Globalizzazione e localismi tra antropologia e sociologia

1. Modernità o postmodernità del globale

L’accostamento tra il decollo dei media e delle tecnologie dell’informazione, e la riflessione sul pensiero della contemporaneità è così pregnante e denso di valenze che, come è noto, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta di questo secolo, Jean-François Lyotard ha identificato l’eziologia della nascita della «condizione postmoderna» proprio con l’avvento della società informatizzata1 e Gianni Vattimo ha rintracciato l’essenza stessa della postmodernità nella moltiplicazione delle «immagini del mondo» ad opera dei media.2

C’è da dire che, una volta che il pensiero occidentale ha interiorizzato il dibattito intorno alla legittimità o meno del termine postmoderno per la definizione dell’epoca nella quale viviamo, si sono imposti, con urgenza, ulteriori problematiche circa gli esiti ultimi della «società digitale».

Possiamo infatti affermare, in maniera «provvisoria», che la conseguenza più recente e più complessa della «società dell’informazione» è, oggi, quella sorta di meta-argomento che risponde al nome di globalizzazione.

La globalizzazione, fenomeno misto di valenze sociali, economiche, politiche, istituzionali, finanziarie, culturali, non avrebbe potuto conoscere una fortuna «mediale» così ampia, se non in un mondo-villaggio globale all’interno del quale la comunicazione e l’informazione avvengono «in tempo reale» e su scala planetaria.

In questi termini l’equazione postmodernità-società informatizzata e l’equazione società informatizzata-mondo globalizzato sembrerebbero accostabili in una consequenzialità logica e cronologica.

Tuttavia il fenomeno della globalizzazione, il recente dibattito in merito al quale ha monopolizzato l’attenzione internazionale, si sottrae in maniera quasi subdola a un accostamento di tipo teorico ai valori della postmodernità, come anche ai valori della modernità, risultando, probabilmente, un prodotto ibrido di entrambe e, per certi versi, identificandosi come la distorsione beffarda della prima ai danni della seconda, e viceversa.

La globalizzazione, infatti, se teniamo conto della sfera socio-semiotica caratterizzata dalla omologazione degli stili di vita, e del settore economico-finanziario, dominato dal monopolio dei grandi Organismi sovranazionali — come il Fondo Monetario internazionale (FMI), la Banca Mondiale (BM) e l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) — ci appare una nitida icona del moderno.

La reductio ad unum degli stilemi e delle forme etico/estetiche e l’ottica del dominio centrale e totalizzante a discapito della eterogenia delle manifestazioni di qualsiasi natura, sono, infatti, due delle più numerose istanze teoretiche della modernità che ne incarnano il point of view centrale e monodirezionale.

Inoltre, la spinta verso una «occidentalizzazione» dei mercati delle mode, dei consumi e dei costumi, come può non apparire manifestamente l’ennesimo meta-racconto lyotardiano, in questo caso con lo scopo di legittimare una scala di valori impostata al benessere, alla ricchezza, alla sicurezza?

Insomma, la riduzione delle «immagini del mondo» a un’unica «immagine del mondo», ovvero la riduzione del molteplice all’unità, alla totalità, alla linearità logico-razionale, si identifica come l’emblema stesso della Neuzeit. Non solo: se prendiamo in considerazione la crescita della prosperità economica globale grazie all’aumento degli scambi commerciali deregolamentati, appare evidente il parallelo con la «logica di sviluppo» tipica della modernità, secondo la quale l’umanità andrebbe incontro a un progressivo processo di Aufklärung che la conduce verso una dimensione di continuo miglioramento e emancipazione nei confronti della realtà materiale.

Probabilmente chi più di altri o almeno in maniera più organica, ha riflettuto sull’equazione modernità-globalizzazione è stato il sociologo inglese Anthony Giddens, il quale in un saggio del 1990, Le conseguenze della modernità,3 mette programmaticamente l’accento sulla differenza semantica tra postmodernità e modernità, rintracciando nella prima l’essenza della «radicalizzazione» della seconda.

In altri termini, più che limitarci a definire la situazione contemporanea come un’epoca nella quale la fine delle ideologie ha imposto una epistemologia debole e frammentaria, consacrata all’eterogeneità delle rivendicazioni del sapere, dovremmo scorgere in essa lo scarto «insoluto», i conflitti rimossi e non analizzati che ritornano oggi più cogenti che in passato, come tizzoni accesi sotto la cenere.

In questo sta la «radicalizzazione» della modernità, le conseguenze della quale arrivano fino a un’epoca storica, la nostra che, volendo, si può definire «postmoderna», ma solo in senso cronologico (ciò che viene dopo l’evo moderno, per intenderci, il lasso di tempo compreso tra il XV e metà del XX secolo) e non, come sostengono Lyotard e Vattimo, in senso metastorico, valoriale.

Queste conseguenze si identificherebbero, per Giddens, con lo stesso fenomeno della globalizzazione, la quale rappresenta uno dei tratti dominanti della modernità ed è frutto della dissoluzione dei concetti di spazio e tempo.

Il globale entra nella vita quotidiana degli individui soprattutto attraverso i processi di mediatizzazione dell’esperienza: rivoluzionando le nozioni tradizionali di tempo e di spazio, i media elettronici hanno reso possibile lo stabilirsi di relazioni sociali indipendenti dai contesti locali di interazione.

All’indebolimento del senso di appartenenza alla comunità nazionale corrisponderebbe il rafforzamento di un’identità globale, la cui costruzione è favorita essenzialmente dai media elettronici.

Il filo conduttore del saggio di Giddens è quindi l’idea che quanto annunciato come postmodernità non rappresenti, in realtà, una rottura con la modernità, ma una versione «superiore» di essa: la fioritura di una sociologia «postmoderna» viene dunque giustificata (sebbene non condivisa) come sintomatica di un mutamento in seno alla visione moderna del mondo. In questo scarto risiederebbe il senso della «radicalizzazione della modernità», che si identifica, del resto, con la Wesen (essenza) stessa della globalizzazione.

Quest’ultima viene, da Giddens, definita come «l’intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località distanti facendo sì che gli eventi locali vengano modellati dagli eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa»,4 e viene analizzata attraverso un modello euristico quadridimensionale a carattere «circolare», del quale il sistema degli stati nazionali, l’economia capitalistica mondiale, l’ordine militare globale e la divisione internazionale del lavoro, corrispondono ai quattro punti che si identificano come i cardini della globalizzazione stessa.

Diventa quindi chiaro ciò che Giddens intende per «conseguenze della modernità»: questa espressione equivale a dire che la globalizzazione è semplicemente un allargamento della modernità su scala mondiale, o meglio, dell’estensione dei valori tipicamente «moderni» dalla società al mondo.

Da quanto detto, potremmo concludere che, per Giddens, il filo rosso che collega il fenomeno della globalizzazione all’universo valoriale della modernità, piuttosto che a quello della postmodernità, si identifica con la stessa impossibilità logico-dialettica di considerare il mondo sociale contemporaneo come facente parte della postmodernità, la quale, sarebbe più una sorta di freudiano «ritorno del rimosso» della modernità (che si è radicalizzata nella globalizzazione), che un fenomeno capace di spiegare autonomamente i tratti della globalizzazione.

Tuttavia, quali tra le valenze della globalizzazione, si possono considerare «corollari» della temperie postmoderna? Ebbene, queste, alla luce delle teorizzazioni di Lyotard e di Vattimo, si potrebbero, schematicamente ridurre a due temi fondamentali: la dimensione postindustriale del lavoro e la contemporaneità dell’informazione ad opera della mediatizzazione della società.

Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna dire che sarebbe più giusto, per indicare la dimensione del lavoro negli ultimissimi anni, parlare di postfordismo, piuttosto che di postindustrialismo. Il termine, la cui diffusione è ormai codificata in numerosi ambiti di ricerca, indica una sorta di ulteriore miglioramento degli standard di produzione teorizzati da Daniel Bell,5 a vantaggio della dimensione privata della vita di lavoratori e ad opera delle nuovissime tecnologie.

Nella vita sociale del XXI secolo è in atto l’integrazione di sei nuove tecnologie — microelettronica, informatica, telecomunicazioni, nuovi materiali di sintesi, robotica e biotecnologia — per la creazione di ciò che gli storici dell’economia chiamano terza rivoluzione industriale.

La terza rivoluzione industriale, dunque, è quella tuttora in atto nei paesi «avanzati» e si associa all’introduzione delle tecnologie informatiche nel mondo della produzione e degli scambi.

Come spiega Alvin Toffler in La terza ondata,6 la percezione dello spazio del lavoratore salariato nel modello fordista era riferita a due «luoghi» nettamente distinti, due sistemi di regole e culture separati: la casa e la fabbrica, l’abitazione e l’ufficio, il luogo della vita privata, della famiglia, degli affetti, e il luogo del lavoro.

Con il postfordismo e la conseguente era della New Economy assistiamo a una destrutturazione dei confini spazio-temporali del lavoro. La tesi sostenuta da Henry Ford era: «Quando lavoriamo dobbiamo lavorare, quando giochiamo dobbiamo giocare. Non serve a nulla cercare di mescolare le due cose. L’unico obiettivo deve essere quello di svolgere il lavoro e di essere pagati per averlo svolto. Quando il lavoro è finito, allora può venire il gioco, ma non prima».7

Oggi il passo citato risulta un discorso remoto e totalmente anacronistico in un’era permeata dall’uso delle tecnologie digitali, le quali sembrano smaterializzare i confini spazio-temporali tipici del lavoro inteso in senso tradizionale e in un contesto produttivo che non si basa più esclusivamente sulla mera produzione materiale, ma sulla produzione di idee e conoscenze, e dove spazio-di-lavoro e spazio-di-non-lavoro perdono le barriere che li hanno separati per lungo tempo.

Mutano quindi i contesti socio-economici, i modi di produrre e di organizzare le imprese, l’ambiente di lavoro e l’uso del tempo, che tende progressivamente a perdere la connotazione reclusiva di «tempo altro», separato dal resto delle attività quotidiane.

In questo senso il postfordismo (proprio dell’era della globalizzazione), configurandosi come una «versione riveduta e aggiornata» del postindustrialismo, che, come abbiamo visto, segna uno dei nuclei tematici dell’eziologia del postmoderno, può, a buon diritto essere considerato motivo di continuità tra la globalizzazione e le idee posmoderne.

Semplificando, secondo questa prospettiva la globalizzazione sarebbe postmoderna per il suo chiaro carattere postindustriale e postfordista.

Per quel che concerne la seconda dimensione interna che legittimerebbe la globalizzazione come «postmoderna», ovvero la dimensione caratterizzata dalla mediatizzazione della società contemporanea, potremmo dire che essa riveste il ruolo di condizione strutturale, nonché di «principio assiale» della globalizzazione stessa.

Infatti i media e le nuove tecnologie di informazione e comunicazione sono, storicamente, la condizione materiale della nascita e dello sviluppo della globalizzazione, o, almeno di quel tipo di globalizzazione (studiata da John Tomlinson8) definita come «culturale», caratterizzata, cioè, dall’unificazione, all’interno dell’immaginario collettivo, di ciò che la sociologa americana Wendy Griswold chiama «oggetti culturali»,9 ovvero «significati condivisi incorporati in una forma» (libri, film, idee politiche, mode, consumi, costumi, ecc.).

Come, infatti i teenager di Calcutta potrebbero desiderare un paio di jeans Levi’s, o le famiglie italiane sentirsi a proprio agio in un fast food della catena McDonald’s, o la popolazione europea fibrillare in attesa che le transazioni tra gli ispettori ONU e il governo iracheno diano una risposta in merito a un imminente conflitto tra USA e Iraq, se i mass-media non trasmettessero senza soluzione di continuità «ciò che il mondo mette in scena», rendendo omogeneo il «sapere collettivo»?

Del resto, come si è detto, proprio in questa «moltiplicazione delle immagini del mondo» ad opera dei media Gianni Vattimo rintraccia il carattere fondamentale della postmodernità e la sua spinta emancipatoria.

Francamente, più che ricercare parallelismi e ancillarità tra i caratteri della globalizzazione e quelli — propriamente filosofici — della postmodernità, non è facile menzionare sociologi che alludano in maniera esplicita al postmoderno per spiegare alcuni tratti della «mondializzazione» (come invece ha fatto Giddens sul versante opposto della modernità): all’interno del dibattito internazionale non esiste una «scena» sociologica che pensi sé stessa come portatrice delle istanze postmoderne (nel senso filosofico del termine); o meglio, il termine postmodernità compare affianco alle più quotate teorie sulla globalizzazione, nel senso di «vaga temperie» tipica degli ultimi sviluppi socio-tecnologici.

Numerosi studiosi si sono occupati della relazione che sussiste tra la globalizzazione e la comunicazione diffusa, sia tra i cosiddetti «apocalittici» che tra i cosiddetti «integrati»,10 ma il fatto che un’etichetta come «postmoderno» non sia mai utilizzata per dare un attributo teoretico al fenomeno della globalizzazione in maniera esplicita, la dice lunga sul fatto che essa, in base al sentire generale, sia probabilmente vista più come un’icona — forse in forma estrema — della Modernità.

È questo il trend che il presente lavoro terrà per buono: considerare le manifestazioni della globalizzazione come l’esito più compiuto dell’idea hegeliana del mondo, uno spirito-tutto che informa ogni settore della vita e le cui ripercussioni sono evidenti in ogni zona del pianeta. In questo senso la globalizzazione come reductio ad unum della contemporaneità sarebbe un fenomeno tipicamente «moderno».

2. Modernità o postmodernità del locale

Nella polisemia interpretativa che ne costituisce l’humus strutturale, il tratto comune del concetto di globalizzazione risulta essere l’idea di un processo che, nell’eterogeneità degli ambiti sociali ai quali viene applicato, tende, comunque, a un ideale «unitario» e «onnicomprensivo» delle manifestazioni planetarie.

Da questo punto di vista abbiamo interpretato la globalizzazione come fenomeno tipicamente «moderno». Ne scende che il fenomeno speculare e contrario, ovvero quello della reazione alla globalizzazione che si incarna nelle teorie cosiddette «localistiche» e nei gruppi cosiddettti «no-global», dovrebbe costituire la risposta di matrice postmoderna al primo.

D’altronde lo stesso Gianni Vattimo, ne La società trasparente spiega che

Caduta l’idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità «locali» — minoranze etniche, sessuali, religiose, culturali o estetiche — che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall’idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare, a scapito di tutte le peculiarità, di tutte le individualità limitate, effimere, contingenti. […]

L’effetto emancipativo della liberazione delle razionalità locali non è tuttavia solo quello di garantire a ciascuno una più completa riconoscibilità e «autenticità»; […] piuttosto nel complessivo effetto di «spaesamento» che accompagna il primo effetto di identificazione.11

La coscienza «locale», dunque, è vista dagli apologeti del postmoderno come un’icona dello stesso postmoderno, da contrapporre alle visioni del mondo onnicomprensive, il cui carattere, come si è visto, appartiene indubbiamente al Grund della globalizzazione.

Il dissidio tra globale e locale, allora, ha superato i tratti del dissidio stesso, per prendere quelli della dicotomia codificata, di un «topos», degli anni della globalizzazione.

Prima, però, di dare per scontato l’assunto secondo il quale i localismi sarebbero una metafora del sentire postmoderno, data la loro «debolezza» semantica, sarebbe opportuno per un verso esaminare la recente letteratura sociologica riguardo i temi delle identità locali, per un altro, fare il punto dello scontro ideologico tra questi estremi con l’indagine di ciò che l’attualità ci permette di osservare a livello macroscopico.

Per dare un spessore teorico al significato che l’identità culturale locale assume nella contemporaneità, si propone di prendere in esame gli studi di due antropologi della scuola britannica dei «cultural studies», Clifford Geertz e Ulf Hannerz.

In Mondo globale, mondi locali,12 Geertz parte dalla constatazione secondo la quale il mondo attuale vive il paradosso per cui a una crescente globalizzazione dell’economia e delle comunicazioni si accompagna il moltiplicarsi delle differenze e delle divisioni culturali, delle quali i conflitti etnici e quelli religiosi sono la manifestazione più esasperata e attraverso i quali le rivendicazioni identitarie trascendono dallo spirito comunitario per approdare a sfoghi di violenza più simbolici che «effettuali».

La vigorosa intuizione (caratteristica di un antropologo «culturale» qual è Geertz) del saggio è, allora, quella secondo la quale concetti quali «Stato», «società», «paese», «popolo» e soprattutto «nazione», mutuati dall’esperienza occidentale e che si pensava che i popoli del cosiddetto terzo mondo avrebbero dovuto adottare dopo la fine della colonizzazione, si sono rivelati radicalmente inadeguati (a partire dalla fine degli anni Settanta e soprattutto dopo la caduta del Muro di Berlino, che ha definitivamente privato l’Occidente di un «centro») a comprendere le società non occidentali contemporanee, simbolo originario dell’identità locale stessa.

Si è assistito invece, ovunque, ad una vigorosa ripresa e rinascita della cultura e delle tradizioni tipicamente precoloniali.

Ne consegue che ci troviamo di fronte ad un mondo in frammenti, «screziato», sempre più formato da «schegge» anziché da vigorosi blocchi nazionali, sul modello degli stati occidentali ottocenteschi. Così abbiamo paesi (come l’Indonesia o il Marocco) che non sono «nazioni», e abbiamo culture che non sono, neppure esse, totalità omogenee e armoniche o prive di fratture, come immaginava la vecchia antropologia, ovvero sono frutto di un «consenso» frastagliato e instabile.

Come meravigliarsi allora, se non si adotta la prospettiva «astratta» di scienze sociali quali la sociologia o l’economia, che in questo mondo frammentato e instabile, riemerga irresistibile il conflitto etnico?

Siamo di fronte, insomma, al risorgere prepotente di uno spirito «di casta» (religiosa, etnica, ideologica, politica) tradizionalmente inteso, al posto di una sempre maggiore penetrazione dello spirito «laico» di matrice occidentale: alla luce di questa denotazione i fondamentalismi appaiono come veri «giani bifronte», i quali travalicando la reazione a un «spirito del mondo» unificante, pervengono a una, non meno totalitaria, rivendicazione del nei confronti dell’altro.

Spostandosi solo di poco all’interno di questo tipo di speculazione, La diversità culturale,13 di Ulf Hannerz, prende in considerazione la differenza degli «spazi di significato» tra l’omologazione propria della globalizzazione e le difese dei localismi all’interno della cultura, intesa da Hannerz come l’insieme dei significati elaborati dagli esseri umani, che trasformano a loro volta gli individui in membri di una società. Così concepita, la cultura viene socialmente organizzata tanto da grandi istituzioni centralizzate (come la scuola e i media), quanto in modo diffuso, da subculture e all’interno di pratiche della vita quotidiana.

In essa, osserva Hannerz (senza cadere nelle mistificazioni dei «neofiti» della globalizzazione, né nel «lamento» dei suoi detrattori), è possibile rintracciare, di volta in volta, sia vecchie incrostazioni (moderne) nei costumi e nei modi di pensare, sia reinterpretazioni creative e spinte innovatrici.

I luoghi dove queste diverse dimensioni interagiscono nel modo più intenso sono le città, protagoniste in misura crescente dei fenomeni di contaminazione culturale. Nelle società complesse le esperienze culturali risultano, così, sempre più differenziate, e la produzione culturale sempre più indeterminata nei propri esiti.

La globalizzazione perciò è un processo che investe anche — e forse soprattutto — la cultura, attraverso fenomeni di diffusione non confinabili, e all’interno dei quali la contrapposizione tra locale e globale perde di senso ma, anzi, si intreccia nella «produttività culturale» delle città contemporanee.

Se, dunque «globalizzazione letteralmente indica un incremento nell’interconnessione, bisogna prendere atto che, almeno localmente, possono anche esistere vicende di «deglobalizzazione»; il processo non è dunque irreversibile».14 Il senso dell’analisi di Hannerz, insomma, è chiaramente quello di non considerare i topoi «globale» e «locale» come necessariamente contrapposti, né come necessariamente collimanti, ma piuttosto in una dimensione dialettica, tipica, peraltro, della riflessione che, come si vedrà in seguito, segue l’approccio cosiddetto glocale.

3. Localismi e identità culturali

Gli studi antropologici di Geertz e Hannerz ci presentano i temi delle diversità culturali, e quindi delle differenze identitarie, e quindi, ancora, dei localismi, come la chance «postmoderna» alla pervasività greve di uno Zeitgeist segnato dall’omologazione culturale, oltre che economica.

L’attualità, però, pare, negli ultimi anni, smentire queste letture, o meglio, le «trasfigura» in una cornice ideale, ottativa, ma ben lontana dalla realtà quotidiana.

Globali o locali? Quasi nulla e nessuno sembra sfuggire dall’incasellamento nell’uno o nell’altro frame; la scelta è imposta.

Prima, però, di provare ad analizzare gli scenari sociali che sottendono le problematiche della dimensione «locale», bisogna fare una precisazione doverosa: in questa sede ciò che si intende per «contrapposizione al globale» non è da intendersi come l’insieme della istanze propria del recente movimento cosiddetto «no-global»; quest’ultima accezione, infatti, implica tutta una serie di considerazioni a proposito dei risvolti socio-politici della globalizzazione che non pertiene al presente lavoro. «Locale», è qui da intendersi come «localismo», ovvero la dimensione «teoretica» che si oppone a quella globale all’interno di una riflessione sul «territorio», o meglio, sulla cultura e sull’identità di un territorio.

Come osservano giustamente i filosofi della politica Angelo Bolaffi e Giacomo Marramao in Frammento e Sistema,15 la rivendicazione dell’aspetto del «locale» deve intendersi oggi come «la questione» del globale, vale a dire come la sua intrinseca aporia:

una spinta alla globalizzazione che non trovi adeguate forme istituzionali di governo e di controllo del proprio movimento spontaneo produce inevitabilmente una disseminazione incontrollata di localismi identitari ed esclusivi, irrimediabilmente segnati dal marchio xenofobo: Haider e Bossi, a dispetto della loro propaganda antiglobalista, altro non sono che un effetto della globalizzazione. Una mela avvelenata che il globale regala ai nostri ordinamenti democratici.16

Legittimamente Bolaffi e Marramao mettono in relazione la spinta xenofoba delle leghe, esasperazione del concetto di localismo, con l’ideologia delle «piccole patrie», reazione astiosa e violenta al cosmopolitismo, che altro non è se non una risultante impazzita del fenomeno della globalizzazione.

Alla luce di questa considerazione è facile pervenire al corollario secondo il quale le prospettive globale e locale si rivelano come due «mezze verità», come i due lati della medaglia del presente.

In molte realtà lo Stato nazionale è considerato remoto, insoddisfacente e il sostegno di cui si è alla ricerca viene trovato in una comunità più ristretta: una minoranza nazionale, una setta religiosa, una tradizione culturale emarginata, uno degli infiniti gruppi (bande giovanili, club di sostenitori delle squadre di calcio) che sorgono ovunque e in continuazione proprio allo scopo di soddisfare tale bisogno.

Con l’eccezione dell’impero asburgico (austro-ungarico dal 1867 al 1918), tutti i grandi Stati europei hanno praticato una politica di assimilazione delle minoranze etniche. La Francia, oltre ad aver assimilato linguisticamente provenzali e bretoni, ha applicato la «francesizzazione» a milioni di immigrati provenienti da tutta Europa e dal Maghreb (i loro discendenti sono il 30% dell’attuale popolazione francese).

A tutti è stata offerta la possibilità di divenire cittadini ma con l’implicita clausola di una completa accettazione, non solo dei principi etici, legali e linguistici, ma anche delle tradizioni e della cultura nazionale francese.

Nella caduta di tensione etica, inevitabile dopo decenni di mobilitazione negli opposti schieramenti della guerra fredda, si riduce il senso di solidarietà e di responsabilità dell’individuo nei confronti della propria comunità. Il mercato diviene il solo punto di riferimento efficace e condiviso.

D’altro canto, l’esplosione recente dei sub-nazionalismi (o micronazionalismi) è stata stimolata ma non prodotta dalla fine della guerra fredda: gli Stati che si sono formati in Europa fra il XV e il XIX secolo sono stati quasi sempre l’entità politica della nazione egemone, mentre al loro interno sono sempre esistiti, in posizione subordinata, altri popoli che pure avevano molte delle caratteristiche di una etnia strutturata. Accettare la richiesta di autodeterminazione di ogni popolo che crede di avervi diritto è, tuttavia, pericoloso, specialmente quando le rivendicazioni di identità culturale si fondono con un’iconologia basata sull’assolutizzazione della divisione delle culture, poichè in tal modo si introduce nel quadro internazionale un elemento di perenne confusione e conflittualità.

Leghe, gruppi etnici, sette, hooligans, fondamentalismi religiosi, si muovono, oggi, sulla comune linea di demarcazione che divide la «sopportazione» del diverso dal gruppo di appartenenza, dalla reazione effettuale nei confronti di questa diversità. Da questo punto di vista, la difesa del patrimonio culturale dall’omologazione imperante, di per sé istanza nobile e fondata sulla capacità dialettica propria di un’epoca votata alla comunicazione, travalica le intenzioni legittime di tutela della cultura per approdare a un «ribaltamento etico».

Ecco perché i movimenti etnocentrici possono essere visti come una «malattia» della globalizzazione, come una aberrazione uguale e contraria ai punti oscuri e dannosi di quest’ultima.

Del resto, le problematiche legate ai localismi, ha molto a che fare col rapporto delicato tra identità culturale e luogo, dove la prima dovrebbe stare al secondo in una relazione sinergica e malleabile; la cultura di un luogo è sacrosanta e non può sopperire ad opera della «meta-cultura» globalistica, ma la tutela passa, spesso, attraverso una gamma molecolare di «fasi semantiche» a difesa, a paura, a reazione, a chiusura.

Questo slittamento di significati si potrebbe decodificare, probabilmente, con lo scarto semantico che sta alla base del comune tema etimologico posseduto da due termini apparentemente molto lontani, vale a dire ospite e ostile, dove il senso del primo è una conseguenza modale-cronologica del secondo: l’ospite è il nemico/straniero (hostis) che viene accettato nella comunità dandogli da bere (hostis potis). Il senso del localismo «malato di globalizzazione» si può rintracciare in questa distorsione della difesa della cultura che porta prima a una chiusura e poi a forme di violenza più o meno gravi; la difesa identitaria tout court è un sintomo della nostalgia di una cultura «pura», non ibridata né messa in gioco insieme ad altre realtà.

Questa mancanza di spirito dialettico propria dei fondamentalismi culturali e religiosi e delle manifestazioni xenofobe e intolleranti quali alcune «leghe» e alcune associazioni (in un recente passato indicativo del fenomeno era il terrore provocato dal Ku Klux Klan), concorre a dimostrare quanto osservato da Clifford Geertz, e cioè che non esistono «pregi» assoluti legati alla prospettiva culturale globale, né a quella locale, ma entrambe generano contraddizioni che sono, in realtà, cortocircuiti della parte malfunzionante di uno stesso sistema.

In quest’ottica, tornando ai localismi, potremmo a buon diritto affermare che anch’essi, alla stregua del fenomeno della globalizzazione, sono diventati, nella loro dimensione maggiormente esasperata, una «legittimazione forte» di un significato distorto del termine identità.

Il grande racconto del globale, allora, non viaggia da solo sui binari delle problematiche sociali della contemporaneità, ma in compagnia della sua parte speculare: il grande racconto del locale.

Da quanto detto, infatti, anche la dimensione locale, trasfigurata dagli ultimissimi eventi socio-storici, ha assunto i tratti di una idea «fondativa», «unitaria», «totalizzante», le cui caratteristiche rispondono in pieno alle peculiarità dei metaracconti teorizzati da Lyotard, e si possono assimilare ai topoi che, come abbiamo visto, sono propri della Modernità.


  1. Cfr. Lyotard J.-F., La Condition Postmoderne, Minuit, Paris, 1979; trad. It. La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1980. ↩︎

  2. Cfr. Vattimo G., La fine della modernità, Garzanti, Milano, 1985, ID. La società trasparente, Garzanti, Milano, 1989. ↩︎

  3. Giddens A., le conseguenze della modernità (1990), Il Mulino, Bologna, 1994. ↩︎

  4. Le conseguenze della modernità, op. cit., p. 71. ↩︎

  5. Bell D., The coming of post-industrial society. A Venture of Social Forecasting, Basic Books, New York, 1973. ↩︎

  6. Toffler A., The third Wave, Collins, London, 1980, trad. It. La terza ondata, Sperling & Kupfer, Milano, 1987. ↩︎

  7. Cerino A. (a cura di), Ford e il lavoro in serie, Edizioni Cremonese, Roma, 1973. ↩︎

  8. Tomlinson J., Sentirsi a casa nel mondo, Feltrinelli, Milano, 2001. ↩︎

  9. Cfr. Griswold W., Sociologia dellla cultura (1994), Il Mulino, Bologna, 1997. ↩︎

  10. La dicotomia apocalittici-integrati è rimasta nella storia della cultura italiana grazie al titolo di un fortunato saggio di Umberto Eco (Eco U., 1964), per designare la contrapposizione tra i detrattori e i fautori della «cultura di massa», e, per estensione figurata, di ogni innovazione in campo culturale. ↩︎

  11. La società trasparente, op. cit., pp. 17-18. ↩︎

  12. Geertz C., Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del XX secolo (1995), Il Mulino, Bologna, 1999. ↩︎

  13. Hannerz U., La diversità culturale (1996), Il Mulino, Bologna, 2001. ↩︎

  14. La diversità culturale, op. cit., p. 21. ↩︎

  15. Bolaffi A., Marramao G., Frammento e sistema. Il conflitto-mondo da Saraievo a Manhattan, Donzelli, Roma, 2001. ↩︎

  16. Frammento e sistema, op. cit. p. 21. ↩︎