La responsabilità a fondamento dell’etica e della storia in Dietrich Bonhoeffer

1. La vita responsabile

Il tema della responsabilità costituisce nell’opera e nella vita di Bonhoeffer una prospettiva privilegiata per comprendere il senso di un pensiero e di un’esistenza, che sono stati interrotti con la violenza il 9 aprile 1945 nel campo di concentramento di Flössenburg e sono rimasti così un «frammento» soggetto alle più differenti interpretazioni.1 Allo sforzo ermeneutico, che si è prodigato e si prodiga attorno a questo frammento, credo possa essere utile scoprire come chiave di lettura essenziale il tema della responsabilità. Esso viene trattato diffusamente nell’Etica, in particolare nel saggio «La storia e il bene», ma non è estraneo agli scritti precedenti. Il tema della responsabilità, anzi, costituisce un filo rosso, che lega tra loro saldamente le opere e la vita di Bonhoeffer e che nell’ultima fase emerge al punto da costituire l’arco di volta dell’Etica, considerata dall’autore stesso la sua Lebenswerk.2

In «La storia e il bene», ritenuto da Mancini il «saggio più alto dell’Etica»,3 viene analizzata la «struttura della vita responsabile», che costituisce il modello di etica concreta prospettato da Bonhoeffer dopo aver assistito al fallimento delle diverse forme di etica astratta. La vita responsabile è la risposta all’esigenza di affrontare la questione del bene come una questione che «si pone e si decide in ogni situazione determinata eppure incompiuta, unica eppure già transeunte della nostra vita, in ogni complesso di rapporti viventi che ci uniscono a uomini, cose, istituzioni, potenze, ovvero nella nostra vita storica».4 La vita responsabile è in questo saggio il luogo nel quale «La storia e il bene» convergono senza coincidere, si realizzano reciprocamente senza confondersi. Essa rappresenta l’«esistenza autentica» che porta a compimento il processo di Gestaltung, di cui Bonhoeffer parla in «Cristo, la realtà e il bene» e in «Etica come conformazione», i due scritti che secondo gli studi compiuti per l’ultima edizione critica dell’Etica (1992) costituirebbero il primo e il secondo capitolo di quest’opera rimasta incompiuta e pubblicata dall’amico Bethge nel 1949 con un indice ben diverso da quello dell’attuale.[^5] Per comprendere il significato della struttura della vita responsabile all’interno dell’economia di quest’opera, e quindi nell’ambito generale del pensiero di Bonhoeffer, mi sembra necessario illustrare il concetto di Gestaltung e il ruolo che esso occupa in particolare nell’ultima edizione critica dell’Etica.

1.1 La vita responsabile e il processo di Gestaltung

L’Etica di Bonhoeffer costituisce un tentativo unitario e organico di fondare un’etica cristiana, un’etica, cioè, che non si rifaccia a principi generali, ma si fondi unicamente su Cristo, secondo il primato della rivelazione proprio della teologia dialettica, che Bonhoeffer abbraccia sin dagli anni della sua formazione universitaria.5

Secondo i risultati degli studi compiuti per l’edizione del 1992 il primo scritto dell’Etica in ordine cronologico risulta essere «Cristo, la realtà e il bene», e non come aveva supposto Bethge «L’amore di Dio e la dissoluzione del mondo». Questo significa che la chiave interpretativa dell’opera non può risiedere nello spostamento dell’interesse del teologo luterano dai temi biblici a quelli «mondani». La prospettiva biblica si trova invece intrecciata a quella «mondana», tant’è che «L’amore di Dio e la dissoluzione del mondo», il testo più legato all’esegesi biblica, si colloca nella nuova edizione dopo «La storia e il bene», il saggio dell’Etica dalla prospettiva più «mondana». Il criterio ermeneutico dell’opera risiede allora proprio nel saggio iniziale «Cristo, la realtà e il bene».6

In esso viene presentata la differenza fondamentale tra l’etica cristiana e le altre etiche, ancorando la prima alla realtà del mondo sulla base del fondamento cristologico. Infatti, per l’etica cristiana, a differenza che per il razionalismo etico, il bene non è «la concordanza tra un criterio messo a nostra disposizione — dalla natura o dalla grazia — e l’esistente da me indicato come realtà», bensì è la volontà di Dio che si dà nella rivelazione di Cristo, la quale ha indubbiamente una maggiore «vicinanza alla realtà» di ogni “idea” o ideale, poiché non è un’astrazione, ma il fondamento della realtà stessa.7

Naturalmente il concetto di realtà che sta alla base della fondazione cristiana dall’etica è ben diverso da quello «soggiacente all’etica positivistica» il quale è «il concetto volgare dell’empiricamente constatabile, che include la negazione di qualsiasi fondazione nella realtà ultima, in Dio»;8 il concetto di realtà alla base dell’etica cristiana, invece, è quello di un tutto contenuto e sostenuto da Dio, ovvero è la realtà di Dio che penetra nella realtà del mondo attraverso Cristo.9 Così, mentre l’etica positivista, nell’eliminare completamente il concetto di norma, finisce per approdare ad un «totale abbandono al dato di circostanza»,10 «l’etica cristiana studia ora come questa realtà di Dio e del mondo, data in Cristo, diventi realtà (Wirklichwerden) nel nostro mondo».11 L’agire etico si presenta come un conformarsi a Cristo. «Etica come conformazione» («Ethik als Gestaltung»), infatti, è il titolo del secondo abbozzo, appartenente allo stesso periodo del primo.

In esso l’autore critica il «formalismo» dell’etica dei principi, il cui prototipo è rintracciato nella figura di don Chisciotte, così come rifiuta il vitalismo e la «morale del compromesso», che vengono a suo avviso sanciti dal nichilismo. Entrambe queste posizioni sono generate dall’errore di considerare la realtà come staccata da Dio: la prima perché vede nella realtà solo il male da combattere in nome del principio divino, la seconda perché considera impossibile la realizzazione dell’ordine divino e si adegua a questa condizione. In entrambi i casi si finisce inevitabilmente per cadere nella contrapposizione tra il bene e la vita reale.

La soluzione prospettata dal cristianesimo è per Bonhoeffer nel «miracolo di Dio che esiste nella storia», cioè in Gesù Cristo, colui nel quale «Dio e la realtà del mondo sono riconciliati, Dio e l’uomo sono diventati una cosa sola».12 Sulla base del fondamento cristologico, dunque, l’etica diviene per i cristiani un processo formativo, o meglio di «conformazione» (Gestaltung) alla figura (Gestalt) di Cristo, divenuto uomo, morto e risorto. Ma per l’uomo divenire come Cristo non significa trasformarsi «in una forma a lui estranea, nella forma di Dio, bensì nella forma sua propria, a lui appartenente e essenziale». Così «l’uomo diventa uomo perché Dio è diventato uomo».13

Il fatto che «Cristo non elimina la realtà umana in favore di un’idea, che esigerebbe di essere attuata contro il reale, ma, al contrario, la mette in vigore, la conferma»,14 permette all’etica cristiana di essere «un’etica concreta», che non pretende di affermare «ciò che sarebbe buono una volta per tutte,… ma come Cristo prenda forma tra noi oggi e qui».15 L’etica cristiana, quindi, è un’etica della situazione, nella quale gioca un ruolo decisivo la responsabilità.

In «La storia e il bene» la connessione prospettata tra questione morale e realtà si traduce esplicitamente nel legame tra bene e vita storica, essendo questa la realtà propriamente umana nella quale si inserisce il problema dell’agire:

Non ci chiediamo dunque che cosa sia bene in sé, ma che cosa sia bene nella vita così come è, per noi che viviamo. […] La questione del bene si pone e si decide in ogni situazione determinata eppure incompiuta, unica eppure già transeunte della nostra vita, in ogni complesso di rapporti viventi che ci uniscono a uomini, cose, istituzioni e potenze, ovvero nella nostra vita storica. Il problema del bene è inseparabile da quello della vita e della storia (ODB 6, p.214).

Il rifiuto della concezione astratta della vita etica, fondata sull’idea di bene in sé, consente di evitare sia l’«entusiasmo fanatico», cioè la trasformazione della legge o del principio morale «in un Moloch a cui si sacrifica interamente la vita e la libertà», sia l’individualismo etico, cioè la riduzione del problema etico «alla sfera puramente privata» della «propria fedeltà ai principi senza riguardo all’altro uomo».16

La critica all’ideale astratto del bene, sentito come «qualcosa di estraneo, di inautentico, di artificioso, di fantastico e per di più di oltremodo tirannico»,17 è motivata naturalmente sulla base del fondamento cristologico. Se alla fine per Bonhoeffer «essere buoni significa “vivere”»,18 cioè se il bene si identifica con la vita, è perché Cristo ha detto: «Io sono la vita», e la vita di Cristo è una vita storica.19

Ma qual è il vivere autentico che realizza la vita di Cristo in noi? Bonhoeffer nel periodo del Kirchenkampf rimanda alla «sequela», intesa come risposta all’appello contenuto nella Parola attraverso l’impegno di un’intera vita. In Etica la sua posizione non cambia. Solo che qui la risposta (Antwort) a Cristo non sta nel porsi nel piccolo gruppo di coloro che prendono sul serio la predica della montagna, ma nell’assumersi la responsabilità (Verantwortung) di cui si sostanzia la nostra vita.20

Nel saggio «La storia e il bene» Bonhoeffer pone il problema etico in termini ben lontani dal linguaggio biblico, come egli stesso rileva (vedi nota 18), tuttavia il significato di questa «terminologia differente» è essenzialmente cristologico:21

Noi viviamo in quanto diamo una risposta alla parola di Dio indirizzataci in Gesù Cristo. Poiché essa è una parola indirizzata a tutta la nostra vita, anche la risposta data può essere solo una risposta totale, con tutta la vita, così come essa si realizza via via agendo. […]

Tale risposta alla vita di Gesù Cristo… noi la chiamiamo «responsabilità». […]

Noi diamo dunque al termine responsabilità una ricchezza di significato che non ha nel linguaggio quotidiano, neppure lì ove è divenuto un termine altamente qualificato dal punto di vista etico (ODB 6, p. 221 sg).

Il concetto di responsabilità proposto da Bonhoeffer esorbita dal campo settoriale dell’etica, così come la sua concezione dell’etica va ben al di là del confine della cosiddetta filosofia pratica, dal momento che la prospettiva della Gestaltung comprende insieme problemi morali, teologici e ontologici. Più che di responsabilità come fenomeno etico a Bonhoeffer pare il caso di parlare di «vita responsabile» come dimensione esistenziale e ontologica, di cui nello scritto vuole indagare la struttura.

1.2 La struttura della vita responsabile

La struttura della vita responsabile è determinata da due fattori: «il vincolo della vita con l’uomo e con Dio» e la «libertà della vita personale». Esse sono intrecciate in modo tale che «è questo suo legame con l’uomo e con Dio a porre la vita nella libertà della vita personale».22

«Il vincolo assume la forma della sostituzione vicaria e della adeguatezza alla realtà, la libertà si manifesta nell’ascrivere a se stessi la propria vita e azione e nel rischio della decisione concreta».23

«Sostituzione vicaria» (Stellvertretung) sta ad indicare l’assunzione della responsabilità dell’azione in luogo di un altro. L’esempio del padre, dell’uomo di stato o del dirigente mostra «nella maniera più chiara» come «la responsabilità poggi sulla sostituzione vicaria». Tale concetto fa crollare «la finzione che il soggetto di tutto il comportamento etico sia il soggetto isolato». La sostituzione vicaria tra gli uomini è immagine dell’essere di Cristo, il quale «è il responsabile per eccellenza», avendo vissuto «solo come colui che ha assunto e porta in sé l’io di tutti gli uomini»: «il suo vivere, fare, soffrire, nella loro interezza, furono sostituzione vicaria».24

Per «adeguatezza alla realtà» (Wirklichkeitsgemässheit) si intende che il comportamento etico «non è stabilito in partenza e una volta per tutte, quindi in linea di principio, ma nasce con la situazione data». Questo comporta una presa di coscienza della realtà fattuale, che non è né «l’atteggiamento servile dinanzi ai fatti di cui parla Nietzsche», né «una opposizione di principio, una ribellione di principio». Invece «accettazione del fattuale ed opposizione ad esso sono indissolubilmente uniti nell’agire autenticamente adeguato alla realtà».25 La giustificazione cristologica di tale carattere dell’agire responsabile sta nel fatto che il Dio divenuto uomo è al tempo stesso il Crocifisso: l’incarnazione e la morte di Gesù sono il sì e il no di Dio alla realtà del mondo, la sua giustificazione e la sua condanna. Pertanto anche il cristiano deve disporsi nei confronti della realtà in un atteggiamento insieme di adesione e di condanna.

Dal momento che il mondo in Cristo non viene divinizzato, ma viene lasciato essere mondo con i suoi limiti, e quindi con la sua colpa, «la struttura dell’azione responsabile comporta la disponibilità a prendere su di sé la colpa», come ha fatto Cristo, il quale «diventa colpevole come colui che agisce responsabilmente nell’esistenza storica dell’uomo». L’assunzione di colpa è la forma più eclatante di sostituzione vicaria e al tempo stesso «comporta la libertà», una libertà che va al di là della libertà formale della coscienza, capace di scegliere tra il bene e il male. Essa è il superamento della legge in nome dell’amore.26 L’essenza ultima dell’atto responsabile è quindi l’amore e la sua condizione la libertà:

Responsabilità e libertà sono concetti correlativi. La responsabilità presuppone oggettivamente — non cronologicamente — la libertà, così come la libertà non può sussistere se non nella responsabilità. La responsabilità è la libertà dell’uomo data solo nel legame con Dio e con il prossimo (ODB 6, p. 247).

La libertà dell’azione responsabile è resa possibile in ultima istanza dalla non conoscenza del bene. Per questo essa sfocia paradossalmente in un atto di obbedienza e di affidamento a Dio:

Il bene come azione responsabile viene compiuto nella non-conoscenza del bene, affidando l’azione divenuta necessaria e tuttavia (e proprio per questo!) libera a Dio…

Ci si schiude così un profondo mistero della storia come tale. Proprio colui che agisce nella libertà della più piena responsabilità personale vede il proprio agire sfociare nella guida di Dio. L’azione libera si riconosce alla fine come azione di Dio… Nella libera rinuncia a conoscere il proprio bene si compie il bene di Dio (ODB 6, p. 248).

La vita responsabile quindi non è solo il luogo dove l’agire dell’uomo si conforma all’agire di Cristo, rispondendo così all’appello della sua Parola, è al tempo stesso il luogo in cui «il bene di Dio» prende forma nel mondo attraverso una guida misteriosa. Nella vita responsabile si realizza il processo di Gestaltung nel suo duplice significato.

2. La realtà del tempo

2.1 La responsabilità e la realtà del tempo

L’Etica non è l’unica opera nella quale Bonhoeffer si occupa del tema della responsabilità. Esso compare già nella tesi di dottorato Sanctorum Communio all’interno di una questione che nell’economia di questo scritto può sembrare di secondo piano: la questione della realtà del tempo, che Bonhoeffer sostiene contro la concezione puramente formale della temporalità proposta dal kantismo e, quindi, dall’idealismo.27

Il tempo è reale in quanto non si fonda su una forma a priori, ma sulla decisione esistenziale, inscindibile dalla condizione di responsabilità nei confronti di valori o di persone:

Kant ha insegnato a concepire il tempo che trascorre in continuazione come una pura forma dell’intuizione del nostro spirito. Ne consegue, nella sua concezione e in quella di tutto l’idealismo, un pensiero fondamentalmente atemporale. Nella dottrina della conoscenza ciò è evidente; ma anche nell’etica Kant non è andato oltre consapevolmente. […] Non discuteremo la comprensione gnoseologica del tempo quale pura forma dell’intuizione. Partiamo da un’altra formulazione della questione. […] Nel momento in cui si trova interpellata, la persona si trova nella posizione di responsabilità o, altrimenti detto, di decisione; vale a dire, qui la persona non è la persona idealistica spirituale o razionale, ma la persona nella sua vita e specificità concreta, non quella scissa in se stessa, ma la persona totale interpellata; essa non esiste in spiritualità e pienezza di valori atemporali ma è in posizione di responsabilità al centro del tempo, e non nel suo continuo scorrere, bensì nell’attimo riferito al valore — non colmato di valore! Nel concetto dell’attimo, però, il concetto di tempo e il suo riferimento al valore si intrecciano. Non si tratta di una frazione, la più breve possibile, del tempo, come un atomo concepito meccanicamente; l’ ‘attimo’ è il tempo della responsabilità, del riferimento al valore — diciamo del riferimento a Dio — e, cosa essenziale, è tempo concreto; solo nel tempo concreto si compie l’interpellanza reale dell’etica, e inoltre solo nella responsabilità io sono pienamente conscio del mio essere vincolato al tempo (ODB 1, p.26 sg).

È chiaro che per Bonhoeffer il tempo reale «concreto» è l’attimo della decisione, il kairós. La decisione d’altra parte si dà sempre in relazione alla responsabilità, cosicché tra «tempo concreto» e responsabilità vi è un rapporto di implicanza reciproca: la decisione è condizione della realtà del tempo, ma anche il tempo, il kairós è condizione della decisione, dal momento che «nel tempo concreto si compie l’interpellanza reale dell’etica», ovvero, in altri termini, l’azione responsabile si dà sempre in una situazione determinata, della quale essa deve strutturalmente tener conto, essendo, come si è visto, l’adeguatezza alla realtà uno dei fondamenti dell’agire responsabile.

Quanto il «tempo concreto» sia determinante per la definizione della responsabilità degli uomini è uno dei nodi esistenziali e teoretici fondamentali per Bonhoeffer a partire dal Kirchenkampf.

2.2 Il concetto del «kairós» nel periodo del Kirchenkampf

Dopo aver analizzato negli scritti accademici l’«essenza della Chiesa» (tale è il titolo del corso del Sommersemester 1932), le esigenze del Kirchenkampf, cioè della lotta della Chiesa Confessante contro la Chiesa ufficiale asservita ad Hitler, obbligarono Bonhoeffer a riflettere sulla realtà storica della Chiesa più che sulla sua natura escatologica. L’eresia dei Deutsche Christen necessitava di una risposta precisa e immediata, ma per dare questa risposta, per condannare appunto come eresia la commistione di dottrina cristiana e di teorie nazionalsocialiste operata dai Cristiani Tedeschi, la Chiesa doveva interrogarsi sui propri confini, doveva definirsi non in rapporto alla sua essenza invisibile, ma come realtà visibile, storica, concreta. Nel periodo di militanza nella Bekennende Kirche il problema del significato del Christus praesens nella storia non si presentò più come problema teoretico, ma come problema storico, concreto, con il quale i pastori tedeschi si dovevano scontrare ogni giorno nella predicazione e nell’annuncio della Scrittura.28

A questo punto la dimensione storico-temporale diviene nel discorso bonhoefferiano l’orizzonte imprescindibile a cui riferire ogni affermazione, il criterio ermeneutico.

La determinazione della realtà della Chiesa risiede nel kairós della decisione esistenziale, è affidata cioè alla dimensione del tempo, non a quella dello spazio determinata dalle forme di rito e di culto:

Nella concezione della Riforma il momento della decisione vivente entra nella determinazione dei confini della Chiesa («Il problema della comunità ecclesiastica» in Gli Scritti (1928-1944), tr. it. a cura di M.C. Laurenzi, Queriniana, Brescia 1979 [= Scritti], p. 511).29

Ma la temporalità, cui si riferisce Bonhoeffer per tracciare i confini della Chiesa, non è tanto quella della decisione interiore, che risulta alla fine imperscrutabile, è invece soprattutto quella della decisione storica.30 La decisione esistenziale, intesa come decisione storica, entra nella sfera del pubblico, acquista visibilità e, quindi, carattere discriminante. Infatti, la visibilità crea sempre contrapposizione ed è in virtù di questa contrapposizione che si gioca l’oggettività dell’essenza e del luogo della Chiesa, ovvero dei suoi confini:

Dove siano i confini della Chiesa, si decide sempre e soltanto nell’incontro fra Chiesa e incredulità, è dunque un atto della decisione della Chiesa. […] Deve essere frutto della sua decisione più specifica il riconoscere e il prendere atto di un limite posto come tale dal mondo. Deve decidere se e dove il suo appello di salvezza si scontri con una barriera definitiva. […] Questo carattere di decisione è di una oggettività assoluta. Sarebbe frutto di soggettività e di arbitrio, se la Chiesa volesse stabilire a priori i limiti, e con questo fare la distinzione a partire da sé. L’oggettività apparente di un sapere teorico dei confini della Chiesa segna addirittura il dissolversi della vera oggettività, che si realizza invece nella decisione («Il problema della comunità ecclesiastica» in Scritti, p. 512).

La «decisione vivente» è per Bonhoeffer in concretissimum la confessione di Barmen e di Dahlem, che condanna l’eresia dei Cristiani tedeschi in nome della vera dottrina di Cristo.31 Qui si dà per il giovane pastore l’incarnazione concreta della fede cristiana nella Germania hitleriana; qui, dunque, si trova simpliciter la Chiesa di Cristo, che proprio in tale contingenza dimostra nel modo più chiaro la sua intrinseca storicità.

3. Responsabilità e storicità

È a questo punto necessario focalizzare il rapporto tra la realtà del tempo nel kairós e la storicità quale dimensione essenziale del reale.

Innanzitutto bisogna rilevare che il discorso di Bonhoeffer sulla storicità si avvale della riflessione dello storicismo tedesco, in particolare di Dilthey,32 soprattutto là dove collega la dimensione storica a quella sociale. «L’individuo assume un’esistenza storica soltanto nella misura in cui entra in rapporto con altri individui» scrive Pietro Rossi a proposito di Dilthey.33 Tuttavia, come sempre accade in Bonhoeffer, il teologo rielabora il pensiero dei diversi autori all’interno delle proprie categorie, rendendolo coerente allo svolgimento della propria riflessione teologica.

La decisione che crea il kairós, cellula originaria e costitutiva della temporalità, si dà sempre nell’ambito di un rapporto, ovvero nell’ambito di una responsabilità nei confronti di qualcuno. La temporalità non è scindibile dalla dimensione sociale dell’uomo in quanto non esiste temporalità se non grazie alla scelta, la quale, però, si realizza solo nell’incontro con un «tu» e all’interno di un rapporto-legame con questo «tu», ovvero nell’ambito della sostituzione vicaria che costituisce la dimensione sociale dell’uomo. La scelta si dà sempre come fatto sociale. Nella scelta la temporalità si annoda alla socialità, e con ciò essa si innesta radicalmente nella storicità, intesa secondo le categorie diltheyiane come dimensione propria del mondo umano inscindibile dal suo essere sociale.

La realtà storica sorge dalla rete delle responsabilità reciproche che formano il tessuto sociale e dalle scelte che tali responsabilità impongono. La vita responsabile è dunque il fondamento dell’essere storico. Nello stesso tempo essa ne rispecchia la struttura, dal momento che, come per la storicità la dimensione sociale è intrinsecamente unita a quella temporale, così per la vita responsabile il rispetto della situazione contingente, in altre parole l’«adeguatezza alla realtà», è imprescindibile dai vincoli imposti dalla sostituzione vicaria. Infatti, sono proprio questi vincoli che segnano i limiti dell’azione responsabile e rendono possibile una ponderazione adeguata della realtà, che non si darebbe là dove il compito fosse «quello di svellere il mondo dai suoi cardini»34 e non quello di agire semplicemente in vece di alcune persone a cui la nostra esistenza è strutturalmente legata (il figlio per il padre, l’alunno per il maestro, il popolo per il capo di stato).

Sostituzione vicaria e adeguatezza alla realtà sono la ragione per cui «la nostra responsabilità non è infinita, ma limitata».35 Il discorso del limite, d’altra parte, è centrale anche nel concetto bonhoefferiano di storicità. Il limite, infatti, è ciò che contraddistingue l’autentica storicità dall’ideologia storicistica. Esso rende possibile lo spazio della trascendenza.

3.1. La dialettica ultimo-penultimo

La posizione di Bonhoeffer non è in fondo lontana da quella di Dilthey, il quale sostiene l’«essenziale finitudine» del mondo umano «in quanto è appunto condizionato storicamente». Per Dilthey «questa storicità non si appoggia su alcuna realtà assoluta al di fuori o dentro il corso storico. La storicità del mondo umano viene così affermata evitando il ricorso a un principio incondizionato, e quindi evitando un’impostazione metafisica tanto trascendentistica quanto immanentistica».36 In Bonhoeffer, invece, «sin dalle prime opere, nelle quali emerge l’attenzione per il tema della storicità, è possibile ritrovare una costante preoccupazione a non interpretare la storicità come chiusura al trascendente».37 Per Bonhoeffer esiste una dialettica tra la «finitudine essenziale» del mondo storico e la trascendenza. Tale dialettica è espressa da Bonhoeffer attraverso la dialettica ultimo-penultimo, tematizzata nell’Etica.

Con questi due termini Bonhoeffer intende sottolineare l’irriducibile alterità e nello stesso tempo la presenza immanente del principio di trascendenza nei confronti della realtà.

L’ultimo si presenta sempre come «interruzione», «contraccolpo»38 rispetto al penultimo, non come il risultato di un cammino, cioè come qualcosa che può essere “preparato”: l’ultimo è l’Altro che viene, il «sopraveniente»,39 che piomba di notte come un ladro, quando meno lo si aspetta.40 Ma l’ultimo al tempo stesso può essere ultimo solo in rapporto ad un penultimo, benché sia radicalmente differente da questo, anzi si ponga come contestazione rispetto ad esso. Pertanto «il penultimo continua a sussistere, anche se è completamente superato e abolito dall’ultimo». Quindi bisogna tener conto delle cose ultime, «non come se esse avessero un loro proprio valore, ma per mettere in luce la loro relazione con l’ultimo».41

L’ultimo e il penultimo, l’eterno e la storia, la grazia e la legge, permangono, quindi, nella tensione dialettica, una dialettica, però, il cui punto originante è il termine ultimo. «Non esiste quindi un penultimo in sé come penultimo; una cosa diventa penultima solo attraverso l’ultima, cioè nel momento in cui è già stata messa fuori gioco. Il penultimo non è dunque condizione dell’ultimo, bensì questo condiziona quello».42

Considerata in tal modo la coppia ultimo-penultimo si rivela ben più adatta ad esprimere il rapporto immanenza-trascendenza di altre coppie concettuali, come ad esempio sacro-profano, che danno invece «la possibilità di intendere questi concetti come degli “in sé” autosignificanti».43

La dialettica ultimo-penultimo si sottrae alla tentazione idealistica, se l’uomo si riconosce appartenente al penultimo e accetta, quindi, di essere giudicato dall’ultimo, in altri termini accetta che l’ultimo non gli sia disponibile, ma rimanga “ciò-che-deve-venire” oppure ciò in base al quale la realtà penultima sussiste. Per assumere tale atteggiamento, però, è necessario riconoscere e accettare il limite nel quale e del quale vive il mondo del «penultimo».

3.2. Il limite nel concetto di storicità e nella vita responsabile

Il limite può essere reale solo là dove esso segna il confine con il Totalmente Altro. Il recupero del limite equivale al recupero del Trascendente contro le tentazioni idealistiche di un Io onnicomprensivo. Forse in nessuno scritto questo si trova così chiaramente espresso come in Creazione e caduta, il libro che raccoglie le lezioni del corso tenuto da Bonhoeffer il Wintersemester 1932-33 su Gn 1-3.

In uno dei capitoli centrali, intitolato «Il centro della terra», viene sottolineato come nel racconto biblico l’albero della conoscenza del bene e del male, che simboleggia il limite dell’uomo, poiché ad esso è legato il divieto divino di mangiare i frutti, si trovi al centro del giardino, insieme con l’albero della vita.

«Il fatto che l’albero della conoscenza, l’albero vietato, che designa il limite dell’uomo, si trova al centro» significa che «il limite dell’uomo è al centro della sua esistenza», proprio come «la vita che viene da Dio sta nel centro».44 Anzi, appunto perché «la vita di Adamo deriva dal centro, e questo non è costituito da lui, ma da Dio», cioè dall’albero divino della vita, nello stesso centro si trova anche «il limite della sua realtà, della sua esistenza come tale». Infatti, se il limite fosse «ai margini», ci sarebbe sempre «la possibilità di un’interiore assenza del limite», mentre «nella conoscenza del limite al centro si tratta di un limite che riguarda tutta l’esistenza, l’umanità in ogni possibile manifestazione».45 Il limite è posto al centro quando l’uomo accetta che la vita gli è donata; in tal modo egli non può più cadere nella tentazione di assolutizzarsi.

D’altra parte, infrangere il limite significa per l’uomo distruggere la vita stessa, poiché, negando di essere debitore della vita, l’uomo toglie il fondamento della propria esistenza, e questa precipita nell’abisso. Annullando «la vita come grazia che viene dal centro e dal limite del proprio essere», l’uomo deve vivere contando solo sulle proprie forze, ma non ne è capace. «Lo fa vivendo del suo interno dissidio…vive in circolo, vive di se stesso, è solo», perciò vive nella morte: «esser morto significa dover-vivere».46

La caduta avviene, secondo Bonhoeffer, per mezzo della «domanda devota».47 Così è definita la domanda che per prima il serpente rivolge ad Eva: «Dio avrebbe detto..?».48 Si tratta di una domanda che «non contesta» la parola di Dio, «ma fornisce all’uomo una prospettiva finora a quest’ultimo sconosciuta»:49 la prospettiva della possibilità. «Per suo conto il serpente comincia col prospettare la possibilità che forse l’uomo abbia capito male, che non è possibile che Dio abbia inteso questo»;50 «ma nel rapporto dell’uomo a Dio non ci sono possibilità, bensì solo realtà».51

L’introduzione della possibilità è legata all’introduzione di «un’idea, di un principio, di un qualche sapere su Dio acquisito precedentemente»,52 in altre parole alla nascita del concetto “religioso” di Dio, ovvero del discorso umano su Dio. Infatti, il “possibile” rappresenta per Bonhoeffer la categoria fondamentale del discorso umano-razionale, cioè della filosofia. Questa, d’altra parte, conduce necessariamente all’idealismo,53 che costituisce la massima espressione in termini di pensiero di quel circolo in cui cade Adamo scegliendo di vivere «di se stesso».54 Orientando il pensiero sulla base della categoria della possibilità, quindi, l’uomo perde il rapporto con la realtà della trascendenza e approda all’immanentismo, che secondo Bonhoeffer ha la sua massima sistematizzazione in Hegel.

Contro tale immanentismo il teologo tedesco vuole recuperare il limite al centro dell’esistenza umana. In tal modo egli si pone al seguito della teologia dialettica primonovecentesca, ma se ne discosta per l’attenzione con cui guarda alla storicità quale luogo in cui si dà il limite dell’uomo e si verifica il suo incontro con il Trascendente.

Anche la vita responsabile è segnata dal limite, come si è visto. E anche qui il limite diviene accesso al trascendente. Ciò è ben visibile nell’analisi della fenomenologia della colpa. Infatti, se «la struttura dell’azione responsabile comporta la disponibilità a prendere su di sé la colpa»,55 ciò avviene proprio in virtù del limite creaturale intrinseco alla decisione umana, per cui «l’azione responsabile… non può mai anticipare il giudizio sulla propria origine, essenza e fine». Essa «rinuncia a conoscere la propria ultima giustizia» e sa di essere sempre esposta al rischio del male. D’altra parte «la non conoscenza ultima del proprio bene e male» apre lo spazio del mistero della grazia. Proprio per il fatto che l’azione responsabile non ha, a differenza dell’«azione ideologica», «già da sempre presso di sé, nel proprio principio, la propria giustificazione», essa trova il suo senso ultimo nel giudizio e nella grazia di Dio.56 Il limite dell’inconoscibilità del bene che accompagna l’azione responsabile non conduce ad un tragico titanismo, quale sembra echeggiare nella figura del politico tratteggiata da Weber nel suo saggio Politik als Beruf, dove pure si tratta di «etica della responsabilità», ma indirizza piuttosto lo sguardo alla giustizia trascendente, così come la finitudine essenziale dell’essere storico e il suo riconoscimento implicano il rimando alla dimensione della trascendenza.

Tra storicità e responsabilità vi è una specularità di struttura, che rimanda al comune fondamento cristologico. Come la struttura della vita responsabile si presenta nell’Etica come realizzazione della forma (Gestalt) della vita di Cristo nella storia, così la categoria della storicità che si apre alla trascendenza è comprensibile solo alla luce dell’esistenza di Cristo, ovvero, per dirla nei termini di Atto ed essere, solo quando l’essere-in-Adamo viene sostituito dall’essere-in-Cristo, nel quale l’io non è ripiegato su se stesso, ma si apre al «sopraveniente».

Sulla base del comune fondamento cristologico storicità e responsabilità hanno un rapporto di implicanza reciproca. Non solo, come si è visto, la dimensione storica dell’uomo si determina all’interno e in virtù della vita responsabile, ma, d’altra parte, la responsabilità si radica a sua volta nel terreno della storia. Essa rappresenta l’imperativo dettato da un legame che si è costruito ed è cresciuto in una storia di scelte e di rapporti.

4. Responsabilità e memoria

La dimensione storica del mondo umano si muta in storia grazie alla memoria, che raccoglie, lega e conserva i momenti dell’esistenza, i diversi kairós, conservandone la realtà, cosicché essi possano costituire l’orizzonte permanente ed influente di ogni scelta presente, nonché l’ambito della responsabilità.

Fondamento della responsabilità è allora la memoria. Senza memoria nessun legame può avere stabilità ed essere vincolante nelle scelte, e quindi non ci può essere responsabilità né nei confronti degli altri, né nei confronti di se stessi, perché la responsabilità verso se stessi esige la chiarezza riguardo al proprio io, cosa che si può acquistare solo nella chiarezza della propria storia. I legami «istituzionali», siano quelli familiari o quelli dei cittadini nei confronti della comunità civile, sono vuoti e non possono estrinsecarsi in azioni responsabili se non sono supportati da una memoria personale e collettiva, che leghi l’io di adesso con le sue esigenze contingenti ad un passato nel quale si trovano le radici dell’oggi. Solo nella consapevolezza di queste radici l’azione acquista il timbro della coerenza e si strappa alla fragilità dell’improvvisazione insensata. È ciò che Bonhoeffer mette in chiaro all’inizio del «Bilancio» scritto sul limitare del 1943 per gli aderenti alla congiura contro Hitler dieci anni dopo la sua ascesa al potere: «la memoria e la riconsiderazione della lezione appresa fanno parte di una vita responsabile».57

La mancanza di memoria è per Bonhoeffer il segno distintivo del suo tempo, degli anni bui della dittatura nazionalsocialista. Anzi, proprio questa paurosa mancanza di memoria costituisce per il teologo l’humus nichilistico in cui è potuta attecchire l’ideologia razzista del nazismo. La diagnosi si trova chiaramente espressa in «Eredità e decadenza», scritto dell’Etica che segue immediatamente «Etica come conformazione» e mostra il fallimento del processo di Gestaltung nel mondo occidentale e il suo sfociare nel nichilismo proprio in virtù della perdita dell’eredità storica. La perdita dell’eredità storica rappresenta non solo lo smarrimento del passato, ma anche la perdita della capacità di progettare il futuro e di fare scelte responsabili nel presente. Ciò significa nient’altro che l’annullamento della realtà storica dell’uomo, quindi la sua caduta nell’abisso del nulla. La fenomenologia di questa caduta descritta da Bonhoeffer ha un’inquietante attualità:

Di fronte all’abisso del nulla scompare la questione dell’eredità storica, ricevere la quale significa nel medesimo tempo elaborarla nel presente e trasmetterla al futuro. Non esiste né futuro né passato. Esiste solo più l’istante salvato dal nulla e la volontà di afferrare quello seguente. Già le cose di ieri cadono nell’oblio e quelle di domani sono troppo lontane per impegnare oggi. Ci si scrolla dalle spalle il peso delle cose di ieri glorificando un passato nebuloso e lontano, ci si sottrae al compito di domani parlando dei prossimi mille anni. Nulla lascia un’impronta, nulla crea un obbligo. Il film, che si dimentica appena finito, è il segno della profonda smemoratezza di questo tempo. Eventi d’importanza storica mondiale e crimini inauditi non lasciano traccia nell’anima dimentica. Si gioca con il futuro. Le lotterie e le scommesse, che inghiottono somme quasi inimmaginabili di denaro e spesso anche il pane quotidiano dell’operaio, cercano nel futuro solo una fortuna improbabile. La perdita del passato e del futuro fa oscillare la vita tra il più brutale godimento e l’avventato gioco d’azzardo. Qualsiasi processo di sviluppo interiore e di lenta maturazione nella sfera personale e professionale viene bruscamente interrotto. Non si sopportano le tensioni serie, né i tempi di attesa interiormente necessari. […]

Non essendoci più nulla che duri, crolla la base della vita storica, cioè la fiducia, in ogni sua forma. Non essendoci più alcuna fiducia nella verità, il suo posto è preso dai sofismi della propaganda. Non essendoci più alcuna fiducia nella giustizia, si dichiara giusto quello che giova. Pure la tacita fiducia nell’altro, che poggia sulla coerenza, si trasforma in un perenne e sospettoso sorvegliarsi a vicenda. Alla domanda: che cosa rimane? Si può rispondere soltanto: l’angoscia di fronte al nulla. La più stupefacente constatazione, che oggi facciamo, è che di fronte al nulla si sacrifica tutto. Il proprio giudizio, la propria umanità, il prossimo. Ove si sfrutta senza scrupoli tale angoscia, lì non ci sono più limiti a ciò che si può raggiungere (ODB 6, p. 104 sgg.).

Quando si perde la facoltà della memoria, sia personale che collettiva, si è inevitabilmente esposti al decisionismo, perché la scelte non nascono sul terreno della responsabilità, che esige legami stabili, fondati storicamente, ma sulla capacità persuasiva di parole e immagini che fanno presa sulla sfera emotiva legata all’istante, sulla ipnosi degli spot. Dal decisionismo all’autoritarismo il passo è breve, e il contesto nel quale Bonhoeffer scrive dovrebbe insegnare qualcosa, se la memoria storica alzasse la sua voce.

4.1. Il tema della memoria nell’opera di Bonhoeffer

Il tema della memoria viene ripreso nelle lettere dal carcere, dove esso acquista una dimensione più esistenziale. In una lettera ai genitori del 4 giugno 1943 il teologo chiede al padre di fargli avere qualcosa sulla memoria, dal momento che questa «è una cosa che attualmente, in questo contesto, mi interessa molto».58 E nella lettera del 1 febbraio 1944 all’amico Bethge affronta l’argomento esplicitamente:

Una cosa che resta enigmatica, per me come per altri, è la facilità con cui si dimenticano le impressioni provate durante una notte di bombardamenti. Già dopo pochi minuti che è finito, tutto quello che si era pensato prima è come sparito per incanto. A Lutero è bastato lo scoppio di un fulmine perché la sua vita intera ricevesse una svolta per gli anni successivi. Dov’è oggi questa «memoria»? La perdita di questa «memoria morale» — orribile parola! — non è forse il motivo dello sfaldarsi di tutti i vincoli, dell’amore, del matrimonio, dell’amicizia, della fedeltà? Niente resta, niente si radica. Tutto è a breve termine, tutto ha breve respiro. Ma beni come la giustizia, la verità, la bellezza, e in generale tutte la grandi prestazioni, richiedono tempo, stabilità, «memoria», altrimenti degenerano. Chi non è disposto a portare la responsabilità di un passato e a dare forma ad un futuro, costui è uno «smemorato», e io non so come si possa colpire, far riflettere una persona simile. Poiché qualsiasi parola, anche se al momento è capace di fare impressione, viene poi inghittita dalla smemoratezza (RR, p. 274 sg).

D’altra parte il tema della memoria non è estraneo neanche alle opere del periodo accademico. In Atto ed essere nel paragrafo «La questione della conoscenza e l’idea di Chiesa» Bonhoeffer distingue tra un «conoscere esistentivo», che coincide con un «conoscere della fede», e un «conoscere ecclesiale», che comprende il «conoscere della predicazione» e il «conoscere teologico».59 Mentre il conoscere della fede si fonda su un actus directus, alla base del conoscere ecclesiale c’è la memoria, intesa come riflessione sulla «persona» e sulle «parole» di Cristo, che «si sono separate», sono cioè rimaste eventi del passato che abbisognano di un collegamento con la Chiesa di oggi. La memoria è il recupero dell’«evento salvifico» nel presente della comunità, in virtù del quale la Chiesa stessa trova la propria ragione di esistere.

Si tratta, quindi, di una memoria comunitaria, non individuale, e solo sulla base di questa memoria, che si manifesta esplicitamente nella predicazione, può svolgersi, secondo Bonhoeffer, la riflessione teologica:

…non c’è infatti chiesa senza predicazione, né predicazione senza memoria; ma la teologia è la memoria della chiesa (ODB 2, p. 118).

Per il giovane teologo berlinese, quindi, la memoria ecclesiale costituisce la garanzia dell’essere della Chiesa e la condizione di possibilità della sua autoconoscenza, ovvero della teologia.60 In Etica, poi, e precisamente in «Eredità e decadenza», la memoria collettiva appare più in generale come garanzia della continuità dell’essere storico, così come in Resistenza e resa essa diviene la salvezza dell’esistenza condannata all’isolamento della reclusione, il filo capace di tenere insieme e di dare senso all’esserci.61 Non per nulla la vita responsabile, che rappresenta per Bonhoeffer sostanzialmente il tipo di «esistenza autentica», per dirla in termini heideggeriani, cioè il tipo di esistenza che realizza il processo di Gestaltung, come si è visto, abbisogna della memoria per realizzarsi.

4.2. La memoria «donata» e la relazione della storia con il Trascendente

Fondare sulla memoria la possibilità della vita responsabile o, in altri termini, di un’esistenza che non sia condannata all’improvvisazione priva di senso, non comporta per Bonhoeffer il ripiegamento in una visione intimistica o psicologistica. Anzi, «questo addossare la ricerca del passato alla vicenda ontologico-gnoseologico-morale della continuità personale, della salvezza esistenziale, della coerenza nel dinamismo dell’azione evita a Bonhoeffer lo scoglio del sentimentalismo e della surrogazione fantastica, che deve necessariamente intervenire quando la memoria si disintegra per il lungo disinnesco con la realtà; allora la sete delle sensazioni e delle emozioni dev’essere estinta attraverso una proiezione fantastica che ci offra surrettiziamente gli oggetti».62 Il rischio di intendere la memoria come una proiezione surrogante della psiche umana e quindi di ridurre la continuità dell’esistenza ad uno psicologismo, è scongiurato da Bonhoeffer ancorando la facoltà della memoria al rapporto con Dio.

Nella poesia «Passato» raccolta in Resistenza e resa Bonhoeffer asserisce che il recupero del passato nella memoria avviene tramite «gratitudine e pentimento».63 L’espressione non è il residuo di una sensibilità pietista, ma indica una precisa valutazione della facoltà della memoria, che in questo modo viene agganciata saldamente alla relazione dell’uomo con Dio. La gratitudine e il pentimento, infatti, non sono per il teologo tedesco due sentimenti, ma due modi fondamentali in cui l’esserci riconosce e si apre alla signoria del Totalmente Altro, nella consapevolezza di non essere il soggetto, ma piuttosto l’oggetto del rapporto. Agganciare la memoria al riconoscimento di questo rapporto significa considerarla non più in modo idealistico come una funzione del soggetto, ma come un dono: «solo la relazione con Dio restituisce il passato; una relazione fatta di ringraziamento e pentimento».64

La memoria, come dono di Dio, che passa attraverso la gratitudine e il pentimento, può essere veramente vista come la «re-capitulatio cristiana», nella quale «l’uomo è restituito nella sua integralità, anche nel suo passato e in ciò che sembra perduto».65 Il ritorno del vissuto nella condizione della prigionia, pertanto, non è presentato da Bonhoeffer alla stregua di «quei processi di snervante sublimazione», che, in sostanza, presuppongono una concezione spiritualistica dell’uomo; piuttosto esso rappresenta «un recupero dell’uomo totale, considerato nella sua integralità, non traversato dalla dualità di anima e corpo».66 Il finale, assolutamente privo di esaltazione mistica, di «Passato», mostra che veramente «non si tratta di spiritualizzare o operare attraverso sentimenti profondi, si tratta di riprendere dalle mani di Cristo, la figura umanisticamente integrale dell’uomo».67 Lo stesso Bonhoeffer asserisce perentoriamente nella lettera della quarta domenica d’Avvento:

…la “restaurazione” non deve essere assolutamente confusa con la “sublimazione”. “Sublimazione” è sarx (e pietisticamente?!), “restaurazione” è spirito, ma certo non nel senso di “spiritualizzazione” (che pure è sarx)… (RR, p. 239; IV domenica d’Avvento).

E questo è reso possibile principalmente dal fatto che la memoria non è facoltà di autoriflessione, ma dono. In quanto tale essa rappresenta il luogo nel quale si coglie il rapporto tra l’essere storico e il trascendente, la metafora e la prova di come la storia, sia essa considerata nella dimensione individuale o collettiva, non possa sussistere se non in relazione ad un principio trascendente, come si è visto nella dialettica ultimo-penultimo. Ciò significa d’altra parte che al centro della comprensione storica non ci può essere la certezza dell’idea, ma la disciplina dell’arcano.

5. La disciplina dell’arcano quale autentica conoscenza storica

Dal momento che il significato ultimo della storia sta nella sua finitezza che rimanda al trascendente, la conoscenza storica non può partire dalla prospettiva di un’idea che si dovrebbe realizzare nel corso del tempo.68 Pertanto, non si può leggere la storia secondo la categoria del progresso,69 tramite la quale si possono inquadrare in un ordine necessario tutti i molteplici eventi (poco importa se si tratta del progresso dei valori borghesi o delle masse). Ma rifiutare l’interpretazione della storia alla luce dell’idea di progresso, non significa per Bonhoeffer abbandonare lo svolgersi dei fatti al non-senso, bensì custodirne il significato nel mistero. Per questo l’arcani disciplina, il mantenere ignoto ciò che non può essere conosciuto dalla ragione umana, appare nell’opera del teologo tedesco come l’autentica conoscenza storica. Vi è, però, una diversa accezione di arcani disciplina nell’ultimo periodo della riflessione bonhoefferiana, in particolare in Resistenza e resa, rispetto al periodo precedente, soprattutto quello del Kirchenkampf.

Negli anni Trenta il mistero a cui Bonhoeffer fa riferimento è quello della Grazia. Tale mistero investe la storia nel senso che la nuova vita, la «vera» vita giustificata dalla grazia, rimane «nascosta con Cristo in Dio».70 Essa è già una realtà per l’uomo, dal momento che è entrata nella storia con Cristo, ma non è ancora manifesta, proprio come la nuova vita di Cristo risorto non è ancora manifesta. Deve essere però rivelata alla fine dei tempi. Il “nascondimento”, nel senso della non-attingibilità (ma allora anche della non-manipolabilità), è il tratto distintivo del periodo storico che va dall’ascensione alla fine dei tempi, cioè della storia della salvezza.71

Si tratta di un “nascondimento” ancora in qualche modo negativo, che non solo è destinato a scomparire nel tempo ultimo, ma che deve anche essere in qualche modo combattuto dai credenti, i quali devono lottare per annunciare i giudizi divini sulla storia, pur nell’umile consapevolezza che «questi rimangono nascosti e oscuri anche ai credenti».72 Si tratta della lotta per la concretezza del comandamento di Dio, che ha tanto animato Bonhoeffer nel Kirchenkampf. La posizione sostenuta dal giovane teologo della Bekennende Kirche di fronte al mistero della grazia che entra nella storia è, dunque, quella di una tensione, di uno sforzo per esprimerlo attraverso la confessione o la proclamazione del comandamento concreto.

Nel periodo della resistenza politica, invece, Bonhoeffer presenta un diverso atteggiamento nei confronti del mistero, un atteggiamento riassumibile appunto nell’espressione Arkandisziplin (disciplina dell’arcano). Questa si trova alla base della distinzione ultimo-penultimo, come lo stesso Bonhoeffer fa notare nella lettera del 30 aprile 1944:

Acquista forse una nuova importanza a questo punto la disciplina dell’arcano, ovvero la mia distinzione (che tu già conosci) tra ultimo e penultimo? (RR, p. 350).

La «nuova importanza» si riferisce al ruolo di primo piano che l’Arkandisziplin viene a svolgere nell’interpretazione non-religiosa dei concetti biblici, che costituisce proprio il tema fondamentale di questa lettera. Infatti, per ritrovare il significato autentico dei concetti presenti nella Bibbia, sfrondandoli della loro sovrastruttura «religiosa»,73 è necessario recuperare la “differenza qualitativa” che li separa dalle categorie umane, ovvero il loro valore di mistero. Solo dopo aver fatto questo sarà possibile all’uomo interpretare in modo non religioso i passi biblici, cioè cogliere autenticamente il dono della rivelazione. L’arcani disciplina, inoltre, permette di evitare il positivismo della rivelazione, a cui secondo Bonhoeffer approda Barth, e che «rende le cose troppo semplici, istituendo in conclusione una legge di fede e facendo a pezzi ciò che per noi è un dono».74

In cosa consista questo custodire il mistero Bonhoeffer lo dice nel discorso per il battesimo del figlio dell’amico Bethge, al quale egli avrebbe dovuto presenziare in qualità di padrino:

…le parole d’un tempo devono perdere forza e ammutolire, e il nostro essere cristiani oggi consisterà solo in due cose: nel pregare e nell’operare ciò che è giusto tra gli uomini. […] Non è nostro compito predire il giorno…in cui degli uomini saranno chiamati nuovamente a pronunciare la parola di Dio in modo tale che il mondo ne sarà cambiato e rinnovato. Sarà un linguaggio nuovo, forse completamente non-religioso, ma capace di liberare e redimere […] Fino ad allora la causa dei cristiani sarà silenziosa e nascosta; ma ci saranno uomini che pregheranno, opereranno ciò che è giusto e attenderanno il tempo di Dio (RR, p. 370).

Il silenzio e la preghiera sono dunque l’atteggiamento dell’ultimo Bonhoeffer di fronte al mistero della storia. Non si tratta, però, di un atteggiamento definitivo, ma di attesa. Ed è proprio la consapevole contingenza di questo silenzio che rappresenta in fondo la forma di rispetto più alta nei confronti del mistero della rivelazione. Infatti, se l’uomo non è padrone della parola di Dio, non è padrone né di possederla né di negarla. Egli può solo attenderla e vegliarla.

L’arcani disciplina, il rispetto del mistero, la consapevolezza che la verità nello status corruptionis, cioè nella storia, rimane nascosta,75 indisponibile, ha tre conseguenze nel pensiero di Bonhoeffer.

La prima è che viene sospeso il giudizio sul successo storico, poiché non si può sapere con certezza se questo costituisca un successo di Cristo o dell’Anticristo.76 Bonhoeffer non condanna il valore del successo in sé; anzi, legando il bene inscindibilmente alla vita e alla storia, deve ammettere che «non è…possibile considerare il successo come qualcosa di assolutamente neutrale dal punto di vista etico», dal momento che «il successo storico crea il solo terreno sul quale la vita può continuare».77 Tuttavia sulla vita terrena pesa ancora la maledizione del peccato, il “no” di Dio,78 e questo “no” viene superato solo nella croce, cioè là dove Cristo lo assume su di sé. Ma la croce è proprio il segno dell’insuccesso, dello scacco, dell’essere rigettato fuori dalla storia (ausgestossen). Pertanto, se da una parte il teologo tedesco riconosce «il valore etico del successo», poiché, «il successo fa la storia», dall’altra afferma che «al di sopra degli uomini che fanno la storia, colui che ne conduce il corso sa sempre trarre il bene dal male»,79 cosicché una nuova fioritura della vita può venire anche dalla sconfitta della croce. Pertanto, a fronte della sostanziale valorizzazione del successo data nello scritto «Dieci anni dopo», si ha in Etica un giudizio generalmente negativo su questa categoria: in Ehik als Gestaltung viene condannata «l’idolatria del successo» in nome del Crocifisso;80 in «La vita naturale», in relazione al discorso sul suicidio, il successo viene relativizzato come criterio per giustificare la vita;81 anche nella «conformità alla realtà», di cui si parla in «La storia e il bene», Bonhoeffer si guarda dal giustificare «in linea di principio il successo»,82 e tale è la sua posizione anche nello smascherare il «presunto realismo» di chi sostiene che «il discorso della montagna» sarebbe «un’utopia».83

Il problema etico del successo si pone in connessione con il problema della responsabilità; infatti, secondo Bonhoeffer, «ignorare semplicemente il valore etico del successo è un cortocircuito degno di un cavaliere dell’ideale che pensa in modo astorico, cioè non responsabile».84 La valorizzazione del successo di cui parla Bonhoeffer non è «l’atteggiamento servile di fronte al fatto»,85 non è «l’opportunismo, cioè l’arrendersi e il capitolare di fronte al successo», non riconoscendo che il successo non può giustificare «anche l’azione cattiva».86 Il «valore etico del successo» è implicito nel farsi carico della realizzazione del bene nella storia, nell’assumersi la responsabilità del prender forma di Cristo nel mondo, abbandonando «l’atteggiamento di chi avanza critiche astratte e pretende di poter aver ragione come se fosse un semplice spettatore».87

Così, però, il dubbio che investe il successo si sposta sull’azione responsabile, tanto che elemento fondamentale della vita responsabile è l’accettazione del rischio,88 cioè della possibilità di operare scelte contrarie al bene. Anzi, poiché «la domanda ultima» sulla bontà della scelta «rimane aperta e va mantenuta aperta», dal momento che si opera nel penultimo, poiché, insomma, «il giudizio rimane affidato a Dio», «la struttura dell’azione responsabile comporta la disponibilità a prendere su di sé la colpa».89 L’assunzione di colpa propria della vita responsabile è, quindi, la seconda conseguenza della comprensione della storia sotto il segno del mistero.

La sospensione di un giudizio definitivo sul successo90 e la consapevolezza di essere sempre esposto alla colpa nel momento in cui si agisce responsabilmente, inducono Bonhoeffer a riflettere sul rapporto tra la resistenza al male e la resa alla volontà di Dio, ovvero sull’ambiguità del destino (Schicksal), inteso come la forma in cui l’uomo è interpellato dalla storia. D’altra parte la dialettica di resistere (widerstehen) e arrendersi (nel senso di “darsi”, “consegnarsi”, “affidarsi”: sich ergeben) rappresenta l’autentica chiave interpretativa dell’ultima fase dell’esistenza di Bonhoeffer, come ha messo in luce l’amico e confidente Bethge, scegliendo appunto il titolo «Resistenza e resa» per la raccolta delle lettere dal carcere,91 a conferma dello stretto legame che intercorre tra la vita e il pensiero del teologo tedesco.

La resistenza (Widerstand) al destino è «necessaria», anzi, nella concreta situazione storica della Germania nazista rappresenta, secondo Bonhoeffer, l’azione responsabile che egli stesso è chiamato a compiere nei confronti del suo popolo e dell’umanità futura. Tuttavia la resistenza non è l’ultima parola del credente Bonhoeffer. Al di là del destino, a cui l’uomo deve opporsi, c’è sempre la nascosta «guida» di Dio: proprio in quel «es» rappresentato dal destino (das Schicksal) si trova il «Du» della trascendenza, di fronte al quale l’uomo non può che affidarsi. Così la resistenza lascia il posto alla resa, che è, in fondo, resa di fronte al mistero che interseca e costituisce il senso profondo della storia.

Mi sono chiesto spesse volte dove passi il confine tra la necessaria resistenza e l’altrettanto necessaria resa davanti al «destino». Don Chisciotte è il simbolo della resistenza portata avanti fino al non-senso, anzi alla follia… Sancho Panza è il rappresentante di quanti si adattano, paghi e con furbizia, a ciò che è dato. Credo che…dobbiamo affrontare decisamente il «destino» — trovo rilevante che questo concetto sia neutro — e sottometterci ad esso al momento opportuno. Possiamo parlare di «guida» solo al di là di questo duplice processo; Dio non ci incontra solo nel «tu», ma si «maschera» (vermummt) anche nell’«esso», ed il mio problema è in sostanza come in questo «esso» («destino») possiamo trovare il «tu» o, in altre parole, come dal «destino» nasca effettivamente la «guida» (Führung) (RR, p. 289; 21 febbraio 1944).

A ben vedere si tratta ancora della riproposizione, questa volta in chiave esistenziale, della tensione ultimo-penultimo, la quale può essere sostenuta solo grazie ad un’arcani disciplina.92 Allo stesso tempo la domanda sui confini tra la necessità della resistenza e della resa sta a significare che «la resistenza», a cui pensa Bonhoeffer, non è intesa «come mera contrapposizione ad un mondo caduto in preda alla stupidità del male», ma come «perseveranza nel confrontarsi con la realtà delle cose, assumendo come guida la prevalenza del bene escatologico sul male momentaneo», ovvero la strutturazione della realtà in Cristo, della quale, però, «non si potrà dare certo alcuna garanzia anticipata». Tuttavia, «la garanzia sta nei fatti medesimi, nel tessuto connettivo della relazione e nel suo offrirsi come tale».93 In altre parole, la struttura cristologica del reale appare là dove l’«Es» del destino viene letto come «Du» che interpella e pone l’uomo in una relazione dialogica. In tal modo la fondazione della storia in Cristo si realizza all’interno di una dimensione dialogica, che considera la trascendenza come condizione necessaria del dialogo.

6. La dimensione relazionale a fondamento della vita responsabile e della storia

Il concetto di trascendenza a cui fa riferimento Bonhoeffer non è quello di «trascendenza gnoseologica», come viene ribadito più volte in Resistenza e resa.94 Egli indica come autentica «esperienza della trascendenza» l’«esserci-per-altri» (Für-andere-dasein), dove con «esserci» si indica la dimensione storico-temporale dell’essere dell’uomo, nella quale il trascendente si dà come “altro” con il quale l’io entra in relazione. Una relazione che non si esaurisce nel rapporto oggettivante “io-esso”, studiato dalla gnoseologia, ma si dà come rapporto dialogico “io-tu”, in cui l’“altro”, il “tu” che sta di fronte (gegenüber), costituisce l’autentico limite del soggetto, poiché non si lascia ridurre all’interno delle sue categorie, ma lo interpella e lo costringe ad uscire da sé, rivelando così all’io la sua finitezza. Per questo Bonhoeffer, per parlare di trascendenza, sostituisce alla categoria gnoseologica quella relazionale.

Il Tu divino non è solo ciò che segna il limite dell’uomo e della storia, costituendo in tal modo la sorgente della vita che può svilupparsi solo all’interno e in virtù del limite, come è chiaro in Creazione e caduta. La relazione dialogica tra l’uomo e Dio costituisce anche il modello fondante della relazione tra uomo e uomo. L’immagine di Dio nell’uomo è dettata dall’analogia relationis non dall’analogia entis, si dice nello stesso scritto.95 Detto in termini cristologici, questo significa che la verità dell’uomo, la sua essenza, riproduce la forma dell’esistenza di Cristo, intesa essenzialmente come «esserci-per-gli-altri», cioè come essere-in-relazione-gratuita. Tale, d’altra parte, non è altro che la struttura antropologica della vita responsabile, che proprio nella sostituzione vicaria diventa imitazione, sequela e incarnazione storica della vita di Cristo.

Il concetto di Stellvertretung, tematizzato in Etica nella trattazione della vita responsabile, si ritrova per la verità già in diversi passi di Sanctorum Communio, a riprova della fondamentale unità dell’opera di Bonhoeffer.96

Nella tesi di dottorato il termine «sostituzione vicaria» (così è stato tradotto in italiano Stellvertretung) compare per la prima volta in relazione alla colpa collettiva e alla possibilità di ottenere la salvezza per mezzo di pochi uomini che credono e fanno penitenza in rappresentanza di tutti: si tratta del commento alla preghiera di intercessione di Abramo per Sodoma («Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere?»97) e alla risposta di Dio («Non la distruggerò anche per riguardo a quei dieci»98). È proprio questo «principio di sostituzione vicaria» a definire il rapporto tra Cristo e l’umanità e, di conseguenza, l’agire della «nuova umanità»:

Non la «solidarietà», che non è mai possibile tra Cristo e l’uomo, ma la sostituzione vicaria è il principio vitale della nuova umanità (ODB 1, p. 87).

È chiaro che i rapporti sociali all’interno della Chiesa si fondano sulla sostituzione vicaria, dal momento che essi derivano dall’«operare vicario di Cristo», il quale «innocente…prende su di sé la colpa e il castigo degli altri».99 Sulla base di questa azione vicaria si costituisce la comunità d’amore, dotata di «una sola vita basata sull’essere l’uno con l’altro e l’uno per l’altro», cioè sulla «rinuncia dell’Io ‘per’ il prossimo, a vantaggio di questi», sulla «disponibilità a tutto fare e sopportare al suo posto, e se necessario a sacrificarsi per lui, di porsi al suo posto in modo vicario».100 Ma se questa è la modalità di rapporto all’interno della comunità di Cristo, non diversa deve essere la disposizione della Chiesa, intesa come persona collettiva, nei confronti dell’umanità. In tal modo Bonhoeffer sembra anticipare nella tesi di dottorato la questione della funzione rappresentativa della Chiesa nei confronti del mondo proposta in Etica.101

Nel capitolo Ethik als Gestaltung viene chiaramente detto che il processo di Gestaltung, del prender forma di Cristo nell’uomo e di conformazione dell’umanità a Cristo, ha inizio nella Chiesa, che assume pertanto il nome di «corpo di Cristo»; ma «quanto in essa avviene in essa, avviene in maniera esemplare e vicaria per tutti gli uomini»:102

La Chiesa può legittimamente chiamarsi corpo di Cristo perché nel corpo di Gesù Cristo è veramente accolto l’uomo e quindi tutti gli uomini lo sono. La Chiesa ha dunque la forma che in realtà l’umanità intera dovrebbe avere (E, p. 72).

Anche nel capitolo «Das “Ethische” und das “Christliche”», in relazione alla dottrina dei mandati, Bonhoeffer ribadisce la «funzione vicaria» svolta dalla Chiesa nei confronti del mondo intero, individuando propria in questa vicarietà l’elemento specifico del mandato Chiesa:

La comunità cristiana sta nel posto dove dovrebbe stare tutto intero il mondo; in questo senso essa serve il mondo sostituendolo vicariamente, esiste a motivo del mondo. […] la comunità è la «nuova creazione», la «nuova creatura», la meta delle vie di Dio sulla terra. In questo doppia sostituzione vicaria la comunità sta completamente in comunione e alla sequela del suo Signore, che fu precisamente il Cristo per il fatto di essere esistito per tutto il mondo e non per sé (ODB 6, p. 358).

Nell’Etica, però, il concetto di «sostituzione vicaria» non compare solo in rapporto alla Chiesa, ma, come si è visto, viene tematizzato esplicitamente in «La storia e il bene» come elemento essenziale della vita responsabile, precisamente quell’elemento che vincola l’uomo agli altri uomini e lo porta ad «agire in luogo di altri». La sostituzione vicaria costituisce l’essenza stessa della vita responsabile e, quindi, dell’agire etico, determinandone la dimensione non individualistica. D’altra parte l’asserzione che «nessuno può sfuggire alla responsabilità, ossia al dovere di operare in vece di qualcun altro» non è fondata da Bonhoeffer fenomenologicamente, ma sulla base dell’ontologia cristologica: «ogni vita umana è per essenza una vita vicariamente responsabile», solo per il fatto che Cristo «ha vissuto vicariamente per noi». Egli «si è presentato davanti agli uomini in favore di Dio e davanti a Dio in favore degli uomini», cosicché la sua vita intera ha una funzione vicaria. Ma la sua vita è «la vita, la nostra vita»,103 dal momento che ha detto: «Io sono la vita».104 La funzione vicaria di Cristo investe l’esistenza umana nella sua totalità.105

Il concetto di Stellvertretung non solo richiama il fondamento cristologico, ma fornisce sostanzialmente la chiave di interpretazione dell’ontologia cristologica di Bonhoeffer. La sostituzione vicaria, infatti, da una parte costituisce il principio per cui la realtà umana si fonda in Cristo, comprendendo la vita di Cristo vicariamente ogni esistenza umana. D’altra parte la sostituzione vicaria, manifestandosi nella forma etica della responsabilità,106 mostra come l’uomo non venga a coincidere con il fondamento, ma mantenga la propria autonomia nello spazio di libertà implicato dalla responsabilità. Il rapporto tra il fondamento della vita e l’esistenza umana, in particolare la vita responsabile, che, come si è detto, rappresenta per Bonhoeffer l’esistenza autentica, non è quindi di identificazione, né di estraneità, ma di relazione, e di relazione dialogica, poiché per Bonhoeffer solo questa è reale e sfugge alla riduzione oggettivante delle categorie della ragione.107 La vita responsabile è una risposta all’appello costituito dalla vita di Cristo, e una risposta «totale», che coinvolge l’intera esistenza. Essa sorge sulla base di un rapporto dialogico «io-tu» e ripropone strutturalmente questo rapporto, realizzando così l’analogia relationis che esiste tra Creatore e creatura, di cui si parla in Creazione e caduta.

Anche la realtà storica, in cui la responsabilità si innesta come sua sorgente e prodotto, è pensabile in Bonhoeffer solo in relazione alla trascendenza, anche là dove essa appare come continuità salvata dalla memoria, poiché la memoria stessa è donata. La storia e la vita responsabile nella loro autonomia, anzi proprio per l’ammissione della loro autonomia che non permette di cancellare idealisticamente la loro «finitudine essenziale», trovano senso solo in un rapporto dialogico col principio trascendente. Il significato profondo della vita responsabile e della storia è riposto nel dialogo che coinvolge ogni uomo nel suo stesso esistere, un dialogo in cui la ragione calcolatrice perde il controllo del gioco e l’uomo è messo in gioco nella sua totalità di fronte al Tu divino.

  1. Per chiarire ulteriormente la novità costituita dalla recente edizione critica dell’Etica, riporto di seguito la ricostruzione dell’ordine cronologico dei diversi manoscritti bonhoefferiani secondo l’edizione curata da Bethge nel 1962 (pubblicata in traduzione italiana nel 1969) e secondo l’edizione critica curata da I. Tödt, H.E. Tödt, E. Feil e C. Green, uscita nel 1992 (in traduzione italiana nel 1995) come 6º volume della collana DBW:

    Etica (edizione italiana 1969):

    • I. L’amore di Dio e lo sfacelo del mondo (1939-1940)
    • II. Chiesa e mondo (idem)
    • III. Funzione formativa dell’etica (settembre 1940): Eredità e decadenza; Colpa, giustificazione e rinnovamento
    • IV. Le cose ultime e penultime (novembre 1940 — febbraio 1941): Il «naturale»
    • V. Cristo, la realtà e il bene (probabilmente estate 1941)
    • VI. La storia e il bene (estate 1941— inverno 1941-42): La struttura della vita responsabile; Il luogo della responsabilità
    • VII. Il fatto «etico» e il fatto «cristiano» come tema (inverno 1942-43): Il comandamento concreto e i mandati divini

    Etica (edizione critica italiana 1995):

    • I periodo (estate 1940 — 13 novembre 1940): Cristo, la realtà e il bene; Cristo, chiesa e mondo; Etica come conformazione; Eredità e decadenza…
    • II periodo (17 novembre 1940 — 22 febbraio 1941): Le cose ultime e penultime. La vita naturale…
    • Intermezzo (aprile 1941 — fine 1941): Eredità e decadenza; Colpa, giustificazione redenzione; inserzione in Cristo, la realtà e il bene
    • III periodo (inizio 1942 — estate 1942): La storia e il bene (prima redazione); La storia e il bene (seconda redazione)
    • IV periodo (estate 1942 — fine 1942): L’amore di Dio e la dissoluzione del mondo; Chiesa e mondo I; Sulla possibilità della Chiesa di rivolgere la parola al mondo
    • V periodo (inizio 1943 — 5 aprile 1943): Il fenomeno «etico» e il fenomeno «cristiano» come tema; Il comandamento concreto e i mandati divini

  1. In virtù della frammentarietà delle riflessioni teologiche negli scritti dell’ultimo periodo (Etica e Resistenza e resa) l’opera di Bonhoeffer ha acquistato le sembianze di un caleidoscopio, nel quale ciascuno ci ha visto qualcosa di diverso. Così il teologo tedesco è diventato vessillo e punto di riferimento delle più diverse correnti teologiche del secondo dopoguerra: «i bultmaniani e i barthiani lo interpretano come il prolungamento dei loro temi teologici. I discepoli di Tillich scoprono dell’affinità tra il «mondo adulto» e la «cultura teonoma». Gli apostoli della teologia radicale trovano i loro fondamenti classici in Resistenza e resa. I secolaristi godono dell’anticlericalismo di Bonhoeffer. La cultura di massa si ispira alla vita e alla morte di questo martire» (H. Cox, copertina di Union Seminary Quaterly Review, XXIII, 1967). D’altra parte la medesima mancanza di compiutezza propria dell’ultimo Bonhoeffer suscita l’idea di un pensatore «visionario», illuminato da improvvise intuizioni che rimangono però necessariamente allo stato di abbozzo (cfr. la lettera di Barth a Herrenbrück in MW 1, p. 121s). In verità, contrariamente alla fama che si è creata attorno alla sua opera, si può dire che egli sia animato, sin dai primi scritti, da una tensione sistematica che si propone di inglobare la realtà esperienziale all’interno di un orizzonte di comprensione ben definito (cfr. lo studio di E. Randone, «Bonhoeffer e la metafisica», in Rivista di filosofia, LXI (1970), 2, aprile-giugno, pp. 149-190). Infatti, le opere di tesi per il dottorato e per la libera docenza sono lavori di teologia sistematica e tale era anche l’aspirazione dell’Etica e dello scritto progettato in carcere, raccolto in Resistenza e resa sotto il titolo «Progetto per uno studio»; se poi questi ultimi passano per asistematici e frammentari, bisogna onestamente dire che la causa di tale asistematicità è da attribuire più alle condizioni storico-personali dell’autore che alla sua volontà di far rimanere l’elaborazione del suo pensiero allo stato di frammento. Anche se questo risultato può essere letto come indicazione simbolica del significato profondo della sua teologia (cfr. G. Bellia, Elogio del frammento. Invito all’etica conversando con Bonhoeffer, Cittadella, Assisi 1992). ↩︎

  2. Cfr. Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, tr. it. a cura di A. Gallas, Edizioni Paoline, Alba 1988 (= RR), p. 232 (lettera a Bethge del 15.12.1943). ↩︎

  3. Cfr. I. Mancini, Dietrich Bonhoeffer. Un resistente che ha continuato a credere, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, 1995, p. 14. ↩︎

  4. Cfr. Opere di Dietrich Bonhoeffer — Edizione critica, vol. 6, Etica, a cura di A. Gallas, tr. it. di C. Danna, Queriniana, Brescia 1995 (= ODB 6), p. 214. ↩︎

  5. Benché Bonhoeffer studi a Berlino, patria della teologia dialettica, nella sua tesi di dottorato Sanctorum Communio e nella sua tesi di abilitazione Akt und Sein è ben evidente l’impostazione dialettica. L’avvicinamento alla scuola dialettica, e in particolare a Barth, è frutto di una scoperta personale, avvenuta nell’inverno 1924-25, che ha rappresentato per Bonhoeffer forse l’unica vera grande conversione della sua vita. ↩︎

  6. «Quando alla Conferenza plenaria delle sezioni del Comitato internazionale Bonhoeffer, svoltasi nel giugno 1988 ad Amsterdam, fu presentata la successione cronologica nuovamente ricostruita della composizione dei manoscritti, Bethge sottolineò, nel suo saluto al pubblico, che ora, come spesso avviene in Bonhoeffer, il preludio, il manoscritto «Cristo, la realtà e il bene»… contiene in fondo in sé già tutto quello che seguirà; l’etica alla luce dell’unica realtà in Cristo» (ODB 6, p. 18). ↩︎

  7. Cfr. ODB 6, pp. 31ss. ↩︎

  8. Cfr. ODB 6, p. 33 s. ↩︎

  9. Cfr. ODB 6, p. 34. ↩︎

  10. Cfr. ibidem. ↩︎

  11. Cfr. ODB 6, p. 35. ↩︎

  12. Cfr. ODB 6, p. 60. ↩︎

  13. Cfr. ODB 6, p. 72. ↩︎

  14. Cfr. ODB 6, p. 75. ↩︎

  15. E, p. 74. ↩︎

  16. Cfr. ODB 6, p. 215 s. ↩︎

  17. Cfr. ODB 6, p. 216. ↩︎

  18. Cfr. ODB 6, p. 220. ↩︎

  19. Cfr. ODB 6, p. 217s. ↩︎

  20. Si noti la comune radice delle parole tedesche Verantwortung e Antwort, di cui parla anche D’Agostino. Cfr. F. D’Agostino, «Sul fondamento etico della dottrina della secolarizzazione di Dietrich Bonhoeffer», in Proteus, 2 (1971), pp. 161-183; cfr. p. 173 nota 68. ↩︎

  21. Cfr. ODB 6, p. 223. Il rischio di una terminologia «profana» risiede evidentemente nell’applicazione indebita di categorie del pensiero laico a concetti biblici, fino a perdere il significato autentico di questi ultimi, i quali sono frutto della rivelazione divina e non elaborazione della riflessione umana. Questo è appunto, secondo Bonhoeffer, l’errore in cui è incorsa la teologia liberale. Tuttavia, come fa giustamente presente Bonhoeffer, «non va dimenticato che anche l’uso della terminologia biblica presenta dei rischi» (ibidem), dal momento che anch’esso è sottoposto al processo di secolarizzazione e spesso le parole bibliche per il loro abuso si sono svuotate di significato. Si tratta in nuce del problema del linguaggio non-religoso proposto in Resistenza e resa (cfr. RR p. 370). ↩︎

  22. Cfr. ODB 6, p. 224. ↩︎

  23. Ibidem. ↩︎

  24. Cfr. ODB 6, p. 225. ↩︎

  25. Cfr. ODB 6, p. 227. ↩︎

  26. Cfr. ODB 6, pp. 240ss. Le pagine dell’Etica relative all’assunzione di colpa sono tra le più sentite da parte di Bonhoeffer, che, scegliendo di rimanere in Germania durante la seconda guerra mondiale, decise di partecipare così al destino e alla colpa della sua patria (cfr. RR, p. 244). «Si tratta qui di accettare una responsabilità colpevole per passare — se possibile — dal mondo della maledizione a quello della benedizione. Il passo concreto fu l’entrata nella congiura per fermare il terrore omicida di Hitler; ciò significava: passare la porta, tra una colpa ostinata, tra la negazione della solidarietà a coloro che soffrivano in quel momento e la solidarietà della colpa con coloro che si accingevano all’ambivalente impresa del colpo di stato per strappare il timoniere dalla guida della macchina di distruzione» (E. Bethge, «La colpa in Dietrich Bonhoeffer», in Rassegna di teologia, 20 (1979), pp. 401-411, p. 409s). ↩︎

  27. Secondo una schematizzazione forse semplicistica, ma funzionale ai suoi intenti, Bonhoeffer assimila il kantismo all’idealismo, ritenendo quest’ultimo solo una radicalizzazione del primo. ↩︎

  28. Questo passaggio di prospettiva è rilevabile già nel corso Essenza della Chiesa tenuto nel Sommersemester 1932: «La novità di questo corso rispetto alle precedenti riflessioni ecclesiologiche di Bonhoeffer consiste nel porre il problema dell’essenza della Chiesa in rapporto al concreto luogo che essa occupa nel mondo. L’individuazione dell’“essenza” non mira in prima istanza a definire la “natura” della Chiesa, ma piuttosto a precisarne i compiti, le funzioni, nonché la rete di relazioni in cui, per propria costituzione, essa si trova inserita e che essa stessa contribuisce a costituire» (A. Gallas, «Ánthropos téleios». L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana, Brescia 1995, p. 91). ↩︎

  29. Relazione del 22 aprile 1936, poi articolo per Evangelische Theologie, giugno 1936. ↩︎

  30. «Il termine “decisione” (Entscheidung) … non viene mai utilizzato da Bonhoeffer nella connotazione tipica della teologia e della filosofia esistenzialistica» (A. Gallas, op. cit., p. 164). ↩︎

  31. Cfr. Il problema della comunità ecclesiastica in Scritti, pp. 517ss. ↩︎

  32. Dilthey è fortemente presente soprattutto nelle opere dell’ultimo periodo. In Resistenza e resa numerosi sono i passi in cui viene menzionato: cfr. RR, p. 257, 260, 276, 281, 300, 316, 408, 419. Inoltre in una lettera del luglio 1944 inviata a Bethge dai genitori di Bonhoeffer, si legge: «Nella sua reclusione, soffrirà molto, in questi tempi così agitati, e farà molta fatica a concentrarsi su Dilthey, che sta studiando per la sua Etica» (RR, p. 456). Negli scritti precedenti al periodo di Tegel il nome di Dilthey per la verità non compare spesso: è presente in Atto ed essere (cfr. AE, p. 37, 62, 80, 140) e negli appunti relativi alle lezioni del corso del semestre invernale 1931-1932 (cfr. Scritti, p. 190, 210, 220). Tuttavia, per le congruenze rilevate tra il pensiero del teologo luterano e lo storicismo diltheyano Galantino sostiene che «è da pensare che la riflessione di Bonhoeffer sulla storicità dovette passare attraverso le intuizioni e la lettura di Dilthey in maniera molto più ampia di quanto non appaia dalle poche notizie giunte sino a noi» (cfr. N. Galantino, «Storicità come fedeltà alla terra in Dietrich Bonhoeffer», in Pensiero e storicità. Saggi su Hegel, Marx, Gadamer e Bonhoeffer, a cura di C. Greco, Aloisiana pubblicazioni della pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale — sezione «S. Luigi», 19, Morcelliana, Brescia, 1985, pp. 191-243, p. 194). ↩︎

  33. Cfr. P. Rossi (a cura di), Lo storicismo tedesco, Torino 1977, p. 49. ↩︎

  34. Cfr. ODB 6, p. 233. ↩︎

  35. Cfr. ibidem. ↩︎

  36. Cfr. P. Rossi, «Introduzione» a W. Dilthey, Critica della ragione storica, tr. it. di P. Rossi, Einaudi, Torino 1977, p. 30. ↩︎

  37. Cfr. N. Galantino, «Storicità come fedeltà alla terra in Dietrich Bonhoeffer», in op. cit., p. 236. ↩︎

  38. Cfr. U. Perone, «L’essere nel tempo: la tensione tra ultimo e penultimo come contesto dell’etica», in Dietrich Bonhoeffer. Dalla debolezza di Dio alla responsabilità dell’uomo, Atti del Convegno tenuto a Trento dal 5 al 7 Aprile 1995, a cura di A. Conci e S. Zucal, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 193-203, p. 201. ↩︎

  39. Cfr. Opere di Dietrich Bonhoeffer — Edizione critica, vol. 2, Atto ed essere, a cura di A. Gallas, tr. it. di A. Gallas e C. Danna, Queriniana, Brescia 1993 ( = ODB 2), p. 145. ↩︎

  40. «La parola qualitativamente ultima esclude una volta per sempre qualsiasi metodo» («Le cose ultime e penultime», in ODB 6, p. 123). ↩︎

  41. Cfr. ODB 6, p. 124s. ↩︎

  42. Cfr. ODB 6, p. 133. ↩︎

  43. U. Perone, «L’essere nel tempo: la tensione tra ultimo e penultimo come contesto dell’etica», in Dietrich Bonhoeffer. Dalla debolezza di Dio alla responsabilità dell’uomo, a cura di A. Conci e S. Zucal, cit., p. 199. ↩︎

  44. Cfr. Opere di Dietrich Bonhoeffer — Edizione critica, vol. 3, Creazione e caduta, a cura di A. Gallas, tr. it. di M.C. Laurenzi, Queriniana, Brescia 1992 (= ODB 3), p. 72s. ↩︎

  45. Cfr. ODB 3, p. 73s. ↩︎

  46. Cfr. ODB 3, p. 77 s. ↩︎

  47. Cfr. ODB 3, pp. 87ss. ↩︎

  48. Gn 3,1. ↩︎

  49. Cfr. ODB 3, p. 89. ↩︎

  50. Ibidem. ↩︎

  51. N. Galantino, op. cit., p. 233, nota 133. ↩︎

  52. Cfr. ODB 3, p. 91. ↩︎

  53. Si veda il capitolo precedente. ↩︎

  54. ODB 3, p. 77. ↩︎

  55. Cfr. ODB 6, p. 240. ↩︎

  56. Cfr. ODB 6, p. 233. ↩︎

  57. Cfr. RR, p. 59. ↩︎

  58. Cfr. RR, p. 111. ↩︎

  59. Cfr.ODB 2, p. 114. ↩︎

  60. Si tenga presente la coincidenza di teologia ed ecclesiologia nella prima fase dello sviluppo del pensiero bonhoefferiano. Cfr. l’analisi per molti aspetti superata, ma su questo punto ancora valida di H. Müller, Von der Kirche zur Welt. Ein Beitrag zu der Beziehung des Wortes gottes auf die Societas in Dietrich Bonhoeffers theologischer Entwicklung, Kohler und Amelang, Leipzig 1961, pp. 33ss. ↩︎

  61. Appassionata testimonianza di questo è la poesia «Passato», scritta dopo una visita della fidanzata nel carcere di Tegel: cfr. RR, pp. 392-395. ↩︎

  62. I. Mancini, Bonhoeffer, Vallecchi, Firenze 1969, p. 303. ↩︎

  63. Cfr. RR, p. 194, 395. ↩︎

  64. I. Mancini, op. cit., p. 304. ↩︎

  65. Cfr. ibidem, p .305. ↩︎

  66. Cfr. ibidem. ↩︎

  67. Cfr. ibidem. ↩︎

  68. Si consideri la distinzione operata da Bonhoeffer nella seconda conferenza barcellonese tra il modo idealistico di fare storia e la storia come ascolto (cfr. Scritti, p. 35s). ↩︎

  69. Cfr. Opere di Dietrich Bonhoeffer — Edizione critica, vol. 1, Sanctorum Communio, a cura di A. Gallas, tr. it. di E. Polli, revisione di A. Gallas, Queriniana, Brescia 1994 (= ODB 1), p. 180. ↩︎

  70. Cfr. «Predica della quarta domenica dopo la Trinità» (19 giugno 1932) in Scritti, p. 158. ↩︎

  71. Nel corso sulla Cristologia Cristo e la Chiesa sono dette «centro misterioso» della storia (cfr. «Cristologia» in E. Bethge, Dietrich Bonhoeffer. Teologo, cristiano, contemporaneo. Una biografia, tr. it., Queriniana, Brescia 1975, p. 1034s). ↩︎

  72. Cfr. «Meditazioni sul salmo 119» in Scritti, p. 618. ↩︎

  73. In Resistenza e resa Bonhoeffer intende la categoria del «religioso» alla stregua di Barth come la riduzione soggettivistica-idealistica del divino. ↩︎

  74. Cfr. RR, p. 355. ↩︎

  75. Cfr. RR, pp. 226ss. ↩︎

  76. Bonhoeffer conosce il racconto dell’Anticristo di Solov’ëv (cfr. E, p. 48), nel quale si narra come la figura dell’Anticristo si presenti nel mondo sotto le sembianze di un uomo che, in virtù delle sue grandiose doti intellettuali e umane, raggiunge il massimo successo, riuscendo a costituire un impero planetario, dal quale è bandita la miseria e il sopruso (V. Solov’ëv, I tre dialoghi e il racconto dell’Anticristo, tr. it. di G. Faccioli, Marietti, Genova 1996). L’attualità del racconto del filosofo russo e la sua particolare corrispondenza con l’ascesa di Hitler non deve essere sfuggita a Bonhoeffer. ↩︎

  77. Cfr. «Dieci anni dopo. Un bilancio sul limitare del 1943» in RR, p. 63. ↩︎

  78. Cfr. ODB 6, pp. 218ss. ↩︎

  79. RR, p. 63. ↩︎

  80. Cfr. ODB 6, pp. 65-68. ↩︎

  81. Cfr. ODB 6, pp. 168ss. ↩︎

  82. Cfr. ODB 6, p. 227s. ↩︎

  83. Cfr. ODB 6, pp. 208ss (prima redazione di «La storia e il bene»). ↩︎

  84. RR, p. 63. ↩︎

  85. ODB 6, p. 227. ↩︎

  86. Cfr. RR, p. 63. ↩︎

  87. Cfr. ibidem. ↩︎

  88. Cfr. ODB 6, p. 224. ↩︎

  89. Cfr. ODB 6, p. 239s. ↩︎

  90. È di grande interesse a questo proposito lo scritto «Lo sguardo dal basso», un abbozzo probabilmente della fine del 1942, forse progettato proprio come parte di «Dieci anni dopo», nel quale Bonhoeffer sostiene che «resta un’esperienza di incomparabile valore l’aver imparato a vedere dal basso i grandi avvenimenti della storia del mondo, nella prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, dei deboli, degli oppressi e derisi, in breve dei sofferenti», pur mettendo in guardia dal «trasformare questa prospettiva dal basso in uno schierarsi con gli eterni scontenti» (Scritti, p. 687). ↩︎

  91. La spiegazione del significato di «resistenza e resa» è data dallo stesso Bonhoeffer nella lettera del 21 febbraio 1944 (cfr. RR, pp. 288ss). ↩︎

  92. Cfr. RR, p. 350. ↩︎

  93. Cfr. S. Rostagno, «Atto, essere, relazione. Il contrasto tra dogmatica ed etica», in AAVV, Dalla debolezza di Dio alla responsabilità dell’uomo, a cura di A. Conci e S. Zucal, cit., pp. 173-192, p. 189s. ↩︎

  94. Cfr. RR, p. 351, 460, 462. ↩︎

  95. Cfr. ODB 3, p. 56. ↩︎

  96. André Dumàs ha rilevato nella sua monografia (Une théologié de la réalité: Dietrich Bonhoeffer, Labor et fides, Genève 1968) la permanenza in tutta l’opera di Bonhoeffer di alcune parole chiave: Wirklichkeit (realtà), Stellvertretung (rappresentanza), Gestaltung (formazione / conformazione). Negli studi attuali l’unità fondamentale del pensiero di Bonhoeffer è cosa acquisita, dopo che per molto tempo si è parlato di una frattura tra gli scritti della resistenza e quelli precedenti, soprattutto sulla base dell’interpretazione dei «teologi radicali» e della critica marxista. ↩︎

  97. Gn 18,24. ↩︎

  98. Gn 18,32. Cfr. ODB 1, p. 71. ↩︎

  99. Cfr. ODB 1, p. 93. ↩︎

  100. Cfr. ODB 1, p. 114. ↩︎

  101. Si pensi anche alla teoria dell’apocatastasi, accolta da Bonhoeffer nelle ultime pagine di Sanctorum Communio: cfr. ODB 1, p. 183. ↩︎

  102. Cfr. ODB 6, p. 73. ↩︎

  103. Cfr. E, p. 184. Bonhoeffer si riferisce in particolare a Fil 1,21 e Col 3,4. ↩︎

  104. Gv 11,25. ↩︎

  105. Cfr. ODB 6, pp. 223ss. ↩︎

  106. «Che la responsabilità poggi sulla sostituzione vicaria risulta nella maniera più chiara…» (ODB 6, p. 224). ↩︎

  107. «… la relatio non è una capacità o una possibilità propria dell’uomo, una struttura del suo essere, ma è un rapporto donato, posto…» attraverso l’incontro e il riconoscimento del «tu» (cfr. ODB 3, p. 56). ↩︎