L’irruzione creatrice in Rilke, da Duino alla Spagna: un saggio di Juan Rof Carballo

Warum muss einer gehen und fremder Dinge so auf sich nehmen?1

1. Un medico umanista

In Spagna, ancor più che in altre nazioni europee, la psicanalisi ha suscitato diffidenze e ostilità nel mondo scientifico prima di affermarsi. In questo paese, uno dei più autorevoli cultori di tale disciplina è Juan Rof Carballo,2 medico internista e autore di un ponderoso trattato di medicina psicosomatica.3 Insieme agli amici e colleghi Laín Pedro Entralgo e a Gregorio Marañón, Rof Carballo si situa nell’alveo della prestigiosa tradizione dei medici umanisti spagnoli.

Gli scritti attestano la vasta cultura dell’autore e la sua capacità di assimilare metodi e contenuti di svariate discipline. Tra queste, oltre a quelle strettamente legate alla formazione di un medico, vanno citate la poesia del Novecento, la filosofia, l’epistemologia, la sociologia, la psicologia, l’antropologia culturale e la storia delle tradizioni popolari. Tra i filosofi del Novecento, l’autore predilige Xavier Zubiri, ma cita con discreta frequenza pure José Ortega y Gasset, Jürgend Habermas, Paul Ricœur e Martin Heidegger. Dalla antropologia filosofica di Zubiri egli mutua alcune categorie di grande importanza nella antropologia medica che va elaborando nella maturità. Il medico galiziano studia le correnti di pensiero più rilevanti all’interno della psicanalisi, nonché la psicologia analitica di Carl Gustav Jung, la psicologia della forma4 e, sebbene in misura minore, la Individualpsychologie di Alfred Adler. Apprezza inoltre la psicologia di stampo umanistico, affermatasi in Europa e in Nordamerica verso la metà del Novecento.

Per quanto attiene alla sua formazione medica, Rof Carballo studia soprattutto l’anatomia e la fisiologia del sistema nervoso centrale. Nella maturità le sue ricerche si incentrano sulle formazioni nervose correlate ad alcune espressioni della vita psichica, ovvero sul cervello interno, o cervello viscerale, la cui funzione è di primaria importanza nella memoria dei vissuti e nell’espressione delle emozioni.5 L’attenzione prestata da Rof Carballo alle strutture e alle funzioni del cervello interno attesta un grande interesse nei confronti del «mondo emozionale», che condiziona fortemente lo sviluppo e l’esercizio dell’intelligenza.

L’autore denuncia i limiti e le aberrazioni di una medicina sempre più debitrice alla tecnologia nella diagnosi e nella terapia, e prospetta l’esigenza di una medicina antropologica, fondamentalmente dialogica. Tra le più significative espressioni della visione antropologica dell’autore figurano i saggi sulle tradizioni popolari e i miti della sua Galizia,6 nonché sulle arti figurative e la personalità di uomini illustri.

Per quanto riguarda i poeti, Rof Carballo cita talora Unamuno e Machado, nonché i romantici inglesi — soprattutto Keats, ma anche Coleridge e Shelley — e i simbolisti francesi, segnatamente Mallarmé. Mostra inoltre di conoscere ed apprezzare Leopardi e scrive un saggio sul poeta tedesco Gottfried Benn.7 Tributa comunque particolare attenzione a Rainer Maria Rilke. Tra i diversi scritti dedicati al poeta più amato, qui prendiamo in considerazione il saggio Rilke, en Andalucía, compreso nel volume Entre el silencio y la palabra.8 In queste pagine, di notevole pregio letterario, l’autore pone in luce il significato del «silenzioso»9 viaggio in Spagna all’interno dell’itinerario intellettuale e umano del poeta. In tale viaggio culminano le peregrinazioni di Rilke, rivelatrici della sua profonda inquietudine, che per Rof Carballo trae origine dal difficile rapporto con la madre Phia, donna alquanto fatua e fortemente nevrotica.

2. L’ascendenza orfica in Rilke

Come a Capri e a Duino,10 in Spagna Rilke vive un’esperienza straordinaria, di comunione nulla interposita natura con l’universo. Tali vissuti comportano un peculiare stato di coscienza. Da medico, Rof Carballo cerca di interpretarli, soprattutto nel loro rapporto con le vicissitudini dell’ispirazione poetica di Rilke, che essi stessi ravvivano o rinvigoriscono. Si tratta per lui di stati di coscienza che possono essere riscontrati negli uomini creatori o innovatori, e quindi non solo negli artisti ma anche in scienziati di grande valore.11 Questi vissuti consentono comunque il potenziamento delle capacità intuitive in virtù delle quali hanno luogo le grandi scoperte, dovute a una «illuminazione», ovvero a una intuizione folgorante. Nella sua riflessione sulla creatività umana, il medico galiziano attinge ai metodi conoscitivi della psicologia del profondo, privilegiando lo studio sull’«uomo capace di creazione»12 di un eminente autore tedesco di formazione junghiana, Erich Neumann. Al riguardo, nelle dense pagine di Medicina y actividad creadora,13 Rof Carballo propone un excursus bibliografico relativo agli studi sull’uomo di genio pubblicati da filosofi, psicologi e psichiatri. Qui l’autore opera tra l’altro una distinzione tra preconscio e inconscio, di capitale importanza nell’interpretazione della genesi della creazione umana. Si tratta di una distinzione proposta anche da Jacques Maritain, che qui Rof Carballo cita opportunamente.14

L’autore prende in considerazione quanto scrive lo psicoterapeuta americano Lawrence Schlesinger Kubie sul contributo delle facoltà psichiche alla creazione artistica. Secondo Kubie, sia l’ego che l’inconscio tendono, in forme diverse, a irrigidirsi nelle ripetizione del consueto, e oppongono così resistenza all’innovazione e all’invenzione. L’ego tende ad agire in conformità al sistema di valori introiettato nell’età evolutiva, mentre l’inconscio è al fondo di ogni «coazione a ripetere» (evidente nel nevrotico conclamato, ma non sua prerogativa esclusiva), la quale rende l’uomo un essere «agito» piuttosto che agente libero. Nella persona umana, a giudizio di Kubie solo il preconscio mantiene il carattere fluido e plastico che informa una soggettività capace di innovare in modo creativo. Il preconscio non va inteso come una sorta di luogo di transito di contenuti psichici processati dalla coscienza e in procinto di essere relegati nelle profondità dell’incoscio. In realtà, per Rof Carballo lo costituiscono

le mille impressioni fuggitive, i centomila impatti sensoriali che, in ogni momento e sin dalla nascita, bombardano il sistema percettivo dell’uomo senza che l’attenzione cosciente possa porre a mente a tutti. Questi stimoli che la coscienza non può considerare sono captati, invece, da un’attenzione inconscia, e la loro realtà e persistenza possono manifestarsi, per esempio, nell’ipnosi e nel sogno… Ordinariamente, del mondo che lo circonda il nostro spirito capta infinità di dettagli che, apparentemente, non sono ritenuti dalla nostra «coscienza», ovvero, che la nostra facoltà logica, discorsiva, l’«io» ordinatore e regolatore — insomma, l’intelligenza — non utilizza . O, per lo meno, sembra non utilizzare.^[15]

Il medico galiziano condivide fondamentalmente la concezione del preconscio proposta da Kubie, ne apprezza l’impianto argomentativo, ma vi critica la tendenza a semplificare la genesi della creazione umana, che l’autore americano ascrive soprattutto alla facoltà del preconscio. Invero, a suo giudizio, sono altrettanto importanti in essa gli apporti dell’ego, quale istanza capace di dare «forma» a ciò che l’uomo esperisce, e dell’inconscio, che non va considerato come la «parte maledetta» o lo «scantinato» ove debbono restare confinate le componenti «cattive» dell’uomo. Inoltre, nell’uomo capace di creazione il preconscio ha una straordinaria propensione a captare gli aspetti della realtà che debordano dall’ordinario, preservando così il carattere duttile, aperto al nuovo, della soggettività, esposta altrimenti al rischio di incorrere nella ripetizione dell’identico.

Quanto è stato esposto, pur sommariamente, secondo Rof Carballo vale anche per l’opera poetica di Rilke. In lui l’istante della creazione si manifesta come una illuminazione, allorché si realizza una feconda sinergia tra le facoltà dell’io, volte a ordinare e discriminare, e le immagini che riaffiorano dal subconscio. L’autore osserva che dopo l’esperienza vissuta in Spagna, il poeta lascia dietro di sé un lungo periodo apparentemente infecondo e compone in pochi giorni una parte tutt’altro che trascurabile delle opere più celebri, le Elegie Duinesi e i Sonetti a Orfeo. E nella poetica di Rilke proprio la nozione di esperienza assume un’importanza fondamentale. Più che di una Erfahrung, ovvero di un esperire/apprendere «qualcosa di nuovo» che attiene all’esteriorità, essa è concepita qui come Erlebnis, ovvero esperienza interiore la quale, ancorché possa essere occasionata dalla percezione del mondo esterno, costituisce un momento di ineguagliabile intensità dell’erleben, ovvero del «vivere la vita» dello spirito. Per il poeta tedesco, talora un solo verso di grande bellezza e densità è frutto di migliaia di esperienze, di amori, di attese, di incontri, di solitudini. La poesia giunge dopo l’esperienza, e si comprende come per Rof Carballo proprio il Rilke «tardo» offra all’umanità le sue poesie più memorabili.

Non meno dell’esperienza del mistico, quella che nel poeta dà impulso alla creazione artistica è così forte da fare quasi dimenticare le più elementari esigenze quotidiane. Nelle parole di Rof Carballo, l’ispirazione «irrompe» nell’uomo.15 Si tratta in Rilke di una irruzione creatrice,16 simile all’esperienza propria da altri poeti, come Paul Valéry, sebbene questi ponga in rilievo piuttosto l’importanza della lucidità e della elaborazione formale nell’opera poetica. Anche l’autore francese ha vissuto per molti anni senza scrivere alcun verso, eppure dopo un’esperienza analoga a quella di Rilke in poco tempo compone poesie di grande valore. A giudizio del medico galiziano per entrambi i poeti — come per lo scienziato che scopre una legge fisica o una formula matematica — la suddetta irruzione è una esperienza orfica, in forza della quale essi giungono alle profondità dell’uomo, alla realtà che lo costituisce originariamente.

Il mondo orfico è ipostasi mitica dell’originario, la cui traccia è custodita nel subconscio, inaccessibile all’intelligenza discorsiva e fonte di ogni creazione umana. In diverse opere, Rof Carballo si interroga sul significato del mito di Orfeo. In Medicina y actividad creatora ne compendia i contenuti con estrema sintesi:

Nel mito di Orfeo vi è molto di più del potere della parola sulle forze della natura. Vi è anche la discesa agli inferi, il rapporto con i morti, la dilacerazione da parte delle Menadi e il raccogliere pietoso dei suoi resti da parte delle donne di Lesbo. Vi è, infine, il suo capo che sopravvive, che profetizza nella grotta marina, e la lira lanciata alle stelle, dalle quali prosegue il suo canto, che nelle notti d’inverno ci guarda con la gigantesca pupilla azzurra di Vega.17

In realtà, negli uomini dall’ascendenza «orfica», a precedere le esperienze eccezionali che segnano la loro vita non è una vera e propria inattività, ma un lungo periodo di preparazione, nel quale il loro genio si rende capace di reggere la prova di un vissuto così intenso da riguardare — e persino scuotere — l’integrità biopsichica del loro organismo. Per Rof Carballo gli uomini capaci di creazione che si inscrivono nel «lignaggio orfico» non conoscono alcuna gradualità nelle loro realizzazioni, e sperimentano piuttosto, in alcuni momenti privilegiati, una metamorfosi che li tocca nel profondo e li introduce a un periodo di rinnovata e straordinaria creatività.

Tuttavia, anche nei periodi di apparente inattività, la mente di questi uomini non conosce riposo. Gli anni che Rilke giudica infruttuosi sono stati invero «straordinariamente pieni di lavoro»18: ha scritto poesie «meravigliose e importanti»,19 ha espresso la realtà magmatica della sua anima nella prosa dell’immane epistolario che, oltre alla rilevanza storiografica che assume per gli studiosi, ha un grande valore letterario. Nelle parole di Rof Carballo, proprio in questi anni Rilke ha potuto saggiare le sue possibilità. Questo saggiare è per il nostro autore «una disciplina del subconscio20», un lavoro metodico che, in virtù dell’Erlebnis surrichiamato, si potrà integrare in seguito con la sapienza dell’inconscio — dell’esso — e rivelerà così la sua fecondità. La sperimentazione stilistica che produce il saggio21 reca i suoi frutti nel tempo, se si pensa alla perfezione delle ultime poesie di Rilke, scritte in francese. In tale caso, anche la lingua prescelta, diversa dalla lingua madre, vale forse a porre in rilievo il carattere eccezionale dell’esperienza da cui questi versi traggono origine. Valéry non è da meno del poeta tedesco, poiché nel periodo in cui la sua creatività poetica è come sospesa scrive diverse e pregevoli pagine in prosa. Per l’uomo orfico, il saggio è comunque funzionale all’opera più elevata, quale strumentario di Orfeo.22

Tra i vissuti più intensi di Rilke, per Rof Carballo assume un significato paradigmatico quello occorsogli mentre cammina lungo le mura del castello di Duino, allorché è ospite della principessa Marie von Thurn und Taxis. Il poeta avverte dentro di sé una voce che gli detta l’incipit della prima Elegia («Wer, wenn ich schriee, hörte mich aus der Engel Ordnungen?»)23 e si chiede che cosa gli stia accadendo. Lo rievoca in un brano del Diario accluso alla lettera spedita dalla Spagna l’anno successivo alla confidente Lou Andreas-Salomé. Il titolo dello scritto è Erlebnis, che opportunamente Rof Carballo traduce con vivencia. Qui il poeta parla di quell’esperienza come di un «uragano» e la descrive in modo dettagliato. Nel giardino del castello si è appoggiato a un albero e si è abbandonato alla contemplazione della natura. In un’atmosfera assolutamente calma, avverte che al suo corpo giungono finissime vibrazioni che promanano dall’albero. Il corpo vi risponde con un movimento lieve e percepisce delle influenze che normalmente non è capace di avvertire. Si tratta di un vissuto che non è possibile paragonare a qualsivoglia esperienza ordinaria né considerare come una «esaltazione» di questa, poiché è qualitativamente diverso. Arreca diletto, ma non si può neppure denominare come mero godimento.

A somiglianza del mistico, il poeta sperimenta qui l’impossibilità di esprimere adeguatamente il suo vissuto. Rilke si interroga sul senso che questo possa avere per la sua vita. Si tratta, nelle sue parole, di un passare dall’altra parte della Natura,24 tale da riempirlo di gioia. Ogni essere è percepito allora da una «distanza spirituale» e assume per lui un senso inesauribile. Le cose gli sembrano più vere, emanano un odore soave, egli si sente non di fronte ma dentro il paesaggio, creatura, come tutti gli altri esseri. Conosce intuitivamente l’essenza delle creature, ovvero come queste sono in se stesse. Il suo sguardo si diluisce in uno «spazio virtuale»,25 verso l’aperto. Si tratta del mistero inerente al das Offene di cui parlerà nell’incipit della Ottava Elegia («Mit allen Augen sieht die Kreatur das Offene»)26 nonché in una lettera al suo traduttore polacco, Witold Hulewitcz. L’aperto non va concepito quale spazio libero, come il cielo o l’aria. In qualche modo, l’aperto è ogni creatura — l’animale, la pianta e talora l’uomo stesso — che inconsapevolmente ha «dinanzi e al di sopra di sopra di sé quella indescrivibile libertà aperta che forse trova il suo equivalente (estremamente fugace) nei primi momenti dell’amore».27 Rof Carballo concorda con quanto scrive al riguardo Romano Guardini, per il quale ha accesso all’aperto l’uomo che dismette ogni «intenzionalità» volta a conoscere qualsivoglia oggetto e si consegna piuttosto al suo essere creatura, disposta ad riconoscere la realtà di ciò che è altro da sé. In questa esperienza, «l’aperto è coincidenza del più elevato e del più intimo nell’uomo».28

Rilke riferisce inoltre a Lou Andreas-Salomé un’esperienza simile, provata a Capri. Qui è il canto di un uccello, in sintonia con il suo stato d’animo, a disporlo a un vissuto di piena partecipazione alla vita dell’universo. Il poeta avverte ora che nell’abbandonarsi all’ascolto di quel canto cade ogni barriera tra il mondo interiore e l’esteriore. Non si tratta di una immedesimazione di tipo panico nel Tutto, di una «allucinazione panteista»29 poiché in Rilke permane integro un nucleo di coscienza, che ora assume anzi la massima «profondità e purezza», altrimenti inattingibile. Un vissuto simile «irrompe» in lui allorché contempla il cielo stellato attraverso i rami di un ulivo. In una esperienza analoga, alla vista di un mandorlo in fiore il poeta si sente liberato dall’ordinaria considerazione della morte: non la vede più davanti ma dietro a sé. Gli è elargito allora il privilegio che egli ritiene proprio delle creature più semplici, degli animali, i quali hanno appunto la morte «dietro di sé».

In ognuna di queste esperienze ha luogo pertanto un profondo mutamento dello sguardo, che si eleva al modo di vedere il mondo proprio dell’uomo pervaso dallo spirito creatore. Si compie qui qualcosa di simile al fenomeno che María Zambrano denomina inversión de la mirada.30 Si tratta per l’autrice andalusa della precondizione di una visione della realtà affrancata dal consueto atteggiamento dello sguardo umano, teso al dominio delle cose più che alla accoglienza della loro verità. È evidente che a dare avvio in Rilke a ognuno dei vissuti surrichiamati sono i sensi considerati ordinariamente più «spirituali», la vista e l’udito, i quali consentono all’uomo di avvertire ciò che è lontano. In ogni esperienza siffatta, il poeta guadagna una nuova prospettiva di ciò che ordinariamente si pone dinanzi a lui, nel pensiero e nella realtà: gli esseri della natura, gli altri uomini, la morte. Ciò che era di fronte a lui viene ora percepito dietro (la morte) o dentro di lui (gli esseri della natura) . Il fenomeno che Zambrano designa inversione dello sguardo si approssima a quello che per Rof Carballo è la distorsione della prospettiva31 consueta, la quale si accompagna a una beatitudine paragonabile forse solo all’estasi del mistico.

Rilke ricorda di avere provato una esperienza simile da bambino. Invero, l’atteggiamento proprio della prima infanzia dispone il bimbo a sentirsi dentro una totalità, partecipe di una unità indifferenziata, antecedente a qualsiasi distinzione tra soggetto e oggetto, tra io e mondo. È, questo, lo «stato oceanico» della psicanalisi freudiana ovvero lo «stato uroborico»32 della psicologia junghiana, entrambi richiamati con discreta frequenza da Rof Carballo. Per converso, tale esperienza è ordinariamente preclusa all’uomo adulto, in cui ha già avuto luogo l’ampliamento e l’«incremento» della coscienza. Nell’adulto è invalso piuttosto l’atteggiamento compendiato nell’essere-di-fronte, nell’affrontare la realtà esterna, peraltro di vitale importanza per la «sussistenza biologica» dell’uomo, come pone in rilievo Xavier Zubiri.33

Analogamente al bambino che vive ancora in un mondo indifferenziato, antecedente la scissione tra soggetto e oggetto, in istanti privilegiati il poeta — e, più in generale l’uomo capace di creazione — avverte di essere non di fronte alla realtà, ma al suo interno. Qui il lettore può essere indotto a pensare che, per Rof Carballo, a preludere all’opera d’arte sia una esperienza qualificabile come regressione. È noto che questa si riscontra talvolta in soggetti adulti che hanno subito un trauma emotivo o nei quali è stato indotto dal terapeuta uno stato di ipnosi profonda. Tuttavia, per l’autore, l’esperienza che in Rilke precede la creazione poetica più elevata non va intesa propriamente come regressione allo stato infantile. Se così fosse, sarebbe legittimo l’accostamento dell’autore tedesco a una sorta di «poetica del fanciullino». La straordinaria lucidità della coscienza attestata dal poeta in tale vissuto basta a inficiare tale lettura.

Alla luce di quanto in diverse opere Rof Carballo scrive circa il discontinuo processo di maturazione dell’essere umano, si può qualificare piuttosto l’Erlebnis rilkiano come una forma di reprogressione (reprogresíon) . Al riguardo, egli manifesta il suo debito intellettuale con uno psicanalista da lui spesso citato, Michael Balint.34 A differenza degli psicanalisti della prima generazione — che tendono a qualificare in modo univoco, e negativamente, la regressione — Balint distingue tra «buona» e «cattiva» regressione. La prima si pone in controtendenza rispetto alla maturazione dell’uomo, la seconda — in quanto «fruttifera, positiva»35 — invece vi contribuisce. La reprogressione, ovvero la regressione «buona» e «al servizio dell’io», costituisce per Balint e Rof Carballo una condizione temporanea, nella quale l’uomo «retrocede» a modalità di rapporto con la realtà che aveva già da tempo dismesso, ma solo per potere prendere lo slancio e progredire in modo eclatante a uno stadio successivo della sua realizzazione personale e della sua capacità di creazione. Nelle parole del medico galiziano, si tratta di una «regressione a tappe infantili che serve affinché, una volta unificata e meglio integrata la personalità, questa possa seguire vigorosamente ad andare avanti».36

Per creare, l’uomo deve talora allentare la tensione cui ordinariamente sottopone la ragione e tornare a essere un po’come il bambino. Altrove l’autore osserva che la reprogressione è un «esercizio della funzione simbolica in quanto questa — nel far tornare l’uomo al momento in cui la tutela fece germinare in lui la luce dello spirito — lo apre misteriosamente al mondo di un ordinamento trascendente, quello dell’amore, dal quale tutto nasce».37 Nell’uomo adulto è proprio la capacità di reprogressione a prevenire l’irrigidimento in schemi di pensiero e di comportamento stereotipati. Nel genio e nell’uomo comune, tale capacità «permette di porre in gioco delle possibilità di cambiamento radicale del modo di essere e, pertanto, una apertura a mondi nuovi: interessi, prospettive, valori, ambiti culturali, estetici, etc., o a forme di sensibilità nuove rispetto a quelle che si possiede».38 È lo stesso Rof Carballo a legittimare la stretta relazione che qui abbiamo ravvisato tra reprogressione e attività creatrice nell’uomo, allorché, con estrema sintesi, scrive: «Gli esempi più evidenti di questi fenomeni reprogressivi sono l’attività creatrice e l’amore».39

3. Rof Carballo dinanzi all’irruzione creatrice in Rilke

Nella città andalusa di Ronda, allorché scrive il brano del Diario inviato a Lou Andreas-Salomé, Rilke ricapitola le esperienze vissute a Duino, a Capri e in Spagna, e ne comprende il valore per il compimento della sua opera. Nella terminologia di Rof Carballo, ognuna di esse è la manifestazione di una irruzione creatrice che prelude a un periodo particolarmente fecondo nella vita del poeta.

Per Rof Carballo l’irruzione creatrice segna il momento più singolare e drammatico dell’attivita creativa dell’artista e dello scienziato. Palesemente consapevole della sua «irriverenza», egli scrive che il senso assunto da tale esperienza all’interno della vita umana è, almeno per certi versi, analogo al significato che taluni fenomeni biologici hanno per gli animali, ad esempio «l’integrazione ormai definitiva dei movimenti del volo nei piccoli degli uccelli, a pochi giorni dal ricevere gli ultimi insegnamenti dei genitori».40 Al riguardo, in Medicina y actividad creadora l’autore parla di irruzione integratrice (irrupción integrativa). Molti anni dopo, scriverà che quest’altra forma di «irruzione» arreca «l’integrazione istantanea, fulminante che si produce nel mondo animale — e, in generale, in tutto il mondo della vita — e si riscontra nell’osservazione dei meccanismi del sistema nervoso, o di un’altra parte del corpo, allorché si vede che, improvvisamente, nello sviluppo degli esseri viventi, in determinati momenti della loro esistenza, tali meccanismi si organizzano in forma di unità integrata».41

Quanto alle altre esperienze proprie dell’uomo, Rof Carballo, ravvisa una somiglianza dell’irruzione creatrice con certe forme di «collasso», nelle quali pare che lo spirito umano sovrasti il corpo e lo osservi dall’alto.42 Al lettore può sembrare discutibile l’analogia da lui ravvisata tra l’irruzione creativa e il vissuto peculiare che fin dagli anni Quaranta è comunemente denominato out-of-body experience. Per l’autore sono simili alla irruzione creatrice pure gli stati alterati di coscienza, causati talora dall’assunzione di allucinogeni, dalla partecipazione a riti religiosi od orgiastici oppure riferiti da persone che sopravvivono a un trauma cranico (oggi talora si parla, incautamente, di questi ultimi come casi di «premorte»). In tempi più recenti, altri studiosi hanno riscontrato esperienze analoghe in soggetti posti sperimentalmente in ambienti ove scarseggia l’ossigeno. Pare che l’ipossia cerebrale provochi uno stato qualificato come «beatitudine» da chi lo ha esperito. Una differenza notevole tra questi stati di coscienza e quello correlato al culmine della creatività umana è che in quest’ultima si verifica non una riduzione dell’attività cerebrale, ma un incremento. Per il medico galiziano si tratta invero di uno stato iperfrenico,43 nel quale la mente lavora di più e meglio, è in grado di scoprire nuove relazioni tra i diversi àmbiti della realtà. Una condizione per certi versi analoga può essere indotta dall’assunzione di alcune droghe psicoanalettiche, ma in tal caso l’attività mentale, pur nel suo incremento, denota piuttosto «confusione e disordine».44

Va precisato che Rof Carballo manifesta in più occasioni la consapevolezza dei limiti della sua indagine, la quale non presume di «spiegare l’uomo geniale semplicemente mediante «complessi» e processi che, in misura maggiore o minore, si rinvengono in ogni uomo quando si applica la forte lente di ingrandimento della psicanalisi, con la sua corrispondente aberrazione ottica».45 Ogni strumento di indagine comporta un certo grado di «aberrazione». Lo arreca, ad esempio, il microscopio elettronico nell’esame istologico e, in modo diverso, ogni metodo di analisi dell’inconscio nella psicanalisi. Ancor meno della improbabile spiegazione del genio, l’autore si attribuisce la capacità di interpretare la genesi delle opere di poesia, che per Heidegger parlano a partire da una realtà che «non è stata ancora sufficientemente pensata»46 e secondo Romano Guardini rivelano un lavorio silenzioso della riflessione, nell’approssimarsi ad un pensiero che si avvale di «immagini concettuali».47 Per Guardini, come per Rof Carballo, si tratta di immagini la cui genesi non può essere avvertita, poiché traggono origine non dalla coscienza ma dagli strati più remoti dell’anima del poeta, quegli stessi dove, secondo María Zambrano, egli incontra delle «visioni che sono anche azioni».48

In sintesi, gli strumenti offerti dalla psicologia del profondo non costituiscono per Rof Carballo un explicalotodo e sono ben lontani dal fare luce nelle abissalità proprie dell’umano. L’autore è assolutamente estraneo alla pretesa di certi psicanalisti convinti che la creatività artistica possa essere talora nient’altro che l’espressione di una nevrosi. Il disinvolto sintagma «questo non è nient’altro che…»,49 proprio di qualsivoglia riduzionismo — sociale, economico, psicologico — è rigettato dall’autore in quanto espunge ogni mistero dalla vita umana, semplicemente riconducendolo ad epifenomeno di un processo fisiologico o di un dinamismo psichico pienamente accessibile all’indagine scientifica.

Per converso, lo studio di Rof Carballo è pienamente avvertito del limite di ogni ricerca scientifica sull’uomo. Sul piano epistemologico, a suo giudizio, la psicanalisi in quanto scienza si approssima alle scienze ermeneutiche più che a quelle della natura. La ricerca condotta con l’outillage conoscitivo della psicanalisi riconosce pertanto il «bel rischio» insito, come in ogni ermeneutica, nell’interpretazione dei dinamismi della vita interiore, siano essi coscienti o inconsci. E, come in ogni approccio ermeneutico, in virtù dell’interpretazione dei vissuti dell’altro lo studioso consegue una autocomprensione sempre più adeguata della propria umanità. La «dialettica della conoscenza di sé stesso e della conoscenza dell’altro è una dialettica generalmente valida per tutte le scienze umane ermeneutiche».50 Rof Carballo non considera Rilke come mero «caso clinico», rifuggendo da una tentazione alla quale sa di essere soggetto in quanto medico. E, da cultore della medicina psicosomatica, egli supera anche l’altrettanto insidiosa tentazione di passare al vaglio le innumerevoli somatizzazioni dell’angoscia descritte, con estrema precisione, dallo stesso poeta nell’epistolario. Nel prendere in considerazione il significato che per la vita di Rilke ha il viaggio in Spagna, l’autore non intende redigere una patografia che direbbe ben poco dell’uomo e del poeta («La maniera più sicura di disconoscere ciò che è un uomo di genio è studiarlo dal punto di vista medico»).51 Il medico e lo psichiatra vagliano la personalità di un uomo, definendolo normale o anormale, sulla base di una nozione di normalità attinta su base statistica. Siffatta nozione è quanto mai inadeguata per cogliere i tratti di una personalità di eccezione, riguardo alla quale — è lo stesso Rof Carballo a rilevarlo — il medico rischia di dire vere e proprie tonterias. Per converso, l’autore ritiene che sia l’uomo di genio a potere rischiarare la realtà interiore dell’uomo comune. Inoltre, il medico può legittimamente chiedersi se l’organismo umano possa sostenere — e a quale prezzo — la continua tensione interiore nella quale è vissuto un uomo di genio come Rilke, nell’ansia di «potere ascoltare il suo profondo segreto che, poiché tocca il mistero dell’esistere umano, è anche il segreto di tutti noi».52

Per anni, Rilke è andato in cerca del suo segreto. Questa ricerca ha comportato uno sforzo immane, nella «armonizzazione del più eterogeneo: intuizione filosofica e sensibilità artistica, ascetismo maschile e sensibilità femminile, morte e vita, indipendenza della personalità creatrice e irradiante rivolgersi amoroso verso il prossimo».53 La rosa che sarà incisa sulla sua tomba è immagine di questo complesso di contraddizioni, e per il poeta è anzi «contraddizione pura» (reiner Widerspruch).

Allorché Rilke ha scoperto il suo segreto, si consegna senza riserve all’opera da compiere: negli ultimi anni, analogamente a Proust,54 rinuncia alla vita di relazione per scrivere: sarà poeta, senz’altro.

4. Da Duino a Toledo

In Rilke, en Andalucía Rof Carballo scrive che Rilke non giunge in Spagna come «turista letterario» né vi cerca banalmente l’ispirazione, ma la possibilità di superare la crisi che lo angoscia da tempo, come uomo ancor prima che poeta.55 Così il medico galiziano ne delinea la figura:

Uomo che non ha più ragione di vivere se non quella di rispondere con sottilissima vibrazione verbale alla profonda eco che suscita in lui questo mistero che è il mondo in cui ci troviamo e il fatto, singolare e strano, che noi ci viviamo dentro. Pertanto, quest’uomo dall’aspetto malaticcio, dalla fronte ampia e dallo sguardo strano e lucido, è uno strumento predisposto per ricevere le vibrazioni più rare e straordinarie che vanno per l’universo. È, possiamo dire, un sismografo sensibilissimo, di indole tanto eccezionale che probabilmente, in tutta la storia dell’uomo, non vi è modo di incontrare un caso simile al suo.56

Nel castello di Duino, ospite della principessa Marie von Thurn und Taxis, Rilke fa ricorso anche ad esperienze paranormali57 per conoscere il luogo dove troverà ciò che ha cercato inutilmente nelle sue peregrinazioni da un capo all’altro dell’Europa. Da parte sua la nobildonna, forse non senza crudeltà, gli ricorda che deve sacrificare tutto alla realizzazione della sua opera poetica. In Spagna, Rilke giunge pertanto in una condizione di «iperestesia», di estrema impressionabilità, e vi trova ancor di più di ciò che cercava. Una creatività incontenibile irrompe nuovamente in lui. Da allora in poi la sua esistenza si identifica con la sua opera. Nelle parole di Rof Carballo, essa è «metamorfoseada en su totalidad»: la vita viene come sussunta dalla creazione poetica.

Alla vista di Toledo, il poeta è abbacinato dalla città e dal paesaggio in cui è situata, dall’elementale, per ricorrere a un termine estraneo all’autore. Si tratta di quella «terra rossa, di bragia», di quella città dove i ponti hanno «torri all’inizio e alla fine»58 che, secondo le parole di un’anima evocata in una seduta spiritica, lo attendeva. Toledo è comunque solo una tappa di un cammino che lo conduce ancora più a sud, in Andalusia, come gli ha predetto Sacha, figlio della principessa. Questi gli ha riferito un suo sogno premonitore che non lascia dubbi riguardo alla meta finale del viaggio. È comprensibile che al riguardo Rof Carballo ponga in rilievo le risonanze suscitate nel subconscio del poeta e di Sacha dalla descrizione della città spagnola, come di un luogo tra la reale e il fantastico, fatta dal giovane re del Portogallo, Manuel di Braganza, anch’egli allora ospite della principessa.59 Al di là di quanto crede il poeta, che si affida incautamente al responso del paranormale, Rof Carballo ama pensare che siano gli angeli a lui cari a indurlo ad andare verso Occidente, verso la Spagna.

Qui il poeta troverà quello che pure giace nelle profondità della sua stessa anima e «non riesce a manifestarsi».60 In Spagna egli si sente misteriosamente condotto verso ciò di cui ha bisogno, l’equilibrio interiore che gli consentirà di trasmettere il suo messaggio all’umanità.61 Per il nostro autore, a Toledo Rilke rinasce, come più di tre secoli prima El Greco,62 che aveva immortalato l’essenza del paesaggio toledano nei violenti contrasti cromatici delle sue tele. Rof Carballo tende a credere che l’«iperestetico galvanometro» che è Rilke percepisca a Toledo qualcosa che non tutti avvertono. Scrive al riguardo:

Qualcosa che non sappiamo bene in che cosa consiste, che non è soltanto storia, né soltanto leggenda né, molto meno, solo letteratura, e che forse neppure ha a che fare con questo; qualcosa di molto più profondo e arcaico, qualcosa di cosmico, quasi, è accaduto a questo paesaggio. Ma se qualcuno lo percepisce, al farlo, stabilisce una segreta sintonia con questa evenienza cosmica, poiché non se ne potrà separare.63

Toledo appare al poeta quale «città insuperabile» (unübertreffliche Stadt). Si tratta per lui di una città, al contempo, «del cielo e della terra», immersa in un paesaggio così luminoso da indurlo a pensare che nel quarto giorno della creazione Dio abbia posto il sole proprio al di sopra di quel luogo. Le considerazioni svolte qui da Rof Carballo richiamano alla mente del lettore la riflessione sul paesaggio da lui proposta nel libro El hombre como encuentro. Si può accostare ad essa quanto scrive María Zambrano riguardo alla luce e al paesaggio delle città spagnole. La luce di Toledo è per lei, come per Rilke, davvero singolare. Nella sua prosa poetica, l’autrice intende cogliere il carattere di tale luce, che la distingue da quella di Segovia e di altre città spagnole.64

María Zambrano si sofferma sulla peculiarità della luce in quanto conferisce un timbro singolare all’elementale proprio di ogni luogo, mentre Rof Carballo sottolinea la rilevanza del paesaggio nel costituirsi del mondo affettivo e cognitivo dell’uomo. Qui le parole «paesaggio» ed «elementale» hanno un significato simile. La filosofa andalusa adopera il termine elemental65 in un’accezione sovrapponibile a quella dell’élémental in Emmanuel Levinas, per il quale si tratta dell’ambiente che «ha uno spessore proprio […] fondo o terreno comune, non-possedibile, essenzialmente di «nessuno»: la terra, la luce, il mare, la città». Per il filosofo, l’elementale è il «non possedibile che avvolge o contiene senza poter essere contenuto o avvolto».66 La sua profondità è imprescrutabile.

Rof Carballo pone in rilievo l’importanza del verde paesaggio della Galizia — non di rado brumoso e rannuvolato, con il muggire dell’Atlantico sullo sfondo — nel condizionare il talante, il temperamento o, per meglio dire, la tonalità affettiva fondamentale dell’uomo gallego.67 Da parte sua, María Zambrano rileva il rapporto dell’uomo andaluso con un paesaggio ben diverso, nel quale i secolari alberi di olivo offrono la loro ombra all’uomo che percorre quella regione assolata, e del castigliano con l’elementale monotono, piatto e brullo della Meseta. E Laín Pedro Entralgo aggiunge che in realtà è solo l’uomo a rendere pienamente paesaggio questo altipiano inospitale, in quanto è capace di uno sguardo amoroso, che discerne un ordine in tutto ciò che vede.68

Nelle parole di Rof Carballo, a costituire l’uomo — della Galizia come di ogni altra terra — concorre in modo significativo proprio l’incontro con il paesaggio natio, oltre che con i propri simili e con gli altri esseri viventi. È comprensibile che il gallego, allorché si allontana dalla sua regione e giunge negli altipiani della Castiglia, provi disagio al constatare la mancanza del verde, degli alberi e del mare. Se in Galizia egli si percepiva al centro del paesaggio — poiché questo gli è proprio, lo ha assimilato a sé fin dalla prima infanzia, come ha «incorporato» i tratti delle persone care — in Castiglia avverte di essere di fronte ad esso.69 Per l’autore, il paesaggio della terra natia inerisce dunque all’uomo come un enigma o un mistero (un metaproblema, direbbe Gabriel Marcel). Il paesaggio di ogni altra regione è invece per lui un mero problema, che può essere esaminato in modo distaccato e analizzato nelle sue componenti, a partire da quelle visuali, acustiche e olfattive.

In sintesi, se per Rof Carballo, nell’età evolutiva la psiche umana incorpora in qualche mondo anche il paesaggio — oltre al linguaggio, alle norme e alle credenze della famiglia e del contesto sociale di appartenenza — , María Zambrano rileva il legame indissolubile dell’uomo con l’elementale che gli è familiare fin dalla prima infanzia.

5. In Andalusia

Rof Carballo osserva che la sovrabbondanza dell’esperienza toledana sembra soverchiare le forze di Rilke («Potrò sopportare questo?») e, con il passare delle settimane, non conosce alcun estenuarsi nell’assuefazione. Il poeta continuerà a elaborare in seguito questa congerie di impressioni. Proprio a Toledo inizia a comporre poesie di ispirazione religiosa.70

In una considerazione complessiva, la Spagna si rivela a Rilke un paese che pur attraendolo, rimane a lui paradossalmente estraneo, e avverte questa estraneità quasi come un dolore. Nella poesia Die spanische Trilogie esprime tale stato d’animo chiedendosi: «Perché si deve andare e così assumere su di sé cose estranee?». L’eccesso di impressioni continua per il poeta anche in Andalusia, dove visita Cordova, Siviglia e Ronda. Opportunamente, Rof Carballo cita ampi brani delle lettere spedite da questa regione. Anche a Ronda, Rilke è affascinato dal paesaggio: le montagne circostanti, la rocca sulla quale si erge l’abitato, i dirupi, il fiumicello che ha scavato una profonda vallata. Proprio la peculiarità dell’elementale in cui è incastonata rende straordinaria ai suoi occhi la piccola città, sebbene non custodisca alcuna cosa «degna di essere vista» dal turista.

Riguardo a tale esperienza, talora appena accennata dai biografi, Rof Carballo osserva:

I vissuti di Rilke a Ronda costituiscono la chiave di tutta la sua opera poetica, il che ci permette di comprenderla, e di comprendere le sue concezioni dell’amore e della morte. Non si capirà mai abbastanza il fatto che le due opere più ragguardevoli della letteratura della prima metà del ventesimo secolo, quella di Proust e quella di Rilke, si dispieghino, come alberi giganteschi, da un seme minuscolo, dal vissuto provato vicino a uno steccato fiorito o dinanzi a un ramo di mandorlo. È in questo senso che mi permetto di richiamare l’attenzione dei poeti spagnoli; per la letteratura del nostro tempo, Ronda ha lo stesso significato storico dell’immaginario Combray di Proust, poiché è da Ronda che Rilke mette per iscritto, riunendoli nelle pagine del suo Diario spagnolo, i tre o quattro episodi in cui gli è stato dato di avvertire con estrema chiarezza ciò costituisce la struttura più radicale di tutta la sua opera.^[72]

Da cultore della psicanalisi, il medico galiziano ritiene significativo anche, e forse soprattutto, quanto Rilke «non vede» nel suo viaggio in Spagna, ciò a cui passa accanto senza prestarvi attenzione. Più volte lo stesso poeta — nelle lettere, ma anche nelle Elegie — si lamenta della distraibilità interiore dell’uomo, della sua disattenzione per ciò che potrebbe serbare in sé vere e proprie «meraviglie» per lui. L’atteggiamento compendiato nel pasar de lado — che potremmo tradurre con «passare oltre» — è ritenuto da Rof Carballo vicino all’attitudine fondamentale dell’uomo che per Heidegger vive una esistenza inautentica.71 L’uomo può «passare oltre» persino a ciò che potrebbe essere per lui di estrema importanza, e ciò attiene alla tragicità stessa della sua vita. Da parte sua, il medico galiziano, che negli scritti rievoca di rado le esperienze personali, esprime il suo rammarico poiché nel 1931, allorché vive nello stesso quartiere di Vienna ove ha lo studio Sigmund Freud, lo ha incontrato più volte e non si è accorto della personalità di eccezione dell’uomo che ha incrociato il suo sguardo. Anche lui, allora, è «passato oltre», non ha prestato attenzione.

Rof Carballo, mentre Rilke scrive che il suo destino si sta compiendo, non si accorge di qualcosa di importante. Colui che celebra l’amore in tutte le sue espressioni, dalla passione inappagata e inappagabile all’estasi amorosa del mistico, non si avvede di visitare i luoghi nei quali, quasi quattro secoli prima, mistici come Teresa d’Avila e Giovanni della Croce hanno lasciato l’impronta del loro passaggio. Qui il poeta pasa de lado. Forse ciò è in rapporto al suo atteggiamento fondamentalmente anticristiano, che in Spagna si manifesta in forma eclatante.

Per il nostro autore, le «disattenzioni» di Rilke nei confronti di alcuni aspetti del modo di vivere propri dell’Andalusia si rivelano particolarmente significative nel soggiorno a Siviglia. Il poeta non coglie l’incanto della città, e questo probabilmente contribuisce al vissuto di estraniamento da lui provato nel viaggio in Spagna. Rof Carballo ritiene che tale insensibilità riveli un’attitudine fondamentale nei confronti della vita. Nella cultura europea del primo Novecento l’autore individua due fondamentali atteggiamenti al riguardo. Uno è proprio delle correnti di pensiero improntate al vitalismo e all’irrazionalismo del tempo, rappresentate da filosofi quali Nietzsche, Dilthey, Bergson. Tra i letterati ascrivibili a questa corrente, il medico galiziano cita Hermann Hesse, Hugo von Hofmannsthal e Stefan George.72 Negli anni di studio in Germania e in Austria, Rof Carballo si è accostato a questi autori e ha provato interesse per la letteratura e l’arte proprie di questo milieu culturale.

Nello stesso periodo si afferma in Europa un’attitudine antitetica nei confronti della vita umana che, richiamandosi a Kierkegaard, pone in rilievo il suo carattere tragico e aleatorio. L’uomo è essere desamparado/des-amparado ovvero esposto senza scampo alle situazioni-limite della malattia e della morte. Per Rof Carballo, Rilke è tributario di questa cultura, insieme ad autori peraltro di diverso orientamento, come Kafka, Camus, Heidegger, Sartre, Jaspers e Marcel. Nella sua Spagna, Ortega y Gasset è vicino al vitalismo, Unamuno incarna invece la Kierkegaard Renaissance. Pur nel suo carattere schematico, questa concezione dicotomica della cultura europea primonovecentesca è plausibile e non presenta alcuna originalità. Può sembrare un po’grezzo l’accostamento di Jaspers e Marcel agli altri autori menzionati, ma il criterio adottato nella distinzione riguarda il «sentimento della vita» in cui sorge l’interrogazione filosofica di questi pensatori — tutti in qualche modo partecipi della filosofia dell’esistenza — e non tanto gli esiti, estremamente diversi, della loro riflessione.

Alla luce di quanto detto, non sorprende troppo che, in una città solare come Siviglia, Rilke non presti molta attenzione alla vitalità andalusa. Questa appare ictu oculi nella sua esuberanza al visitatore ordinario, il quale difficilmente ne coglie il «rovescio», la consapevolezza della morte espressa dall’uomo andaluso nella sapienza, nell’arte e nella poesia popolare delle coplas, come opportunamente pone in rilievo María Zambrano. Bisogna essere nati in Andalusia, in Sicilia o in altre regioni mediterranee per comprendere come questa consapevolezza possa informare la cultura di una terra apparentemente così ebbra di vita. Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha espresso questo «sentimento della morte» in modo incomparabile, quasi fosse una voluttà alla quale il siciliano tende a concedersi, in forme più o meno dissimulate, persino nel gustare il più squisito sorbetto al limone. Il «rovescio» della cultura andalusa — e, più in generale, mediterranea — può essere comunque colto da un visitatore di eccezione. E tale è senz’altro Rilke, che a Siviglia tralascia tante cose da vedere e visita proprio l’Hospital de la Caridad. Si tratta comunque di un ospedale molto diverso dai tetri nosocomi parigini da lui stesso descritti ne I quaderni di Malte Louds Brigge.

In realtà, negli ospedali di Parigi la gente va non per continuare a vivere, ma per morire. Senza indulgere al patetico, Rilke pone in rilievo il carattere disumano della prassi medica dell’epoca, «la fredda crudeltà di un consulto pubblico».73 In queste «fabbriche di morte», proprio la morte è privata anche dell’ultimo residuo di compartecipazione umana. A Rof Carballo sembra persino che le pagine della più significativa opera in prosa di Rilke riescano a trasmettere al lettore l’odore acre che verosimilmente caratterizza gli ospedali dell’epoca. Estremamente diversa è la descrizione dell’ospedale sivigliano in una lettera del poeta alla principessa von Thurn und Taxis. Qui le sale sono ampie, linde e soleggiate, i degenti sembrano riposare, senza che questo implichi un ineluttabile destino di morte. Ed è probabile che pure il sopraggiungere della morte qui venga vissuto in un modo degno dell’uomo.

Colpiscono l’attenzione di Rilke i pani candidi disposti sulla tavola di ciascuna stanza. Il poeta proviene da una delle nazioni più ricche dell’Europa, è stato ospite di famiglie facoltose, eppure quei pani gli sembrano «dispendio puro», come se all’uomo non costasse il sudore della fronte il poterli mangiare. In altre parole, si tratta del prodigio quotidiano di una gratuità assoluta. Si comprende che questa descrizione possa richiamare alla mente di uno spagnolo come Rof Carballo il pane bianco disposto sulla tavola nelle nature morte, ovvero nei bodegones, di Francisco de Zurbarán, pittore che celebra con la sua arte la grazia silente del quotidiano, piuttosto che i grandi eventi storici. È il pane posto persino sulle tavole delle più povere locande, ovvero i bodegones della Spagna seicentesca. Anche in questa esperienza vi è una lacuna significativa nell’attenzione del poeta. Gli sfugge ciò che è essenziale nella denominazione e nella realtà dell’ospedale sivigliano, che è Ospedale della Carità. Eppure, proprio tale denominazione lo aiuterebbe a comprendere ciò che rende questo luogo così differente rispetto agli squallidi ospedali parigini, ove pure la scienza medica del tempo dovrebbe offrire il meglio di sé. Il cantore di tante espressioni dell’amore non si cura di un elemento peraltro così evidente. Nelle parole di Rof Carballo qui il poeta non pasa de lado all’essenziale ma pasa por alto. Il significato delle due espressioni è comunque molto simile.

Ben diversa rispetto all’impressione riportata nella visita dell’ospedale è quella che Rilke riferisce della cattedrale di Siviglia, la cui architettura gli appare tronfia e opprimente. Anche a Cordova, Rilke si rivela viaggiatore estraneo ai luoghi comuni del visitatore occasionale. La chiesa cristiana che sorge nella città antica gli sembra una nota dissonante e suscita il suo sconcerto. In una lettera a Marie von Thurn und Taxis, vi ravvisa una «intrusione» del cristianesimo in una sfera che dovrebbe restare estranea ad esso. Il suo sconcerto, anzi la sua indignazione, non è solo un sentimento suscitato dall’incongruenza estetica di quell’edificio in tale contesto. Si tratta peraltro di una incongruenza rispetto alla peculiare architettura della moschea, che pure il gusto estetico di Rof Carballo rileva. Lo stato d’animo espresso da Rilke ha però un significato più ampio, che travalica l’ambito estetico, e sembra toccare la religiosità e l’umanità stessa del poeta.

In Andalusia, l’avversione di Rilke nei confronti del cristianesimo si manifesta con la massima veemenza e, al contempo, si rivela in lui un grande interesse per l’Islam, attestato dalla lettura del Corano intrapresa proprio in questa regione. Per Rof Carballo, è necessario vincere la «ripulsa» e l’«antipatia»74 che nel cattolico suscita la sua lettera alla nobildonna, al fine di coglierne il senso. Già a Duino, nelle conversazioni con l’amico Rudolf Kassner,75 Rilke ha confidato di sentirsi lontano da una religione nella quale il rapporto tra Dio e uomo si realizzi in virtù di un Mediatore. Nella lettera appena richiamata, Rilke scrive di essere più vicino alle religioni nelle quali siffatta mediazione assume un’importanza minore oppure non è necessaria.

Al fondo di tale presa di posizione, Kassner individua una concezione alquanto banale della mediazione da parte dell’amico, quasi che il Mediatore fosse una sorta di «linea telefonica» atta rendere più agevole il rapporto dell’uomo con Dio. Gli sembra che Rilke abbia radicalmente frainteso il concetto di mediazione in Kierkegaard, autore che è ben noto al poeta. A giudizio di Kassner, il finissimo esteta, che egli comunque riconosce in Rilke, rivela qui una paradossale «mancanza di gusto» (Geschmacklosigkeit). Kassner offre a Rof Carballo, il quale ne ammira le capacità intuitive, l’occasione per rilevare nello stile forbito della lettera di Rilke una incongruenza, una lacuna, una «fissura cardinale»76 che non deve sfuggire all’interprete. Qui il medico galiziano accenna a una ermeneutica del sospetto nei confronti del testo, o forse a una sua decostruzione. Nel riferimento alla religione, suscitato da una dissonanza in apparenza di carattere estetico, in realtà il poeta dice qualcosa che riguarda il suo vissuto. Rof Carballo e Kassner sono concordi nell’affermare che il cristianesimo avversato da Rilke, particolarmente nelle lettere dalla Spagna, è in realtà la religiosità ipocrita e sontuosa incarnata dalla madre Phia.

Al lettore del saggio di Rof Carballo, l’atteggiamento manifestato da Rilke durante il soggiorno in Andalusia appare perfettamente coerente con l’attrazione che, al contempo, avverte nei confronti dell’Islam, il quale concepisce l’ineffabile trascendenza di Dio, Signore assoluto del creato e dell’uomo, come abissale distanza che non consente all’essere umano neppure di considerarsi figlio del suo Creatore. Oppure si può ipotizzare che il poeta sia attratto dell’Islam per la semplicità del suo impianto dogmatico, che pochi anni prima tanto aveva affascinato Charles de Foucauld prima della sua piena adesione alla fede cristiana. Qui Rof Carballo si situa nel terreno insidioso delle ipotesi, e ciò vale ancora di più per chi, sulla sua scia, studia la personalità di Rilke. In ogni caso, non sorprende che il poeta, il quale sperimenta grandi difficoltà nella relazione con gli altri, esprima una difficoltà altrettanto grave nell’ammettere qualsivoglia mediazione umana nel rapporto con Dio.

Rof Carballo esclude che la ragione profonda del sentimento anticristiano espresso dal poeta possa individuarsi nella superficialità della vita religiosa dei credenti incontrati in Spagna. L’indignazione che Rilke manifesta nelle lettere spedite dall’Andalusia è così accesa da indurlo a pensare a «un difetto costitutivo nel più intimo della struttura dell’anima»77 del poeta. Come si è accennato, per il medico galiziano si tratta di un difetto del rapporto con il «mondo materno».78 Si tratta del rapporto che, prima e più di tutti gli altri, condiziona il destino dell’uomo. Il rapporto con la figura materna è di incomparabile importanza nella trama relazionale — urdimbre ovvero orditura nel linguaggio dell’autore79 — in cui si forma l’essere umano. In ragione della solidità e alla compattenza di siffatta orditura, l’uomo si costituisce quale essere-in-relazione, un essere che sente, ama e comprende.


  1. «Perché bisogna andare e così prendere su di sé cose estranee?», da R. M. Rilke, Die spanische Trilogie, poesia scritta nella città spagnola di Ronda nel gennaio 1913 (verso citato in J. Rof Carballo, Rilke, in Andalucía, in Entre el silencio y la palabra, Espas Calpe, Madrid 1990, p. 94). La traduzione dei brani qui citati è personale. ↩︎

  2. Juan Rof Carballo (1905-1994) nasce a Lugo, in Galizia. Si iscrive alla Facoltà di Medicina di Santiago de Compostela e prosegue gli studi universitari a Barcellona e a Madrid. Negli anni Trenta approfondisce le ricerche sulla anatomopatologia e la fisiopatologia a Vienna, Colonia e Berlino. La sua tesi di dottorato, pubblicata nel 1935, verte sulla funzione degli acidi grassi insaturi nell’organismo. Dopo l’ultimo dopoguerra, Rof Carballo continua a svolgere la professione di medico internista e si accosta alla medicina psicosomatica e alla psicanalisi. A partire dalla fine degli anni Quaranta, promuove la conoscenza di tali discipline nel suo paese, pubblicando diversi articoli e volumi. Solo nella tarda maturità vengono tributati vari riconoscimenti alla sua intensa attività di medico e intellettuale. Un rapporto di stima e amicizia lo lega a Laín Pedro Entralgo e a Gregorio Marañón, anch’essi medici e autori di vari scritti. ↩︎

  3. Tra le diverse edizioni dell’opera, segnalo: Patología psicosomática, Paz Montalvo, Madrid 1949; Asociación Gallega de Psiquiatría, Lugo 1999. Cfr. F. Martínez López, Juan Rof Carballo y la medicina psicosomática. Entre la teoría: J. Rof Carballo y la praxis: A Fernández-Cruz, Diaz de Santos, Madrid/Buenos Aires/México 2008. ↩︎

  4. Nel volume Urdimbre afectiva y enfermedad. Introducción a una medicina dialógica (Labor, Barcelona 1961), l’autore dedica gran parte di un capitolo all’esame critico della Gestaltpsychologie («Percepción de la forma, actividad creadora y neurosis», pp. 262-299). ↩︎

  5. Id., Cerebro interno y mundo emocional, Labor, Barcelona 1952, segnatamente alle pp. 1-94 (per un chiarimento della nozione di cervello interno vedi alle pp. 7-8); Biología y psicoanálisis, Desclée de Brouwer, Bilbao 1972. ↩︎

  6. Cfr. Id., Mito e realidade de terra nai [Mito e realtà della terra madre, in lingua gallega], Galaxia, Vigo, 1957, 1989.. ↩︎

  7. Id., Medicina y estetica en Gottfried Benn, in Medicina y actividad creadora, Revista de Occidente, Madrid 1960, pp. 221-243. ↩︎

  8. Il saggio è alle pp. 83-115 del volume, già citato. ↩︎

  9. J. Rof Carballo, Rilke, en Andalucía, cit., p. 115. ↩︎

  10. Località nei pressi di Trieste. ↩︎

  11. Tra costoro, l’autore assume come caso esemplare il farmacologo tedesco Otto Loewi, premio Nobel per la Medicina nel 1936 (vedi J. Rof Carballo, Medicina y actividad creadora, cit., pp. 84-89). ↩︎

  12. E. Neumann, Der schöpferische Mensch, Rhein-Verlag, Zürich 1959. ↩︎

  13. J. Rof Carballo, Medicina y actividad creadora, cit., segnatamente alle pp. 28-40. ↩︎

  14. Ivi, pp. 32 e 33. ↩︎

  15. Ivi, p. 86. ↩︎

  16. Ivi, p. 87. ↩︎

  17. Ivi, p. 89. ↩︎

  18. Ivi, p. 88. ↩︎

  19. Ibidem. ↩︎

  20. Ibidem. ↩︎

  21. Riguardo alle diverse accezioni della parola spagnola ensayo, vedi ivi, pp. 67-70. ↩︎

  22. «herramienta de Orfeo», ivi, p. 88 (in corsivo nel testo). ↩︎

  23. «Chi, quando io gridassi, mi udrebbe dalle schiere degli angeli?». ↩︎

  24. J. Rof Carballo, Rilke, en Andalucía, cit., p. 106. ↩︎

  25. Ivi, p. 107. ↩︎

  26. «Con tutti gli occhi la creatura vede l’aperto». ↩︎

  27. Il passo della lettera a Hulewitcz è riportato nel saggio Rilke, en Andalucía, cit., p. 110. ↩︎

  28. Ivi, p. 112. ↩︎

  29. Ivi, p. 107. Ibidem. ↩︎

  30. Cfr. E. Laurenzi, El saber del alma (María Zambrano y José Ortega y Gasset), in AA. VV., De la razón cívica a la razón poetica, Publicaciones de la Residencia de Estudiantes/Fundación María Zambrano, Madrid 2004, pp. 531-549. ↩︎

  31. J Rof Carballo, Rilke, en Andalucía, cit., p. 108. ↩︎

  32. L’uroboro è rappresentato nei testi dello gnosticismo e dell’alchimia come un serpente che si morde la coda. ↩︎

  33. J Rof Carballo, Rilke, en Andalucía, cit., p. 109. ↩︎

  34. Id., Rebelión y futuro, Taurus, Madrid 1970, p. 230. Qui Balint è citato quale «grande psicanalista del nostro tempo». ↩︎

  35. Ibidem. ↩︎

  36. Ibidem. ↩︎

  37. Id., Violencia y ternura, Espasa Calpe, Madrid 1987, pp. 283-284. ↩︎

  38. Ivi, p. 302, ↩︎

  39. Ivi, p. 346. ↩︎

  40. Id., Rilke, en Andalucía, cit., p. 107. ↩︎

  41. J. Rof Carballo, Los duendes del Prado[I folletti del Prado], Espasa Calpe, Madrid 1990, p. 349. ↩︎

  42. Id, Rilke, en Andalucía, cit., p. 113. ↩︎

  43. Id., Terapeutica del hombre, Desclée de Brouwer, Bilbao 1986, p. 96 (alcuni capitolo del libro sono scritti da Javier del Amo). ↩︎

  44. J. Rof Carballo, Fronteras vivas de la psicoanálisis, Karpos, Madrid 1975, p. 317. ↩︎

  45. Id., El problema del seductor en Kierkegaard, Proust y Rilke, in Entre el silencio y la palabra, cit., p. 185. ↩︎

  46. Cfr. M. Heidegger, Holzwege, Klostermann, Frankfurt a.M., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1985,1997. Sul «da pensare» offerto a Heidegger dalla poesia di Rilke, cfr. S. Venezia, Il linguaggio del tempo. Su Heidegger e Rilke, Guida, Napoli 2007. ↩︎

  47. Romano Guardini, insieme a Martin Heidegger, è citato da Rof Carballo alla p. 89 di Rilke, en Andalucía. Cfr. R. Guardini, Rainer Maria Rilke Deutung des Seins. Eine Interpretation der Duineser Elegien, Kösel Verlag, München 1953 (edizione utilizzata da Rof Carballo); Grünewald, Ostfildern 1996 (Rainer Maria Rilke, Morcelliana, Brescia 2004). ↩︎

  48. M Zambrano, La confesión, genero literario y método, 1.a ed. México, Luminar 1943; La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 99. ↩︎

  49. J. Rof Carballo, El hombre como encuentro, Alfaguara, Madrid 1973, pp. 443. ↩︎

  50. Id., Fronteras vivas de la psicoánalis, Karpós, Madrid 1975, p. 205. ↩︎

  51. Id., Rilke, en Andalucía, cit., p. 90. ↩︎

  52. Ibidem. ↩︎

  53. Ivi, p. 99. ↩︎

  54. Cfr. C. Castro, Marcel Proust o el vivir escribiendo, Revista de Occidente, Madrid 1952. L’opera della studiosa è citata da Rof Carballo in Rilke, en Andalucía, cit., p. 84. ↩︎

  55. Tra gli studi di cui Rof Carballo si avvale nella sua ricerca sulla personalità di Rilke, va menzionato innanzitutto il volume di D. Bassermann, Der späte Rilke [Il tardoRilke], Leibniz-Verlag, Münich 1948. Egli cita letteralmente lo studioso, allorché questi scrive: «Le costruzioni verbali in Rilke non sono espressioni del suo essere, che in seguito egli modella, ma sono trasformazioni essenziali» (J. R. Carballo, Rilke, en Andalucía, cit., p. 84). L’autore prende in considerazione anche il libro di memorie scritto da Marie von Thurn und Taxis, Erinnerung am Rainer Maria Rilke, 1.a ed. Oldenburg Verlag, München/ Berlin 1932. ↩︎

  56. J.Rof Carballo, Rilke, en Andalucía, cit., p. 85. ↩︎

  57. Ivi, p. 86. ↩︎

  58. Ivi, p. 87. ↩︎

  59. Ibidem. ↩︎

  60. Ibidem. ↩︎

  61. Ivi, p. 108. ↩︎

  62. Al riguardo, Rof Carballo cita lo studio di un altro eminente medico umanista, l’endocrinologo Gregorio Marañón . Si tratta del volume El Greco y Toledo, Espasa Calpe, Madrid 1956. L’amico Marañón è anche l’autore del Prólogo del suo libro Entre el silencio y la palabra. ↩︎

  63. J. Rof Carballo, Rilke, en Andalucía, cit. p. 91. ↩︎

  64. «La luce non cade, a Segovia: la città intera si innalza verso di essa, la raggiunge nel suo crescere fino ad arrivare al livello in cui questa luce si dà. Non la insegue come a Toledo, né è sul punto di bruciarsi in essa come a Cuenca, né di sciogliervisi, come a Granada»: M. Zambrano, Un lugar de la palabra. Segovia, «Papeles de Son Armadans», n. 98, Madrid/Palma de Mallorca 1964, riportato in Ead., España, sueño y verdad, Edhasa, Barcelona 1965 e 2002, p. 240 di quest’ultima edizione. ↩︎

  65. M. Zambrano, Delirio y destino (los veinte años de una española), Mondadori, Madrid 1989. Delirio e destino, Raffaello Cortina, Milano 2000, segnatamente il capitolo Una visita al museo del Prado, pp. 161-170 (riportato in Algunos lugares de la pintura, Espasa Calpe, Madrid 1989; Luoghi della pittura, Medusa, Milano 2002, pp. 43-52). Mi discosto qui dalla traduzione della parola elemental, rendendola con «elementale» anziché con «elementare», come si legge in Luoghi della pittura. ↩︎

  66. E. Levinas, Totalité et infini, Nijhoff, La Haye, 1961; Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1.a ed. 1980, pp. 131-134. ↩︎

  67. J. R. Carballo, El hombre como encuentro, cit. , pp. 183-213 (capitolo Encuentro con el paisaje). Tra l’altro, qui l’autore prende in considerazione il significato del paesaggio in Miguel de Unamuno e in altri scrittori spagnoli. ↩︎

  68. Ivi, p. 195, ↩︎

  69. «Non è il paesaggio compagno e materno, un paesaggio che dapprima è stato materno e in seguito è stato amico; non il paesaggio che portiamo dentro di noi, come un enigma, ma quello che è dinanzi ai nostri occhi come un problema»: ivi, p. 197. ↩︎

  70. Cfr. J. Gebser, Rilke und Spanien, Hans Huber Verlag, Bern 1940 (studio citato da Rof Carballo in Entre el silencio y la palabra, p. 93). ↩︎

  71. Ivi, p. 100. ↩︎

  72. Ivi, p. 102. ↩︎

  73. Ivi, p. 103. ↩︎

  74. Ivi, p. 97. ↩︎

  75. Rudolf Kassner (1873-1959) fu uno scrittore austriaco particolarmente fecondo, autore di poesie e di saggi critici sulla letteratura e sul teatro. Studiò tra l’altro le religioni e le culture dell’India. Tra le sue numerose frequentazioni assumono particolare rilevanza l’amicizia con Rilke e con Hugo von Hofmannstahl. ↩︎

  76. J. Rof Carballo, Rilke, en Andalucía, cit., p. 98. ↩︎

  77. Ivi, p. 97. ↩︎

  78. Ivi, p. 98. ↩︎

  79. Cfr. J. Rof Carballo, Urdimbre afectiva y enfermedad, cit. ↩︎