1. Il dialogo con i cristiani, terreno di coltura per Due tipi di fede
In una temperie culturale come quella attuale, allorché vengono promosse coraggiose iniziative volte a promuovere il dialogo tra ebraismo e cristianesimo, assume un notevole interesse la riflessione elaborata nel corso del Novecento dai più autorevoli studiosi ebrei riguardo al rapporto tra le due fedi. In questo ambito, l’opera di Martin Buber riveste un’importanza senz’altro ragguardevole.
Esauritasi quella modernità la cui agonia è stata interpretata dall’Autore come «eclissi di Dio» — Gottesfinsternis1 — la voce di Buber continua a risuonare nell’aeropago filosofico. Pur nella frantumazione degli orizzonti di pensiero e nel declino dei punti di riferimento «forti» che caratterizzano il postmoderno, essa si fa udire, quale voce che giunge da lontano, e che la lontananza non riesce a disperdere. Voce che si approssima all’uomo attento e arriva diretta a colui che non si stanca di interrogarsi sui problemi ultimi.
Gli scritti di Buber costituiscono altrettanti «rimandi» alla relazione con il tu umano e con l’Eterno. È questa, per lui, la realtà prima e ultima che dischiude all’uomo il senso. Pertanto, non solo a chi studia scienza delle religioni, filosofia o teologia, ma all’uomo, Buber ha e avrà sempre qualcosa da dire.
Il problema costituito dal rapporto tra l’ebraismo e il cristianesimo, in particolare, impegna a lungo la sua riflessione, e viene trattato più estesamente in un libro pubblicato nel 1950, Zwei Glaubensweisen, la cui edizione italiana è stata pubblicata nel 1995, con il titolo Due tipi di fede.2 L’opera che intende enucleare i tratti essenziali della fede ebraica e della cristiana è preparata da un impegno culturale protrattosi per alcuni decenni, durante i quali Buber conduce un dialogo franco con i cristiani che conosce nello svolgimento stesso della sua intensa attività intellettuale.3
Dagli anni Venti ai Quaranta, Buber intrattiene una corrispondenza epistolare con teologi evangelici quali Friedrich Gogarten, Karl Barth, Rudolf Bultmann e Leonhard Ragaz. Tra i teologi cattolici, conosce e apprezza Romano Guardini.4 Nel 1926, un ciclo di lezioni tenute al «Freies Jüdisches Lehrhaus» fondato a Francoforte dall’amico Franz Rosenzweig, gli offre la possibilità di trattare temi attinenti al rapporto tra ebraismo e cristianesimo.
In questo stesso periodo, una delle più significative testimonianze dell’interesse dell’Autore verso il dialogo interreligioso è data dai suoi contributi alla rivista Die Kreatur (1926-1930), che egli cura insieme al cattolico Joseph Wittig e al protestante Viktor von Weiszäcker. Nel contempo, egli non tralascia occasione per precisare quanto egli, in virtù del suo stesso ebraismo, si senta estraneo a qualsiasi tentativo di missione. Né gli ebrei debbono convertirsi al cristianesimo, né i cristiani alla fede ebraica: ognuno deve restare nella propria fede. Nel tempo, gli uni condividono con gli altri «un Libro e un’attesa», anche se per i cristiani esso è il «vestibolo» e per gli ebrei «il santuario».5 Proprio la traduzione della Scrittura è, per un convinto oppositore di ogni attività missionaria quale Buber si considera ancora nei suoi ultimi anni, l’unica «missione» che può essere accettata. È l’unica, anzi, nella quale egli si lascia coinvolgere: si tratta qui, infatti, «non di ebraismo e cristianesimo, ma della comune verità originaria, dalla cui rivivificazione dipende il futuro di entrambi».6 La Scrittura, continua l’Autore, «è nell’attività missionaria».
Ai teologi cristiani che ribadiscono l’irrinunciabilità della missione agli ebrei, Buber ricorda che Dio non ha revocato il Patto stipulato con Israele. Di contro all’irenismo di qualcuno dei suoi interlocutori — che tende talora a «ridurre» la diversità esistente tra le tradizioni religiose, ad «addomesticare» ciò che fa dell’altro un lontano, un separato — il suo atteggiamento è improntato ad una parrhesía che non si stanca di richiamare l’attenzione sulla differenza tra le due fedi. Differenza irremissibile nel tempo dell’esilio. Del resto, il pensiero ebraico di cui Buber è partecipe sa e vuole dialogare con chi è lontano: nel confronto con questi, qualcosa di importante può «accadere». Confronto alieno da ogni tentativo di annessione, rapporto anzi che non lega se non per assolvere.
Alla luce di tali considerazioni, si comprende la fermezza dimostrata da Buber nel ribadire i tratti irrinunciabili della sua identità ebraica di fronte a uno dei più significativi tra i suoi interlocutori in campo cristiano, il teologo evangelico Karl Ludwig Schmidt, esperto di esegesi neotestamentaria, nel corso di un serrato dibattito svoltosi allo «Jüdisches Lehrhaus» di Stoccarda nel 1933.7 Proprio in questo periodo — stando a quanto l’amico Ernst Simon8 scriverà nel dicembre 1950, recensendo Due tipi di fede in una rivista di New York, Aufbau — Buber concepisce il progetto di un’opera che ponga a confronto la fede ebraica e la cristiana.
Il dialogo di Buber con il cristianesimo continua negli anni Quaranta, quando egli risiede già a Gerusalemme. Qui, negli anni 1942-43, egli tiene un ciclo di lezioni sulle origini del cristianesimo dall’ebraismo in una sorta di scuola popolare, che ha sede in una piccola sinagoga di ebrei tedeschi, denominata Emeth w’ Emunà. Si tratta, secondo la testimonianza dell’amico Schalom Ben-Chorin, della prima volta che in una sinagoga vengono commentati brani del Vangelo e si parla della ebraicità di Gesù.9
Buber scrive Due tipi di fede negli anni 1948-49 e continua a lavorarvi anche nel periodo più critico del primo conflitto arabo-israeliano, l’assedio di Gerusalemme, «nei giorni in cui in città era scoppiato un caos distruttivo».10 Il libro vuole essere un contributo filosoficamente rigoroso — di un pensiero che non si sottrae al confronto con la riflessione teologica e con l’esegesi neotestamentaria — al chiarimento di ciò che costituisce nella loro unicità la passione credente ebraica e quella cristiana.
Molto diverse sono state le valutazioni espresse dagli studiosi circa il valore euristico della tesi fondamentale dell’opera, secondo la quale i due «tipi» o «generi» esclusivi in cui si modula la fede — «l’avere fiducia in Qualcuno» e «il ritenere per vero» — sono rappresentati rispettivamente dalla fede ebraica, dalla emunà, e da quella cristiana, che per l’Autore è pístis. Questa dicotomia si presta invero a varî rilievi di natura teologica, filosofica, filologica e storica. Tuttavia, al di là delle critiche che si possono avanzare, il libro resta una testimonianza di grande coraggio intellettuale: Buber pone a confronto ebraismo e cristianesimo a pochi anni di distanza da Auschwitz.
La emunà è per l’Autore testimoniata da figure quali Abramo, Mosè, Giobbe, ed è al fondo della fede di Gesù di Nazaret. Egli vuole porre in rilievo l’essere ebreo di Gesù, la cui predicazione, nel fare appello alla decisione — alla conversione — segue autenticamente la linea tracciata dalla «fede dei profeti». La caratterizzazione vivida che Buber offre della figura del Nazareno costituisce il secondo nucleo fondamentale dell’opera. Il terzo nucleo tematico è dato dal tentativo di rintracciare la genesi della differenza tra le due fedi, gli eventi e le figure storiche all’origine della diastasi tra emunà e pístis. All’inizio della seconda non è per Buber il Gesù storico, che permane nella emunà, ma sono l’evangelista Giovanni e, soprattutto, l’apostolo Paolo.
2. Fede e religione per Buber. Il rapporto tra le religioni storiche
Prima di esaminare più da vicino il modo in cui Buber articola la tesi di fondo di Due tipi di fede, riteniamo opportuno, sulla base di scritti anteriori a questo libro, esporre il nucleo essenziale della riflessione da lui circa la differenza tra fede e religiosità da un lato e religione dall’altro, nonché sul rapporto tra le religioni storiche.
La tematizzazione della differenza tra religiosità e religione in Buber deve non poco, secondo i critici, al pensiero di Georg Simmel, che intende con la prima una «categoria della vita», riferita a una realtà creativa come la vita stessa, e con la seconda una «struttura oggettiva»11che ne costituisce l’irrigidimento, la cristallizzazione. Con questo Autore, peraltro, Buber mantiene, anche molti anni dopo averne seguito i corsi all’Università di Berlino, una corrispondenza epistolare nella quale non mancano i riferimenti al problema del rapporto tra religiosità e religione. In una lettera del 1916, Simmel esprime al suo ex allievo una sua perplessità circa l’interpretazione dello spirito ebraico da lui resa in uno dei Discorsi sull’Ebraismo:12
Anche riguardo alla Sua presentazione della religiosità dell’ebraismo, sebbene sia bella e profonda, ho una riserva; in quanto essa mi appare come l’essenza della religiosità in generale, essa è esistita in tutti i tempi e in tutti i luoghi, non è solidale con alcuna tra le stirpi, con alcuna tra le «religioni», e tutte queste (inclusa l’ebraica) sono, viste da essa, ancora solo religione. Così almeno mi si presenta il rapporto.13
È evidente come la presentazione della religiosità ebraica proposta dai Discorsi sembri a Simmel, come del resto apparirà anche ad altri critici, troppo comprensiva. Va detto che questi, pur di origine ebrea, non si sente legato all’ebraismo come confessione religiosa.
In Buber, la differenza tra religiosità e religione è comunque esplicitata in diversi scritti, sia precedenti che successivi al suo libro più noto, Ich und Du.14 Talora però, come si desume dal contesto, egli usa il termine religione come sinonimo di religiosità. Al significato di quest’ultimo termine, inoltre, tende ad avvicinarsi quello di fede.
In Daniel,15 opera pubblicata dieci anni prima di Ich und Du, egli scrive che «ogni religiosità degenera in religione e Chiesa, quando invece “dell’unico che è necessario” offre una visione dell’aldiquà e dell’aldilà, invece del divenire promette l’avere, invece del pericolo la sicurezza».16 Pur nel linguaggio ridondante di Daniel, espressione del lussureggiante sincretismo che caratterizza l’opera, si lascia cogliere qui un nucleo tematico ricorrente anche nelle opere mature: la critica alla religione come appagamento del bisogno di «sicurezza» proprio dell’uomo. Per Buber, la fede autentica non garantisce «sicurezza» (Sicherheit), ma è camminare nella «ferma fiducia» (Zuversicht) al cospetto dell’Eterno.
Nei Discorsi sull’Ebraismo la religiosità è vista come «l’umano sentimento… dell’esistenza di un assoluto»,17 l’aspirazione a vivere in comunione con Dio, che si traduce in «azione» volta a ricondurre a unità un mondo incompiuto perché diviso, mentre la religione è l’insieme delle usanze e delle dottrine in cui viene a concretarsi in una determinata epoca la religiosità di un gruppo umano. La religiosità è allora il «principio creativo, la religione quello ordinatorio»,18 la prima è «rinnovamento», la seconda «conservazione». Tale caratterizzazione di religiosità e religione richiama alla mente del lettore la distinzione, presente nel pensiero di Henri Bergson, tra lo slancio creatore proprio della religiosità dinamica, che per il filosofo francese è vissuta in pienezza dal mistico, e la funzione di stabilizzazione sociale svolta dalla religiosità statica.19
Quanto agli scritti buberiani della maturità, la contrapposizione semantica tra fede e religione è più significativa di quella tra religiosità e religione. Così, in un discorso tenuto nel 1928 sulla fede dell’ebraismo, Buber vede la religione, anche quella ebraica, come culto, rituale e norma, e la fede, segnatamente quella biblica, come «fedeltà e fiducia» (Vertrauen und Treue).20
Recensendo un libro di un teologo evangelico, lo svizzero Leonhard Ragaz,21 egli si sofferma proprio sui rischi inerenti alla «religione», cui egli contrappone la «Signoria di Dio». Mosè, i profeti, Gesù, hanno inteso un «Regno», ovvero «una condizione del mondo secondo Dio». Un Regno, scrive Buber assentendo a Ragaz, che «anche se la sua più profonda verità non ha il suo luogo nel tempo», deve essere contemplato dall’uomo «nella sua realtà che viene nel tempo».22 Un Regno, non una religione.
In Ich und Du, Buber cerca di dare conto del processo attraverso il quale da una rivelazione si origini una religione, in cui il Dio incontrato come Tu diventa «oggetto» di culto. La religione risponde all’esigenza di dare «una continuità del possesso di Dio nello spazio e nel tempo».23 Nella religione si attua «la storia cosale di Dio, il procedere del-Dio cosa»; si tratta comunque di un «procedere che si allontana dal Dio vivente e vi ritorna». Ognuna delle religioni storiche costituisce pertanto una via.
La distinzione tra religiosità o fede e religione non è sempre ben rilevabile nei saggi inseriti in L’eclissi di Dio. Qui, invero, all’Autore interessa porre l’accento sulla differenza tra fede / religiosità / religione da una parte e filosofia dall’altro. La religiosità è «realtà di fede» (Glaubenswirklichkeit), il vivere nell’orientamento verso l’Assoluto, percepito come «Colui che sta di fronte». La religiosità porta a compimento la dualità di Io e Tu; la filosofia, «opera della coscienza che si rende autonoma e si riconosce tale»,24 si fonda invece sulla dualità di soggetto, essere che si esaurisce nell’osservare e riflettere, e oggetto, cosa che può solo farsi osservare e fare riflettere. É evidente come qui l’Autore si riferisca, con il termine «filosofia», alla tradizione egemone del pensiero occidentale, in particolare alla filosofia ego-logica della modernità. Questa, avvalendosi dei suoi procedimenti astrattivi, perviene non al Dio Vivente, ma al Dio dei filosofi, oggetto della critica di Pascal. Scrive Buber:
Certo Pascal stesso non era un filosofo, era un matematico; e per un matematico è molto molto più semplice che non per un filosofo il distogliersi dal dio dei filosofi. Per compiere veramente questa svolta, il filosofo dovrebbe rinunciare a inserire Dio nel suo sistema concettuale; invece di definire Dio come un oggetto tra gli oggetti anche se il più alto, la sua filosofia, come insieme e nelle sue parti, dovrebbe far convergere su Dio senza trattare di Dio stesso. Ciò però significa: il filosofo dovrebbe riconoscere e confessare che la sua idea dell’Assoluto viene eliminata là dove l’Assoluto vive, là dove l’Assoluto viene amato; poichè l’Assoluto non è più «l’assoluto» sul quale si può filosofare, ma è Dio.25
Buber, pertanto, ammette la possibilità che la filosofia, nel rapporto con la religiosità, segua strade ignote a gran parte del pensiero moderno. Nella prospettiva del «nuovo pensiero», egli crede anzi che la filosofia debba assolvere il compito di «far convergere su Dio», «rimandare a (hinweisen auf) Dio», richiamare l’attenzione dell’uomo sulla «realtà effettiva» della «relazione assoluta», ovvero su quella realtà che è percepita nella fede ed è oltre l’ambito in cui vige la sua sovranità.
Se in altri scritti Buber insiste sulla «immediatezza» del rapporto religioso, nei saggi inseriti ne L’eclissi di Dio egli pertanto pone l’accento sulla sua «realtà effettiva». Ciò riflette l’intenzione di rispondere agli attacchi sferrati dal pensiero moderno alla religione e di confutare tutti i riduzionismi, di tipo sociologico o psicologico, operati nei suoi confronti nei secoli della modernità. Ribadendo appunto la «realtà effettiva» della religione, evidentemente intesa qui nel senso più elevato di religiosità, Buber afferma tra l’altro che essa consiste nel «tenersi saldamente (festhalten) al Dio esistente»:26 è questo, per lui, come vedremo, di uno degli elementi costitutivi della fede ebraica. Non di rado, del resto, ciò che egli afferma in generale riguardo alla religiosità autentica richiama alla mente del lettore, nel suo stesso tenore letterale, ciò che, in altre opere, egli scrive a proposito della fede ebraica.
In uno scritto del 1932, l’Autore si sofferma su ciò che qualifica l’esistenza credente. L’«uomo di fede» è colui che si è «promesso» al Dio che è.27 Egli realizza nella vita l’esclusività del suo rapporto di fede, nel quale Colui cui si è promesso lo «sorregge e custodisce». Quando si parla di «credere» in qualcosa di altro da Dio, aggiunge Buber, si usa il verbo in senso metaforico. La vera fede è reciprocità dialogica da persona a persona.
Ancora, il rapporto di fede non è un «libro di regole» da consultare per sapere che cosa fare in quest’ora; ciò «che Dio mi chiede per quest’ora, lo sperimento in quanto lo sperimento, non prima».28 Questo accade quando, di fronte a Dio, «rispondo di» e «per» quest’ora come della «mia» ora, fino al limite della mia possibilità. Allora odo la Parola «che non è in alcun vocabolario del mondo», la «Parola che è stata parlata ora»29 e che esige la risposta, la mia risposta, che è la «decisione», la scelta di quella azione che mi appare giusta tra le diverse che mi si presentano come possibili. Va detto che lo scritto in esame riguarda in particolare il problema delle scelte che l’uomo di fede può operare in campo politico in un momento particolarmente difficile per la Germania, segnato dall’ascesa di Hitler. Chi «confida» nel Führer, afferma Buber, si può «affidare» a lui, ma non può affidare a lui la sua persona, la sua responsabilità.30 Si può notare come in queste pagine, ancor più che in altre di Buber, fede e vita — intesa questa nella sua integralità — si richiamino vicendevolmente: convertuntur, si potrebbe dire.
In un altro scritto degli anni Trenta, l’Autore afferma che la fede non consiste nel confessare in formule rigide «ciò che si ritiene per vero», ma rimanere aperti al «mistero incondizionato». Ancora, vive la fede chi «regge», chi «resiste (aushält) alla vita con il mistero».31
Vivere nella fede è dunque per Buber «tenersi saldo» (festhalten), «reggere, resistere» (aushalten), «perseverare» al cospetto del Dio vivente. Per qualificare la fede dell’uomo della Bibbia egli usa talora anche il verbo standhalten, «tenere duro, tenere testa».32 Nella fede biblica, egli sottolinea, si rinvengono con una intensità e una purezza non riscontrabili nelle altre religioni storiche gli elementi costitutivi della religiosità autentica.
Per presentare i tratti essenziali della riflessione condotta da Buber sul rapporto tra le diverse religioni storiche, vogliamo riferirci qui ad alcuni scritti inseriti nella raccolta Nachlese,33 dove egli esprime il suo pensiero con esemplare chiarezza, avvalendosi di metafore dall’innegabile efficacia icastica.
L’origine di ogni religione è in una rivelazione; nessuna è verità assoluta, nessuna «è un pezzo di cielo venuto giù sulla terra».34 Ogni religione è verità umana e «rappresenta» il rapporto con l’Assoluto di una determinata comunità umana. Essa è una «casa per l’anima dell’uomo che desidera Dio, una casa con finestre e senza porta».35 Aprendo la finestra, vi entra la luce di Dio; se però si fa una breccia nel muro e si esce all’aperto, si resta «senza casa», circondati da «una luce fredda che non è la luce del Dio vivente».
Appare chiaro come la religione — quale «casa» siffatta — sia al contempo un riparo e un esilio, e come l’uomo formatosi in una determinata comunità religiosa sia, nella sua relazione con Dio, diviso dagli uomini delle altre comunità. Fino alla redenzione del mondo, l’uomo non può essere liberato da tale esilio e condotto nel «comune mondo di Dio». Le religioni, consapevoli di ciò, sono legate nella comune attesa. Possono salutarsi da una casa all’altra attraverso le finestre aperte; non solo, possono anche entrare in relazione l’una con l’altra e chiarirsi l’un l’altra che cosa l’umanità può fare per far sì che la redenzione si approssimi. Tutto questo, però, può essere compiuto da ogni religione restando nella propria casa e mantenendosi rivolta verso la rivelazione da cui ha avuto origine, pronta a riorientarsi verso di questa allorché se ne sia allontanata nel suo processo storico di sviluppo.
Se invece la religione si presenta come ciò che non è, come «meta», allora nasconde Dio. Ogni religione deve, più modestamente, «rinunciare a essere la casa di Dio sulla terra e accontentarsi di essere una casa per gli uomini che, nella stessa intenzione, sono rivolti a Dio», mettersi in ascolto per cogliere quale sia la volontà di Dio per «questa» ora e cercare di «superare i problemi che la contraddizione tra la volontà di Dio e la realtà presente pone».36 In tal modo, le religioni si sentiranno unite nell’attesa della redenzione e nella cura per il mondo non ancora redento.
Per Buber, allora, le religioni possono e debbono rivolgere la parola l’una all’altra. Il loro rapporto «si nutre» del tempo dell’esilio. Ebraismo e cristianesimo, soprattutto, hanno molte cose da dirsi, restando l’uno e l’altro nella propria «casa». Nel corso della storia, il loro rapporto è segnato innanzitutto dalla divisione, dalla contrapposizione, dalla Auseinandersetzung. Questa parola racchiude all’interno della sua area semantica non solo il «raffronto» e la «discussione», ma anche il «conflitto», tutti elementi che, in vario modo, connotano il contrastato procedere delle due fedi nella storia. Soltanto il compimento della redenzione, la realizzazione del «comune mondo di Dio», potrà annullare ogni divisione tra l’una fede e l’altra, trasmutare questa contrapposizione in comunione: allora la Auseinandersetzung lascerà il posto a quella Ineinandersetzung che l’uomo nel tempo dell’esilio può sperare, ma non rappresentarsi nel pensiero.
3. Emunà e pístis
Già nell’incipit di Due tipi di fede, Buber afferma che, prescindendo dalla molteplicità dei contenuti che la religiosità più assumere, esistono soltanto due «generi», due «forme fondamentali» di fede, e precisa:
Ambedue possono essere illustrate partendo da semplici fatti della nostra vita: l’una dal fatto che io ho fiducia in qualcuno, senza ch’io possa «fondare» in maniera congrua la mia fiducia in lui; l’altra dal fatto che io ho riconosco per vero qualcosa, senza che anche qui io possa fondarlo in maniera congrua. In entrambi i casi questo «non poter fondare» indica non già una carenza della mia facoltà di pensare, bensì una caratteristica essenziale del mio rapporto con colui di cui ho fiducia o con ciò che riconosco per vero.37
Per chiarire la realtà che è al fondo dell’uno e dell’altro tipo di fede, Buber ricorre a due «fatti» della comune esperienza: «la fiducia in qualcuno» e «il riconoscere per vero qualcosa». È di immediata evidenza come, se di «rapporto» si tratta nell’uno e nell’altro caso, nel primo si tratta di una relazione con «qualcuno», nel secondo di un di rapporto di tipo noetico con un «qualcosa». Per sgombrare il campo dalle possibili semplificazioni, va precisato che Buber non identifica la prima delle due fedi con l’ebraismo e la seconda con il cristianesimo, ma scrive che la prima è rappresentata meglio dagli ebrei, la seconda dai cristiani. Per l’Autore, il genere di fede che gli ebrei rappresentano è, nella sua essenza, emunà, quello professato dai cristiani viene inteso in modo abbastanza soddisfacente con il termine greco pístis.38
Il lettore è indotto a chiedersi quale sia la metodologia sottesa al ricorso a «fatti» come quelli addotti da Buber per illustrare la realtà profonda dei due tipi di fede. Probabilmente è proprio questo il procedere della «fenomenologia» di Buber, che attraverso l’analisi, la «descrizione» di «fatti» di universale esperienza vuole fare emergere la «forma» — l’eidos — delle realtà, delle «cose» indagate. In Due tipi di fede, egli va direttamente «alle cose stesse» — come direbbe Husserl — quando, già nella prefazione, vuole porre in luce l’essenza stessa dell’esperienza, della passione credente nell’ebraismo e nel cristianesimo. Nel prosieguo dell’opera, brani brevi e densi — in cui l’Autore torna a fissare con pochi tratti tale forma, usando espressioni nuove che richiamano però le precedenti — si alternano ad altri, dal tono più disteso, in cui egli presenta eventi e figure che si muovono nell’orizzonte dell’uno o dell’altro genere di fede. La trama dell’opera viene tessuta da questo continuo richiamarsi vicendevole di tali «fatti» e dell’eidos che in questi viene «illustrato».
Può essere di un certo interesse notare come da un’analisi testuale dell’opera si rilevino soltanto due elementi espressamente attribuiti da Buber ad entrambe le fedi: uno, già visto, è il fatto che non si possono adeguatamente fondare razionalmente, l’altro è il coinvolgimento di tutto l’essere della persona credente nell’atto di fede. Il rapporto di fede è «un rapporto di tutto il mio essere»;39 per quanto nel secondo tipo di fede la funzione noetica svolga un ruolo particolarmente importante, neanche in esso tale funzione è la sola a esservi implicata.
Il secondo tipo di fede è pertanto, secondo l’Autore, un «riconoscere per vero qualcosa» e, allo stesso tempo, «un rapporto di tutto il mio essere». A questo punto, lo studioso si trova davanti a un problema interpretativo di non trascurabile importanza. Mentre il primo tipo di fede si configura senza alcun dubbio come una relazione io-tu (si tratta invero di un rapporto di fiducia, che coinvolge tutto l’essere, con qualcuno), la caratterizzazione del secondo, alla luce delle assunzioni fondamentali del pensiero buberiano, appare problematica.
Ernst Simon ha ravvisato un parallelismo tra la dualità delle «parole fondamentali» (io-tu e io-esso) all’inizio di Ich und Du e quella tra i «tipi di fede» presente nel libro omonimo, dove pertanto la pístis verrebbe considerata alla stregua di un rapporto io- esso.40 Lo studioso aggiunge che tale tesi si potrebbe rovesciare, qualora si considerasse la fede ebraica come rapporto io-esso, poiché presterebbe credito a un «fatto», la rivelazione sinaitica, e la cristiana come «fede in un Tu» ( Du-Glaube) in quanto autentica sequela di una persona, Gesù Cristo. Lo schema ermeneutico proposto da Simon si presta a più di un rilievo critico, in quanto non tiene conto di alcune significative affermazioni dell’Autore, per il quale il genere di fede cristiano è un «riconoscere per vero qualcosa», ma anche, allo stesso tempo, «un rapporto di tutto il mio essere». In quanto rapporto che coinvolge tutto l’essere, si tratterebbe di una relazione io-tu, in quanto «riconoscere per vero qualcosa» o «uno stato di cose» sembrerebbe un rapporto io-esso. Sempre secondo i principi del pensiero dialogico, si può accedere a una relazione con un essere che non è persona, ma allora non lo si riguarda come uno stato di cose. La caratterizzazione del genere di fede cristiano alla luce di tali principi resta un problema di non facile soluzione, la cui insorgenza è forse legata anche alla stessa terminologia, non sempre univoca, usata da Buber. In un passo di Due tipi di fede, ad esempio, egli parla della fede religiosa autentica come rapporto verso «Qualcuno» o «qualcosa» che è in sé Incondizionato.41
Non si può pertanto assentire all’interpretazione di Simon; si può invece affermare che un rapporto di fede, i cui caratteri sono quelli dell’autentica relazione io-tu, può esibire a chi lo consideri dall’esterno — come fa Buber, da ebreo, nei confronti del cristianesimo — alcuni dei tratti propri del rapporto io-esso.42 Vista da chi non ne è partecipe, una fede tende ad assumere il carattere di contenuto mentale, di «atto noetico» o «credenza».43 Al rapporto con Dio, al faccia-a-faccia con l’Eterno vissuto da una comunità all’interno di una fede storica, non ha accesso chi è estraneo a questa, a chi, in altre parole, è «terzo» rispetto a quel rapporto. E Buber, d’altronde, si mostra abbastanza consapevole della profonda differenza tra la comprensione della propria fede e la «considerazione» che dall’esterno si ha della fede dell’altro.44
Non va dimenticato che ogni religione storica, per Buber, trae origine da una rivelazione, anzi da una «rivelazione speciale»,45 che «accade» come un «cooperare» tra uomo e Dio, nel rapporto del primo con il Tu eterno. A meno che egli voglia negare proprio al cristianesimo lo statuto di religione storica — e non vi sono elementi che fondino questa ipotesi — nel cristianesimo stesso, almeno alla sua origine, va dunque ammessa per Buber una rivelazione, evento che «accade» in un rapporto io — tu.
Come abbiamo rilevato, attenendosi rigorosamente al testo di Due tipi di fede, gli unici tratti comuni riconosciuti dall’Autore ai due tipi di fede sono la carenza di una adeguata fondazione razionale e il coinvolgimento del credente nella sua integrità personale. Per il resto, il discorso buberiano procede contrapponendo l’una fede all’altra. Si tratta di una contrapposizione che a ogni capitolo trova motivi per rinnovarsi e che ricorda, per certi versi, i toni netti con i quali, nei Discorsi, l’Autore opponeva l’uomo orientale, in particolare l’ebreo, a quello occidentale, segnatamente il greco, e quindi Gerusalemme ad Atene. Al fondo di tale contrapposizione (Auseinandersetzung, da intendersi anche come Auseinander-setzung, ovvero un «distinguere» e tenere distinta la «posizione» dell’uno da quella dell’altro) vi è la convinzione che, nella realtà ancora prima che nel pensiero, ebraismo e cristianesimo non possano non essere uno di fronte all’altro.
Il «rapporto di fiducia» in Dio, rappresentato dall’ebraismo, «riposa» su un contatto con Colui in cui si ha fiducia; ad esso viene contrapposto il tipo di fede rappresentato dal cristianesimo, che è «rapporto di riconoscimento» che riposa su un atto di «accettazione da parte della mia totalità di ciò che riconosco come vero»:46 Gesù è Risorto dai morti, è il Cristo. Nel primo tipo di fede, il contatto originario porta senza difficoltà all’accettazione; nel secondo tipo il prius è l’accettazione la quale può preludere al contatto. In quest’ultimo, pur attraverso un atto di tipo logico- noetico, l’accettazione, non sembrerebbe quindi precluso l’accesso a una relazione io-tu.
Il contatto all’origine del primo tipo di fede è, scrive Buber, «una prossimità»; in ciò che procede da tale contatto, tuttavia sussiste pur sempre una distanza incolmabile: si tratta per lui di uno dei paradossi della fede ebraica, che afferma la presenza di Dio salvaguardandone la trascendenza, che confida in Colui che è «il lontano-e-vicino».47 In un scritto risalente agli anni Trenta, Buber afferma che uno dei due «punti focali» dell’anima ebraica consiste proprio nella «esperienza originaria che Dio è assolutamente separato dall’uomo, si sottrae assolutamente alla sua comprensione e che tuttavia è presente e rivolto a quest’uomo, incondizionatamente incommensurabile rispetto a lui».48
A differenza che nel suddetto genere di fede — contatto senza alcuna fusione — nell’altro, quello che per Buber è «meglio rappresentato» dal cristianesimo, dalla distanza originaria che l’atto del «riconoscere per vero» comporta, si può giungere, «con l’essere intenzionalmente colto nella cosa riconosciuta», «alla prossimità più intima, anzi persino al sentimento della fusione».49 Il secondo genere di fede, quindi, può sfociare in una esperienza mistica. E non va dimenticato che, negli scritti buberiani della maturità, la relazione religiosa, autentica e accessibile a ogni uomo, non è quella del mistico. Il fatto che per lui il genere di fede cristiano possa sfociare in una mistica non depone quindi nel senso di una sua interpretazione favorevole.
La fede «in senso religioso» è, secondo Buber, uno di questi due generi di fede, il primo, ove il rapporto del credente è con l’Incondizionato in sé. In questo tipo di fede il credente «si trova»: per l’ebreo della Bibbia la fede costituisce condizione originaria e intrascendibile. Egli è nella fede quale membro di una comunità. Una comunità che si è costituita come popolo nella esperienza di fede. Un popolo sorto come comunità di fede, nell’essere interpellato dalla Parola e nel rispondere.
Al tipo di fede rappresentato dal cristianesimo, l’uomo accede invece come individuo in quanto «si converte». Christianus fit, non nascitur: è l’aforisma di Tertulliano che Franz Rosenzweig cita ne La stella della redenzione.50 Nello stesso passo, Rosenzweig nota che, fin dalla chiamata di Abramo, «il singolo viene generato ebreo»: ancora «nei lombi» del Patriarca, egli «ha udito la chiamata di Dio e gli ha risposto con il suo “Eccomi”». L’atto con il quale, di contro, l’individuo diventa cristiano — con il quale, nelle parole di Buber, egli «si converte» — avviene, per Rosenzweig, come «il miracolo della rinascita». Per quest’ultimo, la condizione naturale, originaria, da cui il cristiano proviene, è quella di «pagano».
Quanto a Buber, le due fedi differiscono per lui fin dalle origini. La fede ebraica sorge in alcune tribù nomadi, confluite poi in un popolo, che avevano vissuto le loro migrazioni «come se Dio stesso le avesse guidate».51 Ai suoi primordi, pertanto, vi sono degli eventi storici, vissuti come una esperienza di fede: è il Dio «guida» (malk) a indicare la via. Il singolo ebreo vive all’interno della memoria «oggettiva» che le generazioni custodiscono di tali eventi. La fede del popolo ebreo è allora un «persistere» nella fiducia nel Dio che lo ha scelto tra le stirpi, lo ha guidato nel deserto e ha stipulato l’alleanza con Israele. In quanto il popolo ebreo, e al suo interno il singolo, ricorda, o meglio, «fa memoria» del mistero dell’elezione e dell’alleanza, esso costituisce — nota Buber in un breve scritto del 1932 — una «comunità di memoria» (Erinnerungsgemeinschaft).52 Proprio la memoria comune ha tenuto insieme e conservato questo popolo. L’Autore precisa:
Ciò non vuol dire che noi siamo vissuti a partire da un qualche passato, fosse anche il più nobile; piuttosto, di generazione in generazione si trasmetteva una memoria, che cresceva in comprensività — vi si inscriveva un destino sempre nuovo, un moto del cuore sempre nuovo — si tramutava in forza e agiva organicamente: non come un semplice motivo dell’anima, ma come una potenza che muove, nutre, vivifica l’esistenza stessa. Ritengo di potere dire persino che tale memoria agiva biologicamente: la sostanza ebraica è ciò che si è rinnovato da questa forza.53
Tale memoria è ben diversa dalla «coscienza storica» degli altri popoli: questa si inserisce nella loro vita spirituale e ne costituisce una delle espressioni, mentre la vita spirituale dell’ebraismo è «inserita» nella sua memoria. Israele non comprende la propria storia come una serie di meri accadimenti considerati oggettivamente, ma come «una serie di atteggiamenti essenziali di fronte agli accadimenti» custoditi dalla memoria. Questa non consiste in uno «sguardo all’indietro», in uno struggimento verso ciò che è passato, ma in un effettivo legame tra le generazioni. Presso nessun altro popolo il rapporto tra le generazioni più lontane è intenso e reale come presso quello ebreo. Di ciò che è accaduto ai padri, i figli e i nipoti trasmettono una memoria quasi «corporea» (leibhaft) che, lungi dal costituire una immedesimazione mistica con gli antenati, ha una forza che risveglia, che scuote: è la passione del tramandare,54 che prende ogni figlio di Israele allorché diventa padre.
Diversamente dall’ebraismo, il cui nucleo vitale si perpetua nella memoria e resta estraneo alla missionarietà, il cristianesimo — nota Buber — «comincia come diaspora e come missione».55 La memoria ebraica è forza che attraversa il tempo, la missione cristiana è movimento che travalica lo spazio. Ancor più di Buber, Rosenzweig è andato al fondo di questa differenza tra le due fedi: il cristianesimo è «via eterna, deve espandersi sempre di più».56 Per esso rinunciare alla missionarietà significherebbe rinunciare alla stessa eternità e morire. La missione è per il cristianesimo importante come per l’ebraismo, «vita eterna» lo è «l’autoconservazione», il radicarsi in se stesso, il preservarsi puro «da ogni commistione estranea». Nella prospettiva della Stella, i raggi del cristianesimo «continuano a irradiare finché tutto il mondo esterno ne viene penetrato», il fuoco che arde al centro della stella, l’ebraismo, non si alimenta di altro che di se stesso: «la via cristiana è esternarsi, e espropriarsi di sé e irraggiamento a quanto è più esterno, la vita giudaica è ricordo ed interiorizzazione e un infiammare quanto più è intimo.»57
Da parte sua, Buber scrive che per il cristianesimo la missione non è solo diffusione della fede, ma è «respiro vitale della comunità», in quanto costituisce il «nuovo popolo di Dio».58 All’uomo che sente il bisogno di redenzione, questa viene offerta dal cristianesimo, purché creda che Gesù è risorto. La «conversione» che la nuova fede predica consiste in questo «credere che» / «ritenere-per-vero» ciò che, considerato al di fuori della fede, è assurdo. È quasi, si potrebbe aggiungere, il credo quia absurdum di Tertulliano. La nuova fede, pertanto, non è un «persistere» ma effettuare un «capovolgimento». Essa, secondo Buber, offre al credente qualcosa che risponde insperabilmente alle sue attese, la redenzione, trascurando però una realtà che, per l’ebreo, non può essere dimenticata o elusa: il «non-essere-redento» dell’uomo e del mondo. L’Autore non comprende come l’anima cristiana possa sentirsi come un’«isola» redenta in un mondo siffatto.59 Egli, da ebreo, non ha bisogno di credere che il mondo non è ancora redento: si tratta di una condizione che egli può «percepire».
Già nella prefazione di Due tipi di fede, Buber vuole comunque precisare, quasi prevenendo un’interpretazione troppo riduttiva della visione che ha del cristianesimo, che per lui neanche il secondo tipo di fede si esaurisce nel «ritenere-per-vero». La fede (der Glaube), anche nel suo «genere» cristiano, non può consistere semplicemente in un «credere che» (daß Glauben), in quanto è, nel suo intimo, un «modo di essere».60 La peculiarità di tale fede è costituita secondo lui dal fatto che vi si accede comunque attraverso un atto di riconoscimento del vero che è da considerare una scoperta del pensiero greco. L’elemento che Buber chiama qui «noetico», se non assorbe in sé interamente il secondo tipo di fede, vi assolve allora una funzione insostituibile.
4. Emunà e pístis nella Lettera agli Ebrei
Nel Nuovo Testamento, una posizione particolare occupa per Buber la Lettera agli Ebrei, il cui ignoto Autore segnerebbe il punto di trapasso tra la fede originaria e la nuova. L’interpretazione che l’Autore dà dello scritto si configura pertanto come una «delimitazione»61 di ciò che in esso si situa sul versante della emunà dagli elementi propri della pístis.
La fede è definita nella lettera (Eb 11, 1) come «ferma fiducia circa le cose sperate» e «prova delle cose che non si vedono». Nella sua prima parte, tale definizione rimane per Buber fedele alla emunà, mentre la seconda, esprimendo un «concetto greco di fede»62 avrebbe senso solo all’interno della pístis. La speranza, scrive Buber, diviene nell’uomo biblico «ferma fiducia» proprio «perché egli confida (vertraut) nel Dio che egli “conosce”, con il quale ha familiarità (mit dem er vertraut ist)».63 Anche in tale passo viene posta in rilievo l’immediatezza che caratterizza la relazione dell’ebreo con Dio. È, questo, probabilmente, uno dei brani che possono indurre la critica a rilevare nell’Autore una scarsa attenzione al tremendum che attiene alla relazione con la divinità. La rivelazione di un Dio con il quale si ha «familiarità» sembrerebbe invero mancare di tale connotazione. Per evitare una banalizzazione del senso di questo brano, esso va letto comunque in rapporto ad altri che, nella stessa opera, sottolineano invece la trascendenza, l’assolversi di Dio da ogni sua relazione con l’uomo. Il Dio con cui si ha «familiarità» non è un Dio di cui «si dispone», ma è Colui che si lascia invocare come Tu. Replicando alla critica del filosofo Rudolf Pannwitz, per il quale è «presunzione» umana concepire un rapporto così familiare con la divinità, Buber scrive che il Dio cui si dice «Tu» è il Dio al quale si sta «di fronte», in libertà, nel servizio.64
Poiché vive nell’immediatezza di questa relazione, l’uomo della Bibbia non ha bisogno di prove, di essere convinto dell’esistenza di Dio, come l’uomo del cristianesimo, il quale deve, prima di tutto, «credere che» Dio sia. All’ebreo viene «fatto vedere» che il suo è il Dio fedele, è Colui in cui egli può riporre la sua fiducia. Attenendosi a questo brano, si può ravvisare nella emunà ciò che «accade» tra l’uomo e Dio nella relazione pura. Tale «accadere» esige il concorso della «fiducia» dell’uomo nella «fedeltà» di Dio. La relazione stessa sarebbe, da parte dell’uomo, essenzialmente fiducia, e, da parte di Dio, fedeltà. Per esprimere tale realtà Hermann Levi Goldschmidt, studioso ebreo che ha conosciuto Buber, ha parlato di Vertrauenstreue, letteralmente «fedeltà della fiducia».65
In altri passi di Due tipi di fede, comunque, Buber tende ad accostare «fiducia» e «fedeltà», viste entrambe come connotazioni dell’atteggiamento dell’uomo di fronte a Dio. Il rapporto di Abramo con Dio, ad esempio, «è insieme di fiducia e di fedeltà».66 Nella postfazione al libro, David Flusser, autorevole studioso dell’ebraismo e del cristianesimo primitivo, precisa che, tra gli altri significati del termine emunà, vi è quello di «comportamento derivante da fiducia» o «da fedeltà».67
Che Dio sia, costituisce una realtà indubitabile per l’ebreo; l’insipiente criticato dal salmista non nega tale realtà, nega solo che Dio «sia qui», che si prenda cura dell’uomo. La dicotomia tra fede e incredulità ha senso solo all’interno della pístis cristiana, quale «riconoscimento della verità di un asserto».68 Qui, usando tale espressione, Buber sembra abbandonare la prudenza che pur ha ancora laddove vede in questo «riconoscimento» solo l’atto con il quale si accede alla pístis e tende a ridurre questa a «fede proposizionale», a «credenza» cui restano estranei l’impegno e adesione di tutto l’uomo.69 Proprio interpretando la definizione centrale della Lettera agli Ebrei, lo scritto del Nuovo Testamento in cui a suo giudizio sono compresenti in modo singolare i due diversi generi di fede, Buber esprime la differenza tra l’uno e l’altro in toni più netti che altrove.
Ancora, sottolineando quanto il bisogno di prove dell’invisibile sia estraneo all’ebraismo, Buber nota che l’insipiente di cui parla il salmista70 non è un incredulo ma uno che non «rende effettiva» la propria fede. E, per lui, la fede viene resa effettiva «con tutta la vita di tutto l’uomo, quindi con la totalità dei suoi rapporti concreti, non soltanto in ordine a Dio ma anche in ordine alla sfera mondana a lui assegnata e in ordine a se stesso».71 Anche qui fede non è un «capovolgimento», ma un «persistere», è vivere integralmente la vita autenticamente umana; la fiducia dell’uomo biblico è fiducia nella pienezza stessa della vita. Essa, poiché non è un sentimento, non occupa solo lo spazio dell’interiorità, ma ha bisogno, per esplicarsi, dell’intero spazio dei rapporti di cui l’uomo è partner. Si comprende allora come, per l’Autore, la fiducia nella relazione autentica con il prossimo si fondi sulla fiducia che caratterizza la relazione con il Tu eterno e venga meno con il declinare di questa.
Per Buber, esprime in modo paradigmatico tale fiducia il Giobbe che osa lamentarsi con Dio della sua «apparente assenza» dagli eventi di questo mondo, ma non desiste dal confidare in Lui. Come egli scrive in La fede dei profeti, «Giobbe lotta contro la lontananza di Dio, contro quel Dio che infuria e tace, infuria e “si nasconde”, cioè contro quel Dio che si è mutato per lui in una potenza inquietante».72
Gli amici di Giobbe vivono, per Buber, nella «religione»: da teo-logi, essi credono non nel Vivente, ma in un Essere «ragionevole», «razionale», che lascerebbe all’uomo religioso la possibilità di carpire la logica che è al fondo del Suo operare. Giobbe, invece, pur tentato attraverso le loro parole da tale religione, vive più profondamente che mai nella emunà il paradosso di un Dio «presente» e che purtuttavia «si nasconde» e «inquieta». Dio — proprio il Dio che è «persona familiare» all’ebreo e che in passato non ha fatto mancare il «conforto» della Sua presenza sulla tenda dello stesso Giobbe73 — si rivela a lui come mysterium tremendum. Buber non dimentica la realtà del tremendum nel divino: le critiche mossegli al riguardo andrebbero pertanto accolte con una certa riserva.
Nella prova, Giobbe sa attendere. Tiene duro, resiste, lotta. L’Eterno si manifesterà a lui: Dio è Colui che è Presente, Colui che rivela il Suo nome al suo servo Mosé. Proprio la mano destra di Mosè, levata al cielo per sostenere il suo popolo durante la battaglia contro gli Amaleciti (Es 17, 12) esprime in modo vivido la «costanza» della emunà. Nello studio dedicato al condottiero biblico, Buber scrive anzi che la mano di Mosé «rimane emunà cioè saldezza, fedeltà, finché non viene riportata la vittoria al tramonto del sole».74
5. Emunà, fede in Colui che è presente
Nella sfera della emunà non si danno realtà considerabili assolutamente quali «cose che non si vedono», quelle realtà nella cui prova l’autore della Lettera agli Ebrei fa consistere la fede. Scrive Buber:
Certo, Dio è invisibile; ma senza pregiudizio per la sua invisibilità «egli si dà a vedere», cioè si dà a vedere in manifestazioni che egli stesso trascende e in cui nondimeno appare, e come manifestazioni di tal fatta questo uomo dell’Antico Testamento percepisce — percepisce, non interpreta (erfährt, nicht deutet) — sia certi avvenimenti storici sia certi fenomeni naturali che sconvolgono la sua anima. Il credente del mondo d’Israele si distingue dai «pagani» non per una considerazione più spirituale della divinità, bensi per l’esclusività del suo rapporto con Dio e del suo rapportare a lui tutte le cose. Egli non ha bisogno di essere convinto di ciò che non vede: ciò che vede, egli lo vede nella fede nell’Invisibile.75
È evidente come in questo passo Buber voglia sottolineare la paradossale coincidenza di esclusività e inclusività nel rapporto con il Tu eterno, già affermata in Ich und Du. Se ogni relazione è, in qualche modo, al contempo esclusiva e inclusiva, poiché il tu «riempie la volta del cielo» e «tutto il resto vive nella sua luce»,76 esclusività e inclusività sono «tutt’uno» nella relazione con il Tu eterno. Dio è l’Unico, ed è pur vero che nella relazione assoluta tutto è «compreso»: non si tratta di restare nel mondo o di allontanarsene, ma di andare verso l’Eterno portandogli «ogni essere del mondo».77
Paradossale è, ancora, la fede in un Dio che «si dà a vedere in manifestazioni che egli stesso trascende». Anche qui il pensiero di Buber percorre — per usare una sua espressione, alla cui fortuna ha certamente contribuito il biografo Maurice Stanley Friedman78 — lo «stretto crinale» tra due pericoli opposti: il presentare il Dio della Bibbia come un Essere della cui esistenza bisogna credere e il compromettere la Sua trascendenza.
L’Autore evita il primo scrivendo che Dio si lascia «percepire», letteralmente «sperimentare». La fede biblica vive di esperienza. Essa non sembra postulare l’esigenza di una interpretazione: questa, lascerebbe intendere Buber, è propria della pístis.79
Buber cerca di evitare il secondo pericolo affermando che l’Eterno si assolve dal suo «darsi a vedere», trascende le sue manifestazioni. Dio si rivela, non toglie il velo. La rivelazione è, anzi, infittirsi del velo. Nelle parole di Rosenzweig, se «l’aspetto rivelato di Dio si dischiude in noi, tanto più rimane presso di lui la sua dimensione nascosta».80 Dio, per Buber, «si dà continuamente a vedere… e tuttavia rimane invisibile».81 Nell’interpretazione di quest’ultimo, è al Dio che «si nasconde», e non al Dio «nascosto» delle traduzioni utilizzate dai cristiani, che si riferisce il profeta Isaia nel versetto (Is 45, 15) che tanto ha dato a pensare a teologi e filosofi, ma soprattutto a Pascal.82 Senza il «nascondersi», il rivelarsi di Dio «non sarebbe reale e non avverrebbe nel tempo».83 Interpretando il passo di Esodo riguardante la rivelazione di Dio a Mosè, Buber richiama l’origine del divieto di fabbricare immagini:
Perciò egli è senza immagine; l’immagine lo vincolerebbe a un’unica modalità di rivelazione, gli impedirebbe di nascondersi, per cui egli non avrebbe più il diritto di essere-ogni-volta-lì-come colui che proprio-adesso-è-lì (Es 3. 14), di man ifestarsi come vuole; poiché tale è la natura dell’immagine e questo essa vuole essere, «tu non ti fabbricherai alcuna immagine» (Es 20, 4). Però è con lui, con lui che è-lì-sempre-solo-di-persona, che non diventa mai figura di qualcosa, è proprio con lui che l’uomo d’Israele instaura un rapporto im-mediato ed esclusivo. Questo uomo «lo tiene sempre di fronte a sé» (Sal 16, 8), sa di essere «sempre presso di lui» (Sal 73, 23).84
L’uomo che si è costruito una qualsiasi immagine di Dio e attribuisce a questa un valore persistente, rischia di adorare un idolo. Tale immagine — e ancora di più l’«idea» che l’uomo si fa di Dio, la quale è invero «immagine delle immagini» — si interpone tra la creatura e l’Eterno. Prestando culto alle immagini l’uomo «pagano», in fondo, persegue il folle tentativo di legare Dio a una sola modalità di manifestazione e perde la capacità di riconoscerlo sempre di nuovo a ogni sua rivelazione. Dio resta allora tragicamente «nascosto» a chi disconosce la libertà che Egli si riserva di manifestarsi quando e come vuole e di tornare a «nascondersi».
Sono molti gli scritti in cui, come nel brano riportato, Buber si sofferma sull’interpretazione di Es 3, 14. Negli studi biblici di una certa ampiezza egli vi ritorna in diversi passi. Per lui, la risposta di Dio a Mosè dal roveto (’ehjeh ‘asher ‘ehjeh) non va resa «Io sono colui che sono!» come in diverse traduzioni, a partire dalla Vulgata (Ego sum qui sum). Una traduzione siffatta fa pensare a un Dio che si autodefinisce come «colui che persiste immutabilmente nel suo essere»,85 come «puro Essere», espressione che, com’è noto, ha avuto una storia importante nella metafisica che Luigi Pareyson definisce «oggettiva, ontica e speculare».86
Il verbo dell’autore biblico significa, per Buber, non «essere in sé» inteso astrattamente, ma «accadere, divenire, esserci, esser presente, essere così e così»:87 Dio risponde a Mosè affermando che è e sarà presente come colui che sarà presente. Egli è e sarà con il suo servo, si prende e si prenderà cura del popolo. YHWH «è “colui che è qui”», ossia «non semplicemente dovunque e sempre ma in ogni qui e in ogni ora».88 È questa, per Buber, la rivelazione del nome, del senso segreto della parola — Yah o Yahu, pronome di terza persona: «o, Egli!»89 — con la quale le antiche tribù semite invocavano Dio, attestata da Genesi.
Se nel roveto ardente Dio promette la sua presenza assidua, ma rifiuta di legarsi a determinate forme di rivelazione ben definite, l’uomo potrà quindi invocarlo, non evocarlo, anticipandone la modalità di rivelazione. Il Dio senza immagine è Colui che non si può rendere presente ricorrendo a formule che «agiscano» su di Lui. Nel discorso del roveto, nota Buber, la religione è «demagificata». Inoltre, a partire dalla rivelazione sinaitica, nel popolo di Israele «la certezza della presenza di Dio come qualità propria del suo carattere ha conquistato gli animi delle generazioni».90 Che Dio è il Presente è nella memoria stessa di Israele.
La presenza di Dio — nota Sergio Sorrentino — costituisce il fuoco della religiosità ebraica che Buber presenta in Due tipi di fede. Essa non «depotenzia… lo sforzo umano per la creazione del senso», ma «lo qualifica con un senso ulteriore, imprime in esso il segno della sua presenza, che ne sovradetermina la portata innestandolo in un orizzonte escatologico (Buber preferisce dire messianico)».91 Il «senso umano» viene così illuminato dal «senso della presenza di Dio», il «mondo attinge il suo senso ultimativo da rapporto con il Tu divino, senza minimamente perdere il suo senso umano penultimo, ossia il senso creato dalla relazione personalizzante».92 Le considerazioni dello studioso evidenziano pertanto come nell’ebraismo venga «illustrato» in modo incomparabile il significato dell’espressione che si legge in Ich und Du riguardo alla relazione con il Tu eterno, nel quale si intersecano le linee di tutte le altre relazioni.93
Sull’immediatezza del rapporto che l’ebreo dell’emunà ha con Dio Buber ritorna in vari passi di Due tipi di fede: non di rado la riaffermazione di tale carattere fa da contrappunto alla critica del rapporto di fede così come è visto nella pístis paolina, rapporto in cui tale prossimità va perduta. L’accentuazione che nel suo pensiero ha l’«immediatezza» nel rapporto dell’ebreo con Dio ha suggerito a qualche critico arditi paralleli con la fede di certi personaggi letterari.94 Schalom Ben-Chorin ha parlato al riguardo di «fede senza mediazioni», «più ebrea dell’ebraismo», che pur riconosce forme di «mediazione seminascosta», quali la Torà e Mosè.95
Se Buber ammette che le immagini del divino trovano spazio anche nella religiosità dell’ebraismo, ritiene comunque che esse, per lo più, non inficino l’immediatezza della relazione con l’Eterno, in quanto non assumono carattere persistente e non vengono assolutizzate. L’ebreo può anche serbare nella sua mente delle «immagini» dell’incontro con Dio — le immagini sono anzi all’origine di quel mito che in ogni religiosità autentica è «forma della memoria» — ma sa che esse non predeterminano nulla riguardo alla forma di una possibile nuova rivelazione. Inoltre l’ebreo, proprio perché riconosce l’assoluta libertà divina riguardo a ogni sua manifestazione, non può considerare definitiva alcuna rivelazione. La stessa parola dal roveto ardente gli «rende impossibile assumere qualsiasi evento realizzatosi in un determinato punto della storia come la rivelazione definitiva di Dio».96 Quella parola — espressa al futuro — del Signore, rimanda al di là di ogni rivelazione già avvenuta. Si comprende allora come per Buber l’affermazione da parte della teologia cristiana del carattere definitivo della rivelazione in Cristo, tale da introdurre nella storia una cesura tra un «prima» e un «dopo», si ponga in aperta contrapposizione con questo mistero.
L’ebreo, cui è partecipato il mistero della assoluta libertà divina riguardo alla rivelazione, è libero nei confronti di ogni immagine di Dio, pronto a «riconoscere» l’Uno in ogni sua manifestazione. Riguardo al significato profondo di questo suo atteggiamento, è opportuno riportare quanto Buber afferma in un discorso del 1928:
L’atteggiamento fondamentale dell’ebreo è designato dal concetto di Jichud, di «Unificazione», che viene frainteso in molti modi. Si tratta dell’attestazione incessantemente rinnovata dell’unità divina nella molteplicità delle manifestazioni, e tuttavia intesa in modo del tutto pratico: sempre di nuovo attraverso la percezione e la conferma dell’uomo, di fronte all’enorme contraddittorietà della vita, e specialmente di fronte a quella contraddizione originaria che si manifesta in modo molteplice e che noi chiamiamo dualità di Bene e Male, questa contraddittorietà viene portata non alla contrapposizione, ma all’amore e alla riconciliazione, all’unità, cioè: il conoscere, riconoscere, riconoscere nuovamente l’unità divina. Non solo nella professione, ma nell’adempimento della professione. In nessun modo, allora, nel teorema panteistico, ma nella realtà dell’impossibile, nella realizzazione dell’immagine, nella imitatio Dei. Il mistero di tale realtà si compie nel martirio, nel morire con il grido d’unità sulle labbra, dell’«Ascolta, Israele», che qui diviene testimonianza nel senso più vivo.97
Israele rende la sua testimonianza al mondo vivendo nella prossimità con Colui al quale è «promesso», il Tu esclusivo al quale si rivolge nella preghiera. La fede nell’Unico non si può comunque per Buber — a differenza di Cohen — definire come un «monoteismo». È, questo, solo un elemento di una «visione del mondo», di una Weltanschauung, mentre quella fede è per Israele «realtà originaria». Quando Israele proclama che il «suo» Dio è l’Unico non aderisce a un «monoteismo»,98 ma afferma di essere in rapporto im-mediato ed esclusivo di amore con Colui che non ha immagine: lo ama con tutte le proprie forze, è «interamente» con Dio.
6. Abramo, il «confermato»
Tra le figure bibliche che Buber presenta come testimoni della emunà assume particolare rilievo Abramo, paradigma dell’uomo che persevera, contro ogni speranza, nella fede. In un saggio dedicato al Patriarca, Buber sottolinea la reciprocità della sua relazione con l’Eterno quanto al «vedere»: Dio — proprio il «Dio nascosto da un velo»99- si manifesta al suo servo, si lascia «vedere» da lui, e questi è «visto» da Dio. Ad Abramo è dato di vedere «il cammino di Dio», sulle cui tracce può muovere i suoi passi, Dio vede la «realtà effettiva» del cuore di Abramo e gli dona la sua benedizione. Nella maturità della fede del Patriarca si realizza pienamente la reciprocità di «un vedere e un essere visto insieme».100
Abramo ha fede nel Dio che gli promette una discendenza sterminata (Gn 15, 5-6). Ciò significa — scrive Buber in Due tipi di fede — non che egli creda a una determinata «proposizione» da lui udita, ma che egli confida nel Dio che gli si è già rivelato, che è già entrato in relazione con lui.
Anche Paolo, allorché cita nella Lettera ai Romani Gn 15, 6 basandosi sulla traduzione greca attribuita ai Settanta, presenta Abramo come modello del credente, ma in senso diverso. Sulla scia dell’apostolo, Lutero traduce «Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia».
Buber rende diversamente il versetto di Genesi: Abramo «ebbe ulteriormente fiducia» e ciò «gli fu ritenuto come convalida (Bewährung)»101 da Dio. L’autore biblico, a suo giudizio, vuole esprimere qui «un supplemento di energia in un rapporto essenziale già esistente, che è insieme di fiducia e di fedeltà».102 Come qualche studioso non ha mancato di rilevare, questa interpretazione, sottolineando la continuità del rapporto di fede in Abramo, sembrerebbe sminuire l’importanza di questo momento della sua vita, decisivo per il prosieguo della storia della salvezza.103 Qui l’uomo di fede non guarda indietro, ma in avanti. Secondo tale critica, il verbo ebraico intende la fermezza di un suo atteggiamento, anzi di un suo atto, non il rafforzamento di una relazione preesistente.
Per Buber, comunque, nella relazione tra Dio e Abramo, in virtù della perseveranza del patriarca, non «accade» la «giustificazione» del Patriarca da parte di Dio, ma la «conferma» di Abramo davanti a Dio (in tale lettura, il genitivo è soggettivo piuttosto che oggettivo). La parola Bewährung, secondo Buber, traduce abbastanza fedelmente l’ebraica zedaqà, che è «manifestazione della concordanza tra ciò che si è fatto e ciò che si è inteso fare nella condotta personale di vita».104
Bewährung è pertanto una categoria che assume una particolare pregnanza nel linguaggio teologico — intendendo sempre la «teologia» di Buber come questa vuole essere, ossia come storia della fede — e filosofico dell’Autore. La parola ricorre con una discreta frequenza negli suoi studi biblici e viene per lo più tradotta con parole quali: conferma, prova, inveramento.
Sul piano filosofico, non si può non rilevare l’importanza della Bewährung nel «nuovo pensiero» di Rosenzweig. Rievocando l’amico in uno scritto degli anni Cinquanta, Buber cita proprio il passo dell’articolo programmatico di tale pensiero in cui Rosenzweig scriveva: «… diventa necessario che la nostra verità si faccia molteplice e che “la” verità si muti nella nostra verità. La verità così cessa di essere cio che “è” e diventa ciò che vuole essere confermato come vero».105 Non ha senso, nel nuovo pensiero, una verità che non sia «verità per qualcuno». La conferma, l’inveramento della verità diviene per Rosenzweig il concetto fondamentale della nuova gnoseologia, prendendo il posto occupato nella vecchia «dalla teoria della coerenza interna e dalla teoria dell’oggetto».106 La nuova gnoseologia stabilisce pertanto un ordine d’importanza delle verità che, in senso ascendente, va da quelle matematiche, di carattere «statico», a quelle la cui «dimostrazione» (o, forse meglio, «conferma») non può prescindere dall’«impegno della vita di tutte le generazioni». Per il nuovo pensiero, queste ultime verità non vanno colte con un atto logico, ma con l’atto vitale che è appunto la Bewährung. L’assonanza di questa parola con Wahrheit, «verità», rimanda evidentemente a una comune etimologia. Il termine dell’antico tedesco waar, come il latino verus, deriva, nel senso di «degno di fiducia», dalla radice indogermanica uer, «dimostrare favore, amicizia». Parole derivate dalla stessa radice designano, nell’antico e nel medio tedesco, «contratto, fedeltà».107 Si comprende come, anche sul piano etimologico, la parola scelta da Buber al posto di «giustizia» richiami i caratteri fondamentali della emunà, la fiducia e la fedeltà.
Buber adopera con piena convinzione la parola «conferma» per qualificare la maturità di fede di Abramo. Tale scelta linguistica evita, a suo avviso, il giuridicismo delle traduzioni correnti, sulle quali si erge l’edificio della «dottrina della giustificazione» costruito dalla teologia cristiana, e in particolare da quella evangelica, nella quale si situano gli autori più familiari a Buber, che si richiamano a un Paolo filtrato attraverso Lutero. La traduzione di quest’ultimo è per Buber funzionale a una fede che mette in ombra, nella relazione con Dio, il ruolo dell’uomo, la cui spontaneità viene sostanzialmente negata o ridotta ad un atto di «riconoscimento» di una verità. La «giustificazione» gli sembra scendere dall’alto sull’uomo, purché questi «creda che» Dio lo giustifica. La responsabilità dell’uomo apparirebbe, nella traduzione di Lutero, come messa in disparte.
La traduzione di Buber, al contrario, vuole dare adeguato rilievo al ruolo che la volontà e l’agire dell’uomo hanno nel rapporto di fede, evidenziando che non è tanto Dio a confermare l’uomo, quanto l’uomo a confermarsi davanti a Lui, a dimostrarsi, nella perseveranza della fede, «degno di fiducia». Dio gli «riconosce» allora la «conferma». La realtà dell’azione che ognuno dei due partner esplica nei confronti dell’altro, in altri termini la paradossale reciprocità dialogica attribuita dall’Autore al rapporto di fede, sarebbe così salva. In sintesi, la «conferma», e non la «giustificazione» della teologia cristiana, esprime per lui la realtà stessa della relazione pura e la dignità di entrambi i partner, compromessa invece dalla visione che la teologia cristiana, a partire da Paolo, ha dell’atto di fede.
A giudizio di Buber, infatti, la traduzione greca della Scrittura, citata da Paolo, opera uno slittamento semantico, un cambiamento di significato che in questo caso è anche un impoverimento, riguardo alla fede di Abramo. Per Paolo, questi non crede «in» Dio, nel senso di un perseverare in lui, «ma crede a Dio».108 Dio lo «giustifica», gli «imputa» la giustizia, mera correttezza del suo comportamento. In Paolo, la fede è agire di Dio nell’uomo, che lo dichiara giusto: una paradossale interpenetrazione mistica di un partner nell’altro subentra al faccia a faccia della fede biblica, camminando nella quale l’uomo «si conferma».
L’umanesimo biblico, del quale Buber è fautore, vuole educare a «tenere testa» (standhalten) alla «problematica del momento» senza fuggire dalla concretezza del mondo, educare appunto alla «conferma».109 «Reggere, tenere testa», è, come abbiamo visto, atteggiamento che per lui caratterizza l’uomo di fede, di qualsiasi confessione religiosa, e segnatamente l’uomo dell’ebraismo. Anche al riguardo, le espressioni che l’Autore usa in alcuni scritti per qualificare la fede in senso assoluto e quelle che in altri sono riferiti alla emunà si sovrappongono. Confrontando gli uni agli altri si ha talora l’impressione che l’interpretazione della fede dell’ebraismo sia in Buber troppo comprensiva. Paradossalmente, l’ebraismo passato al vaglio costituito dallo stesso uomo e dallo studioso Buber, pur trattato in modo selettivo — il giudaismo di stampo ellenistico, ad esempio, non vi è adeguatamente considerato — assume, in fondo, i caratteri di quella che per lui è la fede in senso assoluto. Così un visione alquanto selettiva dell’ebraismo finisce, per altri versi, con l’essere troppo comprensiva. Forse il rilievo mosso da Simmel a Buber, riguardo alla sua interpretazione della religiosità ebraica nei Discorsi sull’Ebraismo, costituisce anche la critica più importante cui presta il fianco la visione dell’ebraismo proposta molti lustri più tardi in Due tipi di fede.110
Non altrettanto si può dire dell’interpretazione del cristianesimo data nell’opera, dove pertanto si fronteggiano un ebraismo colto sostanzialmente nei suoi tratti più veri e un cristianesimo tendenzialmente interpretato come un «credere- che» o, comunque, quale fede cui solo un «ritenere- per- vero», non un atto di fiducia, dà accesso.
Lo stesso Buber avverte la difficoltà insita in uno studio come quello da lui condotto, allorché riconosce che, come nella storia delle altre fedi, così in quella del cristianesimo vi è qualcosa che può essere conosciuto soltanto a partire dal cristianesimo e afferma di essersi pertanto accostato a tale realtà «solo col profondo imparziale rispetto di colui che ascolta la parola».111
7. La emunà di Gesù, la pístis di Paolo
Paragonando i due generi di fede, Buber fa riferimento per il primo, oltre che all’Antico Testamento, ai documenti del Talmud e del Midrash — la cui origine è nel fariseismo, movimento che appartiene, come egli sottolinea, al nucleo più autentico dell’ebraismo — e per il secondo agli scritti del Nuovo Testamento. Per l’Autore, inoltre, «Gesù e il fariseismo sono sostanzialmente omogenei»,112 vivono fedeli alla emunà, mentre nel Giudaismo ellenistico, che resta al margine del suo studio, si infiltrano elementi della pístis. Alla diversità dei due tipi di fede sono strettamente connessi i loro diversi contenuti.
Tra i libri del Nuovo Testamento, Buber distingue in modo alquanto netto i Vangeli sinottici, per lo più fedeli al Gesù storico, tanto da attestarne la emunà nella linea della fede profetica, dagli altri scritti — l’Autore menziona in particolare il Vangelo di Giovanni e le lettere di Paolo — che documentano l’affermazione della nuova fede, la pístis, al posto della emunà. Giovanni e Paolo sono sostanzialmente inattendibili riguardo al Gesù storico e testimoniano che il processo di divinizzazione del Nazareno si è ormai compiuto.
La ricerca condotta in Due tipi di fede, considerando ebraismo e cristianesimo nel loro essere uno-di-fronte-all’altro, non può eludere il problema dell’identità di Gesù di Nazaret. In vari capitoli del libro, l’esegesi di un passo dei Vangeli offre a Buber l’occasione per illustrare la emunà del Nazareno. Attraverso questa egli conduce sempre più a fondo la sua indagine volta a cogliere la realtà vivente dell’ebraismo. Poiché la fede di Gesù è la emunà giunta a un grado straordinario di purezza, solo un ebreo può comprenderla adeguatamente. Il cristiano non ha un rapporto con Gesù se non tramite la mediazione — a giudizio dell’Autore pericolosamente fuorviante — costituita dalla teologia di Paolo e di Giovanni. L’esperienza (Erfahrung) di Gesù è accessibile all’ebreo,113 il cristiano dispone invece di una interpretazione (Deutung) teologica il cui contenuto è il Cristo, non il Gesù reale. Buber arriva talora ad affermare, senza intento ironico, che si tratta di un Cristo nel quale lo stesso Gesù non avrebbe creduto.114
Già in Ich und Du, Buber si era interrogato sulla figura di Gesù, in particolare nelle pagine in cui aveva tracciato la distinzione tra persona, manifestazione dell’«io della parola fondamentale io-tu»115 e individualità, che manifesta invece l’io del rapporto io-esso. In tale prospettiva, l’uomo è tanto più persona quanto più forte è l’io della relazione io-tu. In Gesù, la persona si esprime pienamente: il suo «dire io» è «potente, fino a soggiogare».116 È l’io che, nell’immediatezza della relazione assoluta¸ può chiamare padre il Tu eterno, l’io che si comprende come «niente altro che figlio».117 E, in ogni relazione con un tu umano, Gesù è persona che permane nell’amore, pur nella diversità dei sentimenti che prova nei confronti dei suoi interlocutori, testimoniata dai Vangeli.
In Due tipi di fede, l’Autore scrive di guardare «con uno sguardo più intenso e più limpido che mai»118 a Gesù, che ha sempre considerato come un «fratello maggiore». Che ogni ebreo sia fratello di Gesù è per lui una verità fin troppo evidente; ciò che costituisce per lui un problema è comprendere un «dato di fatto della massima serietà»,119 ossia il fatto che il cristianesimo consideri questo suo fratello come Dio e Redentore, che creda in lui, mentre egli, da ebreo, può credere come lui, con lui.120
La riflessione di Buber intende riportare alle origini ebraiche il Nazareno, «andare a riprendere» Gesù, come ha rilevato il teologo Eugen Biser, che ha parlato al riguardo di una Zurückholung Jesu.121 Il profetismo e — sebbene in misura minore — il fariseismo costituiscono le due chiavi ermeneutiche di cui egli si avvale per comprendere l’uomo Gesù. Nella sua ricerca, l’Autore si confronta comunque, più che le opere scritte da autori ebrei sulla figura di Gesù, con gli studi di alcuni teologi evangelici, in particolare di esegeti del Nuovo Testamento che risentono, in qualche misura, dell’indirizzo impresso alla teologia riformata da Martin Kähler. Tra tali autori, il più citato in Due tipi di fede è Rudolf Bultmann.122 Se questi, focalizzando la sua attenzione sul Cristo del kerygma, può negare carattere storico alle narrazioni evangeliche di miracoli, visti come retroproiezioni della luce irradiata dalla Pasqua, Buber non può ritenere attendibile tutto ciò che i Vangeli riferiscono a Gesù qualora debordi dai limiti dell’umano. Nell’interpretazione del testo dei Vangeli, talora Bultmann e Buber procedono pertanto in concordia discors: il primo tende a espungere da quanto vi è narrato gli eventi straordinari, per riferirli al Cristo kerygmatico, il secondo tende a considerarli una successiva elaborazione teologica che risente di elementi gnostici. Tale elaborazione, giunta a compimento in Giovanni e in Paolo, nei Sinottici apparirebbe in brani che Buber ritiene si lascino riconoscere in quanto introducono un elemento di discontinuità in una narrazione che presenta sostanzialmente il Gesù della emunà, un uomo che ha un’elevata coscienza di sé, ma che non si considera Dio e non invita affatto coloro che lo seguono a credere nella sua divinità. Allorché Gesù esorta i discepoli ad «avere fiducia», non vuole che essi confidino in lui, ma che si aprano, senza esitazioni e senza mediazioni, al rapporto con Dio, alla relazione che è dialogo con il Tu eterno nulla interposita natura.
La predicazione di Gesù viene si inserisce per Buber nella storia delle interpretazioni della Torà interne all’ebraismo. Anche il Discorso della montagna va situato sullo sfondo della «visione veterotestamentaria della connessione tra amore di Dio a amore degli uomini».123 Ciò che Gesù afferma riguardo al comandamento dell’amore costituisce comunque un «completamento»124 della fede di Israele. Quanto egli dice sull’amore verso i nemici è collegato alla fede degli ebrei eppure «la supera»,125 «desume la propria forza irradiante dal mondo giudaico nel cui contesto si colloca e che sembra contestare; e, beninteso, lo supera in luminosità».126 Si tratta di ammissioni fuggevoli, che sembrano prospettare la possibilità di un’ulteriore ricerca sulla figura di Gesù nella quale tuttavia Buber non si inoltra. Tali ammissioni costituiscono dei punti in cui la fitta trama del discorso buberiano, intento a suffragare con vari raffronti testuali la sostanziale continuità della fede di Gesù con quella dell’ebraismo coevo, sembra allentarsi, quasi sfilacciarsi. Si tratta di espressioni che rimandano a una discontinuità tra Gesù e l’ebraismo, e che segnano allo stesso tempo una discontinuità nell’argomentare di Buber, quasi un disdire quanto detto immediatamente prima e dopo. Emil Brunner ha scritto che si tratta probabilmente delle «estreme approssimazioni alla fede in Cristo possibili a un ebreo che vuole restare fede alla propria religione».127
Gesù si è compreso per Buber quale uomo di fede che cammina sulla via tracciata dal «servo sofferente» del Deuteroisaia e, negli ultimi giorni della sua vita, ha acquisito la consapevolezza di essere il «figlio dell’uomo» della visione di Daniele (Dn 7, 13). L’evangelista Giovanni farà di quest’uomo il Figlio unigenito, Paolo di Tarso ne parlerà come del mistero nascosto in Dio e rivelato negli ultimi tempi. Nel trapasso da un genere di fede all’altro — dall’avere fiducia in Dio al credere in Gesù — il guadagno conseguito, «la più sublime di tutte le teologie»,128 è stato pagato con «la perdita dell’atteggiamento dialogico semplice, concreto, legato alla situazione»129 testimoniato dall’uomo della Bibbia e dallo stesso Gesù. Nella pístis paolina e giovannea il rapporto dell’uomo con il divino è privo di quella spontaneità e di quella creatività che caratterizzano l’ebraismo. Per la fede dei profeti, Israele, scelto quale «servo» per una missione da compiere nella sofferenza, è «testimone»: qui è l’uomo a rendere testimonianza a Dio. Nel cristianesimo, scrive Buber, tale concezione lascia il posto «a quella del Dio che soffre per amore dell’uomo».130 La nuova fede sembrerebbe pertanto promuovere un misterioso transfert della sofferenza dalla creatura a Dio: se il mistico cristiano soffre fino alla stimmatizzazione, ciò avviene in virtù dell’immedesimazione — della Einselbstung — nel suo Signore. Il primo genere di fede è invece relazione im-mediata con l’Eterno, nulla sa di una siffatta im-medesimazione.
Per quanto riguarda in particolare il più energico promotore della nuova fede, Paolo, la sua forte personalità dà a pensare a Buber già al tempo dei Discorsi sull’Ebraismo, dove scrive tra l’altro che l’opera dell’apostolo ha prodotto la «rifrazione dell’Ebraismo nella sua trasmissione ai popoli»,131 attuata al prezzo di una profonda alterazione della fede biblica. In Due tipi di fede, l’Autore si sofferma, più che sulla personalità di Paolo, sulla soteriologia che questi prospetta, segnata da un’irriducibile antinomia tra «fede» e «legge». Mentre Gesù aveva predicato il ritorno all’intenzione originaria della legge, che l’uomo poteva e doveva integralmente osservare, Paolo afferma che la legge non può essere adempiuta in tal modo. Gesù aveva respinto ogni tendenza alla divinizzazione, Paolo lo presenta come il Signore. Nella predicazione di Gesù, la conversione è teshuvà, forza che cambia realmente il mondo, poiché si esplica nello spazio dialogico della relazione, dove accade ciò che è significativo per l’uomo, nelle parole di Paolo essa è metánoia che fissa l’attenzione del credente verso «le cose di lassù». Se Gesù aveva predicato la conversione, principio dinamico di nuovi eventi nella relazione tra uomo e Dio e quindi nella storia, Paolo, rivolgendosi ai credenti della pístis, afferma che l’unico modo di sfuggire all’ira divina che incombe su un mondo votato alla morte è la fede in Gesù. Questi indicava ai suoi discepoli la possibilità di un nuovo inizio nella conversione in vista del compimento di questo mondo, del mondo che Paolo ritiene invece prossimo alla fine. Seguendo Paolo, non Gesù, il cristiano è allora per Buber all’«uscita dalla storia»:132 non ne è partecipe, né vuole avervi parte, poiché la sua speranza è rivolta a un altro mondo. Il cristiano vede pertanto la redenzione come oltrepassamento (Überwindung) del mondo, l’ebreo come suo compimento, come Vollendung133 che, come Rosenzweig pone in rilievo, è in realtà voll-Endung, «piena fine», l’unica vera fine.
Per Paolo il mondo è, più che campo di lotta di forze contrarie — come per il profetismo e per Gesù — un eone dominato da potenze malvagie. In sintesi, se Gesù è considerato da Buber sullo sfondo del profetismo e della cultura religiosa dei farisei, Paolo viene da lui messo in rapporto con l’apocalittica e la cosmologia gnostica. L’adozione di tale linea interpretativa allontana l’Autore da quegli studiosi che, pur riscontrando nelle lettere paoline la presenza di una terminologia mutuata dal pregnosticismo o dallo gnosticismo, ritengono che il suo pensiero, nei suoi tratti caratterizzanti, non sia assimilabile né al primo né al secondo.
Per Buber, la pístis paolina informa largamente l’atteggiamento dei cristiani riguardo al mondo e alla storia, segnatamente in alcune epoche che egli denomina appunto «paoline». Quella in cui scrive è quanto mai segnata dal «paolinismo»:134 nella crisi spirituale in cui versa la civiltà occidentale, nell’ora dell’«eclissi di Dio», molti cristiani avvertono tragicamente un senso di impotenza di fronte al mysterium iniquitatis che permea la storia e si aggrappano con tutte le loro forze alla fede nel Mediatore, in colui che tornerà alla fine dei tempi.
L’Autore individua invero nella radicalizzazione di alcuni tratti della fede paolina, ma anche di quella di ascendenza giovannea — i tratti che per lui sono i più lontani dalla religiosità autentica — un processo storico di primaria importanza, che è correlato in modo significativo con la genesi della crisi spirituale in cui versa l’uomo occidentale. Per Buber, l’«immagine» del Figlio creata dalla teologia giovannea e paolina, lungi dal «rivelare» all’uomo la misericordia del Padre, si interpone tra Dio e l’uomo, precludendo a questi l’immediatezza della relazione che è propria della religiosità autentica. Inoltre, la dicotomia instaurata dal pensiero di Paolo tra vita e spirito, natura e soprannatura, ha creato le premesse per una visione del mondo, ampiamente diffusa nella cultura dei paesi nei quali si è affermato storicamente il cristianesimo, per la quale la realtà storica e cosmica sono consegnate, dal volere di un Dio «nascosto», in balìa di forze cieche e tiranniche. Il cristiano, pertanto, credendo vana ogni azione volta a incidere positivamente sulla situazione presente, non può che aggrapparsi con tutte le sue forze al Mediatore, che verrà a salvarlo dall’ira divina alla fine dei tempi. Qui la critica alla pístis si intreccia strettamente con quella dei fondamenti di una cultura che ha condotto fino alla «eclissi di Dio». Alcune pagine di Due tipi di fede si possono pertanto annoverare tra i più tardi contributi all’amplissima letteratura relativa alla crisi spirituale vissuta dall’Europa in seguito alla prima guerra mondiale. Non vi mancano peraltro cenni a un possibile percorso volto al superamento della crisi, nel quale è di fondamentale importanza il contributo reso dall’uomo della emunà con la testimonianza della sua fede.
Questi, anche nell’epoca dell’«eclissi», persevera nella fiducia in Dio, permane nella relazione immediata con l’Eterno. Nelle tenebre dell’ora, la differenza tra le due fedi si radicalizza, ed è chi vive nella emunà a testimoniare la fede autentica, la forza che salva. Per Buber, l’immediatezza della relazione assoluta è possibile anche all’uomo della pístis, purché volga le spalle agli eccessi del paolinismo e comprenda che la sua fede può autenticarsi — «confermarsi» — solo nell’impegno in questo mondo.
Buber, tuttavia, non può non notare come anche l’ebraismo, nell’epoca in cui scrive, viva una sua crisi, pur diversa da quella che attraversa il cristianesimo: una fede come la emunà, nella quale la religiosità del singolo è così profondamente legata a quella del suo popolo, risente del declino delle comunità tradizionali. E la crisi è, per l’ebraismo come per il cristianesimo, momento di discernimento e di giudizio, poiché chiama entrambi a intraprendere un profondo rinnovamento e a perseguire con coraggio la via del dialogo. Nelle epoche più drammatiche della storia le due fedi hanno più che mai bisogno l’una dell’altra e la «contrapposizione» tra l’una e l’altra si deve fare «parola».135
Nella chiusa di Due tipi di fede, Buber scrive che se ebraismo e cristianesimo affronteranno il rinnovamento necessario per superare la crisi, il primo «mediante una rinascita della persona», il secondo «mediante una rinascita dei popoli»,136 si diranno l’un l’altro cose assolutamente nuove. Qui l’Autore è estremamente discreto, non va oltre queste affermazioni molto generali. Ma queste poche parole invitano a un’ulteriore riflessione circa il bisogno che ebraismo e cristianesimo hanno l’uno dell’altro. Come ha scritto Eugen Biser, nell’atteggiamento dialogico l’ebreo apprende dal cristiano quell’«elemento personale», che per il teologo è espresso originariamente nella domanda fondamentale che attraversa la vita di Gesù, quella sul mistero della sua identità. Il cristiano apprende invece dall’ebreo «quell’ancoraggio vitale» della fede alla vita di una comunità «senza il quale egli non la può mantenere durevolmente».137
Pertanto, in Due tipi di fede, Buber, dopo aver correlato strettamente l’egemonia di una cultura debitrice alla pístis paolina e l’insorgere dell’«eclissi di Dio», sembra riconoscere al cristianesimo delle risorse che possono venire in aiuto all’uomo in difficoltà, persino all’uomo della emunà, se è vero che neanche l’ebraismo resta estraneo al travaglio epocale. Invero, quando l’egemonia del rapporto io-esso interdice la relazione immediata con il prossimo e con l’Eterno, rendendo l’altro uomo «cosa» tra le cose e oscurando la luce di Dio, le due diverse tradizioni culturali dell’ebraismo e del cristianesimo possono concorrere a delineare una via di salvezza per l’uomo in crisi: la prima, sottolinea Sergio Sorrentino, afferma «la presenza di Dio quale segno qualificante della vita del mondo», la seconda promuove «la personalizzazione dei rapporti».138 La risposta al disagio dell’uomo occidentale non può giungere allora da una sola delle due fedi, ma dal dialogo dell’una con l’altra.
-
M. Buber, Gottesfinsternis. Betrachtungen zur Beziehung zwischen Religion und Philosophie, Manesse Verlag, Zürich 1953, già pubblicato in inglese nel 1952. Edizioni italiane: L’eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, Comunità, Milano 1961, 1983; Mondadori 1990 Cfr. M. WEINRICH, Gottesfinsternis. Die bleibende Anfrage Martin Bubers an uns, in «Evangelische Theologie», 1 (genn-febbr.)/ 83, pp. 65-80. ↩︎
-
M. Buber, Zwei Glaubensweisen, Manesse Verlag, Zürich 1950; nuova edizione: Lambert Schneider, Gerlingen 1994. Traduzione italiana: Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, curata da Sergio Sorrentino, con Postfazione di David Flusser, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1995. Indicheremo qui l’edizione italiana con la sigla Dtf. ↩︎
-
Per una bibliografia essenziale circa i rapporti tra ebrei e cristiani nella prima metà del Novecento: R. Fabris, «Ebrei e cristiani nel mondo contemporaneo», in AA.VV., Storia della Chiesa, iniziata da A. Fliche e V. Martin, vol. XXIII (1922-1958), Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, p. 517. ↩︎
-
«… ho anche conosciuto Romano Guardini, che nel discorso mi si avvicinò molto, ma nella conferenza si ritrasse di nuovo nella lontananza della mentalità chiesastica garantita (gesicherten Kirchlichkeit)»: lettera del 9 dicembre 1922 a Friedrich Gogarten, in M. Buber, Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten, a cura di Greta Schaeder, Lambert Schneider, Heidelberg 1972-5, vol. II, p. 144. Dei tre volumi del Briefwechsel è stato tradotto in italiano, e parzialmente, solo il secondo: La modernità della parola. Lettere scelte 1918-1938, Giuntina, Firenze 2000. ↩︎
-
M. Buber, «Die Brennpunkte der jüdischen Seele», discorso pronunciato a Stoccarda nel 1930, in occasione di un convegno di studi organizzato da una delle società per la Judenmission. Il testo è riportato in ID, Der Jude und sein Judentum. Gesammelte Aufsätze und Reden, Joseph Melzer, Köln 1963, pp. 201-211 e in AA.VV., Christentum aus jüdischer Sicht. Fünf jüdische Denker des 20. Jahrhunderts über das Christentum und sein Verhältnis zum Judentum, a cura di F.A. Rothschild, Institut Kirche und Judentum, Berlin/ Düsseldorf 1998, pp. 134 -142. ↩︎
-
M. Buber, «Zum Abschluß» (1961), riportato in AA.VV., Christentum aus jüdischer Sicht, cit., p. 166. ↩︎
-
Id., «Kirche, Staat, Volk, Judentum» (1933), in Der Jude und sein Judentum…, cit., p. 561. ↩︎
-
Ernst Simon fu pedagogo e storico della letteratura, negli anni Venti vicino a Buber e Rosenzweig e redattore della rivista Der Jude. ↩︎
-
S. Ben-Chorin, Zwiesprache mit M. Buber. Ein Erinnerungsbuch, List Verlag, München, p. 85. ↩︎
-
M. Buber, «Prefazione» a Dtf, p. 65. ↩︎
-
H. Kreß, Religiöse Ethik und Dialogisches Denken. Das Werk Martin Bubers in der Beziehung zu George Simmel, Verlagshaus Gerd Mohn, Gütersloh, 1985, p. 14. ↩︎
-
M. Buber, Reden über das Judentum, Rütten & Loening, Frankfurt a. M. 1923. Traduzioni it.: Sette Discorsi sull’Ebraismo, Israel, Firenze 1923; Carucci, Assisi-Roma 1976; Discorsi sull’Ebraismo, Gribaudi, Torino, 1996 (traiamo le citazioni da quest’ultima edizione). ↩︎
-
Lettera del 10 aprile 1916, in Id., Briefwechsel I, cit., pp. 426-7. ↩︎
-
Id., Ich und Du, 1ª ed. Insel-Verlag, Leipzig 1923. Traduzione italiana: Io e Tu, riportata in Il principio dialogico e altri saggi, con introduzione di Andrea Poma, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1993, pp. 57- 157. ↩︎
-
Id., Daniel. Gespräche von der Verwirklichung, Insel Verlag, Leipzig, 1913 (per la citazione, ci basiamo sul testo riportato in Werke, Kösel und Lambert Schneider, Heidelberg 1962-4, I. Schriften zur Philosophie, pp. 9-76). ↩︎
-
Ibidem, p. 40. ↩︎
-
Id., «Religiosità ebraica», in Discorsi…, cit., p. 71. ↩︎
-
Ibidem, pag 72. ↩︎
-
H. Bergson, Le deux sources de la morale et de la religion, Paris 1932, trad. it. Le due fonti della morale e della religione, Comunità, Milano 1974; Laterza Bari 1995. Vedi, in particolare, i capp. terzo, «La religione statica», e quarto, «La religione dinamica». ↩︎
-
M. Buber, «Der Glaube des Judentums», in Der Jude und sein Judentum…, cit., p. 187. ↩︎
-
Id., «Religion und Gottesherschaft», ora in Nachlese, Lambert Schneider, Heidelberg 1965, pp. 102-106. Il libro recensito è L. Ragaz, Weltreich, Religion und Gottesherrschaft, Rotapfel Verlag, Erlenbach-Zürich 1923. ↩︎
-
Ibidem, p. 105. ↩︎
-
M. Buber, Io e Tu, cit., p. 141. ↩︎
-
Id., «Religione e filosofia», in L’eclissi di Dio…, cit., p. 42. ↩︎
-
Id., «L’amore per Dio e l’idea di Dio», ibidem, p. 57. Cfr. E.L. Fackenheim, «Buber’s Concept of Revelation» in AA.VV., The Philosophy of Martin Buber, Paul Arthur Schilpp and Maurice Friedman edd., Open Court, La Salle (Illinois) 1967, pp. 273-296 (edizione più ampia di quella tedesca, pubblicata, con il titolo Martin Buber, da Kohlhammer, Stuttgart 1963). ↩︎
-
M. Buber, L’eclissi di Dio, cit., p. 121. ↩︎
-
Id., «Zur Ethik der politischen Entscheidung» (1932), in Nachlese, cit., p. 234. ↩︎
-
Ibidem, p. 235. Si può rilevare come qui il verbo «sperimentare» (erfahren) non sia più riferito all’esperienza obiettivante del rapporto io-esso (come, dieci anni prima, in Ich und Du: vedi alla p. 60 della citata edizione italiana), ma, all’estremo opposto, al rapporto con il Tu eterno. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem, p. 237. ↩︎
-
M. Buber, «Die Vorurteile der Jugend», discorso tenuto nel 1937, in Hinweise…, cit., p. 114. ↩︎
-
Id., Dtf, cit. p. 77 (p. 31 della 2ª ed. tedesca). ↩︎
-
Id. «Fragmente über Offenbarung», in Nachlese, cit., pp. 107-112. ↩︎
-
Ibidem, p. 110. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem, p. 111. ↩︎
-
Id., Dtf, p. 57. ↩︎
-
Nel libro, l’Autore non fa riferimento al significato del termine nella tradizione filosofica, dove ha assunto, a partire dai presocratici, varie accezioni. La più nota è quella in cui esso ricorre nella Repubblica di Platone, dove la pístis designa uno dei quattro gradi di conoscenza, la «credenza» che riguarda gli oggetti sensibili nella loro realtà (Rep., VI, 511 d-e). Cfr. la voce pístis in Les notions Philosophiques. Dictionnaire, PUF, Paris 1990, tome II, pp. 1959 -60. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 58. ↩︎
-
E. Simon, Angst und Vertrauen bei Martin Buber, in AA.VV., Leben als Begegnung. Ein Jahrhundert. Martin Buber (1878-1978). Vorträge und Aufsätze, pubblicato a cura dell’«Institut Kirche und Judentum» presso la «Kirchliche Hochschule», Berlin 1978, pp. 28-41. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 59. L’incertezza sul piano terminologico riflette probabilmente la riserva, che l’Autore esprime in altri scritti, circa la concezione di Dio come «Persona». Dio è Persona solo quoad nos, poichè entra in rapporto con l’uomo come «Persona assoluta». Non si può affermare che Egli, nella sua essenza, sia Persona. Al riguardo, vedi Id., Postfazione a Io e Tu, in Il principio dialogico…, segnatamente alle pp. 155-7. ↩︎
-
M. Weinrich, Martin Buber. Anstöße zum Weitergehen, a cura di H. Gollwitzer e altri, Chr. Kaiser Verlag, München 1987, p. 226. ↩︎
-
N. Rotenstreich, Immediacy and its Limits, Harwood Academic Publishers, Chur (USA) 1991, p. 91. ↩︎
-
M. Buber, Christus, Chassidismus, Gnosis, «Merkur», VIII, ottobre 1954, riportato in Werke III, pp. 949-958. Cfr. Id., «Kirche, Staat, Volk, Judentum», cit. ↩︎
-
Id., Christus, Chassidismus, Gnosis,. ↩︎
-
Id. , Dtf, p. 60. ↩︎
-
Titolo di un inno del poeta Yehudah haLevy, riportato da F. Rosenzweig, «Trasposizioni commentate da Y. haLevy», in La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, Città Nuova, Roma 1991, pp. 165-8 (ed. tedesca: Die Schrift. Aufsätze. Übertragungen und Briefe, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt am Main 1976). ↩︎
-
M. Buber, «Die Brennpunkte der jüdischen Seele», in Der Jude und sein Judentum, cit., p. 203. L’altro punto focale dell’anima ebraica è il «sentimento fondamentale» del paradosso per cui sebbene «la forza redentrice di Dio» agisca dappertutto non vi è alcun essere «redento» (ibidem, p. 207). ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 59. ↩︎
-
F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, J. Kauffmann, Frankfurt a. M. 1921, traduz. it. La stella della redenzione, Marietti, Genova 1985, p. 424. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 60. Sulla concezione della divinità come «guida» che accompagna, consiglia e sostiene le tribù nomadi, concezione già presente presso le popolazioni semitiche, che assume però nell’ebraismo un significato peculiare, cfr. Id., Königtum Gottes, Schocken Verlag, Berlin 1932; traduzione italiana: La regalità di Dio, Marietti, Genova 1989. ↩︎
-
Id., «Warum gelernt werden soll» (1932), in Der Jude und sein Judentum…, cit., pp. 745-7. ↩︎
-
Ibidem, p. 745. ↩︎
-
Ibidem, p. 746. Il corsivo è nell’originale. ↩︎
-
Id., Dtf, p. 60. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 364. ↩︎
-
Ibidem, p. 425. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 60. ↩︎
-
Scrive l’Autore a una corrispondente di fede cristiana, Lina Lewy (lettera del 4 febbraio 1943, in Briefwechsel III, cit., p. 72): «… avverto troppo profondamente il non-essere-redento del mondo, per potermi soddisfare della rappresentazione di una redenzione compiuta — fosse questa anche solo della “anima” (io non voglio vivere con un’anima “redenta” in un mondo non redento)». ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 60. ↩︎
-
Per John M. Oesterreicher, il libro di Buber nel suo complesso può essere considerato un «delimitare l’una dall’altra» le due «comunità di fede», «sebbene non sempre in modo felice»: J.M. Oesterreicher, The Unfinished Dialogue. Buber and the Christian Way, Philosophical Library, New York 1986, p. 98. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 85. Per una critica alla dicotomia che Buber istituisce tra le due parti della definizione, amplificandone la differenza di significato: L. Wachinger, Der Glaubensbegriff Martin Bubers, Hueber, München 1970, pp. 151-2. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 85. Qui l’Autore sfrutta evidentemente la duttilità semantica del verbo vertrauen. ↩︎
-
Id., Christus, Chassidismus, Gnosis, cit., p. 952. ↩︎
-
H.L. Goldschmidt, «Martin Buber. Leben und Lebenswerk. Erinnerung, Begegnung, Auseinandersetzung», in AA.VV., Martin Bubers um Wirklichkeit. Konfrontation mit Juden, Christen und Sigmund Freud, Verlag Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1977, p. 55. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 93. Cfr. Id., «Über die Wortwahl in einer Verdeutschung der Schrift», in M. Buber — F. Rosenzweig, Die Schrift und ihre Verdeutschung, Schocken Verlag, Berlin 1936, pp. 135-167. ↩︎
-
D. Flusser, A proposito di «Due tipi di fede» di Martin Buber, Postfazione a Dtf, pp. 215-16. Riferimenti al significato di emunà non mancano in H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, J. Kauffmann, Frankfurt a. M. 1929. Vedi nell’edizione italiana, Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, alle pp. 326 («saldezza… sicurezza e affidabilità… La fede ha la sua radice ultima nella salda fiducia in Dio in quanto buono, fiducia che pone al di sopra di ogni dubbio la sua bontà nella remissione dei peccati»), 581, 585 e 615. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 89. ↩︎
-
W.C. Smith, Faith and Belief, Princeton University Press, Princeton 1979. In questo saggio, vi è una critica sostanzialmente positiva di Due tipi di fede alla nota n. 65 del sesto capitolo, pp. 325-6. ↩︎
-
Vedi il verso iniziale del Salmo 52(53). ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 88. ↩︎
-
Id., Der Glaube der Propheten, Manesse Verlag, Zürich 1950 (già pubblicato in ebraico nel 1942 e in inglese nel 1949); traduzione italiana: La fede dei profeti, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 189. ↩︎
-
Cfr. lettera del 2 luglio 1950 all’ungherese E. Szilagyi, in M. Buber, Briefwechsel III, pp. 253- 5. ↩︎
-
Id., Moses, Gregor Müller, Zürich 1948 (1ª ed. in ebraico 1945); edizione italiana: Mosé, Marietti 1983, p. 86. ↩︎
-
Id., Dtf, p. 87. ↩︎
-
Id., Io e tu, cit., p. 114. ↩︎
-
Ibidem, p. 115. ↩︎
-
Si tratta del più autorevole studioso di Buber in America. M.S. Friedman ha scritto vari saggi sul pensiero di Buber, nonché la biografia Encounter on the Narrow Ridge. A Life of Martin Buber, Paragon House, New York 1991. «The Narrow Ridge» traduce l’espressione, cara a Buber, «der schmale Grat». ↩︎
-
Cfr. W. Wirth, «Der Ökumenische Aspekt der Begegnung mit den Juden», in AA.VV., Judentum und christlicher Glaube. Zum Dialog zwischen Christen und Juden, a cura di Clemens Thoma, Klosternenburger Buch-und KunstVerlag, Wien-Klosterneuburg-München 1965, pp. 143-164: «Gli ebrei sperimentano nella fiducia in Dio ciò che chiamano fede, i cristiani debbono interpretarlo». ↩︎
-
F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 408. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 167. ↩︎
-
B. Pascal, Pensées, Paris 1670, trad. it. Pensieri, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1987, pp. 326-7. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 167. ↩︎
-
Ibidem, pp. 167-168. ↩︎
-
Id., Mosè, cit., p. 47. ↩︎
-
L. Pareyson, «L’esperienza religiosa e la filosofia», in Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, p. 119. In modo non dissimile da Buber, Pareyson scrive che nel rapporto religioso Dio è «Tu supremo». Resta tuttavia problematica, per l’Autore — come per Buber — l’attribuzione del carattere di Persona a Dio (ibidem, pp. 120-1). ↩︎
-
M. Buber, Mosè, cit., p. 47. Cfr. Id., La regalità di Dio, cit., p. 118; cfr. F. ROSENZWEIG, «L’Eterno. Mendelssohn e il nome di Dio», in La Scrittura…, cit. pp. 98-114. ↩︎
-
M. Buber, Mosè, cit., p. 48. ↩︎
-
Id., La regalità di Dio, cit., p. 117. ↩︎
-
Id., Mosè, p. 49. ↩︎
-
S. Sorrentino, Fede e relazione interculturale. Il progetto buberiano per un mondo integralmente umano sotto il segno della presenza di Dio, Saggio Introduttivo a Dtf, p. 12. ↩︎
-
Ibidem, p. 13. ↩︎
-
M. Buber, Io e Tu, cit., p. 111. ↩︎
-
Così per Léon Dujovne è possibile richiamare al riguardo l’immediatezza del rapporto con Dio del don Chisciotte interpretato nella Vida de Don Quijote y Sancho da Miguel de Unamuno. Il cavaliere è qui visto come eroe della fede. Il suo rapporto con Dio non necessita di alcuna mediazione: egli dice di sentire la voce di Dio come Abramo sul monte Moria. Cfr. L. Dujovne, Martin Buber. Sus ideas religiosas, filosóficas, sociales, Bibliografica OMEBA, Buenos Aires 1965, p. 54. ↩︎
-
S. BEN-CHORIN, Zwiesprache mit M. Buber, cit., p. 90. Sull’immediatezza dell’esperienza religiosa per Buber, cfr. N. ROTENSTREICH, Immediacy and its Limits…, cit., p. 82. Lo studioso rileva la problematicità insita in tale concezione. Sul piano filosofico, Rotenstreich ravvisa nell’accento posto da Buber sull’«immediatezza» della fede il persistere di suggestioni che gli provengono dal pensiero di Wilhem Dilthey. Questi propone una «filosofia dell’immediatezza», la quale crede nell’esistenza del mondo esterno senza poterla dimostrare. Tale «credenza» è diversa dalla fede in senso religioso, che comporta «oltre all’accettazione di dati di fatto o della sfera onniabbracciante della fatticità, come nel caso della “credenza” nel mondo esterno» anche «l’avere fiducia e l’affidarsi» (ibidem, p. 103). Tuttavia, secondo Rotenstreich, vi è una certa continuità tra la «credenza» nel mondo esterno in Dilthey, che è atteggiamento connotato dall’immediatezza, e la fede religiosa nella modalità di immediatezza in Buber. Quasi a prevenire nel lettore l’impressione di avere sovrastimato l’influsso di Dilthey sull’Autore, Rotenstreich rileva però come il fatto che egli sia stato professore di Buber all’Università non implichi che questi ne sia «il discepolo» (ibidem, p. 102). Il saggio di Dilthey sul quale lo studioso fonda le sue considerazioni è Beiträge zur Lösung der Frage vom Ursprung unseres Glaubens an die Realität der Aussenwelt und seinem Recht (1890), in W. Dilthey, Gesammelte Schriften, Band 5, B.G. Teubner, Leipzig-Berlin 1924, pp. 90-138. ↩︎
-
M. Buber, «Kirche, Staat, Volk, Judentum», cit., in Der Jude…, cit., p. 562. ↩︎
-
Id., «Der Glaube des Judentums», cit., pp. 188-189. Circa la rilevanza dell’unificazione nel pensiero di Buber, vedi: P. Ricci Sindoni, «M. Buber. Il sogno dell’esistenza unificata», in AA.VV., Dio nella filosofia del novecento, a cura di G. Penzo e R. Gibellini, Queriniana, Brescia 1993, pp. 165-174. ↩︎
-
Cfr. H. Cohen, Religione della ragione…, cit., «L’unicità di Dio», pp. 99 ss. ↩︎
-
«Der verhüllte Gott», M. Buber, Abraham der Seher (1939), in Werke II, p. 891. ↩︎
-
Ibidem, p. 892. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 92. Questa traduzione non regge alla critica filologica per D.G. Schrenk (Martin Bubers Beurteilung des Paulus in seiner Schrift »Zwei Glaubensweisen«, in «Judaica», 1/8, marzo 1952, pp. 1-23). Per lo studioso, Abramo «crede in qualcosa»: tale espressione non riflette alcuna «ellenizzazione del testo». Il Patriarca crede nella parola della promessa rivoltagli da Dio. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 93. ↩︎
-
Così per D.G. Schrenk (op. cit., p. 3) si tratta di un «punto di svolta» nella vita di Abramo. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 93. ↩︎
-
F. Rosenzweig, Das Neue Denken. Einige nachträgliche Bemerkungen zum »Stern der Erlösung«, «Der Morgen», 4/1925, trad. it. «Il nuovo pensiero. Alcune note supplementari a “La stella della redenzione”», in La Scrittura…, cit., p. 279. Il brano viene riportato in M. Buber in «Rosenzweig und die Existenz» (1956), Der Jude und sein Judentum, cit., alla p. 826. Ancora sulla Bewährung, cfr. F. Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 405. ↩︎
-
Id., «Il nuovo pensiero…», cit., p. 280. Cfr. P.E. Pfuetze, «Martin Buber and American Pragmatism», in AA.VV., The Philosophy of Martin Buber, cit., alle pp. 514ss. ↩︎
-
Cfr. il dizionario etimologico Duden, Das Herkunfts-Wörterbuch. Etymologie der deutschen Sprache, Dudenverlag, Mannheim-Leipzig-Wien-Zürich 1997, p. 798. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 94. ↩︎
-
Id., «Biblischer Humanismus» (1933), ora in Werke II, p. 1088. ↩︎
-
Cfr. S. Sorrentino, Saggio introduttivo…, cit., pp. 26-29. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, cit., p. 62. ↩︎
-
Ibidem, p. 61. ↩︎
-
«… Noi ebrei lo conosciamo interiormente in un modo, quello degli impulsi e delle emozioni della sua natura ebrea, che resta inaccessibile ai popoli che gli sono devoti»: M. Buber, Zwiesprache, Schocken Verlag, Berlin 1930, trad. it. Dialogo, in Il principio dialogico e altri saggi, cit., p. 190. ↩︎
-
W. Kraft, Gespräche mit Martin Buber, Kösel Verlag, München 1966, p. 87. ↩︎
-
M. Buber, Io e tu, cit., p. 103. ↩︎
-
Ibidem, p. 106. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Id., Dtf, p. 62. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
«Io non credo in Gesù, ma credo con lui», chiusa della citata lettera a Lina Lewy, in Briefwechsel III, p. 72. ↩︎
-
E. Biser, Buber für Christen. Eine Herausforderung, Herder Verlag, Freiburg im Brisgau 1988, p. 109. ↩︎
-
Tra le opere di R. Bultmann, Buber presta attenzione soprattutto a Theologie des Neuen Testaments (1. Auflage Tübingen 1949, trad. it. Teologia del Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 1985) e Das Johannesevangelium, Göttingen 1939. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 115. ↩︎
-
Ibidem, p. 120. ↩︎
-
Ibidem, p. 111. ↩︎
-
Ibidem, p. 119. ↩︎
-
E. Brunner, «Judaism and Christianity in Buber», in AA.VV. The Philosophy of Martin Buber, cit., p. 313. ↩︎
-
M. Buber, Dtf, p. 82. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem, p. 184. ↩︎
-
Id., Discorsi sull’Ebraismo, cit., p. 112. ↩︎
-
Id., Dtf, p. 204. ↩︎
-
Id. Der Glaube des Judentums, in Der Jude und sein Judentum, cit., p. 198. ↩︎
-
Id., Dtf, pp. 195 ss. ↩︎
-
Id., Christus, Chassidismus, Gnosis, cit., p. 953. ↩︎
-
Id., Dtf, p. 206. ↩︎
-
E. Biser, Buber für Christen…, cit., p. 129. ↩︎
-
S. Sorrentino, Saggio introduttivo…, cit., p. 14, nota 13. ↩︎