1. La dialettica interno/esterno tra psicoanalisi e architettura
Psicoanalisi e architettura sono discipline apparentemente molto distanti tra loro: il senso comune porterebbe a pensare che ciò che separa l’una dall’altra è una distanza siderale in quanto la prima si occupa della mente dell’uomo mentre la seconda ha a che fare con gli edifici e il paesaggio urbano. In realtà psicoanalisi e architettura sono fortemente legate l’una all’altra per il fatto di occuparsi entrambe del rapporto dentro-fuori. In quest’ottica la psicoanalisi potrebbe esser pensata come una metafora dell’architettura per quel che concerne la topografia della nostra vita psichica ed emotiva e l’architettura come una metafora della psicoanalisi trasposta in grande scala, una sorta di «pantografo semantico» che proietta la mente umana all’esterno, sugli edifici.
Naturalmente il dialogo tra chi si occupa di architettura (ma anche urbanisti, paesaggisti, arredatori) e chi fa ricerca all’interno delle discipline psico-antropologiche, sebbene non capiti molto frequentemente, rappresenta un esperimento davvero fruttuoso per ciò che riguarda l’ermeneutica dell’umano in tempi in cui l’iperspecializzazione delle scienze sociali sembra reclamare un confronto continuo tra i saperi.
La celebre «chiave di volta» che doveva essere requisito indispensabile e presupposto teorico della progettazione degli spazi urbani e degli edifici abitativi, in realtà potrebbe costituire una chiave d’accesso anche per la comprensione del rapporto tra la nostra mente e l’organizzazione pratica di come ci rappresentiamo il mondo esterno. Del resto lo stesso Jung sosteneva che la casa, per come ce la immaginiamo, possiede una valenza intrapsichica e rappresenta un delicato simbolo attraverso il quale l’inconscio tesse la propria sintassi nei sogni. E in quanto luogo in cui l’uomo si rapporta e vive con le superfici e con gli oggetti di cui si è circondato per rappresentare il proprio mondo d’espressione non verbale, la casa costituisce un esempio privilegiato di «chiave di volta» del mondo emozionale di chi la abita, nonché un anello di congiunzione tra gli assunti teorici dell’architettura e quelli della psicoanalisi. I luoghi quotidiani del nostro vissuto sono infatti una sorta di superficie intermedia tra il mondo interno e il mondo esterno della persona: le case sono anche e soprattutto esempi di «interfaccia antropologici» che mediano e catalizzano l’immagine più o meno consapevole che abbiamo del rapporto interno/esterno e che costituisce uno dei nodi teoretici del discorso sull’abitare. Una funzione, insomma, analoga a quella della pelle del nostro corpo che ha la triplice finalità di restituirci un’immagine unitaria di noi stessi, di difenderci dalle intrusioni dell’esterno ma anche di permettere il contatto con gli altri, come descritto nel fondamentale studio su L’io-pelle dello psicoanalista francese Didier Anzieu (1985).
E allora, dato per stabilito che percepire, valutare e rappresentare gli spazi abitativi significa attivare, a monte, processi psicologici di natura affettiva e cognitiva che portano ad attribuire senso e significato al rapporto interno-esterno, è legittimo parlare di una corresponsabilità verso il benessere psichico ed emotivo di chi abita le case da parte di chi per professione le progetta.
In tempi in cui l’apatia e l’alienazione nelle relazioni sociali hanno sostituito il momento della sosta concessa al pensiero dell’altro, lo straniamento delle nuovissime tecnologie di comunicazione a distanza e l’amplificazione patologica dei narcisismi che l’industria dell’immagine detta, si riflettono su una gettonatissima architettura «da suburbia», sfavillante nella progettazione extraurbana dei grandi centri commerciali, dei parchi a tema e degli edifici pubblici ultra-funzionali.
In una recente intervista1 lo stesso Marc Augé, antropologo francese che ha conosciuto fama internazionale anche grazie alla fortunatissima espressione «non-luoghi»,2 ha in qualche modo ritrattato la sua stessa definizione del 1992, correggendola in una formula che probabilmente si discosta dal primo significato socio-antropologico per accentuarne invece la valenza psico-antropologica. Augé infatti attualizza il suo concetto originario precisando che
Il perfetto nonluogo è quello dove le relazioni sociali sono tutte completamente decifrabili attraverso l’osservazione. Ma in questi luoghi non c’è libertà, la residenza è assegnata. […] Si tratta di spazi dove la condizione normale è quella di essere soli. (Aa.Vv., 2006: 81)
Le architetture da non-luogo, insomma, sembra dire Augé «correggendo il tiro», dovrebbero essere analizzate più che in relazione alle ricadute di ordine sociale — e dunque per il fatto di rappresentare luoghi dell’anonimato nei quali si sfalda il rapporto présence/consumation —, in relazione alle ricadute di ordine psico-relazionale, attraverso le quali emerge un processo di «costruzione delle solitudini» che ingrassa il novero dei fenomeni di alienazione contemporanei.
In questo disvelamento psico-geografico, il lavoro attento dell’architetto che «sente» l’anima dei luoghi può diventare prezioso, poiché, come scrive Hillman (2004), l’architetto ha il potere di essere il vero psicologo archetipico delle comunità, giacché architettura contiene nel suo etimo le archai, ossia i principi fondamentali che governano il cosmo, utilizzando sapientemente le quali, accade che il «piacere sia concesso a chi partecipa al prodotto, perché nelle archai ci sentiamo a casa» (Ivi: 29).
2. L’esperienza psichica dello spazio
L’architetto, come il terapeuta per le anime,3 è dunque colui che intuendo un segreto, e trattenendolo, riconosce le ferite dei luoghi, ne riporta a galla il rimosso e ne fa sciogliere il precorso di vita, creando in essi le aperture immaginali che andranno a insinuarsi nel vissuto di chi li abiterà; egli «in sostanza è il servitore dell’anima di quel luogo» (ibidem).
Inoltre, continuando a seguire la pista di Hillman, nelle archai, che si configurano come idee-radici dell’architettura, nell’antichità classica si pensava fossero contenute quelle idee archetipali, come il riparo, la techne, l’ideazione, il fuoco, che nell’immaginario mitologico erano anche le caratteristiche di Hestia, dea greca della dimora e del focolare, che Ovidio definiva, appunto, «null’altro che fuoco vivo» e il cui nome ha il suo etimo nell’indœuropeo vas, abitare (ancora più assonante a Vesta, il nome romano della dea). Senza Hestia, scrive Hillman, non ci può essere casa, casa psichica, prima che casa fisica: la sua immagine è quella dell’archetipo dell’in, della «coppa», come dirà Gilbert Durand (1963), ossia dell’interiorizzazione personale che è presupposto e condizione dell’intimità della dimora e delle esteriorizzazioni delle relazioni sociali. Hestia, dunque, essendo il nume della casa, rappresenta non solo l’idea dell’intimità e della «raccolta presso se stessi», ma anche, per costituzione, quella dell’ospitalità e dello scambio attorno a quel fuoco di cui è icona e, dunque, anche l’antidoto di una sorta di autismo che imperversa nella comunicazione. Lo scambio e l’apertura all’alterità è infatti possibile solo quando, precedentemente, si è affrontato il riconoscimento (hegeliano-freudiano) di se stessi, nell’intimità della propria casa psichica. In questo senso, secondo Carlo Truppi (Hillman, 2004), una architettura che tenga conto del portato umanistico della sua storia culturale, oltre che della metodologia tecnica in senso stretto, permette quel riconoscimento psico-emotivo che, metaforicamente, porta nella casa di Hestia il dialogo con tutti gli altri dei (intesi come idee del mondo o simboli archetipali) e che impedisce quella sorta di «monoteismo» delle idee:
Il monoteismo porta nella direzione sbagliata. È importante mantenere la diversità. […] Gli esclusi ci perseguitano sotto forma di sintomi. Jung ha affermato «Gli dèi sono diventati malattie». Le malattie di cui soffriamo sono il ritorno del represso, degli dèi dimenticati dal nostro monoteismo. (ivi: 36)
Ma, se la psicologia analitica mette in relazione il rapporto architettura-psiche con gli archetipi e le mitologie della casa, pervenendo a riflessioni suggestive ma che ruotano attorno a un’analisi tutto sommato antropologica e umanistica, nondimeno una ricerca sull’abitare che intende combinare il discorso architettonico con quello psicodinamico, può trovare un Grund fecondo pure negli approcci più marcatamente psichiatrico-esistenziali dell’orientamento psicopatologico della Daseinanalyse, nato in Germania nelle prime decadi del secolo scorso e meglio conosciuto in Francia e Inghilterra col nome di analisi esistenziale e in Italia con la denominazione di psichiatria fenomenologica o anche antropoanalisi. Sulla scorta della psicologia comprensiva di Jaspers, della fenomenologia di Husserl e dell’ontologia di Heidegger, gli psichiatri di tale indirizzo (Ludwig Binswanger e Eugene Minkowski su tutti), per primi, hanno operato una funzione di depotenziamento della carica medicalizzante e fisiologista della psichiatria e, partendo da un convinto superamento del dualismo cartesiano tra anima (res cogitans) e corpo (res extensa), hanno proposto un approccio psicologico che non considerasse le psicopatologie come un cortocircuito dell’organismo umano quale oggetto della scienza e separato da tutto il resto ma, al contrario, analizzasse l’uomo nella sua interezza e originaria co-appartenenza col suo mondo vissuto. Naturalmente tale approccio risentiva in modo fondamentale dell’interpretazione heideggeriana dell’uomo come in-der-Welt-Sein (essere-nel-mondo), per cui l’uomo non è (ist) al mondo come lo sono le cose materiali, ma si dà (es gibt) un mondo attraverso il proprio modo di dare significatività allo spazio e al tempo del proprio vissuto.
Ora, proprio lo spazio, o meglio una particolare concezione di Binswanger dello spazio, rappresenta la chiave per comprendere il modo in cui la Daseinanalyse si rapporta con la psicopatologia e costituisce ai fini del nostro discorso sull’abitare un utile e imprescindibile passaggio per corroborare la proposta di un nesso tra psiche e architettura.
Secondo Binswanger, infatti, occorre distinguere lo spazio geometrico, ossia quello misurabile dalle scienze della natura e dalle matematiche, dallo spazio «antropologico», un’accezione completamente diversa dalla prima, per cui l’uomo non è nello spazio ma «dischiude» uno spazio come «distanza e prossimità» alle cose del mondo e come presenza e progettualità all’interno del mondo stesso. Lo spazio espressivo, quello «vissuto» che parla del nostro rapporto con il Sé e con l’esterno, si sostituisce, così, allo spazio oggettivo, che al contrario è uno spazio posizionale, reificato, non situazionale. Alla luce di questa lettura lo spazio viene a rivestire un ruolo fondamentale, risultando una sorta di categoria ineludibile per la spiegazione, ad esempio, di taluni mancati sviluppi del rapporto psichico Io-mondo alla base di una serie di psicopatologie anche molto gravi. La schizofrenia, per esempio, al di là delle sue molto complesse eziogenesi e dei differenti approcci terapeutici che, di volta in volta, ne hanno interpretato la struttura patologica, ha tra le sue declinazioni caratteristiche, una incapacità di auto-rappresentazione dello spazio: nei racconti dei pazienti schizofrenici, infatti, vi è quasi sempre una abolizione dei confini tra spazio proprio (eigen-Raum) e spazio esterno (fremd-Raum) che nel delirio della malattia tratteggia la drammatica sensazione di una perdita dei propri «confini» somatici e di una vertiginosa liquefazione/fusione di sé con alterità reali o irreali o, peggio, con lo spazio circostante, per cui il proprio corpo viene percepito come frantumato, abitato da altri, aderente agli oggetti, indifeso dall’indeterminatezza spaziale. L’esperienza della deformazione spaziale vissuta nel delirio schizofrenico, come spiega Eugenio Borgna (1998), ha molto a che fare con una sorta di drammatico inceppamento del rapporto interno tra «vicinanza» e «distanza» al mondo esterno che, appunto nell’interpretazione della psichiatria fenomenologica, può essere spiegato attraverso il venir meno di quella distanza originaria con cui l’Io distingue se stesso dalle cose.
In questo senso Minkowski (1968) parla di dissoluzione della differenza tra il dentro e il fuori che genera la confusione tra sé e il mondo, ma in particolare tra il proprio corpo e le cose, le quali «possono dirsi appunto oggetti, ob-iecta, gettate contro, poste a distanza» (Bracco 2002), dimodoché il soggetto si sente esposto a una vera e propria «irruzione» dell’esterno nella sua realtà percettiva. Non è difficile immaginare, allora, quale possa essere stato (prima della legge Basaglia) l’impatto distruttivo della nota architettura delle strutture manicomiali sulla sofferenza di migliaia di pazienti psicotici, nel cui delirio la già dolorosa amplificazione e distorsione del modo di percepire questa distanza tra sé e il mondo, veniva esacerbata da un ambiente ancora più anonimo e «allontanante», che nel suo biancore e nelle sue divisioni degli spazi contribuiva solo a peggiorare la distorsione dello spazio vissuto facendolo precipitare in un definitivo autismo.
In tal senso, come spiega Searles (1960), l’ambiente «non umano» gioca un ruolo altrettanto determinante dell’ambiente affettivo e del milieu sociale per la formazione psichica, in modo particolare nell’infanzia.
A questo proposito, dopo aver presentato interpretazioni della psicologia analitica e della psichiatria fenomenologica, è utile considerare anche l’apporto che la psicologia della Gestalt ha dato per la comprensione dei meccanismi psichici interessati dalla relazione con l’ambiente abitativo. Una interessante sintesi di tale approccio scientifico è presente nel lavoro di Giovanna Giordano, La casa vissuta (1997), all’interno del quale la psicoterapeuta propone una eclettica analisi psicologica della casa con gli strumenti interpretativi della Gestalt ma intrecciando altresì il discorso con contributi teorici anche distanti tra loro, dalla fenomenologia ai classici della psicoanalisi come l’opera di Winnicot.
L’importanza della casa intesa anche come house, abitazione, è molto rilevante, secondo l’autrice, oltre che per le analisi scientifiche sul grado di corresponsione che l’ambiente circostante ci rimanda, anche per il legame semantico con il discorso più teorico dell’abitare quotidiano e delle sue accezioni filosofiche:
L’etica dell’abitare presuppone un essere con gli altri e con se stessi nell’ambiente non umano, attraverso il recupero della nostra differenziazione e in definitiva della nostra solitudine. […] L’abitare è, in conclusione, uno stato interiore che si spazializza esternandosi nella costruzione di rapporti diversi e finalizzati a dare pienezza al senso dell’esistenza. Esso si incarna nell’appartenenza a una serie di luoghi che ne circoscrivono l’essere e l’agire, nel dispiegarsi della vita umana. (Giordano, 1997: 19)
Insomma, se è possibile parlare di un’etica dell’abitare, bisogna prima corredarla di una serie di «apriori psichici» che ne spieghino le condizioni di esistenza in base a una riflessione sul rapporto uomo-ambiente. A tale proposito la Psicoterapia della Gestalt può dare un contributo teorico relativamente alla «analisi del contatto tra organismo e ambiente», un approccio metodologico secondo il quale nel qui e adesso di una qualsiasi forma di contatto o relazione, ogni organismo vivente mantiene e porta a termine un contatto con l’ambiente circostante, sia esso animato o inanimato, e da esso ne trae una forma di «sostegno». Essendo, perciò, la relazione il centro di questa prospettiva psicologica, il filo rosso che accompagna l’intera vita di ognuno è, secondo i teorici della Gestalt, l’eterno destreggiarsi tra l’inclusione o la separazione del nostro spazio psicologico nell’ambiente circostante, con tutto ciò che ne consegue in merito al rapporto con le «case vissute» (tanto da parlare di «freccia che cerca il bersaglio» per indicare la tensione dell’organismo verso la propria «crescita nel contatto» con l’ambiente circostante).
In questa prospettiva la casa viene proposta come una figura catalizzatrice della crescita psichica e dell’educazione al contatto con l’esterno, costituendo un luogo dotato di una triplice funzione. Innanzitutto la funzione contenitiva, che crea un ponte affettivo-simbolico della vita neonatale nel post-trauma della nascita (come in Rank, Winnicott e Hartmann); a questa segue (anche diacronicamente) la funzione sostenitiva, che dopo la scoperta della propria differenziazione dalla madre e dall’ambiente circostante, consente al bambino di sentirsi protetto da un ambiente non umano che emana fiducia nei suoi spazi e che dà continuità alla differenziazione del sé; infine la funzione integrativa, in cui l’ambiente abitativo, nelle pratiche quotidiane, nel gioco, nella creatività e nel linguaggio, diventa il teatro dell’esperienza dell’altro, del «noi» che ogni casa rappresenta.
Qui dunque emerge una ulteriore questione psico-pedagogica legata alle strutture abitative: l’uomo non deve affrontare il rapporto con l’ambiente esterno, ex novo, a ogni generazione e alla propria nascita, in quanto questo rapporto gli è dato e garantito dalle generazioni precedenti che supportano quello che Winnicott definisce «set-up individuo-ambiente» (dalla vita pre-natale a una continuità con l’ambiente non umano dopo la nascita). Per questo motivo, l’apprendimento e la formazione cognitivo-affettiva è coadiuvata da quegli «spazi-amici» che all’interno di una casa ripropongono e richiamano «gli appaganti ricordi degli stati di holding, dell’esistenza uterina e dell’esistenza thalassale che suscitano una forte attrazione verso la regressione e che, se connotati negativamente e repressi, diventano “agghiaccianti spazi vuoti”» (ivi: 100).
Questa «confluenza primaria», ovvero la possibilità di integrazione ospitale che l’ambiente abitativo può offrire, rappresenta dunque un elemento «facilitatore» per la crescita umana dal punto di vista affettivo e relazionale e gioca un ruolo fondamentale nei processi psichici di identificazione che costituiscono, a valle, la costruzione della fiducia personale.
Tale passaggio ci consente di passare armonicamente dalla Gestalt alle correnti «ortodosse» della psicoanalisi classica. In particolare, come accennato precedentemente, è molto interessante nell’economia del nostro discorso sul rapporto io-ambiente, il contributo di Harold F. Searles, psicoanalista statunitense che, innestando il pensiero di Melanie Klein e di Wilfred Bion sull’impianto della psicologia dell’io, di cui è esponente, ha lavorato molto sui disturbi psicotici4 e sul setting psicoterapeutico.5 Nel libro L’ambiente non umano (1960), Searles verifica le possibilità dell’esistenza di dinamiche psichiche tra l’uomo e il corredo di «enti» che popolano il suo habitat quotidiano, di qualunque tipo esso sia costituito, e quindi il mondo vegetale, gli animali, le strutture architettoniche degli ambienti domestici ed extra-domestici, le suppellettili, l’arredo, ecc.
L’ambiente non umano, secondo Searles, rivestirebbe una importanza centrale nello sviluppo «normale», come in quello «patologico» di chi vi è immerso poiché — radicalizzando la teoria di Winnicott del «set-up uomo-ambiente» — all’alba della vita post-natale vi sarebbe una fusione totale non solo con la madre (l’ambiente umano), ma anche con l’habitat inanimato che circonda il bambino. Questo orientamento di fondo nei confronti dell’inanimato quotidiano (e quindi, fondamentalmente, della casa), viene definito da Searles colleganza, ossia un «senso di intima affinità» fra i processi della vita umana e quelli ambientali; e in tale rapporto, per una serie di passaggi psicodinamici abilmente esplicati da Searles, assieme a questa affinità, si costruirebbe e verrebbe mantenuto il senso della propria individualità come esseri umani. Tant’è che, nello sviluppo delle schizofrenie, il rapporto armonico con l’ambiente si verrebbe a perdere, portando a una regressione identificativa col non-umano, che permetterebbe ai pazienti di ritirarsi e difendersi da situazioni emotive troppo dolorose.
Il «senso di colleganza con l’ambiente inumano» vissuto in maniera sana, spiega Searles, partecipa in maniera fondamentale del benessere complessivo della persona:
Il senso di colleganza serve ad alleviare la solitudine esistenziale dell’uomo nell’universo, la solitudine di chi sa che il suo destino, in quanto essere consapevole e razionale, è di separatezza, anche se non totale, dal resto della natura. Inoltre esso attenua il timore della morte e aiuta l’uomo a trovare un senso di pace, un senso di stabilità, di continuità e di sicurezza. Infine […] può agire come antidoto ai sentimenti di nullità e di insignificanza. (Searles, 1960: 105)
Inoltre, tale esperienza equilibrata, porta altresì benefici effetti allo sviluppo e al funzionamento della personalità:
I giovamenti accennati possono essere suddivisi in quattro grandi categorie: 1) alleviamento di diversi stati emotivi penosi e carichi di angoscia; 2) contributo all’autorealizzazione; 3) rafforzamento del senso di realtà; 4) stimolo al riconoscimento e all’accettazione dei propri simili. (ivi: 104)
In questo senso, pare ammonire Searles, l’attenzione a un rapporto non disturbante con le strutture abitative quotidiane, rappresenta un vettore di benessere di cui non solo gli psicologi, ma anche gli architetti, gli educatori e i politici dovrebbero occuparsi.
3. La béance dell’architettura
Insomma, la significatività che l’ambiente circostante possiede nei confronti della nostra vita psichica non ha la sua pregnanza solo in situazioni-limite che visibilmente condizionano la nostra risposta e che per certi versi hanno le caratteristiche dell’eterotopia (come il setting psicoterapeutico, le celle carcerarie, le camere d’albergo, ecc.), ma anche, più semplicemente, l’habitat domestico di tutti i giorni, che riattiva una serie di processi di sicurezza/insicurezza nella nostra partecipazione quotidiana al mondo.
Per tutte queste ragioni anche l’architettura, sia pure quella «spicciola» delle case comuni, delle scuole, dei luoghi del vissuto urbano, non può prescindere dalla riflessione su tutto ciò che essa «provoca» nella percezione — consapevole o inconsapevole — dell’umanità.
Il vettore che unisce il desiderio di un ambiente capace di riattivare la sicurezza intrauterina, al modo di immaginare un’architettura attenta a queste esigenze profonde dell’animo umano, ha come «punto medio» la flessione pedagogica che porta i primi alla seconda, in un auspicabile «educazione all’architettura desiderante». Il participio desiderante, di chiaro richiamo post-strutturalista, è infatti usato nell’accezione che Lacan dà al concetto di desiderio come soddisfacimento della originaria béance (falla, mancanza) che caratterizza l’inconscio umano. Essa rappresenta il vuoto esistente tra la mancanza-a-essere e il completamento materno e costituisce il senso di insufficienza originaria che l’uomo si porta dalla nascita e che cerca di soddisfare continuamente attraverso la triade bisogno-pulsione-desiderio. In altre parole la costitutiva béance umana si esprimerebbe organicamente nel bisogno (quale lamento e simbolo di questo vuoto), troverebbe poi l’energia psico-fisica per il suo completamento nella pulsione verso l’Altro,6 e infine sfocerebbe come desiderio, cioè come tensione sostitutiva dell’antico completamento materno. In questo processo psichico il desiderio si pone sotto forma di «domanda verso l’esterno» ossia come tentativo di inserirsi nell’universo simbolico che tenta, senza soluzione di continuità, di riempire quella fondamentale falla e mancanza-a-essere che è la béance e che costituisce, nella proposta di questo lavoro una preziosa chiave d’accesso per la comprensione, non solo del concetto di abitare, ma anche del modo in cui, attraverso l’architettura e il rapporto con le costruzioni, l’umanità abbia dato nel corso del tempo una risposta simbolica e culturale a tale mancanza.
Passando, dunque, dal teorico al concreto, secondo tale orientamento di pensiero, nel modo di costruire, arredare e abitare i luoghi della quotidianità, l’uomo partecipa a quella domanda fondamentale che la propria béance rivolge agli spazi del vissuto e quindi nell’analisi di tali pratiche si potrà anche dire una parola in più sull’analisi dell’uomo.
L’architettura e l’arredo degli interni dovrebbero appunto essere pensati e disposti, in maniera da «permettere» che nella risposta quotidiana alle loro superfici e alla cornice che disegnano all’interno della vita dei loro abitatori, si possa verificare il delicato passaggio che fa transitare l’abitare concreto al «pensiero sull’abitare», che riconcilia l’uomo con se stesso, prima che con l’ambiente. Del resto la poco nascosta radice metaforica che lega l’abitazione al corpo umano rappresenta una simbologia che le correnti architettoniche contemporanee non mancano di evidenziare. Come scrive, infatti, Anthony Vidler (1992), è interessante notare il recente ritorno all’analogia corporea e somatica nell’opera di architetti anche molto diversi fra loro, come Bernard Tschumi, Coop Himmelblau e Daniel Libeskind, in una espressione di forme che, nella loro riproposizione di edifici dalla struttura «corporea», «incarnata», si oppone tanto all’umanesimo «palladiano», quanto al modernismo lecorbuseriano. Già nella teoria classica dell’architettura, osserva Vidler, il rapporto simbolico corpo-casa rappresentava un tema molto battuto. Da Vitruvio all’Alberti, al Filarete e a Leonardo, il corpo, idealizzato, era proiettato direttamente sull’edificio che ne esprimeva la struttura e, in un certo senso si sostituiva a esso nel disegno urbano.
Se dunque nel periodo classico e nella modernità, la proiezione della figura umana sull’edificio architettonico era costruita sul rapporto di solidità biunivoca che nell’immaginario collettivo un’umanità perfettamente «a casa propria» si rappresentava, nella produzione contemporanea, sembrano voler dire questi architetti, le strutture, sebbene antropomorfe, sono spezzettate, divise, incoerenti, disseminate, centripete, a sottolineare la proiezione metaforica di un uomo e di un corpo morcelé (Lacan), in frammenti. Proprio come nell’architettura «della perdita» di Himmelblau, che rifiuta la nozione di una città comoda e sicura poiché comodi e sicuri, nel proprio riconoscimento esistenziale, non sono neanche i suoi abitanti:
Osservando l’architettura di Himmelblau o, meno marcatamente, di Tschumi, qualunque possessore di un corpo convenzionale si sentirà inevitabilmente minacciato, poiché le distorsioni reciproche e le assenze percepite dall’osservatore in risposta alla proiezione riflessa di empatia fisica hanno sul corpo un effetto quasi viscerale. Noi ci sentiamo contorti, torturati, tagliati, feriti, sezionati, con le viscere a nudo, impalati, immolati; siamo sospesi in uno stato vertiginoso o gettati nella confusione tra credere e percepire. (Vidler, 1992: 91)
Se allora il rapporto tra architettura e psiche si costruisce sulla tensione simbolica di un’umanità sempre alla ricerca della propria dimora per sfuggire allo «spaesamento trascendentale» che, in Teoria del romanzo (1916), György Lukács identificava con la condizione umana, la pratica antropologica dell’abitare, che di tale rapporto costituisce la rappresentazione quotidiana, mi pare si possa analizzare nei suoi aspetti speculativi, solo ove questi siano corroborati da una riflessione che pertiene anche la ricerca «psicodinamica» delle sue immagini.
Tale ricerca è, non solo alla base di una possibile fondatività di una «filosofia dell’abitare» come koiné della contemporaneità, ma anche, probabilmente, alla base di una possibile interpretazione delle arti architettoniche e di arredo degli interni intese come espressione della carica inconscia ed emozionale della psiche, oltre che degli aspetti tecnici e «di mercato». Un’architettura «desiderante» sarà allora quell’architettura che, consapevolmente, cerca di riportare l’uomo «presso di sé», sintonizzandosi con la sua béance e trasformando il suo abitare quotidiano in una dimensione in cui anche gli aspetti più nascosti e simbolici della sua «spaesatezza» costitutiva, siano percepiti, elaborati, riconosciuti.
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- Vidler, A., 1992, The Architectural Uncanny. Essays in the modern Unhomely, MIT, London; tr. it., 2006, Il perturbante dell’architettura. Saggi sul disagio nell’età contemporanea, Einaudi, Torino.
- Winnicott D. W., 1965, The maturational process and the facilitating environment, International Universities Press, New York; tr. it., 1970, Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma.
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Marc Augé, Una scommessa sull’avvenire. Dialogo con Mimmo Pesare, in «Quaderno di Comunicazione», n. 6, 2006, Meltemi, Roma. ↩︎
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Titolo di un celebre pamphlet del 1992 e formula con la quale descriveva appunto quei luoghi anonimi del consumo che non permettono di lasciar traccia di sé a coloro i quali li attraversano, come ad esempio aeroporti o stazioni ferroviarie, grandi magazzini o shopping malls, stazioni di servizio, sale da bingo, ecc. ↩︎
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Naturalmente Hillman, da psicoanalista di formazione junghiana, qual è, usa un concetto come quello di anima, che rappresenta un termine chiave della psicologia analitica. Nella produzione teorica di Jung, infatti, il termine anima ha due accezioni: esso indica, in primo luogo, l’interiorità dell’uomo in contrapposizione alla sua maschera esteriore (persona); inoltre anima, secondo Jung, è anche l’imago e la parte «controsessuale» del maschio, ossia l’elemento femminile che fa parte di ciascun uomo e che con l’animo (cfr. Jung, 1967), costituisce una coppia dicotomica di archetipi originari. ↩︎
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A tal proposito ricordiamo i volumi Scritti sulla schizofrenia (1965) e Il paziente borderline (1983); di entrambi l’edizione italiana è stata pubblicata per i tipi di Bollati Boringhieri (Torino). ↩︎
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Lavoro fondamentale in tale percorso di ricerca di Searles è il controtransfert (1979), anch’esso in edizione italiana per i tipi di Boringhieri. ↩︎
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Lacan, nella sua teoria psicoanalitica, distingue l’altro (con l’a minuscola), ossia il punto di approdo del desiderio, dall’Altro (con l’A maiuscola), che indica invece l’universo linguistico e simbolico, in cui il desiderio si inserisce per potersi esprimere; cfr. Lacan, 1966. ↩︎