G. Marconi, Narrare l’etica. Gli esempi nelle lettere di Giacomo, Pietro e Giuda, Edizioni Paoline, Milano 2004.
Narrazione ed etica costituiscono ormai un originale quanto originario implesso filosofico. In effetti, quando si narra, non solo si struttura un mondo secondo un’organizzazione linguistica, ma quel mondo assume tutti i caratteri di una posa in opera della verità. Tuttavia, porre in opera la verità è sempre preludio ad un incontro con il sé, ad un recupero di una soggettività pur ferita e interrotta, ma — in questo sbilanciamento — ridonata alla propria ek-sistenza, ricostituita secondo quell’ermeneutica infinita del senso insita nel suo essere patiens a agens, attraversata dall’alterità e convocata in se stessa.
Inutile dire che su questo dato convengono in sede filosofica ermeneutica e fenomenologia e consonerebbero le voci di almeno due fra i più insigni esponenti; Gadamer e Ricœur. Ciò che, tuttavia, ci sembra più rilevante è che questa dimensione narratologica offerta dal mondo biblico interpella via via più intensamente la riflessione teoretica e la invita a pensare altrove e attraverso i suoi statuti, così che il suo inizio sia sempre un re-inventare le sue forme.
Nel caso del libro di Gilberto Marconi, ci troviamo addirittura dinanzi ad un contributo esegetico che, però, non vuole più attestarsi nell’ambito di una specializzazione ristretta, quanto invece lanciare un ponte comunicativo nell’ambito della cultura (del resto è questa la caratteristica più notevole dell’impostazione del noto biblista, ora docente associato di letteratura cristiana antica presso l’università del Molise), confermando così che la Scrittura è il great code dell’umanità.
L’autore, studioso della lettera di Giacomo e dell’estetica lucana, ripercorre qui il corredo metaforico ed immaginifico ricorrente nelle lettere cattoliche, come quelle di Pietro, Giuda e, naturalmente Giacomo, per sottolineare in particolare, come scrive nell’Introduzione generale all’opera che la connessione fra etica e poetica — e qui risuona la voce di Eraclito cui dà corpo il pensiero heideggeriano — dice di un altro abitare il mondo. Non solo; dice di un altro sapere sé e il mondo, quel sapere che non si declina nell’uti ma che si volge all’analogia e all’evocazione, intessendo nel qui e ora la possibilità di un altrove che già si fa incontro ma si sottrae all’onnipotenza del visibile e del già sempre disponibile (Zuhandenheit, direbbe Heidegger), un altrove che è oltre la de-terminazione.
Potremmo quasi asserire che siamo in presenza di una poetica dell’azione, e questo si coniuga facilmente con la semantica della narrazione, che non è sottesa al qui e ora, ma che si attesta su una tensione fra prova (della fede) e gioia che già ora si prova per un’eschaton non ancora avvenuto ma atteso nella storia che, in quanto tale, non può disattendere l’incarnazione. Essa, infatti, sembra essere il nesso fra l’elezione e la storia stessa, un nesso che, tuttavia, si esplica nella prova. Marconi sembra far convergere l’attenzione su questa sorta di fenomenologia del tempo che risuona dell’ontologia della fatticità heideggeriana, ma non manca di sottolinearne la forza teleologica; il valore temporale della prova è connesso infatti all’evento soteriologico sancito dall’amore già qui e ora donato al Cristo. Così la narratologia etica della lettera petrina si struttura nell’ambito escatologico e soteriologico della gloria di Cristo che implica l’orizzonte agapico capace di dare un senso al tempo, proprio in virtù della prova. La metafora del fuoco e dell’oro sancisce, quindi, l’idea di un’ermeneutica teologica della storia, la quale si esplica come luogo salvifico già qui e ora, assumendo l’aspetto metaforico del crogiolo capace di dividere e purificare la fede da ciò che fede non è purché essa non disattenda la fedeltà all’incarnazione. Questa lettura è particolarmente pregnante per rilevare il valore catartico dell’afflizione, la cui allegoria è il fuoco. Tuttavia mentre qui i termini dell’allegoria danno luogo ad una simmetria speculare, nel caso della fede e dell’oro si tratta di un’analogia minor, dove il sensus eminentior del primo termine rispetto al secondo è sancito dal valore imperituro della fede, fondata nella stessa gloria invisibile del Salvatore.
Il tema della fede, come un filo rosso percorre anche la lettera di Giacomo; tuttavia, se in Pietro essa era legata alla prova e alla purificazione, in Giacomo è legata alla sapienza per la quale è condizione. Si tratta, però di una divina sapienza che va invocata, il che sottende l’iniziativa gratuita di Dio e la ferma fiducia da parte dell’uomo. La fede è legata alla fermezza (e questo non può non ricordare l’emunah tipica del mondo ebraico) ma anche alla simplicitas, visto che Giacomo fa allusione alla doppiezza dell’uomo intesa nel senso di esitazione come opposizione alla fede stessa.
L’allusione alla simplicitas è già patrimonio della filosofia greca neoplatonica e di quella di Epitteto, ma nel giudeo-cristianesimo essa è venuta a caratterizzare l’assoluta dedizione a Dio nella preghiera. Anche in tal caso essa è misura della storia e possibilità di krisis. A partire dalla fermezza sancita dalla fede, infatti, è possibile restare saldi, laddove la metafora dell’onda mortale sottende l’esitazione legata alla doppiezza del cuore nell’atto di abbandonarsi a Dio. La drammaticità è evidenziata dal fatto che le due condizioni vengono contrapposte, così che l’uomo è sempre rimesso alla sua libertà kierkegaardianamente segnata dal salto nell’incondizionato. Il quadro petrino precedente della prova viene completato dunque con l’idea di fermezza individuata da Giacomo, che è a un tempo frutto dell’agape e della sapienza.
Tuttavia il corredo metaforico ricorrente nelle lettere di Pietro e Giacomo continua a richiamarsi in una rete di corrispondenze in cui sono sempre presenti da un lato la prova e dall’altro la gloria e la corona della vita a sancire l’idea di una fedeltà che nasce dal dono della sapienza da parte di Dio. Inoltre si dà una coincidenza fra vita e luce che disegnano, però, un orizzonte escatologico — sono dunque coniugate al futuro — nella cui realizzazione trova un senso la sofferenza e la prova del presente. Allo stesso modo in Pt1, 13-21 l’eschaton ricorre nella semantica della speranza, la quale si esplica in un agire proiettato verso l’alto (la santità a somiglianza di Dio) ma anche in avanti, come in un rinnovato esodo, l’allusione al quale si ha nella metafora dei fianchi cinti, a sottendere in altro modo, la mendicanza, ma anche la tensione verso la rivelazione che corregge la portata del desiderio umano. Anche in questo caso, la stessa rivelazione sottende l’inaugurarsi di un tempo che supera l’ignoranza, richiamando il tono parenetico-sapienziale che già si ritrovava in Giacomo. Occorre, però fermarsi sul valore dell’imperativo su cui la lettera è costruita. Esso, infatti, prefigura il futuro sancito dalla speranza, ma questo non può che essere fondato sul passato, la cui memoria è presentificazione dell’evento salvifico ma anche istanza kairologica che pone il problema dell’inserimento nella storia. Tanto il primo aspetto sotteso alla condotta secondo la santità, quanto il secondo insito nella condizione storica non può che interpellare l’uomo rendendolo consapevole del paradosso dell’esistenza cristiana, chiamata a non disattendere l’incarnazione, a non fuggire la ferialità, quanto invece a darle un senso a partire dall’imperativo del siate santi.
Abbiamo fatto riferimento solo ad alcuni esempi in grado, però di evidenziare la pregnanza di questa esegesi, il cui aspetto storico-critico, ravvisabile nell’attenzione dell’autore al valore semantico delle parole ricorrenti nell’ambito dell’intera cultura del Mediterraneo, si unisce e armonizza all’idea portante di un’efficacia performativa della parola, capace di creare una realtà nuova. Forse è questo uno degli elementi più pregnanti che permette di intendere meglio la connessione fra etica e narratologia, intendendo altresì l’esegesi come possibilità di incremento di senso.