1. Problema politico o filosofico?
Il problema del fondamento sorge con l’emergere alla coscienza del pensiero umano e ne rappresenta la «magna quaestio», il «discorso filosofico per eccellenza».1 Scaturisce dall’intrinseca esigenza che la ragione ha di darsi una regola e di individuare il principio primo del reale, l’Arché (inteso sia come fonte originaria di tutte le cose, sia come principio unico del divenire e del movimento, sia come principio d’ordine), da cui muovere per stabilire ciò che si può e si deve conoscere, come ci si deve comportare, perché è meglio fare piuttosto che non fare o fare in un modo piuttosto che in un altro. A voler tracciare una sua pur breve storia saremmo costretti a ripercorrere l’intera vicenda del pensiero occidentale; è, infatti, con il pensiero greco, quello radicato nel mito prima ancora di quello filosofico, che il problema di trovare la norma che regola la vita della natura e dell’uomo si pone con tutta la sua urgenza2 e da allora non smette di riproporsi costantemente all’attenzione della riflessione filosofica.
La necessità di ricercare il fondamento teoretico dei diritti dell’uomo, in grado di garantire il loro riconoscimento e la loro tutela, riemerge prepotentemente alla fine della seconda guerra mondiale, dopo che vennero alla luce gli orrendi crimini commessi dai nazisti sui prigionieri rinchiusi nei campi di prigionia, in evidente disprezzo dei più elementari requisiti etici della persona. Di fronte alla tragedia di un intero popolo, divenne evidente a tutti la necessità di adoperarsi affinché simili orrendi misfatti non potessero più accadere e la soluzione ideale sembrò quella di elaborare, e proclamare nel modo più solenne possibile una carta dei diritti della persona umana. Nacque cosi la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 10 dicembre del 1948 e sottoscritta da quasi tutti gli Stati della terra. La sua elaborazione fu preceduta da un’inchiesta, organizzata dall’UNESCO, al fine di procedere ad una ricognizione delle principali teorie, in tema di fondazione oggettiva dei diritti umani. I risultati di quell’inchiesta, svoltasi nel 1947, raccolti e pubblicati da J. Maritain,3 portarono alla conclusione che sui diritti umani si doveva registrare un profondo disaccordo sul piano teoretico anche se, nel contempo, si poteva constatare un largo accordo sul piano pratico. Il riconoscimento e l’attribuzione di diritti «a tutti i membri della famiglia umana»,4 era, dunque, considerato raggiungibile, oltre che augurabile, anche in mancanza di un previo accordo teoretico sulla natura degli stessi. Un risultato sicuramente ambiguo, tale da indurre lo stesso Maritain, che pure in opere precedenti aveva esposto in modo dettagliato le linee di una fondazione ontologico — teleologica dei diritti umani,5 a evidenziare il paradosso sotteso a questa posizione, per cui si ammetteva
che le giustificazioni razionali sono indispensabili e tuttavia incapaci di mettere accordo fra gli spiriti,
e concludeva che,
sui diritti dell’uomo si può andare d’accordo, a condizione che non ci si domandi perché.6
L’ambiguità di questa posizione ha influenzato anche la formulazione della Dichiarazione del 48 (come del resto quella dei Patti e degli altri Documenti che hanno ampliato ed esplicitato la già vasta gamma dei diritti) che, non a caso, risente di quell’atmosfera di compromesso che ha caratterizzato la fase della sua elaborazione.7
N. Bobbio, insieme a G. Peces — Barba,8 è uno dei più importanti rappresentanti della posizione scettica secondo cui, dei diritti umani è impossibile affermare una fondazione unica, universale e indiscutibile. Egli sostiene che il problema del fondamento dei diritti umani ha avuto la sua soluzione definitiva con la Dichiarazione universale del 1948 che ha registrato un accordo pratico pressoché universale sul riconoscimento all’uomo di una serie di diritti inalienabili. La Dichiarazione rappresenta, pertanto,
la manifestazione dell’unica prova con cui un sistema di valori può essere considerato umanamente fondato e quindi riconosciuto: e questa prova è il consenso generale circa la sua validità.9
Ciò significa, per Bobbio, che
il problema di fondo relativo ai diritti dell’uomo è […] non tanto quello di giustificarli, quanto di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico.10
Come ideale del giusnaturalismo moderno, la ricerca del fondamento ha alimentato l’illusione, dimostratasi vana e irrealizzabile, del fondamento assoluto; l’illusione, cioè, che
a furia di accumulare e vagliare ragioni e argomenti, si finirà per trovare la ragione e l’argomento irresistibile cui nessuno potrà rifiutare di dare la propria adesione …11
Illusione vana, perché i diritti umani sono diritti storici, a cui Bobbio oppone quattro difficoltà «insuperabili»: in primo luogo, la vaghezza dell’espressione, con cui ormai si indicano troppe cose;
in secondo luogo, i diritti dell’uomo costituiscono una classe variabile come la storia di questi ultimi anni mostra a sufficienza. L’elenco dei diritti dell’uomo si è modificato e va modificandosi col mutare delle condizioni storiche, cioè dei bisogni e degli interessi, delle classi al potere, dei mezzi disponibili per la loro attuazione, delle trasformazioni tecniche, ecc. […]. Il che prova che non vi sono diritti per loro natura fondamentali;12
in terzo luogo, essi rappresentano una classe eterogenea, infatti,
tra i diritti compresi nella stessa dichiarazione vi sono pretese molto diverse tra loro e quel che è peggio, anche incompatibili. Pertanto le ragioni che valgono per sostenere le une non valgono per sostenere le altre. In questo caso non si dovrebbe parlare di fondamento, ma di fondamenti dei diritti dell’uomo;13
in quarto luogo, infine, i diritti rivendicati dal medesimo individuo sono fondamentalmente antinomici. Il riferimento esplicito di Bobbio è ai diritti della prima e della seconda generazione e al loro rapporto storicamente conflittuale.
Tutte le dichiarazioni recenti dei diritti dell’uomo comprendono, oltre ai tradizionali diritti individuali che consistono in «libertà», i cosiddetti diritti sociali che consistono in «poteri». […]. (Questi diritti) Sono antinomici nel senso che il loro sviluppo non può procedere parallelamente: l’attuazione integrale degli uni impedisce l’attuazione integrale degli altri.14
In base a questa posizione, che tra l’altro è quella prevalente sul piano filosofico — giuridico, il problema del fondamento dei diritti dell’uomo è un problema mal posto perché superato. Infatti, con la Dichiarazione del 48 e con gli altri documenti internazionali che ad essa hanno fatto seguito, si è raggiunto un «consenso generale» su alcuni diritti fondamentali, per i quali, la ricerca di un fondamento ulteriore non solo sarebbe inutile ma addirittura dannosa, in quanto rischierebbe di minare alle radici quell’accordo pratico già cosi faticosamente raggiunto. Ad un’analisi rigorosa non sfugge, però, l’ambiguità sottesa a questa teoria: da un lato essa afferma che i diritti dell’uomo sono «diritti fondamentali» e inalienabili, appartenenti a tutti gli individui in qualunque situazione essi si trovino; ma, nel contempo, afferma anche il loro carattere storico — relativo, variabile e soggetto ai condizionamenti etnico — culturali. Inoltre, l’accordo pratico, dato per scontato e presentato come il garante del riconoscimento e della tutela dei diritti, sembra non reggere il confronto con le concrete divergenze culturali constatabili nella realtà; prova ne sia che, nonostante l’affermato accordo e le solenni dichiarazioni, i diritti di individui e di popoli sono spesso misconosciuti e violati nell’assoluta impotenza della Comunità internazionale. Per cui, pur senza condividere la disarmante affermazione di S. Cotta secondo cui
la difficoltà finora insuperata, di rendere operante non solo la Dichiarazione universale ma anche gli accordi di Helsinki, ben più giuridicamente strutturati, attesta che il «consenso generale» affermato da Bobbio non esiste,
si può comunque prendere atto, con lui, che «l’accordo pratico non funziona» o, per meglio dire, che è assai difficile da raggiungere senza un consenso sul fondamento perché, come egli giustamente conclude,
se è controverso il fondamento dei diritti, è inevitabile che, prima o poi, essi risultino controvertibili anche sul piano pratico.15
Il problema del fondamento dei diritti umani non è affatto un problema superato e, soprattutto, non è più ulteriormente eludibile o rinviabile. Infatti, la giustificazione razionale e l’esplicitazione delle ragioni che sottendono alle varie teorie dei diritti, sono non solo necessarie per il riconoscimento e l’attribuzione a tutti gli individui di uguali diritti, ma sono anche un modo per rafforzare la loro protezione pratica; non si può «riconoscere» ad alcuno ciò che non si «conosce» e qualsiasi accordo pratico risulterà fragile se non sarà fondato sulla ragione e sulla sua legge. Come afferma Viola,
l’intensificarsi di un dialogo costruttivo intorno al fondamento dei diritti umani è un servizio reso alla causa della pace dei popoli e del rispetto dell’uomo.16
Ma non è solo questo. La ricerca del fondamento è inevitabilmente legata anche ad un’altra esigenza: quella di garantire, in un universo come il nostro caratterizzato da una pluralità di culture e di visioni del mondo, un comune sostrato di valori da opporre ai possibili conflitti che possono sorgere sul terreno dei diritti umani. Particolarmente significativo è, al riguardo, l’ambito dei problemi posti oggi, alla riflessione etico — giuridica, dallo sviluppo della bioetica. A seguito del progresso medico, scientifico e tecnologico, all’interno della categoria dei diritti umani, si è, infatti, aperto un nuovo fronte di dissenso che, senza una precisa scala di valori fondata stabilmente, rischia di mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’umanità cosi come noi l’abbiamo fino ad ora conosciuta. Emblematico è il conflitto tra il diritto alla vita e il diritto alla libera ricerca scientifica e tecnologica. In mancanza di un solido fondamento antropologico, che guidi la formulazione delle norme etiche e giuridiche, il diritto alla vita rischia di entrare, anch’esso, nel gioco delle interpretazioni possibili, e di essere, dunque, messo in discussione. Anche per questo, ancora una volta, ci troviamo d’accordo con Cotta, per il quale,
la questione del fondamento è […] ineliminabile e […] richiede il riferimento alla struttura ontologica dell’uomo (la sua natura) e la riscoperta del rapporto che con essa ha il fenomeno giuridico. Solo in tal caso è possibile sottrarre i diritti fondamentali alla confligenza della storia e della prassi di potenza.17
Superata l’illusione che il solo accordo pratico possa garantire a tutti gli individui l’attribuzione e la tutela di eguali diritti e doveri, il problema del fondamento dei diritti umani è tornato prepotentemente a riproporsi all’attenzione della riflessione etico — giuridica contemporanea e, a differenza di quanto sostiene Bobbio, si ripropone come problema prevalentemente filosofico. La stessa soluzione del problema politico relativo alle garanzie da approntare per il riconoscimento e la tutela dei diritti umani, può aversi solo entro un sistema filosofico — morale che, coerentemente, prenda come oggetto della sua riflessione l’«intero» dell’uomo.
2. Le teorie a confronto
La questione del fondamento si esprime in una multiforme varietà di formulazioni teoriche in quanto tutte le principali correnti filosofiche si sono espresse al riguardo, non foss’altro per negarne la legittimità. Per avere un quadro, semplice ma completo, delle varie teorie utilizziamo le schematizzazioni che al proposito hanno recentemente proposto F. Viola e E. Lecaldano, due autori di orientamento teorico decisamente opposto.
E. Le caldano,18 pur non occupandosi direttamente del problema del fondamento dei diritti dell’uomo, offre una classificazione delle teorie filosofiche impegnate nel tentativo di fondare l’etica, utile per capire le alternative in conflitto; egli le classifica in: a) teorie che fondano l’etica su un comando divino; è certamente la fondazione più forte ma, essendo troppo legata ad una particolare visione religiosa, è anche quella che meno può pretendere ad una validità universale; b) teorie che fondano l’etica su un calcolo prudenziale; che cercano, cioè, di riconnettere la ricerca del bene individuale con la considerazione per il bene comune; c) teorie che fondano l’etica sulla natura umana intesa in chiave metafisica; in tale prospettiva, i diritti umani conseguono dal riconoscimento di uno status privilegiato e unico dell’uomo nell’universo che o proviene dalla natura specifica dell’uomo o proviene da Dio; d) teorie che fondano l’etica sulla natura umana nel suo significato empirico — biologico; e) teorie che fondano l’etica su una «ragione universale»; è la tipica impostazione del giusnaturalismo moderno, il quale fonda la morale e i diritti non sulla natura umana in generale, ma su quella sua caratteristica fondamentale che è la ragione. Il risultato più caratteristico di questa impostazione è il kantismo morale; f) teorie che fondano l’etica su una facoltà o sentimento morale; che cercano, cioè, di individuare, al di la e prima della ragione, una facoltà ad hoc per la vita morale: il senso comune, il sentimento, ecc.; g) teorie che, scartata la possibilità di una fondazione assoluta della norma morale o giuridica, propongono la giustificazione procedurale delle opzioni etiche. È la linea teorica seguita dal contrattualismo sia moderno che contemporaneo; h) teorie che affermano il non cognitivismo e la giustificazione logico — argomentativa delle norme etiche; quelle teorie, cioè, tipiche della scuola analitica che, pur non negando in via di principio la possibilità di un discorso razionale sull’etica, lo riducono a pura analisi logica del linguaggio e delle procedure ergomentative. Esito ultimo, o premessa metodologica a seconda dei casi, di tale impostazione è la negazione, di principio, della possibilità di giungere all’affermazione della verità o falsità delle norme e delle nozioni etiche o ad una loro conoscenza, almeno in minima parte, paragonabile a quella delle scienze esatte (il non cognitivismo, appunto).
Se la classificazione di Lecaldano si svolge su un piano generale che, solo per estensione è possibile applicare ai diritti umani, più specificamente orientata a questo scopo è la classificazione proposta da F. Viola19 Analizzando le teorie etiche impegnate nella loro fondazione, egli propone la seguente classificazione: a) la teoria scettica che, come visto, afferma l’impossibilità teorica di avviare un discorso intorno al fondamento; b) la teoria ontologica; afferma che «le persone hanno diritti perché hanno un valore e una dignità intrinseca o sono fini in sé» (p. 61); c) la teoria intuizionista; afferma il possesso da parte degli esseri viventi di diritti inalienabili e autoevidenti che l’intelletto coglie intuitivamente; d) la teoria istituzionale, secondo la quale «i diritti poggiano su accordi fondati su regole istituzionali formali o informali e sulla prassi corrispondente» (p. 63); e) la teoria degli interessi; afferma che gli individui hanno diritti perché hanno interessi; f) la teoria utilitaristica, che considera i diritti umani non in sé ma come mezzi per il perseguimento dell’utilità comune; in questa concezione, infatti, i diritti risultano giustificati solo nella misura in cui sono utili, procurano più utilità generale e si massimizza la felicità a scapito del dolore. Sono evidenti le derive, soprattutto in ambito bioetico, cui l’applicazione coerente di questo principio può portare; ed infine, g) la teoria logico — analitica che, «basandosi su una pratica sociale o linguistica, ne deduce le condizioni logiche implicite, e quindi in tal senso necessarie» (p. 66). Quest’ultimo approccio nega per principio la possibilità logica di pervenire ad un fondamento assoluto e al problema della fondazione sostituisce quello della giustificazione e della spiegazione dei diritti. Nelle sue formulazioni più estreme esso giunge al non cognitivismo e all’affermazione di un’etica senza verità, come recita il titolo di un libro di Scarpelli.
Pur nella diversità delle impostazioni teoriche, le classificazioni proposte dai due autori si corrispondono e, muovendo da esse, è possibile essere ancora più sinteticamente analitici, riducendo le varie teorie a due alternative principali (escludendo, per ovvie ragioni, la teoria scettica): a) quella che considera i diritti umani come diritti positivi, privilegiandone dunque la concezione contrattuale e individualistica moderna e, b) quella che afferma l’origine naturale dei diritti e la loro derivazione dalla natura, o dalla struttura ontologica della persona, qualunque sia la sua definizione. Poste le alternative, il problema si sostanzia nella domanda se i diritti traggano il loro fondamento dalla norma che li pone o se siano invece diritti metapositivi e, dunque, naturali. A sua volta è possibile suddividere la posizione sub a) in due sottocategorie, a seconda che si ammetta un volontarismo assoluto da parte dello Stato o dell’autorità che pone la norma, per cui lo Stato non riconosce alcun limite al suo potere; oppure si ammetta una posizione che implichi la determinazione di limiti cui lo stesso potere statale debba soggiacere.20
Fondare i diritti umani sul riconoscimento che di essi offre la comunità politica e sociale implica naturalmente il rischio del relativismo e dell’individualismo. Infatti, pur ammettendo che i diritti umani, in quanto etica normativa, non possono essere considerati veri diritti se non sono anche positivizzati, cioè codificati in documenti legislativi nazionali o internazionali, è altrettanto vero che essi non possono essere attribuiti indistintamente ad ogni essere umano, a prescindere dallo stato e dalla situazione in cui esso si trovi, se non sono nel contempo radicati in qualcosa di più stabile che non la transuente volontà del legislatore. Giuspositivismo e storicismo giuridico, esponenti tipici di questa impostazione, mostrano la propria fragilità proprio su questo punto.
Il positivismo giuridico afferma che i diritti esistono solo se positivizzati e li considerati fondamentali solo nella misura in cui sono posti alla base dell’ordinamento giuridico dal potere costituente oppure dal legislatore internazionale. Traendo la loro validità dalla norma che li pone, essi rimangono però nella disponibilità dell’organismo competente a porre le norme fondamentali dell’ordinamento e, in tal senso permangono in uno stato che consente, in qualsiasi momento, la loro modificazione;
sono dunque fondamentali solo in modo provvisorio.21
Nello stesso errore incorre lo storicismo giuridico, anche se, quest’ultimo, cerca di aggirare l’ostacolo postulando l’esistenza di limiti posti al potere statale dalla «coscienza storica». Ma fondare i diritti sulla coscienza storica, non li salva dal relativismo in quanto, se è vero che sfuggono all’arbitrio del legislatore, non sfuggono alla variabilità della stessa coscienza storica; di essa, infatti, non si dà un fondamento unitario e uniforme; è storica e, variando da cultura a cultura come nel periodo storico, lascia sempre aperta la possibilità di cambiare atteggiamento nei confronti dei diritti umani che su di essa si fondano, al punto da poter giungere anche al paradosso di negarli, modificarli o, addirittura ripudiarli. In conclusione,
tanto il positivismo giuridico quanto lo storicismo filosofico non hanno la capacità di stabilire un fondamento incontrovertibile dei diritti fondamentali.22
Positivismo giuridico e storicismo conducono, anzi, la dottrina dei diritti umani verso il vicolo cieco di un’ambiguità di fondo: dichiarano fondamentali i diritti che promulgano ma, nel contempo, li considerano modificabili e relativi. Ciò perché entrambi gli indirizzi rifiutano aprioristicamente di fondare i diritti su qualcosa di più solido del consenso generale o della volontà del legislatore, come, per esempio, potrebbe essere la struttura ontologica della persona umana o le statuizioni di una legge naturale, sovraordinata e di indirizzo rispetto alla legge positiva. Il fondamento ontologico avrebbe, di contro, il pregio di salvaguardare i diritti umani sia dalla volontà, transuente e volubile del legislatore positivo sia dal divenire caotico e a — finalistico della storia.
Se la fondazione positiva cade nei problemi e nelle incongruenze che abbiamo visto prima, la soluzione non può certo venire da quella teoria che Cotta ha chiamato «giusnaturalismo libertino», e che, pur se nel nome sembra dover rientrare nella categoria del fondamento naturale se ne differenzia radicalmente sia per i presupposti teorici che utilizza, sia per il procedimento e sia, infine, per i risultati cui giunge.
La corrente del giusnaturalismo libertino, sviluppatasi nel corso del ’900 e strettamente legata agli sviluppi dell’individualismo contemporaneo, rifiuta sia l’idea positivistica del contratto o dell’accordo procedurale, sia l’idea di una fondazione della norma su qualcosa di più stabile come la legge naturale. L’aggettivo «libertino» sta a qualificare sia il carattere integralmente individualistico e anarchico della sua concezione dell’uomo e della società, sia il particolare richiamo alla «natura» da esso proposto: una natura assunta nella sua pura rappresentazione fisico — biologica, che si autofonda sulla volontà assoluta del soggetto agente e che nega qualsiasi aggancio a realtà ulteriori. Aspirando alla sovranità sulla propria vita più che alla vita stessa, l’individuo libertino crea se stesso in solitudine dal momento che crea i propri valori nella gioiosa affermazione di un sé che non soggiace a nessun limite. Rappresentando l’esaltazione del puro desiderio e dell’assoluta volontà di potenza dell’individuo (non a caso ha in Nietzsche il suo padre ideale), questa teoria porta a quella «retorica dei diritti» che trasforma ogni desiderio individuale in un diritto da rivendicare e da realizzare; ecco, dunque, la legittimazione di diritti quali quello al figlio ad ogni costo, all’aborto, all’eutanasia, ecc., frutto di una volontà che, divenuta legislatrice fa di sé la misura del bene e del male ed esprime
il rifiuto dell’idea stessa di misura e di legge in nome di un assoluto (e dunque fondamentale) diritto personale.23
Nel pensiero contemporaneo la teoria dei diritti fondamentali dell’uomo cade, come afferma Cotta, in una «duplice ambiguità»:
o sono fondamentali solo in apparenza, poiché in realtà sono dipendenti dalla volontà del legislatore o dalla storia, ossia in entrambi i casi, dalla contingente opinione di massa. Oppure sono fondamentali in quanto naturali, ma di una naturalità naturalistica e non ontologica, e quindi coincidono con la potenza conflittuale perdendo ogni carattere giuridico. In entrambe le ipotesi non possono venire veramente detti fondamentali.24
La questione del fondamento dei diritti dell’uomo, per essere adeguatamente affrontata, necessita del riferimento alla struttura ontologica dell’uomo, del chiarimento dei costitutivi antropologici ed ontologici della persona umana ed implica, pertanto, una fondazione filosofica che è lo stesso a dire metafisica. Quest’ultima si scontra, però, con quella crisi della metafisica, che è crisi del fondamento assoluto che, da Nietzsche in poi, aleggia sul pensiero contemporaneo, e sulla filosofia in particolare, come una condanna all’impotenza, esasperata dai successi della tecnoscienza che hanno relegato i «venerandi» problemi della filosofia nel luogo dell’indicibile e dell’indecidibile.25
3. Dalla natura ai diritti
L’alternativa alla fondazione giuspositivistica e storicistica dei diritti umani è rappresentata da quella teoria che postula la possibilità di fondare i diritti dell’uomo sulla natura e sulla struttura ontologica della persona umana. È questa una delle vie più antiche che la filosofia ha percorso per la fondazione non solo dell’etica e della morale, ma anche della politica e della conoscenza. Essa muove dalla convinzione che nell’uomo siano rintracciabili dei caratteri e delle proprietà che fondano una particolare considerazione e rispetto, in conseguenza del riconoscimento di un suo status privilegiato nella gerarchia degli esseri e di una sua particolare dignità da cui scaturiscono immediatamente diritti e doveri. Sua caratteristica fondamentale è, pertanto, la derivazione di ciò che si deve fare dalla natura umana in quanto tale.26 Ed è proprio su questa pretesa di derivare il dover essere dall’essere che, come vedremo, sorge uno dei problemi più rilevanti che la fondazione naturale dei diritti umani deve affrontare per dimostrare le sue pretese di validità.
Presupposto teorico fondamentale di quest’indirizzo è l’adesione ad una forma ben determinata di realismo e di cognitivismo essenzialistico, che lo rende percorribile solo da chi accetti preventivamente di disporre di una concezione della realtà in grado di cogliere in modo assoluto e completo le determinazioni sostanziali della natura umana. Infatti, tutte le proposte teoriche di fondazione dei diritti umani attuate lungo questa prospettiva, da quelle puramente «metafisiche» a quelle più specificamente «teologiche», muovono da una qualche definizione sostanziale della natura umana che rende conto del posto specifico che l’uomo occupa nell’universo dei viventi. Questa è la linea teorica percorsa, per esempio, dal neoaristotelismo contemporaneo di ispirazione tomista, di cui Maritain è uno dei massimi rappresentanti e Berti uno dei più illustri interpreti, e che proprio in relazione alla fondazione dei diritti dell’uomo esprime tutta la sua forza teorica. All’interno di questa tradizione l’uomo è inteso nella sua integralità, insieme di corpo e di spirito, come «persona» che manifesta una sua dignità intrinseca da cui scaturiscono diritti e doveri. Questi, come manifestazione visibile e positiva del «diritto naturale», si riverberano poi nella storia umana progressivamente e in relazione alle capacità che l’umanità dei vari periodi storici ha di percepire gli immutabili precetti della «legge naturale». L’uomo, dunque, è persona, dove persona dice collegamento alla razionalità e alla capacità di conoscere e di istituire un rapporto con la legge naturale; ed è proprio per questa sua capacità che all’uomo appartiene quella specifica dignità da cui immediatamente scaturiscono i suoi diritti e i suoi doveri.
Prima di procedere oltre è, però, necessario chiarire il concetto di «natura» posto alla base della fondazione naturale dei diritti e, per fare ciò, riteniamo opportuno un rapido riferimento a S. Tommaso che, sulla scia di Aristotele, è l’autore che, sicuramente, ha offerto la migliore formulazione teorica di questo orientamento di pensiero.
Per S. Tommaso la natura di una cosa è l’essenza di quella stessa cosa cosi come è designata dalla sua definizione e nella Summa Theologiae afferma:
Boezio dice che «la natura è la differenza specifica che informa un dato essere»: infatti la differenza specifica è ciò che completa la definizione ed è presa dalla forma propria dell’essere corrispondente.27
Per lui, dunque,
la natura è l’essenza di un essere sostanziale, cioè esistenzialmente autonomo, in quanto fondamento dei suoi comportamenti propri.28
In tal senso, il concetto di natura va inteso come «natura di una sostanza», in quanto solo ciò che è sostanza può essere anche principio delle sue azioni e l’uomo, in quanto sostanza, è soggetto di azioni cui possono essere imputate responsabilità. Ma, qual è la natura specifica dell’uomo? Riprendendo Aristotele e la sua definizione dell’uomo come «animale razionale», ma più ancora la definizione boeziana di «persona»,29 S. Tommaso individua nella razionalità la natura specifica dell’uomo. La razionalità è cioè intesa da S. Tommaso, come quella «differenza specifica» che differenzia l’uomo da tutti gli altri esseri del creato e da cui scaturiscono immediatamente le sue peculiari prerogative e la sua intrinseca dignità. Natura dell’uomo è dunque la ragione, che è a sua volta «legge naturale», radicata nel profondo dell’uomo come sua tendenza implicita, e per questo da lui conoscibile anche se non per cognizione razionale ma per «cognizione naturale».30
Secondo S. Tommaso esiste una «legge eterna», cioè una ragione che governa tutto l’universo e che esiste nella mente divina. Di questa legge eterna, la legge naturale, che è negli uomini, è un riflesso o una «partecipazione». Ma cosa dice la legge naturale? Essa si esprime in principi immediatamente evidenti, il primo dei quali è «il bene è da farsi e da cercarsi, il male è da evitarsi».31 Su questo primo precetto sono fondati tutti gli altri, e, visto che «l’ordine dei precetti della legge naturale segue l’ordine delle inclinazioni naturali» essa si concreta in tre inclinazioni fondamentali: a) l’inclinazione verso il bene naturale che l’uomo
ha in comune con tutte le sostanze: cioè in quanto ogni sostanza tende per natura alla conservazione del proprio essere.32
b) l’inclinazione particolare verso atti determinati, che sono quelli che la natura ha insegnato a tutti gli animali come, ad esempio, l’unione del maschio con la femmina, la cura dei piccoli, e altre cose simili.33 c) l’inclinazione al bene secondo la natura razionale che è propria dell’uomo, come, ad esempio, l’inclinazione naturale
a conoscere la verità su Dio e a vivere in società.34
Le inclinazioni manifestano le strutture profonde dell’essere umano, potremmo dire le «strutture antropologiche» fondamentali e permanenti dell’uomo, che egli trova in sé come legge naturale. In tal senso esse sono la garanzia più certa dell’universalità dei principi che da essa scaturiscono al di là delle differenze che possono manifestarsi tra le varie culture e i vari popoli.
Chi da questa teoria ha tratto tutte le conseguenze relativamente alla fondazione dei diritti dell’uomo, adattandola alle odierne necessità pratico teoriche e, in certo qual modo, offrendo una sponda alle obiezioni di Bobbio sulla storicità e variabilità dei diritti, è stato il già più volte citato J. Maritain che, come ha scritto Compagnoni,
è stato il primo cattolico ad aver elaborato una teoria completa dei diritti dell’uomo all’interno di una visione della vita politica moderna, e ad aver contemporaneamente partecipato alla proclamazione e all’affermazione della Dichiarazione universale.35
Il contesto teorico all’interno del quale Maritain inscrive la sua riflessione sui diritti dell’uomo è quello del diritto naturale che, inevitabilmente, dice collegamento con la natura umana, ritenuta una e identica in tutti gli uomini e che si manifesta come tendenza a perseguire quei fini che la ragione è in grado di cogliere. Il diritto naturale, identificato con la legge naturale, non è per Maritain che questo. La conoscenza dei suoi principi non avviene, però, immediatamente: solo i primi principi della ragione pratica (Sideresi) sono di per se autoevidenti e colti immediatamente; per il resto, la conoscenza della legge naturale procede per gradi e aumenta con l’aumentare della coscienza morale e civile dell’umanità. Esiste dunque un progresso nella conoscenza e nell’attuazione della legge naturale, del diritto naturale e, pertanto, anche dei diritti umani che su esso si fondano. Se i diritti umani sono naturali e universali nella loro essenza, sono però storici nella loro manifestazione, perché per realizzarsi e concretizzarsi devono attendere che si configurino quelle caratteristiche sociali, politiche e tecniche che ne rendano possibile l’esercizio e la rivendicazione. Per questo egli afferma che una dichiarazione, anche se «universale», non può pretendere di fissare una volta per tutte i diritti dell’uomo; essa rappresenta sicuramente il livello più alto che la coscienza morale dell’umanità ha raggiunto in un determinato momento storico, ma nulla vieta, ed anzi l’esperienza dei secoli insegna, che nel volgere di un breve lasso di tempo altri diritti, frutto di una coscienza morale più matura, pretendano di essere accolti, e siano effettivamente accolti, nella coscienza etica e giuridica universale.
I diritti dell’uomo sono inerenti alla natura umana, e la loro positivizzazione non è che un gradino della manifestazione della legge naturale. Prima, infatti, viene il «diritto naturale», che, in quanto scaturisce dalla sinderesi e deriva in modo necessario ed evidente dalla natura umana, è composto da precetti universali; su un gradino inferiore, «il diritto delle genti», si trova a metà strada tra il diritto positivo e il diritto naturale, in quanto riguarda si diritti che scaturiscono dalla natura umana ma solo a determinate condizioni di fatto, ed è dunque variabile in base al variare, storico o culturale, di quelle stesse condizioni; in ultimo, si colloca «il diritto positivo», che stabilisce i doveri e le obbligazioni in modo contingente. Gli ultimi due gradi sono come un estensione del diritto naturale, e hanno in esso sia la loro fondazione che la loro forza normativa.
È secondo questo dinamismo che i diritti della persona umana prendono forma politica e sociale nella comunità. Il diritto dell’uomo all’esistenza, alla libertà personale e al perseguimento della perfezione della vita morale, deriva, per esempio, dal diritto naturale propriamente detto.36
Riassumendo, i diritti umani hanno il loro fondamento razionale nella legge naturale e, questa, dal punto di vista del suo contenuto, presenta due aspetti che vanno tenuti ben distinti: uno ontologico, che fa riferimento alla realtà della stessa, e uno gnoseologico che fa riferimento alla conoscenza che l’uomo ne ha. Il primo muove dalla constatazione della natura umana, comune a tutti gli individui che, come struttura ontologica, è luogo di necessità intelligibile da cui scaturiscono dei diritti che chiedono di essere perseguiti come beni di quella determinata natura. Il secondo, invece, considera il modo in cui la ragione umana conosce la legge naturale: non al modo «chiaro» e «distinto» proprio del procedere dimostrativo di una ragione speculativa, ma in via del tutto asistematica, per «inclinazione», per «esperienza tendenziale», o «connaturalità».37 A questo proposito S. Tommaso, parla di «conoscenza per partecipazione»,38 essendo la legge naturale la manifestazione nell’uomo della legge eterna.
4. I problemi della fondazione naturale
La fondazione naturale dei diritti non sfugge, però, a tutta una serie di problemi che gli oppositori, in particolare i non cognitivisti, non hanno mancato di evidenziare. La sopravvivenza della teoria, cosi come la sua coerenza interna, presuppone pertanto che si chiariscano i termini di questi problemi e si tenti, se non di risolverli, per lo meno di aggirarli, neutralizzandone gli eventuali effetti nefasti.
Il quesito principale che si pone alla riflessione filosofica è:
esiste un fondamento dei diritti dell’uomo, cioè una «natura» o essenza umana, una «persona», un «uomo» a cui i diritti competono in quanto è tale?39
Una risposta affermativa a questa domanda presuppone una previa presa di posizione che è filosofica e metafisica insieme ed è questo il motivo principale per cui tanto si contesta la possibilità di una fondazione teorica dei diritti dell’uomo: presuppone l’adesione ad un’idea di «natura», e di «legge naturale» da essa scaturente, profondamente diversa da quella sostenuta dalla mentalità scientifica che, nell’età moderna, ha colonizzato e cosificato il mondo. Proprio sulla considerazione dei diritti come diritti naturali, come costitutivi, cioè, della natura umana, si attestano le critiche più spietate dei non fondazionisti. Critiche, a dire il vero, non sempre infondate, e anzi, spesso particolarmente insidiose, che comportano la necessità di chiarire i concetti di natura, di ragione e di legge naturale e di analizzare i principali problemi cui essi danno luogo. Sono problemi di carattere ontologico (esiste una natura umana?), gnoseologico (se esiste è conoscibile dall’uomo?) e deontologico (se la natura umana esiste e può essere conosciuta con le capacità umane, è lecito dedurre una prescrizione da quella che è una semplice descrizione?), ai quali ora ci dedicheremo.
Cominciamo dal problema ontologico: esiste una natura umana dalla quale siano desumibili logicamente diritti propri, norme e regole di comportamento comune?
Come nota E. Berti, la maggior parte delle correnti scientifiche e filosofiche del pensiero contemporaneo, sono restie, se non del tutto contrarie a parlare di natura umana. Il motivo è chiaro; il concetto di natura rimanda troppo esplicitamente a quei concetti di «essenza» o «forma sostanziale» che, cari al pensiero antico e medievale, risultano particolarmente indigesti alla mentalità scientifica moderna. Inoltre, l’esistenza di una natura umana, intesa come complesso di caratteri distintivi e immutabili, si scontra con due evidenti dati di fatto: a) la constatazione della variabilità degli atteggiamenti umani e, b) il rifiuto di attribuire ad essa un carattere permanente ed astorico. In relazione alla prima constatazione, i sostenitori della teoria rispondono che è necessario, innanzitutto, capire se l’affermata varietà degli atteggiamenti, incontestabile sul piano pratico, coinvolga l’intero dell’uomo oppure solo alcuni suoi caratteri esistenziali. A tal proposito, l’antropologia moderna più avvertita, non esita ad affermare che, come sostiene Berti, la natura umana e un impasto di acquisizioni storiche e di strutture permanenti, per cui focalizzare l’attenzione solo sulle une o solo sulle altre è un atteggiamento metodologicamente scorretto, essendo l’uomo un essere che varia, preservando, però, un sostrato naturale comune che ne costituisce l’essenza.
Con riferimento alla seconda obiezione, sempre Berti ritiene che la cultura contemporanea, polemizzando contro i concetti di «natura umana» e «legge naturale» lo abbia fatto in nome di una loro interpretazione riduttiva, proveniente dall’acritica accettazione della definizione che di essi ha dato il giusnaturalismo moderno. Ma questa, avverte l’Autore, non è l’unica concezione di natura e di legge naturale proponibile; anzi, essa ne è, in un certo senso, una deformazione. Il giusnaturalismo moderno, infatti, concependo la natura come un ideale e utopico «stato di natura» posto «all’inizio» della storia umana, ha contribuito all’affermazione di una concezione individualistica dell’uomo e contrattualistica della società politica, che non solo non corrisponde alla loro reale essenza ma che ha negativamente influenzato anche le prime Dichiarazioni dei diritti40 che, infatti, recano in se i germi di questo fraintendimento. In realtà, afferma Berti, è possibile riferirsi ad una concezione di natura, pre-moderna e post-moderna insieme, radicalmente diversa da quella classica offerta dal giusnaturalismo. È possibile, cioè, concepire la natura non come stadio iniziale, primitivo, di un ulteriore sviluppo, bensì come lo stadio finale, avanzato dell’evoluzione umana,
sul modello di quanto accade nel singolo individuo, dove la pienezza dell’umanità si considera raggiunta non alla nascita ma nella maturità.41
Intesa in tal modo, come telos, la natura non si oppone a storia e cultura che anzi, essendo anch’esse realizzazioni umane avviate verso il compimento, appartengono esse stesse alla natura. Inoltre, è possibile concepire la natura non come individualistica, aggressiva e ostile verso gli altri, ma come sociale e politica, «naturalmente sociale e politica». È una visione, questa, non riduttivistica della natura umana, in quanto assume a suo fondamento non solo il concetto di uomo come zóon logikón, ma anche quello ad esso connaturale, di zóon politikón. La socialità e la politicità, individuano, infatti, il tratto specifico dell’uomo in quanto uomo, che, non a caso, ha nel possesso del linguaggio la sua caratteristica specifica. Infatti,
linguaggio significa comunicazione […], e la comunicazione suppone la comunità. Solo nella comunità, dunque, esiste l’uomo: fuori dalla città, diceva Aristotele, possono vivere solo le bestie e gli dei, non gli uomini.42
Un simile concetto di natura umana, intesa come ciò che identifica l’uomo e lo distingue, nel contempo, dagli altri esseri, è assolutamente indispensabile per poter parlare di diritti umani: questi, infatti, essendo diritti appartenenti indistintamente ad ogni uomo, suppongono una fondamentale uguaglianza fra questi, e non possono essere attribuiti alle altre specie di esseri, per esempio alle bestie o alle piante.43 Ed è proprio su questo nuovo concetto di natura, pre- e post-moderno insieme, intesa come telos, svolgimento finalizzato e pieno sviluppo, che Berti propone di fondare i diritti umani, sia quelli «negativi» sia quelli «positivi».
Il concetto di natura umana come telos si scontra, però, con uno dei caratteri più rappresentativi della mentalità scientifica moderna: quello che J. Monod,44 in un suo fortunatissimo libro ha chiamato il «postulato di oggettività». Questo, alla base dei successi conseguiti dalla scienza moderna, esprime
il rifiuto sistematico e di principio («postulato» appunto) di considerare finalisticamente i fenomeni, ossia di credere che una conoscenza «vera» di essi possa venir ottenuta mediante una loro interpretazione in termini di cause finali, di progetto.45
A questa concezione della realtà, fondata sul postulato di oggettività, (che implica la rottura del rapporto tra uomo e natura, in quanto quest’ultima meccanicisticamente considerata, diventa semplice mezzo nelle mani dell’uomo e non ambiente in cui esso vive), Berti oppone il «modello biomorfico» di natura, frutto della tradizione classica di pensiero, che egli esprime in questi termini:
la natura è, a tutti i livelli, essenzialmente un processo autonomo di realizzazione. Questo può sembrare difficile da accettare, quando si pensa a certi enti naturali come le pietre, i sassi; ma anche un sasso esiste da sé, nel senso che non è affatto dall’uomo, ed è, in questo suo modo di esistere, indipendente. Certo, lo è molto di più la pianta, che cresce da sé; […] e più di tutti lo è l’uomo.46
Anche con l’eccesso di voler spiegare troppo, nel senso di attribuire anche ad esseri inanimati caratteristiche proprie ai soli esseri viventi, riteniamo che Berti sia riuscito a dimostrare la legittimità di un discorso intorno alla natura umana.
Una volta ammessa l’esistenza della natura umana sorge il problema gnoseologico; il problema, cioè, di sapere se sia anche possibile, per l’uomo, conoscere questa natura. Berti cosi lo sintetizza:
È possibile, e come, conoscere la «natura» umana e quindi i diritti che le competono?47
L’obiezione, generalmente rivolta alla pretesa di conoscere la natura umana, è, ancora una volta, di ordine relativistico e culturale: di natura si parla in modo diverso a seconda dell’impostazione teorica che si accetta e a seconda della cultura di appartenenza. Ma, afferma Berti, le critiche rivolte alla conoscibilità della natura e dei diritti che da essa conseguono, critiche fondate sulle differenze riscontrabili tra i vari popoli, si basano anch’esse, sull’acritica accettazione che unico criterio di conoscenza possibile sia quello scientifico — matematico proposto dal giusnaturalismo moderno. Quell’ideale di conoscenza, cioè, che si esprime nella forma più compiuta nella matematica,
divenuta con Galilei metodo della fisica, con Cartesio dell’intera filosofia teoretica (fisica e metafisica), con Hobbes e Spinosa della stessa filosofia pratica (rispettivamente politica ed etica), e con W. Petty dell’economia.48
In base a questo modello dovremmo conoscere la natura con la stessa evidenza, «chiara» e «distinta», con cui conosciamo gli assiomi della matematica e le «idee innate» di Cartesio. Una conoscenza, dunque, intuitiva ed esaustiva rispetto ai principi, alla maniera di Dio, da cui si dovrebbero, in seguito, dedurre, con procedimento rigorosamente esatto, le applicazioni che, nel nostro caso, sono i diritti e i doveri.
È chiaro che se questo fosse veramente l’unico modello di conoscenza possibile, considerate le diversità culturali sottese alle varie intuizioni, e la conseguente impossibilità di giungere ad una concezione univoca della natura umana, l’obiezione sarebbe insuperabile. Si tratterebbe, però, di una conclusione estrema, di una resa disperata al relativismo culturale empiricamente constatato, che probabilmente non corrisponde alla realtà delle cose. Infatti, come afferma Maritain,
la diversità di valutazioni non è una prova contro la conoscibilità della legge naturale più di quanto gli errori dei primitivi in astronomia siano una prova contro la conoscibilità di essa.49
Per evitare di incorrere in questo riduzionismo estremo, è necessario verificare se, quello scientifico — matematico, sia effettivamente l’unico modello di conoscenza valido, oppure se, alla conoscenza della natura umana siano più congeniali altri modelli, pur essi razionali, ma di una razionalità diversa. In tale prospettiva particolare rilievo acquista quel movimento della «riabilitazione della filosofia pratica» che, sorto in Germania nella seconda metà del ’900, propone l’ideale di una razionalità «pratica» modellato sulla dialettica (nel senso antico del termine), sulla retorica (intesa nel suo significato positivo), o sull’ermeneutica (come interpretazione e comprensione della realtà umana).50
Un modello di conoscenza razionale, adeguato all’oggetto particolare qui in esame ed alternativo a quello logico — matematico, in grado di superare le difficoltà poste dalle obiezioni sopra esposte è anche quello che Maritain, rifacendosi a S. Tommaso, chiama conoscenza «per inclinazione» o per connaturalitatem. Quel tipo di conoscenza, cioè,
posseduta dalle persone virtuose, che è inizialmente confusa e progressiva, il che spiegherebbe i progressi storici che si sono verificati nella conoscenza dei diritti umani e le differenze che ancora sussistono tra i vari popoli.51
Come già si è visto, per Maritain, la natura specifica dell’uomo coincide con la ragione, che, a sua volta, costituisce la «legge naturale» che è «legge di ragione». Se dunque «ragione», «natura» e «legge naturale» nell’uomo coincidono, è necessario innanzitutto intendersi sul tipo di ragione di cui si tratta. La ragione come natura non può, infatti, essere intesa solo come facoltà raziocinante e discorsiva, liberamente esercitata dall’uomo, ma anche come facoltà «razionale» che, in certo qual modo, precede questo suo esercizio e che può essere considerata prefilosofica e preconcettuale. Esistono, dunque, secondo Maritain, diversi livelli e gradi di razionalità,52 e quello raziocinante proprio del pensiero scientifico moderno ne rappresenta solamente uno e, nonostante gli enormi successi conseguiti, neanche il più importante. Ma, se la natura umana come ragione non coincide con la razionalità scientifica, quest’ultima sarà anche incapace di conoscerla. Ed infatti, per Maritain, come prima di lui per S. Tommaso, alla conoscenza della natura umana l’uomo perviene non mediante un procedimento logico discorsivo, bensì per «connaturalità», per «partecipazione». Perché, se la natura umana è ragione, e questa e legge naturale che a sua volta proviene e partecipa della legge eterna, allora l’uomo ha in sé, per partecipazione, una parte della legge eterna, che si manifesta a lui, per illuminazione, come inclinazione naturale a perseguire ciò che la ragione indica bene e a rifuggire ciò che indica male.
Una volta ammessa l’esistenza e la conoscibilità della natura umana sorge un nuovo e rilevantissimo problema:
È possibile ricavare dalla conoscenza della natura umana delle norme, delle prescrizioni, dei doveri, e quindi dei diritti?53
Probabilmente è questo il problema più pressante e insidioso che la teoria della fondazione naturale dei diritti umani deve affrontare. Questa difficoltà, evidenziata dagli esponenti della filosofia analitica e nota come «legge di Hume», può essere formulata nel modo seguente: «è logicamente scorretto derivare un asserto prescrittivo da un altro che abbia soltanto carattere descrittivo». Per chi accetta la validità della legge, non è dunque lecito compiere il passaggio dall’essere al dover essere, dalla constatazione dei caratteri della natura alla formulazione di precetti etici o giuridici. È un’obiezione che rischia di vanificare l’autorità della teoria naturale, per cui, prima di procedere oltre ogni altra discussione è prioritariamente indispensabile vedere se, ed eventualmente come, sia possibile superare o aggirare tale difficoltà.
Come è noto, l’origine della legge di Hume è fatta risalire ad un passo del Trattato humianodove, quasi per inciso, egli richiama l’attenzione sulla differenza tra le proposizioni in cui compare la copula «è» e quelle in cui compare la nozione «deve».54 All’inizio del novecento l’osservazione fu implicitamente ripresa da G.E. Moore, nei suoi Principia ethica,55 considerati l’inizio della filosofia analitica applicata al linguaggio morale, che metteva in guardia dalla «fallacia naturalistica»,
consistente nel considerare il bene come un qualsiasi oggetto naturale, descrivibile dalla fisica o dalla metafisica,56
e negava la possibilità di fondare l’etica su una qualsiasi forma di conoscenza. Essa assume, infine, i caratteri di una vera e propria legge insuperabile nella filosofia analitica anglosassone contemporanea, in particolare in R.M. Hare che, nel suo famoso libro sul Linguaggio della morale,57 riformula la legge come impossibilità di dedurre conclusioni prescrittive da premesse tutte descrittive. In Italia tale posizione è sostenuta da autori quali Bobbio, Lecaldano, Carcaterra, Scarpelli ed altri. Quest’ultimo, ha parlato al proposito di «grande divisione» e, proprio muovendo dalla dichiarata cesura tra l’ambito del conoscere e l’ambito dell’agire, è giunto a farsi portavoce di un’Etica senza verità.58
L’obiezione, nei termini posti dalla filosofia analitica, sembra condurre la teoria naturale dei diritti dritta verso un vicolo cieco. Per non cadere nella fallacia naturalistica, infatti, essa dovrebbe rinunciare alla derivazione naturale delle norme etiche e giuridiche, ma, ciò facendo, rinuncerebbe contemporaneamente alla sua specificità e, in definitiva, alla sua esistenza. Al di là delle affermazioni puramente retoriche, di accettazione o rifiuto, riteniamo che il problema vada affrontato chiarendo, prioritariamente i termini della questione e l’ambito di applicabilità della legge. Il problema reale è dunque: ammessa la sua validità logica, la legge è valida anche sul piano ontologico?59 E se è vero che, anche sul piano ontologico, essa può pretendere di far valere i suoi titoli di legittimità, è pur vero che questi non hanno la stessa assolutezza che potevano vantare sul piano logico. Se qui, infatti, la legge ha una validità a priori, essendo una legge stessa del pensiero, tra l’altro già affermata da Aristotele, sul piano della realtà la sua validità resta condizionata dalla preventiva assunzione di determinazioni che sono, appunto, ontologiche. Sul piano della realtà, dunque, si può affermare la validità assoluta della legge solo se, contemporaneamente, si accetta anche una concezione meccanicistica e scientistica della realtà, come quella presupposta, tra gli altri, da Hume, da Moore e da Hart. Se però, come fa per esempio Berti, si ammette, una concezione finalistica della natura in generale e della natura umana in particolare, una concezione, cioè, della natura come telos (non importa qui se immanente o trascendente), come sviluppo e pieno compimento di una forma già in potenza, allora, pur restando valida sul piano logico, la legge è invalidata sul piano ontologico, in quanto il dover essere, come fine, è già implicito nell’essere e dunque il passaggio, anche logico, tra un piano e l’altro è perfettamente lecito.
Non intendiamo procedere all’analisi dettagliata dei vari tentativi proposti per superare, o comunque aggirare, la Legge di Hume; di questi tentativi, tra l’altro, altri hanno dato un ottimo resoconto.60 Ciò che invece intendiamo mettere in evidenza è il pericolo insito nella proposta di applicare la Legge al problema della fondazione: sarebbe la negazione stessa della legittimità di quella pretesa. Per l’etica, come per i diritti umani, sarebbe il definitivo tracollo teorico, in quanto si trasformerebbero in semplici norme poste dal potere costituito o concordate nel corso di una discussione pubblica. Non sottovalutiamo, dunque, la portata della legge di Hume e i rischi che essa comporta per una fondazione universale dei diritti dell’uomo; semplicemente la consideriamo nei limiti della sua validità logica e della concezione, a suo modo metafisica, cui è storicamente e teoricamente legata. Come afferma Berti, infatti,
la cosiddetta «Legge di Hume» non è affatto una «legge», cioè un dogma indiscutibile, oltre il quale non si possa andare. Essa è legata a una concezione meccanicistica e deterministica della realtà, quale era propria della filosofia naturale della scienza (newtoniana) del tempo di Hume e dello stesso Kant, dipendente da una particolare «metafisica», e agganciata a una fase oggi storicamente superata dello sviluppo della scienza.61
Essa, invece, non interviene per nulla in una concezione che fonda i diritti dell’uomo su una metafisica finalistica,
dove esistono sostanze, determinate dalle loro essenze e dotate di naturali tendenze, e che l’uomo possa conoscere e assumere responsabilmente le proprie.62
5. Per una conclusione
Riannodando, ora, i fili di un discorso che abbiamo intrecciato nel corso della nostra esposizione per chiarire i termini e i problemi della fondazione naturale dei diritti umani, è chiaro che nulla c’è di nuovo, se non il legame tra la classica concezione del fondamento, cosi come è avanzata dalla tradizione aristotelico tomistica, ripresa e aggiornata ai nostri giorni da Maritain, e la dottrina dei diritti umani cosi come si è sviluppata nella modernità. L’importanza della proposta teorica che scaturisce da questo legame sta, soprattutto, nella sua capacità di superare sia le obiezioni avanzate da Bobbio verso il fondamento filosofico dei diritti umani, sia le ambiguità sottese alle fondazioni giuspositivistiche e storicistiche evidenziate da Cotta.
Dimostrato che non è scorretto parlare di natura umana, che essa è conoscibile e che è possibile giustificare la sua normatività, la dottrina dei diritti umani e, in generale, qualsiasi sistema morale può trovare in questa concezione un valido fondamento, metafisico e realistico, tale da poter garantire nel contempo sia l’universalità dei principi, sia la variabilità storica e culturale delle loro manifestazioni. Infatti, fondando i diritti umani sulla natura specifica dell’uomo, identificata con la ragione, essi si radicano su quelle che sono le «costanti antropologiche», universali ma progressive nel loro disvelamento, cosi come universale è la Legge naturale ma variabili e progressive sono le sue manifestazioni e le sue conclusioni. Questa è la forza di una fondazione dei diritti umani radicata nella natura umana e nel diritto naturale ad essa costitutivo rispetto ad una fondazione puramente positiva che lascia i diritti dell’uomo in balia della volontà del legislatore, delle variabilità culturali e del relativismo storico.
La fondazione naturale può, dunque, essere considerata come uno dei tentativi più riusciti per superare quel conflitto tra universalità e particolarità che attanaglia la riflessione contemporanea sui diritti dell’uomo. Un conflitto, tra l’altro, che ripercorre le fila di quel rapporto tra natura e cultura che è stato, e continua ad essere, alla base di un lungo e articolato dibattito tra filosofi e antropologi. Non è certamente possibile ripercorrere, nemmeno schematicamente, la storia di questo dibattito che, comunque, come afferma Viola, nel nostro secolo ha sperimentato il fallimento dell’assoluta separazione tra i due ambiti o della preminenza accordata all’uno o all’altro alternativamente. Il pensiero filosofico e antropologico contemporaneo è ormai concorde nel ritenere che l’uomo non è o cultura o natura, ma è, insieme, natura e cultura; è nel contempo un essere che varia, seguendo in ciò le determinazioni della cultura, ma che, comunque, permane immutabile nella sua essenza sostanziale che è natura e ragione. L’uomo, come scrive Gehlen, «è per natura un essere culturale»63 o, più esplicitamente ancora, come afferma Maritain, «è un animale di cultura».64 Ciò vuol dire, come conclude Viola, che l’uomo
è un animale, e in questo senso è natura, ma un animale di cultura, e in questo senso è storia. Noi raggiungiamo la natura sempre attraverso la cultura. […]. Ma ciò non significa che la natura sia assorbita e dissolta nella cultura. La natura resta sempre qualcosa che le culture interpretano ed attuano, ma che non riescono ad esaurire.65
Questo è il presupposto teorico fondamentale su cui si erge la dottrina della fondazione naturale dei diritti umani; un presupposto che si esprime nella consapevolezza che, pur nel variare delle situazioni, della storia e delle culture, la natura, l’humanum, resta sempre il criterio e il presupposto comune e immutabile da cui muovere per giudicare il bene e il male e per dare senso e ordine alla realtà.
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P.G. Nonis, «Storia del problema e fondazione della norma oggettiva», in Aa. Vv., Fondazione e interpretazione della norma, Editrice Morcelliana, Brescia 1986, p. 138. ↩︎
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Il problema della fondazione, in etica, nasce già a livello spontaneo quando si cerca di dare una risposta alla domanda «Perché devo?». Rappresenta l’esigenza, insita nella natura umana, di trovare delle ragioni che indichino in modo chiaro il perché bisogna sottostare a determinate regole e norme. Nasce dunque con i primi vagiti del pensiero umano, mitico prima ancora che filosofico, e si sviluppa come macigno per la coscienza in quanto il «tu devi perché devi!», cosi caro al razionalista Kant, non è mai stato accolto come una risposta soddisfacente dalla coscienza morale dell’umanità. Cosi la necessità di radicare le regole della condotta umana, sia pubbliche sia private, su qualcosa di più stabile che il transuente consenso generale o la volubile volontà del legislatore, ha spinto poeti e pensatori ad ipotizzare un sostrato etico comune a tutti gli uomini (lo chiamiamo «natura umana») che desse stabilità al giudizio sul comportamento umano. ↩︎
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UNESCO (a cura di), I diritti dell’uomo, Edizioni di Comunità, Milano 1960. All’inchiesta parteciparono pensatori provenienti dai diversi continenti e dalle più disparate correnti filosofiche e ideologiche, laici e cattolici, liberali e marxisti; per esempio: Croce, Carr, Teilhard de Chardin, Gandhi, Laski, Huxley, Hesse, de Madariaga, Tchechko, Chung Su lo, ecc:. ↩︎
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Come reciterà il Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. ↩︎
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Le opere in cui Maritain affronta esplicitamente il problema del fondamento dei diritti dell’uomo sono: i diritti dell’uomo e la legge naturale, Vita e Pensiero, Milano 1977; «Sulla filosofia dei diritti dell’uomo», in UNESCO (cura di), I diritti dell’uomo, op. cit., Milano 1960, pp. 87-94, anche l’«Introduzione; Allocution à la première séance plénière de la deuxième session de la Conférence générale de l’Unesco, Mexico, 6 novembre 1947», in Droits des peuples, droits de l’homme, a cura dell’Institut International Jacques Maritain, Le Centurion, Parigi 1984, pp. 167-176; L’uomo e lo Stato (soprattutto il cap. 4 intitolato appunto «I diritti dell’uomo»), Vita e Pensiero, Milano 1975. ↩︎
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J. Maritain, «Introduzione», in UNESCO (a cura di), I diritti dell’uomo, op. cit., p. 11. ↩︎
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Per ciò che concerne la storia e i conflitti che precedettero e accompagnarono la formulazione della Dichiarazione vedi A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Bari 1988. ↩︎
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G. Peces-Barba, Teoria dei diritti fondamentali, Giuffrè, Milano 1993. ↩︎
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N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. 18-19. ↩︎
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Idem, p. 16. ↩︎
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Idem, pp. 7-8. ↩︎
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Idem, p. 9. ↩︎
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Idem, p. 11. ↩︎
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Idem, p. 13. ↩︎
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S. Cotta, «Il fondamento dei diritti umani», in G. Concetti, I diritti umani. Dottrina e prassi, Ave, Roma 1982, p. 647. ↩︎
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F. Viola, Diritti dell’uomo, diritto naturale, etica contemporanea, Giappichelli, Torino 1989, p. 52. ↩︎
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S. Cotta, Il fondamento dei diritti umani, op. cit., p. 653. ↩︎
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Cfr. E. Lecaldano, Etica, UTET, Torino 1995. ↩︎
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Cfr. F. Viola, diritti dell’uomo, diritto naturale, etica contemporanea, op. cit., pp. 59-68. ↩︎
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Per queste distinzioni e per le considerazioni che seguono mi rifaccio alle tesi sostenute da S. Cotta, soprattutto in «Attualità e ambiguità dei diritti fondamentali», Justitia, 1977, fasc. 1 (marzo), pp. 1-23; Il fondamento dei diritti umani, op. cit.; sul tema vedi anche: W. Jerzy, «L’ambiguità dei diritti fondamentali tra esistenzialismo e storicismo», Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1978, fasc. 2 (giugno), pp. 359-362; e A. Tarantino, «Per un superamento dell’odierna ambiguità dei diritti fondamentali», in A. Tarantino (a cura di), Culture giuridiche e diritti del nascituro, Giuffrè, Milano 1997, pp. 3-44. ↩︎
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S. Cotta, Il fondamento dei diritti umani, op. cit., p. 647. ↩︎
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Idem, p. 648. ↩︎
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Idem, p. 652. ↩︎
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Idem, p. 653. ↩︎
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Come afferma Antonino Poppi, in un fondamentale saggio sulla fondazione della norma morale, «nella storia della filosofia il problema della norma morale ha avuto uno svolgimento analogo a quello della metafisica. Dalla prima fondazione classica e dalla sua più laboriosa ricezione cristiana essa ha cominciato a patire un lento processo di corrosione con il venir meno della ragione metafisica già sul cadere del medioevo, sino alla sua totale negazione e scomparsa nel pensiero moderno e contemporaneo (si pensi soprattutto a Nietzsche e al non cognitivismo della filosofia analitica). Sicché la storia della metafisica e quella dell’etica appaiono come due storie parallele che vivono e cadono insieme» (A. Poppi, «Fondazione classica e giustificazione metaetica della norma morale», in Aa. Vv., Fondazione e interpretazione della norma, op. cit., p. 143). ↩︎
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Questa concezione teorica si fonda sul presupposto che esiste un ordine intrinseco, una finalità nella natura, che guida lo sviluppo delle cose. Il problema delle fonti non scritte, della «natura delle cose» come contenente la normatività che deve regolamentere le stesse cose, è uno dei problemi fondamentali dell’odierna teoria filosofica e giuridica, sempre alla ricerca di quei «punti fermi della natura» cui ancorare l’attività del legislatore (con riferimento alla «natura delle cose», intesa come normatività intrinseca alle cose stesse, rimandiamo ai sempre attuali testi di A. Tarantino, La problematica odierna della natura delle cose, Milella, Lecce 1981, e Natura delle cose e società civile, Ed. Studium, Roma 1983). Non si può non ricordare come E. Berti fondi proprio sull’accettazione del principio della natura delle cose, come ordine intrinseco finalisticamente orientato allo sviluppo della cosa, la validità del sillogismo pratico aristotelico; di quella forma di sillogismo, cioè, «in cui, la premessa maggiore contiene l’indicazione del fine, la minore l’indicazione del mezzo, cioè dell’azione necessaria per conseguire il fine, e la conclusione il comando di agire» (E. Berti, Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1987, p. 69). Questo sillogismo è particolarmente adatto alla razionalità pratica propria della politica e dell’etica, perché non conduce ad un imperativo categorico, più consono alla mentalità scientifica, ma alla formulazione di un imperativo ipotetico; un imperativo, cioè, aperto alla discussione, il cui fine è più quello di convincere che quello di obbligare. ↩︎
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Tommaso d’Aquino, Summa Theologica, I, q. 29, a. 1, ad 4. ↩︎
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F. Compagnoni, I diritti dell’uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1995, p. 195. ↩︎
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La definizione di Boezio, «persona est naturae rationabilis individua substantia» («la persona è sostanza individuale di natura razionale») ha influenzato tutto il pensiero medievale estendendosi al pensiero moderno e contemporaneo. La persona è, dunque, per Boezio, un modo della sostanza: il modo «razionale»; quando una sostanza è razionale si costituisce di per sé in persona. Anche ad uno sguardo superficiale appare evidente che questa definizione è elaborata sul canone aristotelico del genere prossimo e della differenza specifica: il genere è la sostanza individuale; la differenza specifica è la natura razionale. Per cui, solo quella sostanza che è individuale, ma partecipa al tempo stesso della razionalità, è persona. Molte cose sono sostanze individuali; ma si avvalgono del nome di persona solo quelle che si differenziano dalle altre per il loro carattere razionale. La concezione boeziana di persona, ripresa e trasmessa al pensiero successivo da s. Tommaso, mette in stretta relazione il principio della sostanzialità individuale con quello della razionalità. Essa esprime cosi, sia la realtà singolarmente irripetibile della persona, sia il fatto che questa, in quanto razionale, abbraccia nel suo sguardo la totalità dell’essere, aprendosi costitutivamente all’altro da sé. ↩︎
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«Con la propria intelligenza l’uomo è capace di arrivare alla conoscenza delle proprie tendenze naturali e dei fini rispettivi ai quali esse lo orientano. […]. Queste inclinazioni comportano una carica assiologia e normativa che il suo [dell’uomo] intelletto pratico (intelletto esercitante la propria funzione di conoscenza in vista di dirigere l’azione) coglie emettendo giudizi corrispondenti, sia estimativi che normativi secondo i casi» (F. Compagnoni, I diritti dell’uomo, op. cit., p. 196). ↩︎
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Tommaso d’Aquino, op. cit., I-II, q. 94, a. 2: «Hoc est ergo primum praeceptum legis, quod bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum. Et super hoc fundantur omnia alia praecepta legis naturae: ut scilicet omnia illa facienda vel vitanda pertineant ad praecepta legis practica naturaliter apprehendit esse bona humana». ↩︎
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Idem, I-II, q. 94, a. 2. ↩︎
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Qui S. Tommaso riprende Ulpiano, il quale definisce la legge naturale come quella che la natura ha insegnato a tutti gli esseri viventi (Digesto, 1. I, c. 1, tit. 1: «quae natura omnia animalia docuit»; e ancora, «jus istud non umani generis proprium est, sed omnium animalium, quae in caelo, quae in terra, quae in mari nascuntur»: ibidem, 1. I, c. 2),. ↩︎
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Tommaso d’Aquino, op. cit., I-II, q. 94, a. 2. ↩︎
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F. Compagnoni, I diritti dell’uomo, op. cit., p. 128. ↩︎
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J. Maritain, I diritti dell’uomo e la legge naturale, op. cit., pp. 65-66. ↩︎
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J Maritain, L’uomo e lo Stato, op. cit., p. 108. ↩︎
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Tommaso d’Aquino, op. cit., I-II, q. 91, a. 2: «Partecipatio legis aeternae in rationali creatura lex naturalis dicitur». ↩︎
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E. Berti, Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1987, p. 286. . ↩︎
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Da queste concezioni sono scaturite, infatti, le prime dichiarazioni moderne dei diritti: il Bill of rights inglese, ispirato da Locke, la dichiarazione di indipendenza degli Stati americani e le Dichiarazioni universali dei diritti dell’uomo e del cittadino votate in Francia nel 1789 e nel 1793, nelle quali è opposto l’uomo, estraneo allo stato, al cittadino, fondamentale soggetto di esso. ↩︎
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E. Berti, Le vie della ragione, op. cit., p. 289. ↩︎
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Idem, p. 289. ↩︎
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Berti sostiene che «ciò è del resto implicitamente ammesso anche da coloro che negano l’esistenza di una natura umana, nel momento in cui parlano di diritti comuni a tutti gli uomini» (idem, p. 290). ↩︎
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Cfr. J. Monod, il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1976. ↩︎
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P. Zecchinato, «La normatività della natura nella più recente filosofia italiana», in E. Berti (a cura di), Problemi di etica: fondazione norme orientamenti, Fondazione Lanza, Padova 1990, p. 335. ↩︎
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E. Berti, Il concetto di natura, op. cit., p. 509. ↩︎
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E. Berti, Le vie della ragione, op. cit. p. 291. ↩︎
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Idem, p. 291. ↩︎
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J. Maritain, L’uomo e lo Stato, op. cit., p. 106. . ↩︎
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L’espressione «Riabilitazione della filosofia pratica» è stata utilizzata per la prima volta da K.M. Ilting, ma il movimento ha trovato il suo manifesto nei due volumi sulla Riabilitazione della filosofia pratica curati da M. Riedel. Il movimento ha preso il via dalla constatazione che il pensiero filosofico è irriducibile alla scienza e al suo criterio di razionalità. Nasce, dunque, dalla necessità di prendere le distanze dal pensiero moderno e dal suo totalizzante ideale metodico, ovviamente improponibile e inapplicabile al mondo morale, sociale e giuridico; contro il riduzionismo conoscitivo e metodologico della modernità, gli autori che si sono riconosciuti in questo movimento (L. Strass, E. Voegelin, H. Arendt, H.G. Gadamer, W. Tennis, J. Ritter e, almeno per certi versi J. Habermas), hanno riaffermato l’esigenza di legittimare e di fondare razionalmente criteri, norme e principi in grado di orientare l’agire concreto dell’uomo. Si veda, Aa. Vv., Filosofia pratica e scienza politica, Francisci, Abano 1980; E. Berti (a cura di), Tradizione e attualità della filosofia pratica, Marietti, Genova 1988; F. Volpi, «Tra Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti del dibattito sulla “Riabilitazione della filosofia pratica”», in C. Viano (a cura di), Teorie etiche contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 128-148. ↩︎
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E. Berti, Le vie della ragione, op. cit., p. 292. ↩︎
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Semplificando, utilizzando la schematizzazione offerta da di Giovanni, i vari livelli di razionalità della «ragione» dell’uomo possono essere cosi indicati: «1. ragione come natura, come forma = inconscio. 2. ragione come conscia, esperienzialmente, per «cognizione naturale» aconcettuale = conscio connaturale, con naturalità (tramite inclinazione). 3. intuizione dei principi primi (intellettuali e) morali. 4. concettualizzazione e discorsività raziocinatrice: a) nel discorso comune; b) nel discorso scientifico; c) nel discorso filosofico» (A. di Giovanni, «“Connaturalità” e “inconscio” nella norma morale», in Aa. Vv., Fondazione e interpretazione della norma, op. cit., pp. 181-182). ↩︎
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E. Berti, Le vie della ragione, op. cit., p. 293. ↩︎
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Può essere utile rileggere il brano humiano: «In ogni sistema di morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore per un po’ ragionando nel modo più consueto e afferma l’esistenza di Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi, tutto a un tratto, scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule “è” e “non è” incontro solo delle proposizioni che sono collegate con un “deve” o un “non deve”; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi “deve” e “non deve” esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati… ma poiché gli Autori non seguono abitualmente questa precauzione, mi permetto di raccomandarla ai lettori, e sono convinto che un minimo di attenzione a questo riguardo rovescerà tutti i comuni sistemi di morale e ci farà capire che la distinzione tra il vizio e la virtù non si fonda semplicemente sulle relazioni tra gli oggetti e non viene percepita mediante la ragione» (D. Hume, Trattato sulla natura umana, (1739), III, I, I, trad. it. di E. Lecaldano, Laterza, Bari 1971). ↩︎
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G.E. Moore, Principia ethica, Bompiani, Milano 1964. ↩︎
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E. Berti, «A proposito della “Legge di Hume”», in Aa. Vv., Fondazione e interpretazione della norma, op. cit. pp. 237-238. ↩︎
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R.M. Hare, Il linguaggio della morale, Ubaldini, Bologna 1968. ↩︎
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U. Scarpelli, L’etica senza verità, Il Mulino, Bologna 1982. Cfr. anche G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica, Giuffrè, Milano 1969. ↩︎
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Questo perché, come afferma Compagnoni, «la logica si interessa non del significato e della verità extramentale delle proposizioni, ma del modo umano di passare dall’una all’altra per mezzo di un ragionamento corretto» (F. Compagnoni, I diritti dell’uomo, op. cit. p. 199). ↩︎
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Particolarmente utile, ai fini del nostro lavoro, risulta il saggio di Paolo Zecchinato, «La normatività della natura nella più recente filosofia italiana», in E. Berti (a cura di), Problemi di etica: fondazione norme orientamenti, op. cit., pp. 325-418. ↩︎
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E. Berti, «La razionalità pratica tra scienza e filosofia», in Aa. Vv., Il valore. La filosofia pratica tra metafisica, scienza e politica, Gregoriana, Padova 1984, p. 21. ↩︎
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F. Compagnoni, I diritti dell’uomo, op. cit., p. 199. ↩︎
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A. Gehlen, Prospettive antropologiche, Il Mulino, Bologna 1987, p. 107. ↩︎
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J. Maritain, Nove lezioni sulla legge naturale, Jaca Book, Milano 1985. ↩︎
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F. Viola, Antropologia dei diritti umani, manoscritto, p. 20. ↩︎