L’illuminismo eteronomo di Michel Foucault

1. L’obbligo dei moderni

Se con autonomia intendiamo la disposizione etica moderna volta a definire le condizioni razionali di autogoverno dell’agire dell’individuo, questo concetto è inscindibile dalla moderna problematica dell’obbligazione, ovvero da quell’insieme di dottrine che tra prima modernità e illuminismo hanno riflettuto sull’articolazione concettuale tra sovranità della legge e libertà degli individui. L’alpha e l’omega di quest’articolazione sono ben designati dal concetto di sovranità hobbesiana e dall’ideale normativo kantiano. Secondo Hobbes l’individuo tutela la propria libertà trasferendola alla persona collettiva del sovrano capace, attraverso il monopolio della violenza, di proteggerla dall’ingerenza di altri individui con la conseguenza di una riduzione della libertà morale di ciascuno nel foro interno della coscienza. La libertà è quindi salvaguardata a prezzo di una sua, apparente, spoliticizzazione. È la componente pratica della libertà, la natura etica dell’agire politico, che viene in questo modo silenziata. Come noto, quest’operazione si legittima ideologicamente attraverso l’opposizione tra la scienza politica moderna e l’etica politica degli antichi, tra la civil science hobbesiana e la praxis aristotelica. Diversamente, secondo Kant, qualsiasi forma di minorità dell’individuo — sia essa politica, familiare o tradizionale — è soggetta a critica e le condizioni di possibilità di questa critica risiedono nella capacità dell’individuo di divenire principio morale incondizionato della propria azione. All’assolutismo politico del potere sovrano si sostituiscono l’assolutezza morale della persona umana e la necessaria conformità dell’autorità politica allo status morale dell’individuo. La morale kantiana sembra così fondare il problema etico di un’azione concertata collettivamente nell’esercizio individuale della propria libertà formale. Questa libertà è, a sua volta, articolata alla capacità di limitare il dominio della conoscenza, ovvero si esercita attraverso una critica delle ambizioni illegittime della ragione umana.

Se, storicamente, le modalità proprie attraverso cui la prima modernità ha pensato l’emancipazione individuale e collettiva si costituiscono di geometrie variabili attraverso cui rendere razionalmente giustificabile la libera sottomissione degli individui alla sovranità della legge, contemporaneamente, tra XVII e XVIII secolo, la natura umana e con essa la misurabilità, la previsione e il controllo della relazioni sociali divengono l’oggetto proprio delle scienze dell’uomo. Quest’ultime vengono quindi ad assumere un’inevitabile funzione politica, in quanto, diversamente dal pensiero antico, è in ragione del tipo di legami sociali, derivanti dalle disposizioni proprie della natura umana che si definisce il carattere di una società e non è, viceversa, dalla collettività che si determina la natura delle sue relazioni sociali.1 Su questo doppio binario si sviluppa la riflessione moderna sulla morale e se Kant, attraverso la distinzione tra antropologia pragmatica e filosofia pratica, ha fornito una modalità di articolazione tra scienze umane e obbligazione morale, è Michel Foucault ad aver esplicitato e sottoposto a critica la funzione politica di questo dispositivo concettuale.2 La critica, sostiene Foucault, per intervenire sulle modalità attraverso cui le scienze dell’uomo producono la stessa realtà che dovrebbero rendere manifesta — creando delle condizioni di governo della società capaci d’operare oltre il semplice comando — deve procedere di pari passo detrascendentalizzando la morale e la politica moderne. Essa deve cioè pensare la relazione tra libertà e obbedienza fuori dalla grammatica della sovranità e dell’obbligazione morale.

Per questa ragione la storia dei dispositivi che legano sapere e potere lungo la modernità si accompagna a quella di soggetto morale e al suo radicamento nella vicenda dello Stato. La critica deve operare, secondo Foucault, attraverso un «rovesciamento» della ragione morale e politica moderna,3 fondata sul legame tra sovranità e soggetto di diritto da un lato e soggetto morale dall’altro. Soggetto di diritto e soggetto trascendentale condividono uno stesso destino e la critica del primo non può andare senza la critica dell’altro.

Tuttavia, come dimostra la riflessione alla quale Foucault dedica gli ultimi anni della sua vita, la questione si trasforma quando proviamo a qualificare l’esercizio della critica come una modalità specifica di enunciazione discorsiva, ovvero come una pratica, un’attitudine specifica alla parola e all’azione. Se, infatti, la critica produce necessariamente una forma di disobbedienza, l’azione disobbediente sembra costretta a definire delle regole che debbono essere in grado di governare l’azione dei soggetti insubordinati. Quali sono dunque le modalità proprie a questo autogoverno dei soggetti? In che modo l’autos dell’autogoverno soggettivo, la soggettivazione etica tramite la critica e la disobbedienza, si distingue dall’autos dell’autonomia, ovvero la modalità propria con la quale Kant, valorizzando la dimensione morale delle moderne teorie dell’obbligazione, ha pensato la libera sottomissione del soggetto alla legge? La posta in palio per Foucault era doppia: da un lato salvaguardare il potenziale emancipativo dell’illuminismo — chiarendo la propria posizione in un dialogo, mancato, con Habermas — dall’altro non rinunciare all’impianto critico-genealogico sviluppato nel corso della sua esistenza, iniziato proprio con un contributo all’antropologia pragmatica di Kant.4

Per meglio valutare il contributo di Foucault a un dibattito sull’eteronomia, credo che sia importante assecondare l’andamento carsico della sua riflessione, evidenziandone gli aspetti irrisolti quando necessario e attraversandone le tensioni piuttosto che cercare di risolverle in una serie di contraddizioni. In questa prospettiva, gli ultimi tre anni di corsi al College de France5 che Foucault ha dedicato all’etica degli antichi, oltre ad una serie di conferenze, articoli e interviste rilasciate ed edite a partire dal 1978, sono il luogo designato per ricostruire la sua riflessione su illuminismo ed eteronomia.

2. L’evento della critica

In una conferenza dal titolo Qu’est ce que la critique? tenuta alla Sorbona il 27 maggio del 1978, Michel Foucault affronta il tema della critica e, fin dalle prime pagine, si comprende come il tema kantiano dell’autonomia divenga l’interlocutore privilegiato di questo dialogo che si svilupperà negli anni.6 «L’attitudine critica» o, secondo una dizione del manoscritto non pronunciata da Foucault, la «maniera critica», si sviluppa attraverso condizioni «mai autonome» poiché essa si esercita necessariamente all’interno di un determinato dominio discorsivo (la filosofia, la scienza, il diritto etc.). La critica non sembra quindi essere in grado di definire le condizioni della sua stessa enunciabilità dipendendo queste, almeno in parte, dall’ambito nel quale essa si esercita. Quest’apparente dipendenza della critica, non indica tuttavia la sua assoluta contingenza, in quanto — ed è questo il tema affrontato da Foucault — l’attitudine critica è in un certo modo «apparentata alla virtù» di chi la enuncia e quindi non interamente soggetta agli ordini discorsivi all’interno dei quali essa si produce. Si tratta quindi, anzitutto, di definire una prospettiva storica attraverso cui comprendere come la critica emerga nel mondo moderno. La scelta di Foucault, è quella di evidenziare un aspetto specifico dell’attitudine critica originatasi all’interno del problema delle tecniche di governo. La storia di queste tecniche e del loro radicamento nella tradizione della pastorale cristiana è il tema a cui Foucault aveva dedicato negli anni precedenti i suoi corsi al College de France.7

Davanti al divenire sempre più pervasivo di queste tecniche di governo, si sarebbe sviluppata una:

Specie di forma culturale generale, un atteggiamento morale e politico, una maniera di pensare ecc. che definirei semplicemente l’arte di non essere governati o, se si preferisce, l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo. Pertanto proporrei come prima definizione generale della critica la seguente: l’arte di non essere eccessivamente governati.8

All’interno di forme specifiche di autorità (come le sacre scritture, il diritto e la scienza) e di conseguente governo dell’azione degli individui, la critica avrebbe la funzione di una sorta di «inservitude volontaire», di una soggettivazione etica attraverso il «disassoggettamento» dal giogo del governo.9 Bisogna tenere a mente che, secondo Foucault, la problematica delle tecniche di governo si sviluppa parallelamente al dispositivo che lega sovranità e soggetto di diritto e, in questo senso, si sviluppa fuori dal cono d’ombra delle teorie dell’obbligazione moderna. Una volta contestualizzata così l’attitudine critica, Foucault illustra come questo modo di inquadrarla converga con la riflessione kantiana esposta nel saggio Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?^[11] In particolare, è l’elemento del coraggio a catturare l’attenzione di Foucault. Risiede nel coraggio di sapere (sapere aude), la disposizione etica capace di provocare l’uscita degli esseri umani dalla loro condizione di minorità morale e politica e di rendere l’umanità capace di condursi per mezzo della sua stessa ragione. Ciononostante, dopo avere rivendicato quest’apparente convergenza con la prospettiva filosofica kantiana, Foucault traccia una linea di divergenza che diverrà decisiva nella sue successive ricerche. Se, infatti, nella formulazione kantiana il coraggio beneficia di una sorta di primato cronologico, in quanto provoca quell’uscita da una condizione di minorità che predispone l’individuo all’esercizio della critica, questo esercizio, ricorda Foucault, si produce, secondo Kant, attraverso l’autolimitazione delle ambizioni della conoscenza umana. «È nel momento in cui ci saremo fatti un’idea giusta della nostra conoscenza che si potrà scoprire il principio dell’autonomia e che non dovremo più ascoltare l’obbedisci; o meglio, l’obbedisci sarà fondato sull’autonomia stessa».10

È a questo livello, nella separazione tra coraggio e autonomia, che si opera la presa di distanza di Foucault dal progetto illuminista kantiano. Se il progetto kantiano è preso tra due poli, quello etico del coraggio e quello morale dell’autonomia, l’impresa di Foucault va interpretata come una messa in valore del primo aspetto a discapito del secondo. Foucault evidenzia la relazione tra la capacità del soggetto di dirsi autonomo, la limitazione delle sue ambizioni cognitive tramite la critica e l’obbedienza alla legge. In Kant l’obbedienza non dipende da un’autorità esterna alla ragione, come nelle concezioni eteronome della morale, ma dalla capacità della ragione di sottomettersi liberamente alla forza vincolante di una norma morale. In questo modo Kant riscatta la coscienza, altrimenti esposta al rischio di divenire subalterna all’autorità, rispiritualizzandola. La libertà smette cioè di essere confinata nel foro interno della coscienza per aprirsi al suo esercizio pubblico e critico. Se quello kantiano è un capitolo del problema moderno dell’obbligazione, esso ne trasforma radicalmente il contenuto, rispiritualizzando il rapporto del soggetto alla morale e suggerendo una diversa articolazione tra morale e politica. Questo è quanto fa di Kant, secondo Foucault, un nostro contemporaneo. D’altro lato, le ragioni del rifiuto foucaultiano dell’autonomia kantiana sono altrettanto note. Saldando il problema dell’autogoverno morale del soggetto alla limitazione della sua conoscenza, Kant rende il problema della critica, direttamente dipendente dalla conoscenza trascendentale intorno alla quale si struttura il progetto moderno delle scienze dell’uomo, ovvero di quei dispositivi di sapere e potere, che Foucault sottoponeva a critica da oramai quasi due decenni. Se, come osservato in apertura, l’obbligazione moderna consiste nella capacità di un soggetto libero di sottomettersi al comando assoluto di una legge, la formulazione kantiana è presa tra la libera determinazione etica del soggetto, il coraggio, e l’autogoverno dell’agire morale, l’autonomia. Per Foucault, diviene quindi necessario riscattare il progetto critico, rivendicando il primato del coraggio sull’autonomia e questa rivendicazione si gioca su diversi piani.

Anzitutto la traiettoria all’interno della quale il coraggio etico della critica si manifesta, diversamente dall’autonomia, non si sviluppa all’interno della storia dello Stato sovrano e della scienza politica moderna. In questo senso il rapporto tra critica e obbligazione che in Kant è saldato attraverso l’ideale di autonomia è disgiunto da quest’ultima in Foucault. L’idea stessa d’illuminismo e la critica, se pensata nei termini di un’attitudine etica, rappresentano così un ideale metastorico di cui la formulazione moderna diviene solo un’espressione possibile. In questa prospettiva Kant non è il primo autore a fornire una teoria della critica ma il primo a esplicitare (come Foucault svilupperà in maniera più compiuta nei saggi successivi sull’illuminismo), il rapporto peculiare che la critica stabilisce con il proprio tempo, quello che Foucault chiamerà, in seguito, «l’ontologia dell’attualità».11 Assistiamo quindi a un approfondimento del concetto di critica, dall’arte di non essere governati della prima modernità alla specifica forma di riflessività che quest’attitudine assume con Kant.

Secondariamente, per mettere in valore l’elemento del coraggio, sembra necessario disarticolare il rapporto tra conoscenza e critica. Definendo la critica un’attitudine a non essere governati in tal modo in un certo momento, Foucault aveva associato, ed è quanto sottolinea sul finire del suo intervento, critica e potere. La critica non si produrrebbe grazie alla capacità autoregolativa della ragione, quanto stabilendo un rapporto evenemenziale al potere. Sarebbe, cioè, dentro a delle relazioni di forza ovvero «insiemi legislativi, regolamenti, dispositivi materiali, espressioni d’autorità»12 che la critica si esercita ed è all’interno di questi rapporti che essa emerge nella forma di una «contro-condotta». L’operazione proposta da Foucault è quindi duplice. Da un lato intervenire sul concetto di soggetto moderno, separando il progetto trascendentalista su cui si sorregge la critica dalla scoperta kantiana dell’ontologia dell’attualità; dall’altro, non esaurire la storicità del soggetto in una storia della ragione moderna attraverso l’associazione tra realtà e razionalità (come nell’idealismo hegeliano) o ancora attraverso la categoria weberiana di razionalizzazione, dominante nella critica Francofortese. Tanto nel caso dell’idealismo quanto in quello della scuola di Francoforte si tratterebbe, infatti, di una critica della ragione moderna che, operando attraverso la biforcazione kantiana tra intelletto e ragione, si rende incapace di comprendere la pluralità delle forme di razionalità attraverso cui il rapporto tra sapere e potere si definisce.13 È da questo duplice scarto, dall’idealismo hegeliano e dalla scuola di Francoforte, che la riflessione foucaultiana sulla critica s’innesta su una genealogia dei regimi di soggettivazione etica. Ritornare a Kant significa problematizzare la «biforcazione moderna», mostrando come una «biforcazione» si produca ogni qual volta che forme di resistenza e quindi di critica si manifestano all’interno di un dato ordine discorsivo. Alla genesi post-kantiana della critica moderna bisogna sostituire la sua genealogia nietzscheana.14 Tuttavia, in questo modo, il problema che sembra riproporsi consiste nel fatto che, se la critica assume un carattere essenzialmente congiunturale, essa diviene inevitabilmente dipendente dal potere. Detto altrimenti, se la critica si produce in condizioni di fondamentale eteronomia rispetto al potere, quale garanzia di veridicità si può fornire per renderla capace di governo costante dell’azione umana? Ancora, se in condizioni di assoggettamento la critica si pronuncia nella forma di una contro-condotta, come quest’ultima può essere messa in sicurezza, rendendola una forma di condotta etica, piuttosto che un atteggiamento reattivo che quindi rivelerebbe proprio quella condizione di minorità fuori dalla quale l’illuminismo, tanto per Kant quanto per Foucault, vuole porci?

Sulla linea di questo triplice spostamento dall’autonomia al coraggio, dalla conoscenza alla verità e dall’assoggettamento alla soggettivazione si gioca la partita etico-politica dei corsi dedicata da Foucault all’etica degli antichi.

3. L’etica nella politica

Abbiamo osservato come Foucault proceda a una critica del moderno progetto di autonomia senza che questo produca un rifiuto dell’aspirazione emancipativa dell’illuminismo. Tuttavia, sul fronte della modernità, non sembra che questa strada sia così facilmente praticabile se si ammette che la modernità si sviluppa attraverso il bisogno di integrare morale e politica attraverso una concezione dell’obbligo concepita come libera sottomissione dell’individuo al comando assoluto della legge. In questo modo, infatti, qualsiasi scarto, tra l’eticità di un’azione e la sovranità della legge è destinata ad essere riassorbita dentro al primato della seconda, conformemente a quanto recita il noto adagio kantiano: «Pensa ciò che vuoi in privato, ma in pubblico obbedisci all’autorità». Se il merito di Kant è proprio quello di avere affermato il primato spirituale dell’etica sulla politica, trasformando il coraggio nella prima virtù critica, non è possibile, secondo Foucault, garantire questo primato se si accettano interamente le condizioni moderne, ovvero se si accetta il concetto di obbligazione moderna a partire dal quale Kant elabora la sua concezione dell’autonomia. Come abbiamo osservato, nella conferenza del 1978 sulla critica, Foucault sembrava volere sfuggire a questo destino sottolineando la natura evenemenziale dell’attitudine critica, attitudine a non essere governati in tal momento in un certo modo. Agire criticamente, significa agire fuori dalle condizioni di governo che si stabiliscono all’alba della modernità politica all’interno e contro — nella forma di un «discorso di reazione»15 — il formalismo della legge e la sovranità moderna. Ciononostante, agli occhi di Foucault, questo forma specifica di esteriorità della critica, il suo richiamarsi fuori dalle condizioni di governo moderne, appare insufficiente a giustificare la tenuta di una condotta etica. Le condizioni del governo moderno sono, infatti, incomprensibili senza un richiamo storico alla trasformazione del rapporto del soggetto a sé nel corso della storia. È a partire dall’ascesi cristiana e dall’invenzione del potere pastorale, come Foucault aveva mostrato nei corsi degli anni precedenti, in particolare in Il faut défendre la société e Sécurité, territoire et population, che si può ricostruire la genealogia dell’obbedienza moderna come un’obbedienza pura, che determina, l’esaurimento del sé nel comando, la sua alterazione dentro a una «obbedienza generalizzata».16 Se il discorso dell’obbligazione moderna cerca di giustificare razionalmente la libera sottomissione del soggetto al comando della legge, fino a farli coincidere nel concetto di autonomia kantiana, questa sovrapposizione si dissolve nella governamentalità moderna attraverso un’obbedienza assoluta, per la quale è la volontà stessa del soggetto a divenire opaca e, in fin dei conti, inqualificabile. Il passaggio dal popolo sovrano al governo della popolazione con cui Foucault caratterizza la mutazione avvenuta nelle tecniche di governo sul finire del XVII secolo con l’estendersi del mercato e la nascita dell’economia politica, si qualifica esattamente sulla falsariga di un passaggio da un governo per mezzo della volontà a un governo tramite il desiderio.17

Paradossalmente quindi, per non fare della critica uno strumento anti-moderno, destinandola a divenire un’operazione di puro disvelamento delle condizioni storiche di cattura dell’etica nella politica, ovvero della capacità di silenziare l’azione libera attraverso il governo dei desideri, sembra che Foucault si trovi costretto a radicalizzare l’esteriorità della critica, ricercandone il fondamento nel rapporto pratico del soggetto a sé stesso. È quindi nel rapporto pratico del soggetto a se stesso che Foucault inizia a ricercare una forma di resistenza del soggetto al governo. Questo rapporto pratico alla soggettività precede il rapporto di sovrapposizione tra obbedienza del soggetto e comando della legge che, secondo Foucault, si struttura nella tradizione pastorale cristiana per poi installarsi dentro e contro il formalismo giuridico moderno. È in questo contesto che si sviluppa l’interessa foucaultiano per l’etica greco-romana. A partire dal corso intitolato L’Ermeneutica del soggetto, la natura segreta della critica moderna, l’attitudine etica al coraggio, viene ricercata da Foucault nell’etica antica, perché è solo in questa che può essere rintracciato lo scarto costitutivo tra il governo di sé e la mera obbedienza. Solo comprendendo questa forma specifica di esteriorità della critica, incardinandola cioè nella differenza tra l’ascesi greca e romana da un lato e quella cristiana dall’altro, il legame tra etica e politica, non si esaurisce nelle maglie dell’obbedienza moderna senza, tuttavia, rinunciare alla propria modernità. Ritrovare l’etica nella politica e non soltanto contro o oltre la politica, diviene l’ambizione specifica dell’operazione foucaultiana degli ultimi corsi alCollège di France. Foucault, che ancora nel saggio del 1978 non «osava» porre la questione nei termini «Che cos’è l’illuminismo?», trovandola una domanda «indecente» e preferendogli la domanda «Che cos’è la critica?», è, a partire dal saggio del 1984, capace di porre questo interrogativo fino alle sue ultime conseguenze, interrogando l’etica degli antichi sulle condizioni politiche della critica moderna. Questo diverso rapporto del soggetto a sé stesso, emerge con tutta chiarezza a partire dal corso appena ricordato dedicato all’Ermeneutica del soggetto attraverso un’analisi delle funzioni pratiche dell’askesis nella filosofia greca, ellenistica e romana. L’ascesi rappresenta una conversione pratica del soggetto, che si caratterizza per non concepire questo rapporto del soggetto a sé nella prospettiva di un rapporto conoscitivo ne, tantomeno, di obbedienza alla legge: «L’ascesi non rappresenta, infatti, un modo per sottomettere il soggetto alla legge. È piuttosto un modo per legare il soggetto alla verità».18 Né rapporto critico alla conoscenza, né obbedienza alla legge, la modalità ascetica greco-romana ci trasporta su un terreno che sembra essere capace di ovviare ai due aspetti fondativi del concetto di autonomia senza pertanto privare il soggetto di un rapporto costitutivo a sé. Si tratta, quindi, di definire le modalità pratiche e non cognitive che la cultura greca e romana precristiana stabiliscono tra soggetto e verità. Sono proprio la conoscenza e la legge a evidenziare secondo Foucault la distinzione tra antico e moderno:

Schematicamente, possiamo dire che là dove, noi moderni, crediamo di poter riconoscere la questione della possibile o impossibile oggettivazione del soggetto nel campo della conoscenza, gli Antichi del periodo ellenistico e romano riconoscevano piuttosto il problema della costituzione di un sapere sul mondo come esperienza spirituale del soggetto. E là dove noialtri moderni cogliamo l’assoggettamento del soggetto all’ordine della legge, i Greci e i Romani coglievano invece la costituzione del soggetto come fine ultimo per il soggetto stesso, attraverso e per mezzo dell’esercizio della verità.19

Se ci limitassimo ad attestarci a questa doppia opposizione tra gli antichi e «noi moderni», sarebbe difficile comprendere perché sia proprio per risolvere una domanda di «noi moderni» che Foucault vada a cercare nell’etica antica. Quest’opposizione non si produce tuttavia nel mondo moderno ma attraverso l’appropriazione e trasformazione dei regimi di soggettivazione greco-romani per mezzo delle istituzioni pastorali della chiesa cristiana. È in questo modo, infatti, che la peculiarità dell’obbligo alla parola vera, che come vedremo caratterizza le pratiche ascetiche greco-romane prese in analisi da Foucault, si trasforma nell’obbligo della confessione, ovvero in un «dire il vero» del soggetto su se stesso attraverso un richiamo all’indulgenza «degli dei o dei giudici». La parola che lega maestro e discepolo nella cultura precristiana è, secondo Foucault, una parola che necessariamente abita la relazione e si stabilisce all’interno di un’inevitabile rapporto autoritativo tra l’obbligo parresiastico del maestro e quello all’ascolto del discepolo.20 La pratica della verità è una specifica modalità di relazione all’altro che coincide con la stessa libertà del soggetto — libertas, ricorda Foucault, corrisponde alla traduzione latina del greco parrhêsia. La libertà non si stabilisce quindi attraverso un rapporto riflessivo del soggetto a sé stesso, ma attraverso un rapporto pratico del soggetto alla verità e questa verità si manifesta dentro a rapporti autoritativi connotati attraverso la relazione maestro e discepolo. La parola vera si oppone tanto alla lusinga quanto alla parola collerica. Ambedue queste condizioni, in cui il soggetto diviene strumentale rispetto alle proprie intenzioni o subalterno alle proprie passioni, impediscono infatti un rapporto parresiastico alla verità. È proprio grazie alla distinzione tra la parola parresiastica e la parola lusinghiera che Foucault indica una diversa modalità dell’essere autonomo propria al parresiasta e inesauribile nel significato moderno e kantiano di autonomia. Colui che lusinga, diversamente dal parresiasta, non può intrattenere un rapporto compiuto a sé stesso, non è mai, secondo l’espressione di Foucault, «solo con se stesso». È in questa incapacità che s’insidia un rapporto strumentale all’altro che, in tal modo, viene a svolgere una funzione di supplenza rispetto alla relazione del soggetto con sé stesso. Al contrario, per il parresiasta, la relazione all’altro è necessariamente mediata dal fatto che quest’ultimo si sia espresso secondo un discorso vero, e quindi il soggetto:

Interiorizzando tale discorso vero, soggettivandolo, [potrà] fare a meno del rapporto con l’altro. La verità, che nella parresia passa dall’uno all’altro, suggella, assicura, garantisce l’autonomia dell’altro, ovvero di chi ha ricevuto la parola, rispetto a chi invece l’ha pronunciata.21

Si capisce come il concetto kantiano di autonomia sia l’interlocutore privilegiato della riflessione di Foucault. È, infatti, attraverso una modalità della relazione, che il soggetto diviene autonomo, attraverso la parola dell’altro. Siamo quindi fuori dal primato soggettivistico moderno, l’autonomia è un rapporto del soggetto a sé, che si stabilisce attraverso il suo rapporto alla verità, prodottosi a sua volta nella relazione con l’altro. È un rapporto al terzo, la verità della parola dell’altro come medium del rapporto a sé, che introduce quindi una dimensione necessariamente politica nel rapporto etico, o meglio la parola etica interviene interrompendo il rapporto di supplenza e di forza che la parola stabilisce con l’altro, di cui la lusinga rappresenta l’estremo esempio ma da cui le relazioni sociali sono ineluttabilmente attraversate. L’etica, nella forma della parola vera del parresiasta, è necessariamente un intervento nella politica, in quanto stabilisce un modalità di relazione che sovverte l’economia dei rapporti tra il soggetto, l’altro e la verità, mettendo quest’ultima al centro della relazione, mettendo la verità (aletheia) in condizione di parlare. Per questa ragione l’occasione, il kairos, diviene la condizione capace di definire le regole parresiastiche.22 La relazione tra soggetti non è ordinata dalla conoscenza come, secondo Foucault, nelle scienze dell’uomo, al contrario le condizioni di enunciazione della parola vera si costituiscono dentro a una relazione aleatoria tra soggetti. La verità etica del parresiasta interviene nelle relazioni politiche in maniera congiunturale ed è proprio questa apertura della verità etica alla politica che determina la loro relazione ma allo stesso tempo impedisce che l’una si esaurisca nell’altra, ovvero impedisce che la parola del sovrano monopolizzi quella del suddito o che quella della persona morale preceda quella del cittadino, destino ineluttabile, sembra suggerire Foucault, del progetto di autonomia moderno. Nonostante l’opposizione tra antichi e moderni che come abbiamo osservato è impiegata da Foucault per indicare cosa vi sia d’irriducibile nell’esperienza greco-romana della verità, quest’esperienza, che come abbiamo visto si definisce attraverso una specifica relazione tra etica e politica, sebbene antica, diviene l’orizzonte attraverso il quale, dopo Kant, ovvero dopo la «biforcazione» kantiana tra ragione e intelletto, la modernità prova a ripensare il rapporto tra etica e politica. Non è quindi un caso che sia attraverso un riferimento a Hegel che si chiudono le pagine del corso sull’Ermeneutica del soggetto:

Ma se il problema della filosofia occidentale è proprio questo, e in questo consiste la sfida rivolta alla filosofia occidentale — ovvero, nel chiedersi in che modo il mondo possa essere oggetto di conoscenza e al tempo stesso luogo di prova per il soggetto, e in che modo possa esserci un soggetto di conoscenza che offre a se stesso il mondo come oggetto attraverso una tekhne, e un soggetto dell’esperienza di sé che offre a se stesso un tale mondo nella forma, radicalmente diversa, del luogo di prova — allora è facile capire perchè la Fenomenologia dello Spirito costituisca il vertice di tale filosofia.23

Questo tributo al filosofo tedesco, apparentemente sorprendente, deve essere letto come l’attestato della necessità, per il pensiero moderno, di ripensare il rapporto tra etica e politica, attraverso un ricorso all’esperienza greca. Ciononostante, secondo Foucault, questo rapporto, non deve essere pensato attraverso l’esaurimento del reale nel pensiero, sulla linea dell’idealismo hegeliano, né tantomeno attraverso una denuncia etica della razionalità strumentale e della razionalizzazione, secondo la prospettiva della teoria critica francofortese, quanto riflettendo sulle condizioni moderne di produzione di questo rapporto antico alla verità della parola. In questo modo, come Foucault mostra, negli ultimi due corsi su Le gouvernement de soi et des autres, l’articolazione antica tra etica e politica, può divenire un’ambizione moderna. È soltanto ritornando al coraggio di Kant e riattivandolo oltre i tentativi di sintesi tra esperienza e verità della critica tedesca, che gli antichi possono divenire nostri contemporanei.

4. L’obbligo nell’eteronomia

All’inizio del corso Il governo di sé e degli altri, Foucault sviluppa alcune delle intuizioni della lezione dedicata al saggio kantiano sull’Aufklärung. Il contenuto di questo mutamento riguarda anzitutto il senso che «noi moderni» attribuiamo al concetto di modernità. Ve ne sono almeno due, ricorda Foucault: da un lato la modernità emerge, a partire dal XVI secolo, in maniera «longitudinale» nella forma di una comparazione e di un’opposizione agli antichi. Dall’altro essa emerge, con Kant, attraverso un rapporto verticale del discorso alla propria stessa attualità. Se, nel primo caso, la modernità opera attraverso una messa a distanza critica da forme costituite di relazione all’autorità, sia essa l’autorità di un libro, di un pastore di anime o ancora di un medico (secondo gli stessi esempi proposti da Kant), nel secondo il pensiero moderno insoddisfatto di questa messa a distanza sviluppa un rapporto riflessivo e critico con la sua stessa autorità. Se nel primo caso, la critica produce una presa di distanza rispetto all’autorità, dicendoci come non obbedire in tale modo a tale autorità in tale momento, nel secondo la critica si radicalizza e mettendo in questione la sua stessa autorità sviluppa una forma specifica di spiritualità riarticolando il rapporto tra morale e politica. Ora, se il saggio kantiano — più in generale l’intero progetto critico kantiano — ci indica proprio questa eccedenza della morale sulla politica, la questione di come ancorare la critica alla sua stessa attualità resta un’operazione da decifrare. Per restituire la difficolta di quest’operazione, Foucault si sofferma a lungo su due figure che, in qualche modo, rappresentano per Kant due modalità speculari per perimetrare lo spazio dentro al quale la riflessività critica dell’illuminismo si muove. La prima figura, attraverso cui Kant cerca di decifrare l’operazione illuminista, è quella di Federico II. Il sovrano prussiano attraverso la rinuncia a legiferare sulla libertà religiosa garantendo la tranquillità pubblica dei cittadini diverrebbe «l’agente essenziale dell’Aufklärung», ovvero un agente storico capace di comprendere l’intima connessione che esiste tra la libertà di pensare dei cittadini e la loro disposizione all’obbedienza. Tuttavia, questa soluzione, individuata da Kant nel testo sull’illuminismo, rappresenta un problema, perché in questo modo la dimensione etica dell’illuminismo, la sua ambizione riflessiva di stabilire un rapporto critico con la sua stessa parola, viene trasformata nella riforma della funzione politica dell’agente ovvero del legame politico capace di legare popolo e sovrano. La riflessività critica verrebbe in altri termini fagocitata dalla circolarità propria al problema dell’obbligazione moderna, ovvero dal rapporto tra soggetto di diritto e sovranità, perdendo in questo modo il proprio primato etico.

La seconda figura che Foucault introduce — ritornando a quello che interpreta come uno sviluppo del saggio kantiano sull’illuminismo, ovvero la sezione del Conflitto delle Facoltà dedicata al concetto di progresso — è quella della rivoluzione. Senza ricostruire l’insieme dell’argomento kantiano, soffermiamoci sulla lettura che né da Foucault. L’unico modo per affermare l’esistenza di un progresso consisterebbe, secondo Kant, nell’affermare l’esistenza di un evento capace di impedire il procedimento teleologico secondo cui dall’esistenza di una causa è possibile ricavare una serie di eventi possibili. L’evento rivoluzionario ha quindi: «Valore di un segno. Segno di cosa? Segno dell’esistenza di una causa: di una causa permanente che, durante tutta la storia stessa, ha guidato gli uomini sulla via del progresso».24 Non si tratta quindi di una causa ma del «segno dell’esistenza di una causa», di un segno capace di metterci in costante rapporto non tanto con un evento storico — perché in questo caso l’evento sarebbe esso stesso una causa — quanto con la possibilità degli uomini di essere causa della loro storia. Questa possibilità degli esseri umani, di essere causa di loro stessi, sembra non avere storia in quanto riguarda il nostro passato, il nostro presente e il nostro futuro. In questo senso l’esperienza della storia di «noi moderni» è l’esperienza del nostro essere causa di noi stessi ma, paradossalmente, questa possibilità si rende intellegibile soltanto differendo da noi stessi come causa effettiva, attraverso un segno capace di significare questa possibilità senza esaurirne il senso. Per questa ragione, ricorda Foucault, quello che conta per Kant non è la vicenda rivoluzionaria, la sua esistenza effettiva, il suo «dramma», ma il suo «spettacolo», ovvero la funzione semiologica della rivoluzione, il suo essere segno di un aspirazione umana a darsi una costituzione, di un aspirazione dell’umanità al governo di se stessa. L’illuminismo concerne quindi l’interpretazione di questo segno, o meglio esiste attraverso la trasmissione di questo segno.

Mentre il rischio al quale esso, immancabilmente, si espone, come le rivoluzioni del XIX e del XX secolo bene indicano, è quello di trasformare questo segno in una causa, di scambiare lo spettacolo rivoluzionario con il dramma della rivoluzione, ovvero di appropriarsi, egemonizzare ed esaurire il significato di un’aspirazione di cui la rivoluzione può essere soltanto il segno.

Le due figure dell’illuminismo kantiano sembrano quindi esporre la critica a un pericolo estremo, su un duplice fronte. Da un lato quello di sussumere lo scarto etico tra la critica e la politica nella virtù di un agente politico, il sovrano illuminato, esaurendo così la riflessività critica nel dispositivo della sovranità moderna che, come abbiamo osservato, per Foucault è abitato da una concezione dell’obbedienza che ha origine nella pastorale cristiana. Dall’altro quello di fissare l’aspirazione all’autogoverno a una causa, perdendo l’unica funzione che l’evento rivoluzionario può avere, ovvero quello di essere un segno mnemonico e performativo dell’aspirazione umana alla libertà. Sebbene Foucault non sviluppi questo versante, sembra che una parte dell’ortodossia rivoluzionaria sia esposta a questo rischio, quello, in altre parole, di concepire l’uscita dalla minorità come un’appropriazione del significato della causa rivoluzionaria, piuttosto che come un’ermeneutica dell’evento rivoluzionario. In questo modo, secondo una modalità teologico-politica che rimonta fino all’ermeneutica della rivelazione mosaica, l’apertura rivoluzionaria si richiude tragicamente sull’appropriazione del suo significato. La critica illuminista sembra quindi esposta a un duplice pericolo, quello sovranista e quello di un’ortodossia rivoluzionaria. Ministero e rivelazione divengono le due modalità estreme, i due agenti teologico-politici che, per mettere in sicurezza l’ambizione illuminista all’autogoverno, rischiano di soffocarla. Se la prima soluzione è rapidamente abbandonata, anche la seconda sembra messa a repentaglio se non accompagnata da un’etica capace di garantire il senso dell’uscita, rivoluzionaria, della minorità, attraverso un’obbligazione capace di assumersi il rischio della rivoluzione senza appropriarsi del suo significato. È su questa linea, compresa tra il pericolo della soluzione teologico-politica sovranista e quello dell’ortodossia rivoluzionaria, che Foucault, a mio avviso, individua la soluzione greca come la soluzione più attuale per complementare la riflessione kantiana.

La parresia, per Foucault, è anzitutto un obbligo etico che giocandosi, come osservato in precedenza, sul piano del rapporto tra individui mediato dal rapporto di ciascuno alla verità, non si misura sul terreno della morale kantiana, ovvero non si fonda sulla capacità di ciascuno di essere autonomo moralmente attraverso il ridimensionamento critico della propria ambizione conoscitiva. La questione che quindi si pone Foucault è come possa esservi obbligo in condizione di eteronomia, ovvero come possa esservi obbligo in una condizione di dipendenza del soggetto dalle relazioni sociali che determinano il rapporto pratico del soggetto a sé stesso. Su cosa si fonda il carattere prescrittivo della parresia? La risposta, l’abbiamo osservato in precedenza, viene individuata da Foucault nella natura del legame tra soggetto e verità.

Se le moderne teorie dell’obbligazione risolvono la natura del legame tra soggetto di diritto e sovranità attraverso un duplice patto degli individui tra loro e di ciascuno con il sovrano, quello parresiastico è un duplice patto del soggetto con se stesso, attraverso il rapporto con l’altro. Da un lato il parresiasta si lega al contenuto veritativo di quanto esprime mentre, dall’altro, in ragione della natura performativa del proprio enunciato, egli si lega egualmente all’atto stesso dell’enunciazione, ovvero si assume le conseguenze di questo enunciato, si espone al rischio, ovvero alle conseguenze non anticipabili della propria azione. In questo modo il parresiasta diventa il paradigma del coraggio illuminista ma, diversamente da quest’ultimo, il coraggio parresiastico, il suo obbligo a dire il vero, non si risolve nell’autonomia del soggetto perché il soggetto è, per così dire, obbligato ex ante dalla propria relazione, performativa, alla verità. Non si registra cioè un primato cognitivo nel rapporto del soggetto a sé, né in un senso trascendentale né in un senso sociale (per Foucault il secondo è un’espressione del primo) «ed è proprio in questa specifica misura che nel cuore della parresia si trova non lo statuto sociale e istituzionale del soggetto, ma il suo coraggio».25

L’etica parresiastica sembra quindi capace di prescrivere un obbligo morale al soggetto in un regime che sembra caratterizzarsi per una duplice eteronomia. Anzitutto sono eteronome le condizioni dentro le quali si esercita l’etica parresistica. Le condizioni di enunciazione della parola parresiastica dipendono, infatti, da relazioni tra il soggetto e il contesto, ovvero da rapporti di forza che, per definizione, non sono non anticipabili. La parola parresistica è, quindi, una parola che si esercita nella congiuntura politica, riqualificandola eticamente. In seconda istanza il coraggio del parresiasta consiste nel produrre attraverso il proprio enunciato performativo degli effetti imprevedibili. La parola parresistica espone quindi il soggetto al rischio della sua stessa vita. Proprio in ragione di questa sua esposizione all’eteronomia, la parresia è una nozione affine a quella d’isegoria (l’eguaglianza della parola, l’eguale diritto alla parola) ma se ne distingue. Se, infatti, la parresia si sviluppa dentro a condizioni di eguaglianza, il suo significato non può essere esaurito nel «diritto costituzionale di prendere la parola»,26 è ancora una volta lo scarto etico segnato dal coraggio paressiastico che caratterizza la sua specificità, introducendo nella politica «qualcosa che è del tutto differente e irriducibile alla sua struttura egualitaria».27

Ora fu proprio questa scarto tra la parola parresiastica e il diritto democratico alla parola, tra l’etica della parresia e la politica della isegoria, a provocare secondo Foucault, il recupero filosofico della parola parresiastica nella crisi della polis greca. Ed è proprio a livello di questa parola che egli ritiene che obbligo ed eteronomia possano essere articolati risignificando l’ambizione della domanda kantiana sull’illuminismo. Quello che è in gioco non è la depoliticizzazione della parola parresistica, quanto l’estendere il rapporto al governo di sé del parresiasta, il suo obbligo a dire il vero, dal governo della città al governo dell’anima. È qui che la spiritualizzazione filosofica della parola parresiastica dal Platone della VII Lettera a Diogene il cinico riconfigura il rapporto politico alla verità, attraverso l’invenzione di un discorso capace di divenire forma di vita, di un logos che ha come propria caratteristica principale quella di farsi ergon, azione nello spirito. È la pratica filosofica e non il suo discorso a divenire il reale della filosofia:

Il reale della filosofia è la sua pratica. Ancora più precisamente — ed è questa la seconda conseguenza che bisogna trarne -, il reale della filosofia è la sua pratica, ma non intesa come pratica del logos. Come dire: non si tratterà della pratica della filosofia intesa come discorso; non si tratterà della pratica della filosofia intesa come dialogo; si tratterà della pratica della filosofia intesa come pratiche, al plurale, cioè la pratica della filosofia nelle sue pratiche e nei suoi esercizi.28

La politicità della filosofia consiste nel «non coincidere» con la politica, nel differirla (Foucault parla di una «differenziazione etica»)29 mettendosi cosi in sicurezza attraverso uno specifico rapporto alla pratica. In questo rapporto pratico del soggetto a se stesso è conservata la possibilità per pensare la libertà del soggetto dentro a quella doppia condizione di eteronomia fronte alla congiuntura politica e fronte ai rischi dell’azione. Come ricorda Foucault richiamandosi a Platone, la parresia, che è «un discorso legato alle circostanze, legato alla congiuntura, si riferisce stesso tempo a dei principi. A dei principi generali e costanti».30 Il discorso filosofico come rapporto pratico del soggetto a se stesso, riemerge, afferma Foucault in un passaggio stupefacente che sembra riconfigurare la sua visione del soggettivismo moderno, a partire da Descartes per poi trovare un’espressione compiuta in Kant:

Il progetto morale, presente fin dall’inizio dell’impresa cartesiana, non è soltanto un additivo del progetto essenziale, che sarebbe quello di fondare una scienza. Nel grande movimento che va dall’enunciazione in prima persona di quello che per Descartes è il vero — il vero nella forma dell’evidenza — fino al progetto finale di guidare la vita e il corpo degli uomini, trovate, mi sembra, la netta ripresa della funzione parresiatica della filosofia nel mondo antico.31

Sembra quindi che la modernità stessa, nell’intervallo che separa l’enunciazione del cogito cartesiano e il coraggio kantiano, sia attraversata da questo diverso rapporto alla pratica, che Foucault intravede a partire dalla storia della parresia greca. In questo senso l’opposizione che si produce tra la pratica filosofica greco-romana e la confessione cristiana, si riconfigura nella modernità in due diversi modi di pensare la pratica e l’illuminismo che, secondo Foucault, si presentano nel pensiero di Kant attraverso la divergenza tra il coraggio della verità e il progetto trascendentale d’autonomia. Liberare il primo contro il secondo è il modo in cui Foucault pensa che sia possibile, rinnovare l’ambizione illuminista senza trasformarla in quel progetto d’autonomia secondo la tradizione teorica kantiana e postkantiana.32 Se la rivoluzione aveva rappresentato il segno, a partire dal quale l’illuminismo aveva cominciato a riflettere su un rapporto non «longitudinale» alla critica, la trasformazione della rivoluzione in una forma di vita, la cui genealogia rimonta alla strategia parresiastica del cinismo antico, sembra capace di isolare la tentazione ortodossa di trasformare la funzione semiologica della rivoluzione nell’appropriazione del suo significato. Una delle ultime formulazioni con cui, secondo Foucault, la cultura greca afferma il primato della cura di sé (epimeleia heautou) sulla conoscenza di sé (gnôthi seauton), rappresenta quindi un modo per ripensare la libertà dei moderni.

La peculiarità della parresia cinica consiste, secondo Foucault, nel suo stabilirsi senza alcuna «mediazione dottrinaria», ovvero attraverso un rapporto diretto e osceno alla verità. È questo rapporto senza mediazione alla verità che rende, secondo Foucault, la figura del parresiasta differente da quella del profeta. Il parresiasta, diversamente del profeta, non parla a nome di altri.33 Perché il segno rivoluzionario non si esaurisca nell’appropriazione ortodossa della sua causa, la rivoluzione non deve divenire progetto (e quindi, per esteso, nemmeno la modernità) né, tantomeno, dottrina, ma forma di vita:

Mi sembra che nel cinismo, nella pratica cinica, l’esigenza di una forma di vita decisamente tipica — con regole, condizioni e prassi caratteristiche, molto specifiche — sia fortemente articolata con il principio del dire-il-vero, del dire-il-vero senza vergogna né timore, del dire-il-vero senza limiti e con coraggio, del dire-il-vero fino al punto in cui il coraggio e l’audacia si rovesciano in un’intollerabile insolenza. Quest’articolazione del dire-il-vero con una maniera di vivere, questo legame fondamentale, essenziale nel cinismo, tra il fatto di vivere in un certo modo e il destinarsi a dire la verità sono tanto più notevoli quanto più si esprimono, in un certo modo, con immediatezza, senza mediazione dottrinale, e in ogni caso al’interno di un quadro teorico abbastanza rudimentale.34

È in questa forma rinnovata che assume l’etica parresiastica nel cinismo, che Foucault ritrova una diversa figurazione del coraggio illuminista, che in certo modo radicalizza la «differenziazione etica» della filosofia antica facendone un’etica militante. Il governo di sé del parresiasta diviene «una monarchia derisoria e militante»,35 l’accettazione assoluta dell’eteronomia, l’alterazione senza mediazioni del soggetto capace di comprimere la sua differenza etica in una pratica che determina la derisione di ogni forma di messa in sicurezza, dottrinaria o politica, della parola vera. In questo senso, facendo dell’esistenza una forma stessa del dire vero, il corpo e la pratica divengono essi stessi testimonianze di un governo assoluto di sé, una monarchia per l’appunto, che si fonda paradossalmente su un principio di assoluta alterazione soggettiva. L’obbligo di dire il vero e la condizione di eteronomia divengono, attraverso la condotta del cinico, una stessa cosa. In questa difesa della vita alterata, l’aspettativa illuminista si affaccia su un limite attraverso cui la verità parresiastica diventa tangente all’oscenità e alla follia; quella stessa follia e oscenità che, come Foucault mostra nei suoi primi lavori, il progetto del «cattivo» soggettivismo illuminista voleva silenziare. L’eroismo filosofico del cinico diviene un modo per mettere in forma, facendone una condotta di vita, il coraggio illuminista nella sua forma rivoluzionaria. Questa alterazione, il nietzschianesimo di Foucault diventa a questo proposito patente, rappresenta di fatto una transvalutazione del rapporto tra vita e dottrina. Il dire vero del parresiasta diventa un principio di non-dissimulazione e drammatizzazione della vita attraverso la vita stessa. Il pubblico e l’osceno divengono per il cinico una stessa cosa e di conseguenza l’essere in pubblico diviene una modalità di ostentazione soggettiva (ben rappresentata da Diogene che non esita dal masturbarsi in pubblico).

Lasciando convergere obbligo ed eteronomia, l’alterazione cinica e l’ostentazione della soggettività che ne deriva sono, tuttavia, recuperati e stravolti nell’ascesi cristiana di modo che l’alterità mondana a cui è esposta la vita del cinico, viene adesso tradotta nell’obbedienza alla Legge che definisce la vita del fedele. Esiste, secondo Foucault, un rapporto di filiazione indiretta tra la forma di vita cinica e l’ascetismo cristiano. Attraverso la trasformazione del «mondo altro» del cinico ne «l’altro mondo» cristiano e attraverso l’introduzione cristiana di quello che Foucault chiama «il principio d’obbedienza», all’alterazione cinica si sostituisce il governo pastorale dell’anima e all’oscenità pubblica di Diogene si sostituisce quella di Paolo deriso pubblicamente dal logos ateniese per l’oscenità della sua fede. Sebbene Foucault sottolinei l’esistenza di una ricezione positiva della parresia nel cristianesimo, intesa adesso come confidenza e amore indebito per Dio, carisma profetico, la parresia diviene per il mondo cristiano una forma di insolenza e di orgoglio, una domanda indebita di autogoverno della propria vita: «Laddove c’è obbedienza, non può esservi parresia».36 Se le teorie dell’obbligazione e il concetto di autonomia kantiana avevano rappresentato la forma attraverso cui si è definito il concetto di libertà moderno, quella di Foucault deve essere letto come un tentativo di salvaguardarne l’aspirazione emancipativa, facendo dell’obbligo alla verità in condizioni di eteronomia la forma propria con cui i moderni possono ripensare la loro libertà, oltre l’obbedienza e l’autonomia soggettiva.

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Ringrazio Lorenzo Bernini e Daniele Bertini per la rilettura, le osservazioni e i consigli che mi hanno dato in occasione della stesura della prima bozza di quest’articolo.


  1. Per questo il ricorso a una totalità - sia essa la natura produttrice di Spinoza, la totalità etica della polis greca in Hegel, l’insieme delle relazioni sociali delle Tesi su Feuerbach di Marx o ancora la società come totalità creatrice precategoriale del Durkheim de Le forme elementari della vita religiosa — è una modalità propria della critica moderna che, in questo modo, sostanzia il legame sociale fuori dalla diade di soggetto e legge. ↩︎

  2. Nella mia prospettiva di ricerca, la sociologia classica franco-tedesca, ha rappresentato prima e diversamente da Foucault, una diversa modalità critica per pensare il rapporto tra critica e obbligazione. ↩︎

  3. Ferrando (2012). ↩︎

  4. Kant (2010). ↩︎

  5. Foucault (2003), da ora ES; Foucault (2009), da ora GS; Foucault (2011), da ora CV↩︎

  6. Foucault (1997). ↩︎

  7. Sulla relazione tra governo e pastorale si veda Bernini (2008). ↩︎

  8. Foucault (1997), pp. 37-38. ↩︎

  9. Foucault (1997), p. 40. ↩︎

  10. Foucault (1997), p. 42. ↩︎

  11. Foucault (2001a), pp. 1381-1397. Una seconda versione dello stesso saggio si trova in Foucault (2001), pp. 1498-1507. Qui ci riferiremo all’edizione italiana: Foucault (1998). ↩︎

  12. Foucault (1997), p. 53 ↩︎

  13. Foucault (2001b), p. 1259; Foucault (2001c), p. 310. ↩︎

  14. Sul rapporto tra Nietzsche e Foucault si veda Saar (2007). ↩︎

  15. Karsenti (2013), p. 156. ↩︎

  16. Karsenti (2013). ↩︎

  17. Si legge a questo proposito in Foucault (2005), p. 58: «Per arrivare al punto centrale, tali meccanismi non puntano, come la legge e la disciplina, a imporre nella maniera più omogenea, continua ed esaustiva la volontà di uno sugli altri. Cercano piuttosto di lasciar emergere il livello in cui l’azione della sovranità è necessaria e sufficiente. […] È un modo completamente diverso di far giocare il rapporto collettivo/individuo». ↩︎

  18. Foucault (2003), p. 279. ↩︎

  19. Foucault (2003), p. 281 ↩︎

  20. Per ragione di spazio siamo costretti a ridurre la ricca e differenziata analisi che Foucault fa delle etiche antiche ad alcune nuclei concettuali utili a riassumerne l’intenzione argomentativa. ↩︎

  21. Foucault (2003), p. 338. ↩︎

  22. Foucault (2003), p. 374. ↩︎

  23. Foucault (2003), pp. 435-436. ↩︎

  24. Foucault (2009), p. 25. ↩︎

  25. Foucault (2009), pp. 70-71. Se la riflessione sociologica, condivide con Foucault, l’ambizione di fornire una teoria dell’obbligazione che rifugga le coordinate della concezione kantiana dell’autonomia, è indubbio che su questo piano si operi una profonda frattura. Dove infatti la sociologia riqualifica il rapporto tra individui e collettività attraverso una trasformazione complessiva del concetto d’autorità, Foucault individua dei rapporti di forza che sovradeterminano qualsiasi rapporto autoritativo. Sulla critica foucaultiana alla sociologia si veda Salmon (2016). Per una riflessione sulla trasformazione durkheimiana al progetto d’autonomia moderno si veda Callegaro (2015). ↩︎

  26. Foucault (2009), p. 155. ↩︎

  27. Foucault (2009), p. 179. ↩︎

  28. Foucault (2009), p. 234. ↩︎

  29. Foucault (2011), p. 46. ↩︎

  30. Foucault (2009), p. 268. ↩︎

  31. M. Foucault (2009), p. 332-333. ↩︎

  32. Habermas (1987), pp. 241-296. ↩︎

  33. Foucault (2011), p. 26. ↩︎

  34. Foucault (2011), pp. 163-164. ↩︎

  35. Foucault (2011), p. 272. ↩︎

  36. Foucault (2011), p. 317. ↩︎