciando la libertà in tutto ciò che esula da essi.

L’uomo di potere, allora, rispetta l’ordine delle cose quando nelle sue motivazioni riconosce la natura intenzionale e trascendente del potere e non persegue il potere con motivazioni esclusivamente egocentriche, per ottenere vantaggi personali.

6.1. Il dissenso come paradigma della riaffermazione della dignità della persona

Il secondo gruppo di questioni poste da Il potere dei senza potere è correlato alla ricerca di una soluzione alla dittatura e alle sue forme di abuso di potere. Possiamo enunciarle come segue: 6) che via d’uscita ha chi vuole opporsi al totalitarismo? 7) fino a che punto è giustificato il sacrificio di sé e dei propri interessi personali per combattere l’abuso di potere? 8) che significato etico ha l’opposizione al potere? 9) quali mezzi usare per opporsi alla dittatura: la legge o la forza? Si vedrà che con queste domande Havel sposta la questione dal piano speculativo dell’indagine sull’essenza del potere, al piano pratico, e ci introduce decisamente nell’ambito dell’etica del potere, finora solo accennata.

6.2. Quale via d’uscita all’abuso di potere della dittatura?

Premesso quanto detto finora, sorge la questione se sia possibile ribellarsi al fatto di essere una mera pedina del sistema e riappropriarsi della propria vera identità di soggetto libero. Ora, Havel ha riconosciuto che l’uomo è capace di vivere nel compromesso e nella menzogna, di adattarsi a vivere in modo anonimo, anche se ciò comporta rinnegare la sua stessa identità.28 Ma questo stesso fatto mostra, egli aggiunge, che l’uomo ha una «predisposizione per la verità», un «desiderio autentico rispetto al quale vivere nella menzogna è una risposta inautentica».29

La disponibilità ad adattarsi a vivere nella menzogna deriva sia dall’oppressione di un potere assoluto, sia dal fascino dei beni materiali offerti dalle società consumistiche: entrambi indeboliscono la volontà umana, che non è più disposta a sacrificare alcune certezze materiali per salvare la propria integrità morale e spirituale. Poiché le dittature post-totalitarie riassumono in sé entrambi questi tratti, Havel ritiene che esse siano una metafora dell’uomo moderno in generale:

Alla fine, il grigiore e la vacuità della vita nel sistema post-totalitario non è solo una caricatura gonfiata della vita moderna in generale? E noi non siamo di fatto … come una sorta di ammonimento dell’Occidente, che rivela le sue tendenze nascoste?30

La debolezza dell’uomo, che rinuncia alla propria dignità unica — la sua integrità spirituale e morale — per conservare alcuni beni materiali, ci riporta al cuore del dilemma morale per eccellenza. Anche nell’etica del potere, in fondo, questo è il bivio fondamentale. Di fronte all’ingiusto potere, si presenta la scelta tra accettare il compromesso e salvare i benefici per quanto relativi che si sono conquistati, oppure ribellarsi. Se si sceglie la ribellione, ci sarà un prezzo da pagare. Per descrivere l’eroismo richiesto in questo caso, Havel torna all’esempio del fruttivendolo.

Immaginiamo ora che un giorno nel nostro fruttivendolo qualcosa scatti ed egli smetta di esporre gli slogan solo per risultare bene accetto. Smette di votare nelle elezioni che sa essere una farsa. Inizia a dire ciò che pensa veramente alle riunioni politiche. E persino trova la forza in sé di esprimere solidarietà con coloro la cui coscienza gli comanda di appoggiare. In questa rivolta il fruttivendolo varca il confine della vita nella menzogna. Rifiuta il rituale e rompe le regole del gioco. Scopre di nuovo la sua identità e dignità sopite. Dà alla sua libertà un significato concreto. La sua ribellione è un tentativo di vivere nella verità.31

In questo passo emergono con evidenza gli effetti positivi della rivolta: a) il fruttivendolo riscopre la voce della coscienza morale, che incoraggia ad «uscire dal coro», non per gusto di ribellione fine a se stesso, ma come risposta ad un’ingiustizia che non può essere più tollerata e supportata. Egli anche b) sperimenta il legame tra la coscienza e la verità: il comando imperioso della coscienza morale non è altro che quello di rinunciare a «vivere nella menzogna». Inoltre, c) la ribellione, che esteriormente consiste nel rifiutare i rituali prestabiliti e quindi infrangere le regole del gioco, ha una valenza sociale immediata, perché scompiglia l’uniformità del sistema, e quindi salta immediatamente agli occhi, come una macchia di inchiostro su un lenzuolo bianco. Il fruttivendolo allora d) riscopre la propria identità e dignità e dà un significato alla libertà umana, che è inseparabile dalla verità. Ma la ribellione porta con sé immediati effetti negativi. Havel immagina che il fruttivendolo ben presto sarà rimosso dal ruolo di gestore del negozio e trasferito nel magazzino, la sua paga verrà decurtata, la possibilità di andare in vacanza in Bulgaria o di far accedere i figli all’istruzione superiore messe a rischio, colleghi e superiori inizieranno a tormentarlo.32 La punizione deve essere seria non perché le sue azioni siano di per sé gravi, ma perché, infrangendo le regole del gioco, rivelano l’ipocrisia generale. Smettendo di appoggiare l’ideologia, il fruttivendolo proclama che «l’imperatore è nudo», e che «è possibile vivere nella verità».33

Le sanzioni dimostrano che hanno ragione coloro che temono di ribellarsi per paura delle conseguenze negative. Tuttavia, Havel ritiene che, per mostrare l’ingiustizia e la falsità del sistema, è necessario qualcuno che si ribella, che infrange le regole. Solo la proclamazione della verità, infatti, mette in luce, per contrasto, la falsità e l’apparenza. Ancora di più, Havel aggiunge che infrangere le regole è anche condizione sufficiente per mostrare la falsità del sistema, a prescindere da quanto grave o ampia sia l’infrazione, perché di per sé getta luce sui fondamenti fragili e ipocriti del sistema stesso.

Nel sistema post-totalitario, dunque, vivere nella verità ha più che una dimensione meramente esistenziale (ricondurre l’umanità alla sua natura intrinseca) o una dimensione noetica (rivelare la realtà quale essa è) o una dimensione morale (stabilire un esempio per gli altri). Ha anche una chiarissima dimensione politica.34

Storicamente questo è quanto è successo con Charta 77. L’occasione fu il processo intentato contro un gruppo punk chiamato The Plastic People of the Universe i cui musicisti avevano deciso di ribellarsi allo status quo e di iniziare a suonare la musica che volevano. Il processo causò una reazione di massa, «dopo anni di attesa, apatia e scetticismo verso varie forme di resistenza», perché quella libertà particolare fu percepita come espressione della libertà umana come tale.35 Havel ritiene che nel sistema post-totalitario «la verità gioca un ruolo molto più grande come fattore di potere» che in ogni altro contesto perché la menzogna è parte del sistema di controllo sulla popolazione.36 Eppure in tutte le forme di accentramento del potere che fanno uso della dissimulazione la verità è una minaccia letale al potere, e va quindi combattuta con la massima energia.

Sempre riferendosi alla dittatura post-totalitaria, Havel aggiunge che l’opposizione al potere assume come forma propria quella di operare non al livello dei poteri istituzionali, bensì a quello della consapevolezza e della coscienza. Si tratta quindi di una rivolta molto meno quantificabile, perché non risiede nella forza di gruppi politici e sociali ben definiti, o delle forze armate, ma può riguardare potenzialmente «chiunque sta vivendo nella menzogna e può essere colpito in ogni momento (almeno in teoria) dalla forza della verità». Quest’ultima espressione ricorda l’immagine del prigioniero della Caverna, descritto da Platone nella Repubblica. Egli viene addirittura forzato ad uscire dalla prigionia, ma nel momento in cui si rende conto delle cose in se stesse, e dunque del mondo di apparenza in cui viveva, non desidera più tornare indietro. Ciò può forse dare speranza a chi vive in forme più subdole e sottili di menzogna, trasmesse da sistemi di potere più circoscritti di un sistema dittatoriale. L’incontro con la verità può sempre avere l’effetto di risvegliare la consapevolezza e la coscienza morale. Ma per questo sono necessari in ogni ambiente alcuni che amano la verità tanto da essere disposti a testimoniarla anche a costo di sacrifici.

6.3. Quali scopi giustificano il sacrificio dei propri interessi personali?

Che cosa dunque può motivare il fruttivendolo a smettere di uniformarsi e a iniziare a opporsi al regime, affrontando la rappresaglia che sicuramente ne conseguirà? Per Havel i rischi implicati dal dissenso sono accettati solo da chi «non è disposto a sacrificare la sua identità alla politica, o piuttosto, che non crede in una politica che richiede un tale sacrificio».37 Dopo la questione della scelta tra verità e menzogna, l’opposizione al potere ingiusto richiede di scegliere tra ciò che può essere sacrificato e ciò che non può essere sacrificato: da un lato, una certa sicurezza materiale (lavoro, accesso all’istruzione per i figli, etc.), dall’altro, la coscienza morale che non si arrende al sopruso. Chi sceglie di sacrificarsi per combattere il potere ingiusto compie una scelta valoriale, dunque etica: sceglie la verità contro la menzogna perché ne apprezza il valore in sé, che prevale di fronte a dei vantaggi immediati; sceglie di rinunciare a delle comodità materiali pur di riaffermare i diritti propri e altrui alla libertà di movimento, di opinione, di espressione e lo fa perché ritiene che non si possa rinunciare a questi valori senza sminuire la propria dignità umana.

Havel aggiunge che anche la scelta contraria, di non reagire e continuare a vivere nella menzogna è una scelta morale. Essa produce una crisi dell’identità nella persona, «che è stata sedotta dal sistema di valori del consumatore e che non ha nessuna radice nell’ordine dell’essere, nessun senso di responsabilità per nulla di più alto della sua personale sopravvivenza». Ebbene, per Havel questa «è una persona demoralizzata».^[38] Con questo termine egli non intende semplicemente la rassegnazione dell’inerme; piuttosto, colui che non combatte contro il mondo delle menzogne e si lascia trascinare dal consumismo della civiltà di massa rinuncia alla sua vita morale, perché intende la responsabilità solo ed esclusivamente come ricerca del bene per sé. La rivolta, invece, permette di riappropriarsi delle proprie responsabilità, che riguardano tanto se stessi quanto gli altri. Ciò che si vuole è migliorare la situazione comune.

Vivere nella verità, come rivolta dell’umanità contro una posizione forzata, è, al contrario, un tentativo di riguadagnare il controllo sul proprio senso di responsabilità. In altre parole, è chiaramente un atto morale, non solo perché si deve pagare così a caro prezzo, ma principalmente perché non è a servizio di se stessi: il rischio può condurre al premio nella forma di un miglioramento generale della situazione, oppure no.38

Si presenta qui il significato morale della motivazione. La distinzione tra motivazioni ego-centriche e altero-centriche da noi introdotta in precedenza non corrisponde necessariamente ad una connotazione negativa delle prime e positiva delle seconde. Prendersi cura di sé, del proprio corpo, della propria salute o del proprio benessere economico non è di per sé moralmente negativo, neppure quando è mosso solo da motivazioni egocentriche; così come occuparsi del prossimo o perseguire l’ideale di liberare il mondo dalla fame non sono azioni sempre e comunque moralmente positive, seppure mosse da motivazioni alterocentriche. Ciononostante, la ribellione del fruttivendolo è una risposta di grande valore morale, perché contiene la risposta a qualcosa che è importante in se stesso e anche è compiuta per il bene di tutti, e non solo per il proprio. Invece, l’atteggiamento di chi è del tutto privo di ogni interesse per gli altri è moralmente negativo perché rinchiude la persona solo entro i limiti ristretti del proprio egocentrismo.

Havel osserva che i rappresentanti del potere costituito spesso provano ad affrontare coloro che vivono nella verità accusandoli di opportunismo — di lottare per il potere, la fama o la ricchezza — proprio per assimilarli al proprio mondo, che è di «demoralizzazione generale».39 In effetti i veri opportunisti non riescono assolutamente a capire chi opera in base a dei criteri morali, a valori che sono seguiti per la loro importanza in sé e non per i benefici che possono portare a chi li segue. Sono incapaci di comprendere la gratuità, anche solo quella di chi lavora per far bene il proprio dovere e non solo in funzione dell’avanzamento di carriera. Il comportamento disinteressato esula dalla loro tavola dei principi. Sono perciò obbligati, spesso inconsapevolmente, a fraintendere i comportamento di chi agisce per convinzione morale.

La genesi di Charta 77 mette in luce come la rivolta di pochi può assumere una valenza estesa, tramite la solidarietà. Così come la tenuta del sistema dipende dal legame tra gli anelli della catena, anche la ribellione ad esso si opera tramite contagio.40 La reazione di pochi assume un reale potere di influenza quando innesta una risposta solidale da parte da altri. E questo avviene quando molti, anche da posizioni diverse, percepiscono la ribellione di uno come rappresentativa di qualcosa di più grande: difendere la libertà altrui voleva dire difendere la propria libertà, la libertà come tale.

Ma la storia di Charta 77 mostra un altro aspetto etico della questione: Patocka poco prima di morire aveva scritto che «ci sono cose per cui vale la pena soffrire», che vanno difese a tutti i costi.41 In una prospettiva etica di relativismo, questa affermazione perde gran parte del suo significato. Se i valori sono solo il prodotto delle preferenze individuali, ogni dedizione totale ad un ideale non è altro che un arbitrario fanatismo. Eppure l’affermazione di Patocka è tutt’altro che fanatica. Deriva dalla convinzione che l’uomo non può né deve sacrificare se stesso per qualsiasi cosa, ma solo per ciò che davvero vale. E ci sono cose che valgono più della sua stessa vita.

Il nucleo della questione etica è allora individuare quali sono i valori per cui vale la pena impegnarsi, soffrire e anche morire. Per Havel quei «desideri vitali» già citati sono la via per scoprirli. Egli afferma che solo se i dissidenti lottano per ristabilire quei diritti che corrispondono ai desideri vitali dell’uomo, allora riusciranno a parlare alla gente. I progetti astratti crollano di fronte alla verità concreta, di fronte alla questione «se è possibile o no vivere come un essere umano». Qualsiasi sistema perde di legittimità e di senso, se non garantisce agli uomini di vivere con dignità. Il sistema «deve servire la gente e non il contrario».42

6.4. Quale significato etico ha l’opposizione al potere?

Comprendiamo allora perché l’etica del potere di Havel riguarda in primo luogo coloro che sono senza potere, ma possono e devono opporsi all’abuso. Egli osserva che chi si trova in una posizione di potere legittimata può incontrare tre forme di opposizione: a) quella di chi vuole sostituirsi a lui e prendere il potere per motivi personali; b) quella di chi vuole rivendicare dei diritti propri o altrui, che chi ha il potere sta violando c) quella di chi ha dei motivi ideologici o di opportunità pratica per sostituirsi a chi governa. Ci sarebbero insomma tre ordini di motivazioni in chi vuole cambiare i vertici del potere: nel primo caso chi vuole conquistare il potere è motivato dall’ambizione personale, nel secondo dalla volontà di difendere dei valori importanti in se stessi, nel terzo da ragioni contingenti (una maggiore efficacia produttiva) o ideologiche (un partito di destra vuole soppiantare uno di sinistra o viceversa). Havel nota che il dissenso spesso è stato frainteso, sia all’interno del blocco sovietico, sia in Occidente, perché si pensava che volesse perseguire il primo o il terzo obiettivo, mentre suo scopo era difendere i diritti umani. E per questo scopo è divenuto una forza potente.

Uno snodo interessante consiste nel trovare la strada che conduce da «smettere di vivere nella menzogna» a vivere nella verità e allearsi con altri per un’azione congiunta. Havel ritiene che questo passaggio avviene quando si riesce a sviluppare una vita spirituale indipendente, che è caratterizzata da un certo grado di emancipazione, e permette ai dissidenti di navigare come «una piccola barca sull’oceano della vita manipolata», sempre a rischio di essere travolta dai flutti, ma rimanendo «messaggio visibile del vivere entro la verità».43 Possiamo osservare che l’immagine della barchetta che cerca di rimanere a galla nelle tempeste della vita ha una sua validità per indicare le forze di cui dispone l’individuo, soprattutto chi non è ai vertici delle gerarchie di potere, per opporsi al sopruso. Da solo, egli può sempre coltivare la propria libertà interiore. Ma nel momento in cui la sua azione diviene per altri l’occasione per riscoprire le proprie risorse spirituali, allora l’opposizione di uno diventa la miccia che conduce molti a reagire. E ciò si può innescare grazie alle attività umane più diverse, intellettuali o creative, l’attività di ricerca in ambito storico, filosofico, sociologico, così come l’insegnamento, l’arte, la vita religiosa.

Questa indipendenza non è fine a se stessa, ma ha come scopo «il servizio della verità, della vita vera, e il tentativo di fare spazio ai fini genuini della vita».44 Secondo Havel tale approccio è più realistico, perché può iniziare qui ed ora, più popolare, perché tocca la vita quotidiana della gente, ma soprattutto più solido perché «punta all’essenza stessa delle cose».45 Torniamo al riferimento metafisico che, come accennato nella prima parte, è sempre anche un richiamo al senso dell’esistenza umana. La libertà di pensiero ed espressione permette di riportare alla luce il bisogno di senso dell’uomo, ma anche la gerarchia tra quei valori che possono dare significato alla sua esistenza. Ebbene, in questa opera di risveglio, secondo Havel, proprio il contatto con il fondo dell’abisso dell’abuso di potere è la migliore spinta propulsiva per risalire perché, scrive, «ci sono volte nelle quali dobbiamo immergerci fino al fondo della nostra miseria per vedere la verità, proprio come dobbiamo scendere al fondo di una fonte per vedere le stelle nella piena luce del giorno». Coloro che vivono nei sistemi post-totalitari sono allora più pronti a riscoprire l’essenza stessa della politica — di ogni potere -, il rispetto dell’uomo, perché più radicalmente e sistematicamente hanno sofferto la violazione dei propri diritti. Di nuovo, l’esperienza buia del sopruso e dell’ingiustizia è l’occasione più propizia per risvegliare la capacità di percepire la luce dell’uso corretto del potere e della giustizia.

6.5. I mezzi per ribellarsi all’abuso di potere: legge o violenza?

Tutto ciò induce Havel a domandarsi, e sarà l’ultima questione sulla quale rifletteremo riguardo all’etica del potere, perché per contrastare l’abuso di potere i dissidenti hanno spontaneamente preferito la strada della legalità a quella dell’anarchia e della violenza.46 Perché, in altre parole, i dissidenti non reagiscono con il rifiuto dello stato e della legge come tali, ma denunciano le ingiustizie appellandosi alle dichiarazioni dei diritti umani e alle costituzioni degli stati?

Havel dà due risposte, una pragmatica e l’altra di principio. In primo luogo, egli afferma che il ricorso alla forza non è praticabile nel sistema post-totalitario, sia perché è comunque assai stabile e forte, sia perché in esso è difficile distinguere chi usurpa il potere e chi ne è vittima, tanto che la società stessa troverebbe inaccettabile la rivolta, la leggerebbe come un attacco a se stessa. Questo aspetto mostra l’importanza, per chi vuole opporsi al potere costituito, di valutare la reazione degli altri sottoposti. Anche se si agisce motivati da ragioni altruistiche e in base ad una ragionevole certezza di successo, si deve tenere conto del fatto che le persone hanno una naturale tendenza ad opporsi ai cambiamenti e possono fraintendere le ragioni dell’opposizione, rendendo ogni azione vana.

Ma esiste una seconda e più profonda ragione che rende consigliabile la via della legalità rispetto a quella della forza: quest’ultima è un mezzo pericoloso, che facilmente genera violenza e abusi. Ci sono casi in cui non se ne può fare a meno, ma sempre e solo «come male necessario in situazioni estreme, laddove una violenza diretta può essere fronteggiata solo dalla violenza, e dove rimanere passivi in effetti significherebbe supportare la violenza.»47 Incontriamo allora un altro principio cardine dell’etica del potere, secondo il quale l’uso della forza è consentito solo in casi estremi e come male minore, quando le alternative non violente non sono percorribili.

In questo modo Havel rigetta implicitamente il principio della «ragion di stato», che possiamo trovare nella convinzione, falsa ma molto condivisa dai potenti, che importanti riforme politiche e sociali possono «giustificare il sacrificio di cose meno fondamentali, in altre parole, vite umane».48 Quando il rispetto per un’idea teorica prevale sul rispetto per la vita umana, commenta Havel, l’esito è spesso quello di rendere l’umanità sempre più schiava. Al contrario

i movimenti dissidenti … intendono il cambiamento del sistema come qualcosa di superficiale, di secondario, che in se stesso non può garantire nulla … hanno un’antipatia profonda per tutte le forme di violenza realizzate in nome di un futuro migliore, e da una profonda convinzione che un futuro assicurato con la violenza potrebbe di fatto essere peggiore di ciò che esiste ora; in altre parole, il futuro sarebbe fatalmente pregiudicato proprio dai mezzi utilizzati per realizzarlo.49

La scelta di seguire la via della legalità non può far dimenticare che nei sistemi post-totalitari il codice delle leggi ha una funzione parallela a quella dell’ideologia. Il rispetto formale della norma infatti è di frequente una scusa, perchè «avvolge l’esercizio basilare del potere nella nobile sembianza della lettera della legge; crea la piacevole illusione che la giustizia è fatta, la società protetta, e l’esercizio del potere regolato oggettivamente». Un osservatore esterno può non rendersi conto si quanto le leggi servano al sistema per manipolare le giurie, per limitare l’azione di difesa degli avvocati, per conferire potere alle forze di polizia rispetto alle autorità giudiziarie, per calpestare insomma i diritti dei cittadini.50 L’uso delle leggi come forza coercitiva, dice Havel, è ciò che rafforza le pareti delle vene nelle quali il sangue del potere può circolare ordinatamente.51

Anche questo può essere applicato all’esercizio del potere in generale. L’appello al diritto, sia una tavola di norme di comportamento in una scuola o un ufficio, o la promulgazione di leggi in uno stato, può sempre rivestirsi dell’aura di tutela dei membri di una comunità o di rimedio necessario ad una situazione di disordine, ma di fatto essere usata da chi detiene il potere come strumento di oppressione «legittimata», sui suoi sottoposti. Anche nella società attuale vediamo come il rispetto formale della legge, e non solo la sua violazione, può condurre a comportamenti immorali e illegittimi. Havel ritiene che proprio perché il sistema illusorio dei regimi totalitari dipende dal rispetto delle regole, la via per il cambiamento non sta nel sopprimere quelle leggi o nel delegittimare l’importanza della legge come tale, ma nel mostrare la differenza tra vivere secondo la sostanza, il vero spirito della legge, e vivere secondo la forma, nel rispetto puramente esteriore e apparente delle norme.

Ci sembra che questa intuizione sia ancora più valida nei regimi democratici infestati dalla corruzione. Le leggi in questi regimi non hanno tanto bisogno di essere riformate, quanto di tornare a guidare davvero il comportamento dei cittadini. Per questo devono essere giuste. Ma la soluzione all’ingiustizia non è tanto quella di cambiare le leggi o farne di nuove, né quella di demonizzare il diritto o la politica, orientandosi verso una forma di disimpegno che cerca di eludere il primo e ignorare la seconda. La soluzione è motivare i cittadini a comprendere lo scopo della legge come tutela del bene comune e dei beni individuali e dunque richiamarli alle loro responsabilità personali e sociali.

Havel riconosce però anche che la legge di per sé ha un potere limitato. Pur nel più ideale dei casi, infatti, essa è solo uno dei mezzi imperfetti che abbiamo per difendere la vita migliore da quella peggiore. Di per sé è insufficiente. È possibile sia una società che ha buone leggi e le rispetta, ma è invivibile, sia una società in cui si vive discretamente, pur con leggi imperfette e poco applicate. Ancora una volta, si deve porre la vita con i suoi scopi essenziali al di sopra della legge, dunque è necessario «tenere gli occhi aperti sulle dimensioni reali della bellezza e miseria della vita» e avere «una relazione morale con la vita». Questo compito morale non è altro che lo scopo perseguito dai dissidenti, «servire la verità, ossia, servire i veri scopi della vita».52 Proprio in quanto mettono in luce le dimensioni essenziali dell’essere umano, come essere libero e morale, Havel proclama che l’agire dei dissidenti ha una portata universale. E le parole che seguono sono valide in ogni epoca umana di crisi:

Ogni rivoluzione esistenziale dovrebbe dare speranza di una ricostruzione morale della società, che significa un radicale rinnovamento della relazione degli esseri umani a ciò che ho chiamato «ordine umano», che nessun ordine politico può rimpiazzare. Una nuova esperienza dell’essere, un rinnovato radicamento nell’universo, un senso superiore di responsabilità, ripensato, una ritrovata relazione intima con le altre persone e la comunità umana — questi fattori chiaramente indicano la direzione nella quale dobbiamo andare.

In altre parole, la questione è riabilitare valori come la fiducia, l’apertura, la responsabilità, la solidarietà, l’amore. Credo nelle strutture che non sono finalizzate all’aspetto tecnico dell’esecuzione del potere, ma al significato di quell’esecuzione, in strutture tenute insieme più da un condiviso sentimento dell’importanza di certe comunità, che da condivise ambizioni espansioniste dirette all’esterno.53

Vaclav Havel ci ha lasciato così un’eredità che trascende il momento storico, pur cruciale, in cui egli ha vissuto, agito e scritto. Per questo l’invito rivolto ai suoi contemporanei resta valido anche per l’uomo del ventunesimo secolo:

Non conosciamo la via per uscire dal marasma del mondo, e sarebbe un’espressione di orgoglio imperdonabile se vedessimo il poco che possiamo fare come una soluzione fondamentale, o se presentassimo noi, la nostra comunità, o le nostre soluzioni ai problemi vitali come l’unica cosa degna di essere fatta. Eppure, penso che le riflessioni precedenti, se non altro, sono un invito a riflettere concretamente sulla nostra esperienza e di dedicare qualche pensiero a sé … proprio qui, nelle nostre vite di ogni giorno, certe sfide non sono già codificate nella quieta attesa del momento in cui saranno lette e comprese. Perché la vera questione è se il futuro più luminoso è davvero sempre così distante. Che cosa sarebbe, al contrario, se fosse già stato qui da lungo tempo, e siano state solo la nostra cecità e debolezza ad impedirci di vederlo intorno a noi e dentro di noi, e a trattenerci dal portarlo a compimento?54


  1. Cfr. M. Cajthaml «Die Sorge für Europa. Jan Patoèkas Beitrag zur philosophischen Europa-Forschung». In AA.VV. Europäische Menschenbilder, Eckhard Richter & Co., Dresda 2009, pp.413-422; D. Jervolino, «Patocka, filosofo resistente», in Kainos, 3 (2003). ↩︎

  2. Cfr. E. F. Findlay, «Classical Ethics and Postmodern Critique: Political Philosophy in Vaclav Havel and Jan Patocka», The Review of Politics, Vol. 61, N. 3 (Summer 1999), pp. 403-438; A. Tucker, The Philosophy and Politics of Czech Dissidence from Patoèka to Havel, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 2000. ↩︎

  3. V. Havel, Il potere dei senza potere, trad. di A. Tartagni, Garzanti 1991. Dato che il volume è fuori commercio da anni, ho utilizzato la traduzione inglese di Paul Wilson, pubblicata in V. Havel, Open Letters and Selected Writings, 1992, pp. 125-214. ↩︎

  4. V. Havel, The Power of the Powerless, op. cit., p. 127. ↩︎

  5. Ivi, p. 130s. ↩︎

  6. Di questo Havel invece parla nel discorso «Politica e Coscienza», che scrisse in occasione di un premio conferitogli a Tolosa nel 1984. Cfr., Open Letters and Selected Writings, cit., pp. 249-271. ↩︎

  7. V. Havel, The Power of the Powerless, p. 129. ↩︎

  8. Ivi, p. 129. ↩︎

  9. Ivi, p. 133. ↩︎

  10. Ivi, p.130. ↩︎

  11. Ivi, p. 133. ↩︎

  12. Ivi, p. 134. ↩︎

  13. Ivi, p. 136. ↩︎

  14. Ivi, p. 135. ↩︎

  15. Ai giorni nostri sono abbastanza frequenti le situazioni opposte, nelle quali è il neonato o l’infante che agisce, seppure inconsapevolmente, da tiranno verso i genitori, quando questi sono disposti ad assecondare tutte le sue richieste per timore di prendersi la responsabilità di interventi educativi sbagliati. ↩︎

  16. Ivi, p. 161. ↩︎

  17. Ivi, p. 135. ↩︎

  18. Ivi, p.136. ↩︎

  19. Cfr. Alexander Koyré, Sulla menzogna politica, Lindau, 2010 ↩︎

  20. V. Havel, The Power of the Powerless, in op. cit., p. 136. ↩︎

  21. Ivi, p. 138. ↩︎

  22. Ivi, p. 140. ↩︎

  23. Idem↩︎

  24. Ivi, p. 141. ↩︎

  25. Ivi, p. 144. ↩︎

  26. Ivi, p. 143. ↩︎

  27. Ivi, p. 144. ↩︎

  28. Ivi, p. 145. ↩︎

  29. Ivi, p. 148. ↩︎

  30. Ivi, p. 145. ↩︎

  31. Ivi, p. 146. ↩︎

  32. Ivi, p. 146. ↩︎

  33. Ivi, p. 147. ↩︎

  34. Ivi, p. 148. ↩︎

  35. Ivi, p. 155. ↩︎

  36. Ivi, p. 149. ↩︎

  37. Ivi, p. 152. ↩︎

  38. Idem↩︎

  39. Ivi, p. 153. ↩︎

  40. Ivi, p. 155. ↩︎

  41. Ivi, p. 157. ↩︎

  42. Ivi, p. 163 ↩︎

  43. Ivi, p. 176. ↩︎

  44. Ivi, p. 179. ↩︎

  45. Ivi, p. 180. ↩︎

  46. Ivi, p. 182. ↩︎

  47. Ivi, p. 184. ↩︎

  48. Idem↩︎

  49. Ivi, p. 184. ↩︎

  50. Ivi, p. 187 ↩︎

  51. Ivi, p. 189. ↩︎

  52. Ivi, p. 192 ↩︎

  53. Ivi, p. 210. ↩︎

  54. Ivi. ↩︎