Alessandro Paris, Trauma e sostituzione. Emmanuel Levinas tra esperienza ed etica, Aracne 2012
Lo studio di Paris qui presente offre una lettura molto penetrante e certamente originale della filosofia di Levinas a partire, non solo da una sua collocazione nell’ambito del pensiero ebraico, di cui la produzione levinassiana rappresenta un notevole esempio, né tanto meno solo da quel pur importante chiasma filosofico di Atene-Gerusalemme, ma soprattutto — come recita il titolo — a partire dal trauma che indica l’estremo e l’indicibile di Auschwitz. In ogni caso, non si tratta solo di individuare una possibile filosofia dell’Olocausto, quanto di misurarsi con la domanda che aveva già ossessionato Adorno, che aveva suscitato la poesia di Celan e che, in ultima analisi, ha influenzato il pensiero di Levinas: ovvero se e come sia possibile poetare e filosofare dopo Auschwitz.
Il filosofo ebreo lituano, per la verità, come ben sottolinea l’autore di questo studio, non fa mai esplicita allusione ad Auschwitz, quasi che questa cifra traumatica sia anche il buco (molto bello e suggestivo da questo punto di vista l’accostamento fra trauma e trou, in francese foro, buco) da dove l’inesprimibile e l’estremo giungano an-archicamente ad ossessionare il soggetto filosofante e vivente con l’effige dei volti inermi e nudi che esigono, quasi in un comando divino, la deposizione dell’identità della medesimezza per farsi carico di quella loro offesa, e portarla come responsabilità, non solo in senso sostitutivo, ma anche, oseremmo dire, redentivo.
Si notano, qui, gli accenti molto forti della tradizione biblica e profetica, ma anche l’eco di tutta la ricchissima tradizione ebraica che permettono di identificare nel pensiero di Levinas tanto la cifra di un’emblematica ed universale esperienza umana, quanto la pista ermeneutica per rileggere e rammemorare l’evento di Auschwitz. Molto sapientemente, da questo punto di vista, Alessandro Paris, accosta il pensiero di Levinas a tanta letteratura, da Primo Levi a Celan, a dimostrare come il trauma, più che condurre ad una rimozione o forse ad una sublimazione di stampo freudiano, o tanto meno ad un’evasione nel privato di una soggettività incapace di schiudersi responsabilmente agli appelli che la storia lancia attraverso la cenere dei volti e dei nomi, per parafrasare Paul Celan, sfocia in un pensiero che vuol portare in sé la responsabilità per il perseguitato ed il persecutore, ma con una lingua nuova e con un’assoluta novità teoretica. Per altro uno dei maestri di Levinas, anche lui quasi taciuto per non correre il rischio di dover continuare a citarlo, Franz Rosenzweig, ha aperto la via ad un nuovo pensiero che ravvisa nel dialogo e nel linguaggio la possibilità di un recupero filosofico della singolarità e della singolarità ins Leben, e quanto Levinas sia debitore alla Stella della Redenzione non è affatto difficile da arguire.
Un’ulteriore ed importante categoria messa in evidenza in modo notevole da Paris è quella del messianismo di cui gronda la pagina di Levinas, specie quando il filosofo lituano, elaborando la sua idea di ossessione come essere ostaggio del volto ove si esprime tutta la maestosa dignità di una visitazione che pone il soggetto letteralmente nella soggezione d’Autrui, indica anche come la cifra dell’agire responsabile sia, in quel caso, fare come se la propria azione fosse quella del Messia che viene nell’oggi e nella piccola soglia della vita quotidiana. Si tratta di invertire non solo il paradigma della disumanizzazione di Auschwitz che inizia, all’avviso levinassiano, con l’idea della totalità e delle sue cifre della terra e del sangue come nuova produzione pagana ed idolatrica, sostituendolo con quello responsivo dell’accusativo non ricusabile (ecco-mi in quest’ora della storia), ma anche di elaborare una filosofia dell’ebraismo, o per meglio dire dalle fonti dell’ebraismo biblico che immetta l’uomo nella sua piena età adulta e, se vogliamo, in una fede matura, capace di stare dinanzi all’altro nella piena coscienza di esserne interpellato, in un’azione che apre l’orizzonte escatologico di una perfetta e consumata giustizia (una chiara suggestione bonhoefferiana che la teologia cristiana non può non valutare).
Una nota importante è data poi dalla lettura assolutamente non sacrificale della categoria di sostituzione (lettura per altro molto cara a chi scrive, avendo studiato a lungo e con passione l’accostamento Girard-Levinas). In effetti, che Levinas intenda la sostituzione come responsabile presa in carico della violenza e del male, quasi invertendo la spirale della violenza che porta irrimediabilmente dall’identico all’indifferenziato, non implica anche l’esigenza di una vittima da caricare di quello stesso male. La sostituzione è atto gratuito che corrisponde all’an-archia del volto che mi invita al’osservanza del comandamento, in qualche modo è azione profetica e testimoniale di un Altro alla cui prossimità sono sempre convocato ma come da un infinito che è sempre trascendente per evitare di bruciare gli occhi come un idolo.
Questa è una chiave suggestiva per un ebraismo che si immette con piena legittimità nella cultura filosofica del Novecento, ma anche per una riflessione su Auschwitz come cifra dell’estremo in agguato ogni volta che l’odio per l’altro uomo determina l’eclissi della ragione.