Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio? Fede, fiducia, credenza, conoscenza

Ogni accostamento positivo tra i termini «fede», «fiducia» e «credenza», da un lato, e «conoscenza», dall’altro, sembra cadere vittima di un pregiudizio filosofico sfavorevole. La fede, la fiducia e la credenza, in effetti, paiono intrattenere (almeno nella prospettiva del main stream filosofico moderno)1 un rapporto di contrapposizione o di difficile conciliabilità con l’ambito della conoscenza: si ha fiducia e si crede in ciò che non si conosce, o che non si conosce perfettamente, mentre gli oggetti che possono essere conosciuti perfettamente (i teoremi matematici, ad esempio) non hanno alcun bisogno di fiducia né di credenza, poiché sono garantiti nella propria verità da una perspicua ed indubitabile aderenza ad un metodo adeguatamente fondato. La fede religiosa, in tal senso, è considerata come il massimo esempio di incertezza conoscitiva, bilanciata da un’adesione per nulla motivata (o scarsamente motivata) a tesi indimostrabili. Contro questa posizione, cercherò di argomentare in favore di tre tesi:

(1) bisogna estendere il significato della parola «fede» (che rimanda immediatamente al nostro rapporto con Dio e con la religione) fino ad identificarlo con quello della parola «fiducia», di cui la fede religiosa è una delle possibili espressioni;

(2) il processo con il quale noi arriviamo ad avere fiducia in qualcuno o a credere in qualcosa non esclude la conoscenza, ma anzi la richiama continuamente;

(3) l’ambito della credenza (opportunamente bonificato da ogni connotazione negativa) comprende anche quelle verità massimamente evidenti e dimostrabili: si può credere nella verità di qualsiasi giudizio, indipendentemente dal contenuto di tale giudizio, e la credenza risulta veritiera in virtù dell’effettiva verità del giudizio in questione.

La tesi (3) necessita di una chiarificazione: l’effettiva verità di un giudizio è tale in virtù di se stessa, e non del processo con il quale il singolo soggetto conoscente arriva a giustificare tale verità. In altri termini: che il numero dei pianeti del nostro sistema solare sia n (dove n costituisce l’effettivo numero dei pianeti del sistema solare) non dipende dal fatto che un soggetto conoscente qualsiasi si metta a contare, in un determinato periodo storico, il numero di tali pianeti. In base alle conoscenze di quel determinato periodo, il soggetto conoscente può esser giustificato nel credere che il numero dei pianeti sia, ad esempio, n — 1: egli cadrebbe in errore, almeno dal punto di vista della giustificazione, se, in maniera immotivata, ammettesse n pianeti nel nostro sistema solare, mentre sarebbe nel vero quanto al contenuto della propria affermazione. In definitiva: si può esser giustificati nel credere in qualcosa di falso e si può credere in qualcosa di vero senza un’opportuna giustificazione.

La questione sulla quale mi concentrerò in queste pagine, pertanto, non è la verità in sé di giudizi quali «Dio esiste» o «Napoleone è morto a S. Elena il 5 maggio 1821» o «ogni triangolo ha tre angoli e tre lati», ma il processo conoscitivo con il quale è possibile credere o non credere nella verità di tali giudizi. In questo senso, definirò anzitutto lo status quaestionis della mia riflessione, discutendo il significato dei termini «fiducia», «credenza» e «conoscenza» per evitare possibili fraintendimenti (§1). In secondo luogo, esaminerò il processo con il quale accertiamo la nostra fiducia in qualcuno (§2) e i suoi possibili ambiti di applicazione (§3). Come cercherò di chiarire successivamente, la fiducia in qualcuno può produrre una serie di credenze motivate, ma i termini «fiducia» e «credenza» pertengono a due livelli distinti della riflessione e dell’agire umano. Da ultimo, provvederò ad un’esposizione del processo della fede religiosa in linea con i risultati acquisiti (§4) e tenterò di mostrare come sia necessario credere anche nelle verità ritenute massimamente evidenti (§5). Ammetto di essere in debito con Agostino d’Ippona2 e con John Henry Newman,3 in modo particolare per le loro riflessioni sulla fede religiosa e sulle connessioni metodologiche tra la fede religiosa e i numerosi casi di conoscenza indiretta che si propongono quotidianamente al nostro pensiero.4

1. Lo status quaestionis

Il punto centrale del mio ragionamento consiste nel tentativo di fondare e giustificare proposizioni come le seguenti:

(4) Io credo che P.

(5) Io ho fiducia in a.

Occorre precisare, tuttavia, che le due lettere P ed a sostituiscono due differenti componenti del discorso: la lettera P nella proposizione (4), infatti, è una variabile proposizionale, che può essere sostituita, in linea teorica, da qualsiasi proposizione nella quale io, soggetto conoscente, posso credere; la lettera a nella proposizione (5), invece, è una costante individuale, che può essere sostituita solo da quel preciso individuo nel quale io ripongo fiducia. Mi sembra, infatti, che la differenza tra una qualsiasi credenza e la fiducia in qualcuno sia proprio questa: la credenza è sempre credenza di qualcuno in una determinata proposizione (o nel suo preciso valore di verità), mentre la fiducia è sempre fiducia di qualcuno in un determinato e preciso individuo. Di che individuo si tratta? In definitiva, mi pare che si possa nutrire fiducia nei confronti di un individuo razionale, che possa impegnarsi adeguatamente in un libero rapporto con noi. Non mi sembra, cioè, che la nostra fiducia (almeno nell’uso comune di tale termine) possa essere riposta in una cosa qualsiasi o in un essere non-razionale: si può asserire, certamente, di aver fiducia nel proprio animale domestico, a patto di attribuire a quest’ultimo, però, alcuni connotati tipici dell’individualità razionale (quali, ad esempio, la capacità di rispondere ad un preciso comando o di non abbandonarci nel momento del bisogno), sia pure con strutture comportamentali differenti rispetto ad un individuo razionale umano.5 In quest’ultimo senso, il rapporto di fiducia può essere instaurato soltanto tra due individui razionali (colui che nutre fiducia e colui in cui si ripone fiducia) o tra un individuo razionale e un individuo semi-razionale o, da ultimo, tra due individui semi-razionali (ad esempio, il cucciolo di cane che si fida della propria madre). Negli ultimi due casi, tuttavia, occorre ripetere che l’elemento centrale del rapporto di fiducia deve essere individuato proprio in quel fattore di semi-razionalità (o in quella parvenza o figura di razionalità) che connota gli esseri semi-razionali.

Si può ribattere, tuttavia, che il cucciolo di cane si fida della propria madre non già perché riesca ad argomentare in favore della bontà della madre, ma per istinto o bisogno di protezione. La razionalità del rapporto di fiducia tra il cucciolo e la madre (o della fiducia che il cane nutre nei confronti del proprio padrone), tuttavia, pur non provenendo probabilmente da una libera decisione del cucciolo di cane, funziona forse come un’attribuzione estrinseca al rapporto: vi è razionalità nel comportamento del cucciolo, presumibilmente, perché tale comportamento può esser conosciuto e spiegato razionalmente. Il cucciolo, detto altrimenti, può avere buone ragioni per fidarsi della madre, ma tali ragioni si presenteranno al cucciolo soltanto in maniera oscura e potranno essere comprese razionalmente (o in modo maggiormente razionale) soltanto da un essere pienamente razionale. Secondo questa prospettiva, allora, l’istinto non è un termine contrapposto alla ragione, ma un grado minore di razionalità: il cucciolo sembra avere l’istinto di fidarsi della madre non già ciecamente, ma in virtù di alcuni benefici che deriveranno da quella fiducia. Tali benefici, certamente, non saranno attinenti semplicemente all’ambito dell’autoconservazione, ma potranno rientrare in un dominio più vasto di bisogni: il cucciolo avrà bisogno di essere protetto, di sentire il calore materno e, forse, anche di amare la madre e di essere amato dalla madre e introdotto alla vita, sia pure in modo diverso da un bambino. Del resto, anche gli esseri razionali sono spesso condotti a nutrire fiducia in modo istintivo nei confronti di qualcuno: la differenza tra la fiducia degli esseri semi-razionali e la fiducia degli esseri razionali, però, risiede proprio nella capacità, da parte di questi ultimi, di poter dare ragione (sia pure in modo incompleto) della propria fiducia e di poter rispondere liberamente di essa. Questa capacità di rendere ragione e questo potere di autodeterminazione alla fiducia maturano nel corso degli anni e sono spesso tacitamente presupposti in molti rapporti: il bimbo non riesce ad argomentare in favore della fiducia verso la propria madre, né si autodetermina ad essa, così come due amici non argomentano costantemente in favore della propria amicizia, né scelgono deliberatamente ogni giorno di restare amici. Ho parlato, appunto, di capacità di rendere ragione e di potere di autodeterminazione alla fiducia, lasciando intendere che tale capacità e tale potere non sono sempre posti coscientemente in atto, ma possono esser posti in atto ad un certo stadio della propria maturazione. Il primo risultato di questo ragionamento, dunque, è il seguente: il rapporto di fiducia (almeno nei suoi livelli di coscienza più elevati) si dà sempre nell’alveo di una certa razionalità, che comprende sia la capacità di rendere ragione della propria fiducia sia, soprattutto, il potere di autodeterminazione ad essa. Il fatto che un animale semi-razionale possa nutrire fiducia nei nostri confronti o nei confronti di un altro animale semi-razionale non intacca tale conclusione, giacché la fiducia di tale animale potrà essere spiegata o con un’attribuzione estrinseca di razionalità, o con un grado minore di razionalità. Al momento, non posso escludere nettamente nessuna di queste ultime tesi: sia che si intenda la razionalità dell’animale semi-razionale in senso gradualista (come un grado di razionalità inferiore rispetto a quello di un essere umano), sia che la si intenda come una mera denominazione estrinseca, resta chiaro che l’essere umano può porre in atto la propria razionalità in modo maggiormente compiuto e con una portata ben più vasta rispetto all’animale semi-razionale. L’essere umano, cioè, può intravedere maggiori ragioni di fiducia, può decidere liberamente di fidarsi (anche qualora le ragioni depongano in senso contrario), può scorgere più nitidamente le conseguenze della propria decisione e, soprattutto, può decidere di porre in atto (almeno nel proprio stadio maturo) la propria razionalità nel contesto del rapporto di fiducia. E proprio quest’ultima libertà (che sorge laddove venga interrotta la coazione a ripetere e sia introdotto un elemento di potenziale discontinuità nel rapporto) sembra scavare più a fondo il fossato tra la fiducia umana e quella degli animali semi-razionali.

Anche le credenze paiono rispondere alla medesima dinamica: il cane può credere che il proprio padrone sia buono, così come Giovanni può credere che il suo amico Pietro sia buono, ma le credenze di Giovanni, oltre a poter riguardare un contesto più vasto (Giovanni, ad esempio, può anche credere nella verità del teorema di Pitagora), sorgono secondo un processo diverso rispetto alle credenze del cane e possono essere argomentate, comunicate, discusse e, al limite, coscientemente corrette.

Ad ogni modo, se le credenze riguardano, in generale, le proposizioni (che esprimono, a loro volta, determinati stati di cose) ,6 la fiducia riguarda gli esseri dotati di razionalità. La fiducia, allora, è sempre costruita all’interno di un rapporto7: essa può non essere reciproca (Giovanni può fidarsi di Pietro, mentre Pietro può non fidarsi di Giovanni) ma, quando diviene reciproca, come si noterà successivamente, assolve maggiormente al proprio scopo, che può essere identificato con la felicità degli esseri razionali in rapporto. Un rapporto di fiducia, allora, può dar luogo a certe credenze: se Giovanni si fida di Pietro, egli può credere che Pietro sia buono, che non lo tradirà, etc. Le credenze, tuttavia, non sorgono sempre e soltanto da un rapporto di fiducia tra due esseri razionali: io posso credere nella verità del teorema di Pitagora perché riesco a dimostrarlo sulla scorta dei postulati della geometria euclidea, indipendentemente dal concorso di un altro essere razionale. Quest’ultima tesi, tuttavia, sarà discussa ed ampliata nel §5.

Resta da introdurre, così, il ruolo della conoscenza nel sorgere delle credenze e dei rapporti di fiducia. Un essere razionale conosce un determinato oggetto quando riesce a distinguere quell’oggetto da altri oggetti in virtù dei suoi caratteri propri e quando sa perché quell’oggetto sia così, e non in modo diverso. Conoscere un oggetto, in altri termini, significa poter attribuire un valore di verità ai giudizi su quell’oggetto (a tutti i giudizi, almeno al livello più elevato di conoscenza, o a quelli più rilevanti per cogliere la specificità dell’oggetto o, al limite, soltanto ad alcuni), nonché poter spiegare le ragioni per cui tali giudizi sono veri oppure falsi.

Le proposizioni (4) e (5), allora, dal punto di vista della propria verità, si comportano in modo diverso: mentre la proposizione (5) ha un solo valore di verità (è vera se io mi fido di a, è falsa se non mi fido di a), la proposizione (4) ha sì un unico valore di verità in se stessa (è vera se io credo che P, è falsa se non credo che P), ma pone in questione anche il valore di verità della proposizione P. In tal caso, la verità di P può non implicare la verità di (4), così come la verità di (4) può non implicare la verità di P. Nel caso di una credenza, è proprio la verità di P l’elemento di maggiore interesse: la mia asserzione (4) può esser vera se io credo che, effettivamente, P sia vera, così come può essere giustificata se io ho buone ragioni per sostenere che P sia vera piuttosto che falsa, ma una credenza risulta perfettamente fondata solo e soltanto se essa può esser pienamente giustificata e se (4) e P sono entrambe vere. La questione della verità di una credenza risiede così proprio nella questione della sua perfetta fondazione, mentre la questione della giustificazione di una credenza riguarda il processo conoscitivo che ci consente di stabilire la verità o meno della proposizione creduta. Quanto più la nostra giustificazione sarà efficace, tanto più potremo avvicinarci ad una perfetta fondazione della credenza, anche se la giustificazione di una credenza non è condizione sufficiente della sua perfetta fondazione.

2. Fidarsi è bene, non fidarsi non è meglio

La maggior parte dei nostri atti quotidiani è fissata su alcuni rapporti di fiducia che, pur non potendo sempre esser messi a tema coscientemente, sono parte integrante del nostro orientamento nel mondo, dell’accrescimento delle nostre conoscenze e del nostro percorso di realizzazione della felicità. Prima di addentrarci nell’esame della giustificazione dei rapporti di fiducia, dunque, occorre ribadire l’importanza di tali rapporti. La fiducia che noi riponiamo in alcune persone (più o meno riflessa) è un fattore decisivo della nostra vita: essa, infatti, pur potendo essere talora preda della possibilità del tradimento, semplifica e struttura i nostri comportamenti, aprendoci costantemente a nuove possibilità. Se io, uscendo di casa la mattina, dovessi mettere continuamente in dubbio la mia fiducia nel barista che mi prepara il caffè; se dovessi temere costantemente di essere avvelenato dal cuoco del ristorante dove pranzo; se dovessi sempre aver paura delle mosse dell’autista che guida l’autobus sul quale viaggio; se accadesse tutto questo, a cosa si ridurrebbe la mia vita? Dovrei sempre provvedere da solo a fare qualsiasi cosa (ammesso che ciò sia possibile) e, al limite, dovrei rinunciare a tutte le situazioni in cui è implicito qualsiasi atto di fiducia. Potrei prepararmi da solo il caffè a casa, ad esempio. Ma potrei essere davvero sicuro che il caffè comprato al supermercato non contenga tracce di veleno per topi? A quel punto, dovrei mettermi da solo a coltivare il caffè. Ma i semi venduti dal negoziante potrebbero non germogliare e il negoziante potrebbe ingannarmi. Inoltre, se dovessi provvedere da solo a qualsiasi cosa, non avrei più tempo per molte occupazioni. Solo un individuo pienamente autosufficiente potrebbe realizzare questa utopia solipsista. Ma visto che ciascuno di noi, per il poco tempo concesso dalla propria vita e per le limitate capacità del proprio essere, dipende sempre da altre persone, qualche atto di fiducia (implicita o esplicita) è ineludibile.

L’individuo solipsista, poi, al di là della propria pretesa autosufficienza, sarebbe una persona sostanzialmente sottosviluppata. Non dovrebbe fidarsi dei propri insegnanti, né degli autori dei libri studiati, dal momento che i primi ed i secondi potrebbero volerlo ingannare, raccontando falsità. Non dovrebbe fidarsi né della propria madre, né del proprio padre, poiché l’affetto di entrambi potrebbe implicare una forma di sopraffazione ed egoismo. Non dovrebbe avere amici, giacché ogni amico potrebbe tradirlo, così come non dovrebbe mai innamorarsi. I sospetti espressi in qualsiasi occasione e tradotti sempre in regole dell’agire (come se l’oggetto giudicato con sospetto dovesse sempre avere le caratteristiche sospettate) renderebbero questo individuo rachitico ed insensibile, impaurito e paranoico. Ciò non significa che, nella vita, sia necessario fidarsi ciecamente di chiunque. Nondimeno, per vivere e per vivere bene, è necessario fidarsi di qualcuno. E la possibilità del tradimento della fiducia (sospettata continuamente dal nostro individuo solipsista) non equivale sempre alla sua realtà e, in ogni caso, come si noterà, non deve necessariamente interrompere il rapporto di fiducia.

I rapporti di fiducia, dunque, sono stabiliti molto spesso in maniera non pienamente conoscente. Essi danno luogo ad alcune credenze rispetto alle persone di cui ci fidiamo (o di cui non ci fidiamo) e sono, a loro volta, condizionati e rafforzati (o indeboliti) dalle nostre credenze riguardo alle altre persone, benché tali credenze non producano da sole alcun tipo di fiducia.

Per descrivere la dinamica con cui viene giustificata la fiducia che riponiamo in qualcuno, desidero ricorrere ad un esempio. Questa dinamica può essere diversa dalla dinamica con cui sorge la fiducia verso qualcuno, poiché il sorgere della fiducia, de facto, pur avendo la possibilità di essere motivato con ragioni e determinato liberamente dal soggetto, non è sempre prodotto, né conosciuto, né deciso in modo pienamente cosciente. Per giungere al nostro esempio, immaginiamo una situazione del genere: Pietro e Giovanni sono molto amici. Ad un certo punto, un certo personaggio (chiamiamolo Antonio) si reca da Giovanni e gli confida che Pietro non è veramente amico di Giovanni e che, in realtà, parla male di lui alle sue spalle. Pietro, interrogato da Giovanni, negherà tutto quanto. Cosa dovrà fare Giovanni? Dovrà cercare, evidentemente, di conoscere la verità. Dinnanzi alle due tesi contrapposte, non potrà, ragionevolmente, fare finta di nulla e continuare a fidarsi ciecamente di Pietro: se lo farà, dovrà avere comunque dei buoni motivi, sui quali sarà chiamato a riflettere. Ma quali saranno i fattori in gioco in questo processo di conoscenza? In primo luogo, notiamo subito una cosa: Giovanni sarà tanto più interessato a conoscere la verità, quanto più sarà legato a Pietro. Egli, insomma, vorrà conoscere la verità, perché da quella verità dipende qualcosa di importante della propria vita. In secondo luogo, Giovanni dovrà certamente confrontarsi con Pietro e cercare di capire se, al di là delle parole, vi siano effettive ragioni di tradimento o incongruenze nei suoi discorsi e nei suoi comportamenti. In terzo luogo, si tratterà di verificare l’attendibilità del testimone (in questo caso, di Antonio): egli sa veramente cosa è successo? Ha motivi di interesse per rovinare l’amicizia tra Pietro e Giovanni? Il testimone, cioè, non deve voler ingannare Giovanni e deve conoscere effettivamente ciò che sta affermando. La fiducia che Giovanni dovrà o meno restituire a Pietro implicherà allora, da parte di Giovanni, uno sforzo conoscitivo. Se anche Giovanni dovesse dire: «no, non voglio investigare la cosa, perché mi fido di Pietro», egli dovrà essere consapevole dei motivi di fiducia nei confronti di Pietro, provenienti ad esempio dalla storia del loro rapporto di amicizia. In questa dinamica, pertanto, sono coinvolti almeno tre elementi: l’interesse, da parte di Giovanni, nei confronti dell’amicizia con Pietro; la conoscenza di Pietro; la conoscenza dell’attendibilità del testimone (cioè di Antonio).

Giovanni, tuttavia, non potendo verificare di persona l’accadere degli eventi, raggiungerà sempre e soltanto un grado di maggiore o minore probabilità nella propria conoscenza. Egli potrà dire: «è molto probabile che Pietro mi abbia tradito» oppure «è molto probabile che Pietro non mi abbia tradito», ma non potrà avere, mediante la sola conoscenza, una certezza pari a quella che la somma degli angoli interni di un triangolo è pari ad un angolo piatto o che una determinata penna, che io sto vedendo qui e ora, è blu. Giovanni dovrà compiere un ulteriore sforzo, che è uno sforzo di libertà: egli dovrà decidere se fidarsi o meno di Pietro, e perseverare o meno nella propria decisione. La dinamica della fiducia, perciò, coinvolge tre dimensioni dell’essere umano: la volontà («io voglio chiarire questa situazione, dal momento che per me l’amicizia con Pietro ha valore, è preziosa»), la conoscenza e la libertà. Nessuna delle tre, dal canto proprio, è condizione sufficiente della rinnovata fiducia nei confronti di Pietro: la volontà, da sola, sarebbe cieca (e Giovanni, probabilmente, verrebbe tradito di nuovo da Pietro); la conoscenza, da sola, sarebbe incapace di decisione; la libertà, da sola, non avrebbe semplicemente alcunché da decidere.

La possibilità del tradimento, in questo esempio, è utilizzata esclusivamente per porre in luce il processo di giustificazione della fiducia. Essa non è essenziale ad ogni rapporto di fiducia o, meglio, non è essenziale che si sospetti continuamente il tradimento della persona di cui ci fidiamo. Al contrario, come ho già affermato, il sospetto del tradimento fa sì che la fiducia non sia mai pienamente instaurata. Giovanni e Pietro possono essere buoni amici senza mai sospettare l’uno del tradimento dell’altro. Ma Giovanni non potrà mai fidarsi completamente di Pietro, se sospetterà in ogni momento del suo tradimento. Mi pare, viceversa, che sia essenziale ad ogni rapporto di fiducia una sorta di presunzione di innocenza, che può essere conseguita originariamente o dopo aver vinto i propri sospetti. Per fidarmi del mio barista, ad esempio, devo presumere che egli voglia servirmi un buon caffè (o quantomeno un caffè non avvelenato!), così come, quando Pietro si rivolge per la prima volta al suo nuovo amico Giovanni in maniera cordiale, Giovanni non può penetrare le intenzioni di Pietro, se è costantemente preda del sospetto. Giovanni, per la sua storia personale e per una serie di amicizie finite male, può forse presumere che Pietro voglia ingannarlo e profittarsi di lui. Ma questa presunzione di colpevolezza non lo spingerà mai a fidarsi di Pietro. Non solo: questa presunzione di colpevolezza potrà sempre trovare nuovi elementi a proprio sostegno, leggendo in maniera negativa qualsiasi atto di amicizia di Pietro. Tale presunzione, insomma, non potrà mai essere confutata, a meno che Giovanni, una volta tanto, non decida di metterla da parte e di fare i conti con la realtà delle parole e delle azioni di Pietro. Giovanni, allora, dovrà effettivamente presumere l’innocenza di Pietro, allorché Pietro, senza alcun interesse egoistico evidente né alcuna evidente volontà di ingannarlo, si rivolgerà a lui in maniera cordiale e comincerà a mostrarsi suo amico. L’innocenza di Pietro potrà sempre essere negata dai fatti. Fino a quel momento, tuttavia, Giovanni farà bene a non lasciarsi dominare dal sospetto: un sospetto è pur sempre una possibilità, di gran lunga inferiore (sia dal punto di vista ontologico, che dal punto di vista conoscitivo) alla realtà di un fatto.

Ad ogni modo, i tre fattori implicati nel processo di giustificazione di un atto di fiducia sono la conoscenza, la volontà e la libertà. La conoscenza dovrà sempre rivolgersi ad un qualche soggetto (quello di cui dobbiamo fidarci o meno), nel tentativo di produrre alcune credenze giustificate e quanto più vicine possibili al vero. La conoscenza di una persona può essere diretta o indiretta. La conoscenza diretta si dà nel momento in cui il soggetto conoscente acquisisce informazioni sul soggetto conosciuto (cioè sull’altra persona) senza la mediazione di nessun altro soggetto. Si tratta, in genere, almeno nel caso in questione, di una conoscenza di fatti che abbiamo osservato: che Pietro, il giorno x, ha trattato male Giovanni; che Pietro, il giorno y, gli ha chiesto scusa, etc. La conoscenza diretta, nel caso dei rapporti umani, è certamente una componente decisiva ma, al contempo, è piuttosto limitata: non possiamo aver sempre presente il comportamento di una persona. Il comportamento, inoltre, allorché viene associato ad alcuni stati interiori, può produrre alcune ambiguità: se Pietro tratta male Giovanni, ciò non significa che Pietro non voglia più essere suo amico. Al contrario, Pietro può aver rimproverato Giovanni per un fine nobile e può aver rinforzato il proprio rimprovero per renderlo più incisivo. In questi casi, occorrerà vagliare attentamente il singolo risultato di conoscenza diretta con altri risultati precedenti o successivi, come si potrà fare, ad esempio, nel caso del celebre «remo spezzato» in acqua: io vedo un remo di forma lineare prima di immergerlo in acqua ma, una volta immerso, la sua forma cambia e il remo sembra spezzato. Ora, per capire se il remo abbia davvero cambiato forma, non basterà attenersi al secondo risultato di conoscenza diretta (quello del remo spezzato in acqua): bisognerà ricordare il primo risultato (quello del remo osservato prima di essere immerso in acqua), la credenza per la quale, in genere, nessun remo, se viene immerso in acqua, cambia realmente forma e, soprattutto, si potrà far ricorso ad un terzo risultato di conoscenza diretta (vedere se, una volta uscito dall’acqua, il remo abbia cambiato effettivamente forma). La conoscenza diretta dei fatti, insomma, può e deve essere arricchita notevolmente e giustificata nella propria verità dalla conoscenza diretta di fatti precedenti, successivi o concomitanti.

Aggiungo una nota a questi rilievi sulla conoscenza diretta: una conoscenza diretta può essere tale, anche se non è giudicata coscientemente dal soggetto. Il bimbo può conoscere l’abbraccio della madre, anche se non sa giudicare coscientemente cosa sia un abbraccio: la conoscenza, pertanto, può vertere direttamente sul proprio oggetto e fornire informazioni sul proprio oggetto, anche quando non si conosce la definizione dell’oggetto stesso. Viceversa, è forse ragionevole affermare che una persona, che non ha mai abbracciato nessuno né è mai stata abbracciata da nessuno, e che conosca tuttavia la definizione della parola «abbraccio», sappia realmente cosa sia un abbraccio? Il bimbo abbraccia la madre ed è abbracciato da lei: la credenza per cui sua madre gli vuole bene si affaccia nella sua mente, è quasi percepita nel suo corpo e il bimbo, con uno slancio non pienamente riflesso, e tuttavia giustificato da quell’esperienza, si fida della madre. L’atto del bimbo è giustificato per opera della sua conoscenza. Una conoscenza, infatti, non deve avere come propri oggetti soltanto le definizioni. Al contrario, la conoscenza adeguata ad un oggetto sarà dettata dalla natura dell’oggetto stesso: la conoscenza dell’acqua non può essere ridotta semplicemente a quella della sua formula chimica poiché, in tal caso, non si comprenderebbero tutte le sue caratteristiche (il suo valore per un assetato, ad esempio). La conoscenza, poi, può essere cosciente, ma non deve essere necessariamente cosciente: il bimbo, nel senso appena chiarito, può sapere cosa sia l’abbraccio di sua madre, senza sapere di saperlo. La coscienza attuale di una conoscenza, infatti, è un atto conoscitivo di secondo livello, per il quale un soggetto che sa qualcosa sa di sapere quella cosa. Questa coscienza attuale non è sempre conseguita dal soggetto conoscente, benché essa presupponga sempre quella particolare conoscenza sulla quale si esercita.

In questo modo, si può sostenere che non possono esservi atti di fiducia del tutto esenti dal conoscere, ma che ogni atto di fiducia richiama sempre alcune conoscenze: se mi fido del mio barista, ciò potrà avvenire anche perché non mi è mai capitato alcunché di spiacevole con lui, o perché nessuno mi ha mai avvelenato né tanto meno potrebbe farlo lui, o perché, semplicemente, ho notato che in un bar, di solito, non avvelenano la gente.

La conoscenza indiretta di una persona, invece, avviene sempre attraverso un testimone. Il testimone e la sua testimonianza, in effetti, sono il termine medio per la conoscenza di tutto ciò che non possiamo conoscere direttamente. Prima di procedere oltre, tuttavia, vorrei effettuare una precisazione: il testimone e la sua testimonianza sono conosciuti direttamente dal soggetto conoscente; viceversa, ciò cui si riferisce il testimone con la sua testimonianza (nel nostro esempio, il comportamento di una persona particolare: Pietro) è conosciuto indirettamente. In questo modo, la conoscenza indiretta non sembra altro che l’orientamento di una conoscenza diretta verso ciò che non si può conoscere direttamente.

Ora, se resta valida la distinzione tra rapporti di fiducia e credenze, si potrà credere alla validità di una testimonianza sulla scorta della fiducia nei confronti del testimone (a), ma si potrà anche accrescere la nostra fiducia nei confronti del testimone testando la validità della sua testimonianza (b). I due metodi, in effetti, sono complementari, e accrescono l’uno i risultati dell’altro. Nondimeno, l’esempio di Pietro, Giovanni e Antonio sembra mostrare il primato del metodo (a). Il metodo (b), in effetti, procede attraverso controlli della testimonianza e di alcune sue caratteristiche pregnanti: la sua coerenza interna, la coerenza con alcuni risultati conoscitivi di cui siamo certi (che abbiamo conosciuto direttamente e di cui siamo in grado di escludere la negazione, o di ritenerla piuttosto improbabile). Per quanto riguarda l’agire di Giovanni, però, le possibilità di conoscenza diretta di quest’ultimo sono limitate: Giovanni non ha assistito direttamente al «tradimento» di Pietro e deve fidarsi o meno di Antonio, secondo il metodo (a). La fiducia nei confronti di Antonio, comunque, potrà essere corroborata da alcune credenze e non sarà, pertanto, il risultato di un affidamento puramente irrazionale: Giovanni, cioè, dovrà verificare l’attendibilità e l’onestà di Antonio e produrre una serie di credenze a tale proposito. La singola testimonianza di Antonio non basterà al conseguimento di questo scopo: Giovanni dovrà conoscere direttamente sia le intenzioni ed i comportamenti di Pietro, che le intenzioni ed i comportamenti di Antonio, vagliando una molteplicità di dati e di testimonianze e ricorrendo, se necessario, ad altri testimoni. La distinzione tra i metodi (a) e (b), così, non implica affatto una rigida distinzione nei singoli processi conoscitivi, ma definisce piuttosto due percorsi diversi verso la stessa meta: il metodo (a) fornirà alcune ragioni per credere o meno nella validità della testimonianza; il metodo (b), invece, fornirà alcune ragioni per fidarsi o meno del testimone. Entrambi i metodi, che non potranno essere isolati dai risultati di altri atti conoscitivi, saranno indirizzati allo stesso obiettivo: produrre delle credenze per fidarsi o meno di Pietro.

Resta da sollevare, però, un’ultima questione: qual è la certezza conseguibile nei processi di conoscenza diretta ed indiretta? La mia risposta, che potrà essere giustificata parzialmente, almeno in questo momento,8 è fondata sulla possibilità di distinguere vari gradi di certezza. Devo distinguere, allora, vari ambiti di credenze di cui possiamo essere più o meno certi: vi sono alcune credenze di cui possiamo essere certi assolutamente (a), credenze di cui possiamo essere non-certi assolutamente (b) e credenze di cui possiamo essere certi con maggiore o minore probabilità (c). Gli ambiti (a) e (b) si identificano con i campi della necessità e dell’impossibilità logica, mentre l’ambito (c) contiene tutte le credenze che riguardano o che sono mescolate con fatti del mondo, logicamente indeducibili. Un esempio dell’ambito (a) è il seguente: «un triangolo è una figura geometrica dotata di tre angoli».9 Della verità di questa proposizione possiamo essere certi assolutamente, per il semplice fatto che, logicamente, non possono darsi figure dotate di tre angoli che non siano triangoli: non ci sono controesempi. Una proposizione tipica dell’ambito (b), invece, è la seguente: «ci sono triangoli non dotati di tre angoli». Della falsità di questa proposizione possiamo esser certi assolutamente, giacché un triangolo, per definizione, è una figura dotata di tre angoli. Vi sono, poi, molti esempi dell’ambito (c), distinti secondo vari gradi di probabilità: «tutti i cigni sono bianchi», «Pietro ha parlato male di Giovanni il giorno x, all’ora y», «questa penna è di colore blu», etc.

Ora, la probabilità soggettiva10 della verità di tali proposizioni può non essere equivalente alla somma certezza della verità di una definizione logica. Nondimeno, possiamo esser soggettivamente certi della loro verità in modo derivato. Si prenda, ad esempio, la proposizione «Pietro ha parlato male di Giovanni il giorno x, all’ora y» (ca). Giovanni potrà esser soggettivamente certo della verità di questa proposizione se avrà conoscenza diretta degli eventi di quel giorno: ad esempio, se Pietro e Giovanni il giorno x all’ora y erano assieme, e se Pietro non ha detto nulla di male di Giovanni. Bisogna certamente chiarire cosa significhi «non dire nulla di male», giacché Giovanni può aver inteso in maniera innocente un discorso di Pietro, che era tuttavia malevolo nei suoi confronti. Ma è difficile pensare, ad esempio, che se Pietro e Giovanni hanno parlato dell’ultimo libro di Ken Follett, o se Pietro ha riempito Giovanni di complimenti, Pietro abbia effettivamente parlato male del suo amico. Così, se Pietro non ha parlato male di Giovanni con Giovanni il giorno x, all’ora y, perché Giovanni non può essere assolutamente certo della cosa e, parimenti, assolutamente certo della falsità della proposizione «Pietro ha parlato male di Giovanni il giorno x, all’ora y»?

Ben altro succede nel caso in cui si debba essere certi della verità o falsità di proposizioni come: «Pietro non parla mai male di Giovanni» (cb) o «Pietro ha parlato male di Giovanni con Antonio il giorno x, all’ora y» (cc). Anche in questo caso, tuttavia, la conoscenza diretta di Giovanni potrebbe raggiungere livelli di certezza soggettiva sommamente giustificata, soprattutto per la proposizione (cc): se Pietro e Giovanni erano insieme il giorno x, all’ora y, e Antonio non era presente, o Pietro non gli ha mai rivolto la parola, perché Giovanni dovrebbe essere incerto della falsità di questa proposizione? Negli esempi (ca) e (cc), dunque, sottoposti in linea teorica a procedimenti di conoscenza diretta, è ragionevole raggiungere una certezza soggettiva sommamente giustificata, pari ad una certezza oggettiva somma. Per inciso: la «certezza oggettiva» della verità di una proposizione non equivale alla sua verità, ma alla certezza che potrebbe raggiungere un soggetto dotato di tutte le conoscenze necessarie per fondare tale verità. La verità della proposizione (cb) è più incerta, almeno dal punto di vista soggettivo, così come è più incerta la verità della proposizione (cc), una volta che Giovanni non sia mai stato con Pietro il giorno x, all’ora y. Giovanni, in questi esempi, deve confrontarsi con almeno un fattore di conoscenza indiretta. Procedendo allo stesso modo, però, Giovanni potrà raggiungere una somma certezza soggettiva (ma non una certezza soggettiva sommamente giustificata) della verità di una simile proposizione: «sulla scorta delle testimonianze raccolte e della fiducia che ripongo in Pietro, nonché della scarsa fiducia che ripongo in Antonio (entrambe ragionevolmente), Pietro non ha parlato male di me il giorno x, all’ora y» (cc’). La fiducia diviene, a questo punto, premessa di un ragionamento, così come Giovanni può esser certo soggettivamente della verità di una simile proposizione: «sulla scorta della fiducia che ripongo in Pietro, Pietro non parla mai male di me» (cb’).

Questa somma certezza soggettiva, che viene spesso denigrata da molti filosofi, è la premessa implicita di molti atti quotidiani: se non disponessimo di essa, come ho mostrato, sarebbe piuttosto difficile vivere e vivere bene. In che modo, però, la somma certezza soggettiva di tali atti può essere avvalorata come certezza oggettiva? La certezza soggettiva raggiunta nei processi conoscitivi che contengono almeno un fattore di conoscenza indiretta, infatti, non è sempre motivo fondante di verità. Nondimeno, si può essere soggettivamente e oggettivamente certi di proposizioni come la seguente: «sulla scorta delle testimonianze raccolte, del metodo con cui ne ha appurato la verità, della fiducia in Pietro, Antonio, etc., Pietro non ha parlato male di me il giorno x, all’ora y» (cc’’). Tali proposizioni sono soggettivamente certe (dal punto di vista di Giovanni) e oggettivamente certe, dal momento che le loro premesse garantiscono la verità della conclusione. Il punto centrale, in questi casi, è la correttezza del metodo. Il metodo, però, può essere o meno corretto ai fini della certezza oggettiva di (cc’), ma non ai fini della certezza oggettiva di (cc’’): seguendo un metodo scorretto, si può comunque essere certi (oggettivamente e soggettivamente) che, in virtù di quel metodo, (cc’’) è vera. In conclusione: la verità di proposizioni come (cc’’) è certa soggettivamente e oggettivamente; la verità di proposizioni come (cc’) è certa soggettivamente e si può verificare la sua certezza oggettiva se il metodo prescelto è corretto; la verità di proposizioni come (cc) può esser certa soggettivamente (anche se ci sono fattori di conoscenza indiretta e se il metodo prescelto è corretto) ed è certa oggettivamente, benché il soggetto conoscente possa non essere in grado di verificare tale certezza. Le proposizioni come (cc’), allorché fondano la certezza soggettiva di proposizioni come (cc), sono esempi di giustificazioni di credenze nei casi di conoscenza indiretta.

Resta da capire, però, se la certezza oggettiva della verità di proposizioni come (cc) possa essere perfettamente fondata da parte di un soggetto conoscente. Ricordo che la certezza oggettiva della verità di una proposizione equivale alla certezza di un soggetto conoscente che disponga di tutte le conoscenze utili a fondare tale verità. In questo senso, mi pare che il processo da seguire sia di tipo ascensivo: si parte dalla certezza soggettiva e oggettiva della verità di proposizioni come (cc’’); si verifica la correttezza del metodo, per attestare la certezza oggettiva di proposizioni come (cc’); si vaglia la verità di (cc) alla luce di una serie di conoscenze dirette, di cui siamo soggettivamente ed oggettivamente certi. Così, se Giovanni non era con Pietro il giorno x, all’ora y, Giovanni non potrà appurare direttamente la verità di (cc). Ad ogni modo, egli potrà effettuare il suo ragionamento in questi termini: la proposizione (cc’’) è certa per me sia soggettivamente che oggettivamente; la proposizione (cc’) è certa per me soggettivamente e anche certa oggettivamente, giacché ho raccolto, con il mio metodo, informazioni utili per dirimere la questione della verità o falsità di (cc) e giacché ho raccolto conoscenze dirette certe soggettivamente ed oggettivamente riguardo alle testimonianze ed ai testimoni; poiché tra queste conoscenze dirette certe soggettivamente e oggettivamente c’è almeno un controesempio alla verità di (cc), la falsità di (cc) può essere perfettamente fondata.

Ma possono esistere conoscenze dirette certe soggettivamente e oggettivamente che siano controesempi alla verità di (cc)? Probabilmente sì, ma occorre muoversi con estrema cautela. Bisogna anzitutto circoscrivere (cc) e fornire ulteriori dettagli: ad esempio, capire con quale persona Pietro ha parlato male di Giovanni. Se «Pietro ha parlato male di Giovanni con Antonio il giorno x all’ora y» (cca) e Giovanni ha visto Antonio al bar il giorno x, all’ora y, mentre Pietro era a duecento chilometri di distanza, privo di qualsiasi possibilità di comunicare con Antonio, Giovanni potrà esser certo soggettivamente e oggettivamente della falsità della proposizione (cca). Pietro potrà aver parlato male di Giovanni con un altro personaggio e (cc) potrà essere comunque vera, ma non avrà parlato male di Giovanni con Antonio. In tutti i casi, si potrà attestare una certezza oggettiva circostanziata della falsità di (cc), ma è proprio questo che, al momento, sembra interessare maggiormente a Giovanni. Giovanni potrà esser certo soggettivamente e oggettivamente della falsità di (cca), non potrà esser certo oggettivamente della falsità di (cc) ma, dal punto di vista della ragionevolezza, cosa dovrebbe cambiare nel suo rapporto con Pietro? La testimonianza di Antonio e la sua attendibilità in quanto testimone sono state confutate; d’altro canto, Giovanni ha buone ragioni per fidarsi di Pietro: perché, allora, dovrebbe sospettare di Pietro? Giovanni può essere ragionevolmente certo (sia pure di una certezza soggettiva), fino a prova contraria, della falsità di (cc): la certezza soggettiva della falsità di (cc), sic stantibus rebus e con il procedimento esposto, dal punto di vista di Giovanni, sarà più prossima alla certezza oggettiva, almeno rispetto alla certezza soggettiva della falsità di (cc). Non dimentichiamo che questo processo passa sempre attraverso congetture e confutazioni e che ogni passo che ci costringe a mutare le nostre convinzioni sul valore di verità di una proposizione deve essere sempre giustificato sulla scorta della totalità delle nostre conoscenze. È ragionevole, allora, che Giovanni creda nella falsità di (cc) e che egli continui ad esser certo della falsità di (cc) soggettivamente e ad agire come se ne fosse certo oggettivamente, purché tale credenza sia adeguatamente giustificata. La possibilità di una prova contraria non mina, a questo livello, né l’una, né l’altra certezza.

La forma delle proposizioni (cc’) e (cc’’), comunque, richiama la necessità della fiducia in qualcuno come premessa per garantire la verità o la falsità di una testimonianza. I due metodi (a) e (b), ancora una volta, si incrociano. Il loro incontro, tuttavia, non è preda di una circolarità viziosa. Si può pensare, infatti, che occorra credere nella verità di una testimonianza per fidarsi di un testimone, ma che, al contempo, sia necessario fidarsi di un testimone per credere nella verità di una testimonianza. La fiducia nel testimone richiamata in (cc’) e (cc’’), tuttavia, è estrinseca rispetto alla credenza nella verità o falsità della singola testimonianza in oggetto: essa è condizionata da una serie di credenze precedenti alla testimonianza stessa, ma non è condizionata dalla credenza nella verità o falsità di quest’ultima testimonianza. La viziosità è quindi evitata.

La credenza nella falsità di (cc), però, non è motivo sufficiente perché Giovanni continui a fidarsi di Pietro, così come, in generale, anche se non ci fosse stata la vicenda di Antonio, Giovanni non si sarebbe fidato di Pietro solo in virtù delle proprie credenze su Pietro. È proprio questa la ragione per la quale ritengo che, nel giustificare i rapporti di fiducia, la sola conoscenza non basti, benché una qualche forma di conoscenza sia presente in ciascuno di essi. Un altro dei motivi che ci spinge a fidarci di alcune persone e a non fidarci di altre persone, nonché a ritenere la fiducia in alcune persone come essenziale per la nostra vita, è la nostra volontà. La volontà, infatti, ha un’essenziale natura teleologica: essa è sempre indirizzata ad un fine primario, che definisce un progetto complessivo di esistenza e che indirizza e giudica i fini secondari, nonché il valore dei singoli oggetti di volizione. Il fine primario è inteso, in generale, come la compiutezza della vita, accompagnata dalla massima e più duratura felicità possibile. Chiedersi se una vita sia compiuta perché felice o se, al contrario, una vita sia felice perché compiuta, equivale in un certo senso a distinguere realmente due fattori che, a mio avviso, possono essere distinti solo razionalmente: il compimento della vita indica il traguardo di una serie di azioni, il fine di un progetto che pertiene all’intera esistenza; la massima e più duratura felicità possibile indica lo stato psicologico conseguibile, in linea teorica, allorché il soggetto riconosce la propria vita come «compiuta». La compiutezza della vita, benché non possa essere definita per se stessa attraverso attribuzioni estrinseche, può essere intravista attraverso la valutazione dei cosiddetti «fini secondari»: si può dire più compiuta una vita vissuta nel perseguimento del sapere o, al contrario, una vita vissuta nel perseguimento dell’ignoranza? Una vita vissuta nel perseguimento dell’amicizia o una vita vissuta in modo solipsistico? La felicità, in questo senso, interviene come fattore discriminante: una vita vissuta nel perseguimento del sapere è più felice e, pertanto, più compiuta di una vita vissuta nel perseguimento dell’ignoranza, così come una vita che tenga in grande considerazione l’amicizia è più felice di una vita vissuta in modo solipsistico.

Si può obiettare, tuttavia, che una vita vissuta nel perseguimento del sapere fornisce una felicità diversa, ma non inferiore rispetto ad una vita vissuta nell’ignoranza: la prima può accompagnarsi spesso a momenti di sconforto (quando si scopre, ad esempio, l’inganno da parte di un amico), mentre la seconda può fornire momenti di intensa soddisfazione (quando si sorvola, ad esempio, sul medesimo inganno). Parimenti, una vita vissuta in modo solipsistico può avere i propri vantaggi, poiché evita, ad esempio, la possibilità di inganni da parte degli amici. Questa felicità diversa, tuttavia, per continuare a chiamarsi «felicità», deve essere comparabile con la felicità di una vita vissuta all’insegna del sapere o dell’amicizia (a): in caso contrario, dovremmo ritenere la prima una forma di non-felicità e la seconda una forma di felicità (ba) o, al contrario, la seconda una forma di non-felicità e la prima una forma di felicità (bb). Nel caso (a), occorre un metro di valutazione comune affinché gli uomini possano scegliere tra il sapere e l’ignoranza, tra l’amicizia ed il solipsismo. Questo metro di valutazione comune potrebbe essere, a sua volta, la maggiore vicinanza alla compiutezza della vita, testimoniata da una felicità quanto più intensa e duratura possibile. Una vita vissuta nell’ignoranza è preda di maggiori possibilità di non-felicità: l’amico che ci ha ingannato, ad esempio, e di cui non abbiamo voluto indagare l’inganno, può riservarci in futuro spiacevoli sorprese. Per la maggiore felicità del momento, così, abbiamo deciso di ignorare la felicità complessiva. In questo senso, una vita vissuta nel sapere è migliore di una vita vissuta nell’ignoranza. Allo stesso modo, una vita solipsista è generalmente meno felice di una vita vissuta nell’amicizia: gli amici possono ingannare e tradire, certamente, ma la gioia dell’amicizia è qualcosa di qualitativamente inaccessibile a coloro che non rischiano e non si sforzano per l’amicizia stessa. Nel caso (b), invece, se l’ignoranza reca alla non-felicità e il sapere reca alla felicità (ba), la nostra ipotesi resta comunque valida. Si può obiettare che vi sono persone che non vogliono la felicità per la propria vita: in generale, l’obiezione è giusta, ma deve essere indagata ulteriormente. Si può decidere, coscientemente, di volere la propria vita come «vita compiuta» o, parimenti, di non volere la propria vita come «vita compiuta». Il fattore «libertà» è ineludibile. Nondimeno, le due decisioni non hanno lo stesso valore: chi sceglie una vita «non-compiuta», né tendente alla massima e più duratura felicità possibile, lo fa spesso perché, nella mancanza di un progetto di vita complessivo, egli intravede la possibilità di una maggiore felicità. Il fine primario resta e viene identificato con la non-compiutezza dei fini secondari. La non-compiutezza nei fini secondari, allora, è assunta paradossalmente come unica possibile compiutezza del fine primario, ma lascia che il soggetto si trascini, di volta in volta, sospinto dalle circostanze, attraverso fini secondari più o meno elevati. Se egli fonderà la propria decisione unicamente sulle circostanze, dovrà essere comunque sospinto da qualche criterio dirimente: l’opportunità nella circostanza presente, ad esempio. E questo criterio (l’opportunità) sarà a sua volta un fine secondario: per essere incompiuti nei fini secondari, occorrerà seguire almeno un fine secondario (l’opportunità, appunto). A questo punto, si potrà obiettare che il soggetto, semplicemente, può rifiutare qualsiasi decisione e, pertanto, l’assunzione di qualsiasi criterio dirimente e di qualsiasi fine secondario. Ma è davvero possibile rifiutare qualsiasi decisione? Che non si decida, ad esempio, se alzarsi dal letto la mattina o rimanere tutto il giorno a dormire? Se sia più opportuno lavorare o restare disoccupati? Continuare a vivere o morire? Per quanto possano essere schiaccianti le circostanze, vi è sempre una possibilità di decisione, in esse, per l’essere umano: una decisione più facile e meno sofferta non sarà dettata dalle circostanze, giacché il suo contrario potrà essere sempre possibile e nelle disponibilità del soggetto che decide, anche se comporterà maggiori sofferenze e privazioni. Il socialista che, al tempo di Hitler, sceglieva di non manifestare le proprie convinzioni politiche nel timore di gravi ripercussioni non era determinato dalle circostanze: le circostanze rendevano soltanto più facili alcune decisioni e più difficili altre decisioni, ma i due corni della decisione erano comunque aperti.

Nel caso (bb), poi, allorché si proclami, ad esempio, il sapere come fonte di non-felicità e l’ignoranza come fonte di felicità, ci si abbandona semplicemente ad un errore di valutazione. Ciascuno è libero di vivere all’insegna di questo errore. Ma non si possono ignorare le conseguenze che, in generale, derivano da esso, come abbiamo appena chiarito.

Devo affrontare due ultime obiezioni al senso complessivo di questo discorso. La prima obiezione è che, se la compiutezza della vita definisce un progetto di esistenza personale, allora quot capita, tot sententiae: ciascuno potrà de iure progettare la propria vita così come crede e ritenerla compiuta solo e soltanto in quel senso. Questa obiezione, tuttavia, non tiene conto della distinzione tra fine primario e fini secondari: ognuno può progettare come crede la propria vita, seguendo i fini secondari che ritiene migliori, ma il parametro di giudizio (la massima e più duratura felicità) resterà oggettivo. Il ladro potrà essere più felice dell’uomo onesto? Forse sì, benché soltanto in maniera provvisoria: egli avrà forse maggiori disponibilità di denaro, ma dovrà mantenersi nell’inganno, fuggire continuamente da ogni spiegazione, evitare in ogni momento la vendetta di coloro che sono stati derubati. Giungiamo, così, alla seconda obiezione, che è più insidiosa. Benché conduca una vita «buona», un uomo che non rinuncia al proprio credo e finisce in un lager nazista può davvero essere più felice di un uomo che rinuncia al proprio credo e muore tranquillamente in casa propria? Al di là delle possibili crisi di coscienza di quest’ultimo uomo, che potrebbero rendere infernale la sua esistenza, si potrebbe ipotizzare che si tratti di una sorta di imbecille, un Eichmann di convenienza che non viene giudicato da nessun tribunale umano. E al di là della mancata punizione umana nei confronti di quest’uomo in una società che potrebbe ignorarne il tradimento o, al limite, persino lodarlo, resta evidente che quest’uomo ha assunto l’opportunità come suo principale fine secondario. La sua vita non è stata pienamente «sua» e, benché la sua felicità possa apparire come duratura (qualora si tratti, lo ripeto, di un completo imbecille), tale felicità non avrà il carattere della libertà e della conoscenza. Si tratterà di una felicità impersonale, priva di conoscenza (delle conseguenze, ad esempio) e di libertà. Viceversa, colui che ha scelto di non rinunciare alle proprie convinzioni e che è finito in un lager potrà morire tra stenti e privazioni, potrà non disporre della felicità più duratura possibile, ma avrà scelto, e scelto consapevolmente, la compiutezza della propria vita. La felicità che gli sarà riservata sarà quella della giustizia e della libertà. Vi è, dunque, nella durata della felicità, qualcosa che non dipende esclusivamente dalle nostre scelte: alcune circostanze esterne potranno limitare tale durata e, al limite, sopprimerla. Nel grado della felicità, tuttavia, vi è qualcosa di intimamente connesso alla nostra conoscenza ed alla nostra libertà: quanto più alta è la nostra conoscenza (della bontà delle conseguenze di un nostro gesto, o delle sue motivazioni) e quanto più elevata è la nostra libertà di decidere, tanto maggiore è la nostra felicità. Non si deve rinunciare alla libertà ed alla conoscenza per garantire una felicità più duratura: si tratterà, in ogni caso, di una felicità incompleta. Quando si tratta della felicità di un uomo, infatti, non dobbiamo dimenticare che non si tratta di una felicità impersonale, ma di una felicità che vuole valorizzare ogni dimensione di quell’uomo, ivi comprese la sua conoscenza e la sua libertà. Una duratura felicità da imbecilli o da servi delle circostanze è qualitativamente inferiore ad una momentanea felicità da uomini liberi e conoscenti: la compiutezza del vivere è, al contempo, compiutezza della volontà, della conoscenza e della libertà. È più felice la vita del nostro Eichmann ingiudicato o la vita di un S. Massimiliano Kolbe? Non ho dubbi: è più felice S. Massimiliano Kolbe, giacché la sua vita, fino all’ultimo, è stata spesa all’insegna della conoscenza del bene, della volontà di perseguirlo per sé e per gli altri, nonché della suprema libertà di sacrificare ogni cosa per quel bene.

È dunque la volontà che sospinge i nostri atti e li indirizza in un progetto di vita complessiva, ma essa non può fare a meno né della conoscenza, né della libertà. In questo modo, nei nostri rapporti di fiducia, quanto più elevata è la possibilità di compiutezza all’interno di quel rapporto, tanto più vogliamo conoscere la persona di cui ci fidiamo e tanto più la nostra scelta nei suoi confronti è un esercizio continuo di libertà. La libertà, allora, è la terza dimensione da esplorare e, probabilmente, quella più problematica. Si può assentire, in generale, a qualsiasi credenza, così come ci si può fidare di qualsiasi persona. Ma l’assenso ad una credenza è giustificato dalla ragionevolezza della credenza stessa, così come la fiducia verso qualcuno è motivata dalla nostra conoscenza di quella persona e indirizzata dalla nostra volontà. Una ragazza, Louise, può essere libera di fidarsi di Jack lo squartatore e può assentire a qualsiasi credenza sulla bontà di Jack lo squartatore. Tali credenze, tuttavia, non risulteranno giustificate, così come la volontà di Louise potrebbe ricevere spiacevoli sorprese da questo libero gesto. Il punto centrale del discorso, allora, è che, nei rapporti di fiducia, agiscono tutte le dimensioni dell’essere umano: conoscenza, volontà, libertà, e che la fiducia potrà considerarsi tanto più elevata, quanto più saranno valorizzate tutte e tre le dimensioni. Una fiducia giustificata e voluta, ma non libera (allorché si presenti la necessità di una scelta libera), sarà una forma di dolce schiavitù; una fiducia giustificata e libera, ma non voluta, non potrà recare vantaggi alla compiutezza della vita di un essere umano; una fiducia libera e voluta, ma non giustificata, potrà riservare spiacevoli conseguenze.

Queste argomentazioni, che dimostrano ampiamente, credo, la validità della mia tesi (2), impongono tre corollari. Il primo corollario riguarda la reciprocità della fiducia. Possiamo fidarci di qualcuno che non ha fiducia nei nostri confronti? Certamente sì. Nondimeno, mi sembra che un rapporto di fiducia basato sulla reciprocità sia migliore di un rapporto di fiducia ad un solo senso, e ciò avviene perché la persona di cui ci fidiamo, se si fida anch’essa di noi, sarà più disposta a lasciarsi conoscere da noi e meno propensa ad ingannarci per la paura di essere a sua volta ingannata.

Il secondo corollario riguarda una delle possibili conseguenze negative dei rapporti di fiducia: la perdita di sé nel fanatismo. In genere, il termine «fanatismo» connota più precisamente gli effetti deleteri della fiducia nei confronti di leader religiosi o politici, che spingono i propri adepti a compiere gesti estremi e contrari ad ogni valore etico. Una fiducia condotta all’eccesso, si può affermare, precipita nel fanatismo. A mio avviso, però, non si tratta, in questo caso, di un vero e proprio rapporto di fiducia o, comunque, di un buon rapporto di fiducia: il soggetto che si fida e che viene indotto a compiere gesti estremi è schiacciato dalla personalità di colui che lo manipola. La fiducia, pertanto, non è più né giustificata adeguatamente, né voluta, né scelta, per il semplice fatto che la conoscenza, la volontà e la libertà del soggetto che si fida sono offuscate dal suo manipolatore.

Il terzo corollario, infine, riguarda il perdono. Gli uomini sono fragili e, talvolta, tradiscono la fiducia dei loro amici. Dopo il tradimento, si può ancora nutrire fiducia nei confronti del traditore? Bisognerebbe esplorare, a questo punto, il difficile tema del perdono. Il perdono è il mezzo che vivifica e ristabilisce un rapporto di fiducia ormai perduto. È un atto performativo non solo perché, dicendo che si sta perdonando qualcuno, si compie una vera e propria azione, ma anche perché questo atto può mutare la personalità di colui che viene perdonato. Il perdono è scelto ragionevolmente, poiché tutti gli uomini, anche coloro che perdonano, riconoscono di poter tradire la fiducia di qualcuno e poiché l’esperienza dell’essere-perdonati rende spesso più inclini a perdonare. Il perdono è un grandioso atto di volontà, poiché è forse il gesto più elevato di amore verso qualcuno. Ed è, infine, un supremo atto di libertà: perdonare, infatti, significa rifiutare di lasciarsi schiacciare dalle circostanze, dalla debolezza e dal timore. Significa, da ultimo, trasformare la fine incombente di una bellezza in un nuovo inizio.

3. Fidarsi per conoscere (parte prima)

Tutte le proposizioni che esprimono contenuti conoscitivi possono divenire oggetti di credenza e, in questo modo, possiamo intendere pienamente il significato della tesi (3). Una credenza, in effetti, non è altro che una proposizione dotata di contenuto conoscitivo (e pertanto passibile di un determinato valore di verità) cui il soggetto conoscente attribuisce un certo valore di verità. Il soggetto conoscente, dunque, può credere nella verità o falsità di una proposizione P: in senso stretto, se egli crede nella verità di P, P costituisce una credenza; in senso lato, tuttavia, egli può credere nel preciso valore di verità di P (verità o falsità) e, in quest’ultimo senso, l’oggetto della credenza non è più direttamente P, ma il suo valore di verità. Questa distinzione è particolarmente utile ad eliminare alcune ambiguità sul significato del termine «credenza». Per ricapitolare alcune acquisizioni dei paragrafi precedenti, aggiungo che:

  • il soggetto conoscente può essere certo soggettivamente della verità o falsità di P o del contenuto conoscitivo di P (se tale contenuto è giudicato come vero);
  • il soggetto conoscente può diventare certo oggettivamente della verità o falsità di P o del contenuto conoscitivo di P (giudicato come vero), qualora disponga di tutte le conoscenze necessarie per fondare tale valore di verità e qualora sia certo soggettivamente della verità o falsità di P o del suo contenuto conoscitivo (giudicato come vero);
  • il soggetto conoscente può essere giustificato nel credere nella verità o falsità di P o nel contenuto conoscitivo di P, qualora abbia delle ragioni pertinenti in proposito, anche se la giustificazione, di per sé, non consente di conseguire la certezza oggettiva, che è piuttosto il risultato di una giustificazione completa;
  • il soggetto conoscente, infine, può credere nella verità o falsità di P o nel contenuto conoscitivo di P (giudicato come vero) in modo perfettamente fondato, se il valore di verità di P coincide con il valore di verità del reale stato di cose espresso da P e se il soggetto conoscente dispone di una giustificazione completa in proposito.

In generale, un insieme di conoscenze dirette può consentire di giungere a credenze certe soggettivamente, oggettivamente, completamente giustificate e perfettamente fondate. L’esempio di Pietro e Giovanni può risultare utile ancora una volta. Giovanni può credere nella falsità della proposizione «Pietro ha parlato male di Giovanni il giorno x, all’ora y» se Giovanni e Pietro erano insieme quel giorno in quell’ora e se il loro discorso verteva, ad esempio, sull’ultimo libro di Ken Follett: Giovanni può esser certo soggettivamente e oggettivamente di tale credenza, così come può essere pienamente giustificato nell’assumerla e, pertanto, può fondarla perfettamente. Certamente Giovanni può presumere che Pietro, parlando male di un personaggio dell’ultimo libro di Ken Follett, stesse parlando male metaforicamente di lui: questa presunzione di colpevolezza, tuttavia, resta solo e soltanto una presunzione, fintanto che Pietro parlava male soltanto del personaggio letterario, senza fare accenni a Giovanni. Se Pietro avesse parlato male del personaggio letterario, identificandolo metaforicamente con Giovanni, Giovanni avrebbe dovuto credere nella verità di un’altra proposizione: «poiché Pietro ha parlato male del personaggio letterario di Ken Follett il giorno x, all’ora y e quel personaggio letterario si è identificato metaforicamente con Giovanni, allora Pietro ha parlato male di Giovanni il giorno x, all’ora y». In tal senso, la verità della conclusione è garantita dalla verità della congiunzione nelle premesse e, perciò, dalla verità di entrambi i congiunti. Si noti che, da un punto di vista logico, la conclusione può essere vera, anche se le premesse sono false. Da un punto di vista reale, però, poiché questa è l’unica ragione per la quale Pietro può aver parlato male di Giovanni, se tale ragione è falsa, anche la conclusione deve essere falsa. Pertanto, una volta appurata la falsità di uno dei due congiunti nelle premesse, anche la conclusione sarà falsa, sicché Giovanni può esser certo soggettivamente e oggettivamente che Pietro non abbia parlato male di lui. Questa strategia funziona se il numero dei possibili controesempi alla verità o falsità di P è limitato e se il soggetto sa che tale numero è limitato. Un’altra strategia per evitare queste ambiguità consiste nel determinare ulteriormente la conclusione, dicendo che il ragionamento può essere vero, a patto che la conclusione sia «Pietro ha parlato male metaforicamente di Giovanni il giorno x, all’ora y». Nel caso in cui la conclusione sia «Pietro ha parlato male direttamente di Giovanni il giorno x, all’ora y», non si coglie, dal punto di vista reale, la pertinenza delle premesse ai fini della conclusione. Entrambe le strategie possono funzionare se riconosciamo la centralità non solo della nozione di validità inferenziale, ma anche e soprattutto della nozione di pertinenza delle premesse. Un controesempio efficace alla verità o falsità di una conclusione, infatti, può essere fondato solo su premesse pertinenti.

Chiarito questo punto, vorrei soffermarmi sulla distinzione tra contesto della scoperta e contesto della giustificazione nell’acquisizione di una credenza. Il contesto della scoperta è il contesto nel quale il soggetto conoscente si convince della verità o falsità di una credenza, mentre il contesto della giustificazione è il contesto nel quale il soggetto conoscente dovrebbe convincersi della verità o falsità di una credenza. Il contesto della scoperta è eminentemente vario: posso credere nella verità o falsità di una proposizione per molteplici ragioni, pertinenti o meno. Così, ad esempio, posso credere che a Perugia, al centro di Piazza IV Novembre, vi sia la Fontana Maggiore perché l’ho visto in una cartolina, oppure perché ho visitato direttamente il luogo, oppure perché l’ho visto in un documentario o, ancora, perché me lo ha riferito un amico, o lo ho appreso da Google Maps. Ogni scoperta, ad ogni modo, può essere sostenuta da alcune ragioni, sia pure dalle ragioni più inusuali e meno pertinenti: posso credere che a Perugia, al centro di Piazza IV Novembre, vi sia la Fontana Maggiore anche soltanto per il fatto che mi piace pensare così. Il contesto della giustificazione, però, è ben altra cosa, poiché è il contesto nel quale il soggetto conoscente è chiamato a fornire ragioni adeguate e pertinenti per convincersi della verità o falsità di una credenza. Se tali ragioni sono adeguate ed esaustive (cioè se non vi sono né possono esservi altre ragioni che fungano da controesempio alla verità o falsità di una proposizione), la giustificazione può essere completa.

Vi sono alcuni tipi di atti conoscitivi che contengono riferimenti alla conoscenza indiretta (e, pertanto, ai rapporti di fiducia) solo e soltanto nel loro contesto della scoperta, mentre altri tipi di atti conoscitivi contengono riferimenti alla conoscenza indiretta anche nel loro contesto della giustificazione. Tra questi secondi tipi di atti conoscitivi, bisogna includere, ad esempio, tutte le conoscenze storiche. Nelle conoscenze storiche, in effetti, è essenziale vagliare le testimonianze, ma anche e soprattutto fidarsi dei testimoni: la credenza nella verità delle testimonianze e la fiducia nei confronti dei testimoni sono premesse ineludibili per la conoscenza dei fatti passati. Allo stesso modo, poi, anche la comunicazione di massa (per quanto essa non sia dotata di elementi di scientificità, se non per il fatto che consente di conoscere qualcosa) contiene fattori rilevanti di conoscenza indiretta: una testimonianza mediatica, dal canto suo, può essere particolarmente vivida e realistica (ad esempio in televisione), ma è pur sempre possibile ipotizzare che si tratti di un’ingannevole messinscena. Il medium, in tal senso, inteso non già come lo strumento di comunicazione, ma come il soggetto che «media» la comunicazione dei fatti agli utenti da informare, è il termine di un rapporto di fiducia, implicito o esplicito. Negli stati democratici, inoltre, è essenziale che il politico riesca a stabilire un rapporto di fiducia con i propri elettori, se vuole che questi ultimi gli garantiscano il loro voto, benché l’elettore possa pur sempre decidere di votare a caso o distrattamente, senza riflettere.

In questi esempi di rapporti di fiducia intravediamo non solo la funzione centrale del fattore conoscitivo (che contiene almeno un elemento di conoscenza indiretta nel proprio contesto della giustificazione), ma anche il ruolo decisivo svolto dalla volontà e dalla libertà degli esseri umani. Si prenda, ad esempio, la politica. Un elettore può volersi fidare di un politico per molteplici fini, anche se, in generale, egli può accordargli il proprio voto in virtù del perseguimento, da parte del politico, del bene comune della società o, più egoisticamente, di un interesse particolarmente caro all’elettore. Parimenti, un elettore può decidere di fidarsi di un politico anche se quel politico è particolarmente corrotto e anche se vi sono ottime ragioni per credere che egli lavorerà soltanto per il proprio tornaconto.

In generale, si può stabilire la seguente regola: quando la giustificazione di un ambito di credenze contiene elementi di conoscenza indiretta, esso implica necessariamente, nel contesto della propria giustificazione, rapporti di fiducia nei confronti di soggetti conoscenti diversi dal soggetto che intrattiene quelle particolari credenze.11

4. Fiducia e fede religiosa

La dinamica della fiducia che è stata descritta nel §2 può suggerire alcuni importanti elementi di comprensione della fede religiosa. La mia tesi (1), in questo senso, è connotata da una certa radicalità: non solo lo studio dei rapporti di fiducia aiuta a comprendere meglio la fede religiosa, ma la stessa nozione di «fede religiosa» è una delle possibili espressioni della nozione di «fiducia». La fede religiosa, cioè, rientra nell’ambito della fiducia e non può essere intesa indipendentemente da essa.

La fede religiosa, ad ogni modo, può essere considerata come un caso particolare di fiducia, in quanto essa è sempre instaurata nel rapporto tra due soggetti (il credente e Dio): il credente ha fiducia in Dio solo e soltanto nell’ottica di un rapporto con Lui. Dio, allora, è connotato come un soggetto personale, che può rispondere al credente e offrire motivi adeguati affinché il credente perseveri nella fede in Lui. Il rapporto tra Dio e il credente è anche un vero e proprio rapporto di amicizia, fintanto che il credente ritenga decisivo per la propria vita fidarsi di Dio e amare Dio così come si ama un amico.12 La mia trattazione della fede religiosa, comunque, vuole essere limitata da alcuni fattori. In primo luogo, non intendo analizzare il contenuto di verità delle asserzioni religiose, ma esporre semplicemente il metodo della fede religiosa. In secondo luogo, mi riferirò alla tradizione religiosa che conosco meglio (quella cristiano-cattolica), non già perché io ritenga che la fede religiosa cristiano-cattolica sia l’unica fede religiosa metodologicamente corretta (il fedele cristiano-protestante o quello musulmano dovrebbero comunque instaurare corretti rapporti di fiducia con Dio per aver fede in Lui), ma solo perché si tratta, appunto, della tradizione religiosa che conosco meglio. In terzo luogo, non voglio trattare l’intera dinamica del rapporto tra Dio e l’uomo nella tradizione religiosa cristiano-cattolica, ma solo e soltanto svolgere alcuni accenni a quelle parti del rapporto che comprendono la fiducia.

Nel rapporto tra Dio ed il credente, a mio avviso, è possibile intravedere le stesse dinamiche che si danno nel rapporto tra un uomo ed un suo amico. Il credente produce alcune credenze su Dio: Egli è buono, saggio, fedele, etc. Tali credenze possono provenire da due modalità distinte di conoscenza: la conoscenza diretta e la conoscenza indiretta. La conoscenza diretta di Dio da parte del credente avviene in molteplici modi: attraverso le Scritture, ad esempio, giacché il credente ritiene che le Scritture siano la Parola di Dio rivolta ad ogni uomo; attraverso alcuni fatti (i miracoli, le opere della Provvidenza, i sacramenti, etc., nonché l’opera della grazia divina, che converte il cuore dell’uomo); attraverso il ragionamento (l’uomo può scoprire alcuni attributi della divinità ragionando, ad esempio, sulla nozione di un Essere sommo, o di un Essere perfettissimo, o di una Causa prima, così come può inferire alcune caratteristiche di Dio a partire dalle Scritture). Tutte queste modalità di conoscenza diretta presuppongono, evidentemente, che Dio voglia rivelarsi e si riveli effettivamente agli uomini (e, in particolare, al credente). Tutto ciò che Dio opera nella propria rivelazione, così, può essere conosciuto direttamente e può diventare oggetto di credenza.

La conoscenza indiretta di Dio, invece, avviene attraverso altri uomini: i testimoni. Le testimonianze su fatti riguardanti Dio, in tal caso, sono date da altri uomini e non sono conoscibili direttamente dal credente: si tratta delle testimonianze su miracoli, conversioni, oppure delle testimonianze storiche su Dio e su Gesù Cristo, fornite nelle Scritture o in altre fonti.13 È decisivo, in questo senso, che il testimone sappia ciò che dice e che non voglia ingannare il credente: la religione cristiana, che si fonda sulla Rivelazione di Dio nella storia per opera di Suo Figlio Gesù Cristo, non può fare a meno di questo metodo di conoscenza indiretta, allorché consideri la storicità dei fatti del Nuovo Testamento. In altri termini: se Gesù non è mai esistito, se Gesù non ha dato mai, nella storia, prove adeguate per essere riconosciuto come Figlio di Dio, la fede cristiana è vana. La linea dei testimoni che procede dal tempo di Gesù Cristo e che giunge sino ai nostri giorni è conservata nella tradizione della Chiesa, che assolve, tra l’altro, alla funzione di garante di questa continuità storica.

La fiducia nei testimoni potrà essere accresciuta o diminuita da molteplici considerazioni. Si potrà vedere, ad esempio, se i testimoni abbiano ricevuto vantaggi nel raccontare una menzogna: la loro onestà potrebbe essere messa in dubbio, qualora si accerti che essi abbiano raccontato qualcosa al fine di ottenere guadagni di qualsiasi genere. Oppure si potranno studiare alcuni reperti e si potrà comparare lo studio dei reperti con lo studio delle testimonianze scritte. O si potrà valutare la congruenza delle testimonianze provenienti da molteplici tipi di testimoni, differenti secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche o politiche. Si potranno prediligere le testimonianze più prossime agli eventi. Il metodo (a) ed il metodo (b) esposti nel §2, insomma, declinati opportunamente secondo le esigenze della conoscenza storica, potranno essere validamente applicati.

Il credente, però, ha fiducia in Dio anche perché ritiene che tale rapporto di fiducia possa aiutarlo e sostenerlo nel conseguire il compimento della propria esistenza. Quanto più si riconoscerà in Dio un fattore decisivo per la propria vita, tanto più si percepirà l’esigenza di fidarsi o meno di Lui. Una fede «viva», in tal senso, è una fede che riconosce che la fiducia nei confronti di Dio è un fattore imprescindibile della propria vita. Una fede «spenta», al contrario, sembra trattare Dio quasi come un personaggio del passato (sicché diviene impossibile fidarsi realmente di lui, così come è impossibile fidarsi, ora, di Napoleone) o come un lontano pen friend. Anche in questo caso, può essere utile rivolgersi all’esperienza dei testimoni: essi, infatti, non narrano soltanto un evento del passato ma, se Dio è presente qui ed ora, comunicano anche e soprattutto gli effetti di un rapporto vivo. L’attrattiva esercitata dalla vita dei testimoni è un invito, per il credente, a consolidare la propria fiducia verso Dio. E anche questo, tra gli altri, è un ruolo (certamente non secondario!) della Chiesa.

Il credente, infine, è libero di fidarsi o meno di Dio, anche qualora vi siano ottime ragioni in senso contrario rispetto alla sua scelta. Si tratta, in ogni caso, di un atto di libertà, che non è determinato completamente né dalla serie delle motivazioni, né dalle particolari volizioni del soggetto. La libertà del credente emerge sopra tutte le condizioni di vita e sopra tutte le argomentazioni, per abbracciare o meno Dio.

Si può avanzare, ad ogni modo, un’obiezione generale al mio discorso sulla fede religiosa intesa come fiducia. Questa obiezione può sorgere a partire dal seguente interrogativo: il credente può «fidarsi» di Dio così come si fida di un amico «in carne ed ossa», esistente nella dimensione spazio-temporale? Sembra, insomma, che l’effettiva presenza (nello spazio e nel tempo) da parte dell’amico sia una condizione imprescindibile per potersi fidare di lui. Ma le cose stanno proprio così? Mi pare, piuttosto, che non già la mera presenza nello spazio e nel tempo, ma la capacità di entrare in rapporto con il soggetto chiamato a fidarsi sia una condizione essenziale per poter stabilire un rapporto di fiducia. Questo rapporto tra Dio e il credente può escludere la presenza di Dio nello spazio e nel tempo del credente, ma non toglie la possibilità, da parte di Dio, di incidere sulla vita del credente. Nella prospettiva della fede religiosa qui analizzata, Dio, pur non essendo presente nello spazio e nel tempo (cioè pur non essendo un ente spazio-temporale), può incidere allora sulla vita del credente, che si dà nello spazio e nel tempo. Mi pare che sia possibile intendere in queste maniera alcune espressioni come: Dio entra nella storia (personale e collettiva), pur non essendo della storia, cioè pur non riducendosi la Sua esistenza ad esistenza storica.

Per sintetizzare: coloro che rifiutano questa descrizione della fede religiosa potrebbero obiettare che non possiamo fidarci di Dio, dal momento che è possibile fidarsi solo di enti spazio-temporali. A sua volta, questa affermazione può essere intesa in senso debole o in senso forte: in senso debole, essa equivale a dire che le condizioni per stabilire un rapporto di fiducia pertengono propriamente soltanto agli enti spazio-temporali (razionali, aggiungo, in base a quanto sostenuto nel §1); in senso forte, essa consiste nel dire che gli unici enti esistenti sono gli enti spazio-temporali e che, pertanto, è possibile fidarsi solo di enti spazio-temporali (razionali). Per quanto riguarda la versione debole dell’affermazione, non mi pare che vi sia alcunché, nella descrizione da me compiuta dei rapporti di fiducia, che rientri necessariamente all’interno di condizioni spazio-temporali: posto che Dio sia un ente razionale, io posso produrre credenze su Dio, posso volere un rapporto di fiducia con Dio e posso essere libero di accettare o meno tale rapporto. E se colui che obietta assume una posizione «agnostica», sostenendo che non possiamo sapere se Dio sia un ente razionale, dal momento che Dio non si rapporta a noi in modo empirico, il credente può sempre rispondere che, dal suo punto di vista, vi è almeno una modalità di rapportarsi direttamente a Dio e almeno una modalità per la quale Dio si rapporta direttamente a lui: sul primo versante, possiamo citare la preghiera, il culto; sul secondo versante, l’opera della grazia, la risposta alle preghiere, i miracoli, etc. Ripeto che non è mia intenzione argomentare filosoficamente in favore della validità di tali modalità di rapporto, poiché il mio unico scopo, in questa sede, è comprendere la dinamica della fede religiosa alla luce della nozione di fiducia. La versione forte dell’obiezione, invece, spinge ad accettare preliminarmente un’ontologia per la quale esistono e possono esistere soltanto enti spazio-temporali. Ancora una volta, la validità di tale ontologia deve essere testata ad altri livelli e il credente può certamente rifiutarla, senza ledere in alcun modo le dinamiche della sua fede religiosa.

Una delle possibili conseguenze della mia giustificazione della tesi (1) risiede nella distinzione tra due significati della parola «fede». Prendiamo la seguente proposizione: «io ho fede in Dio» (D). Questa proposizione può essere intesa in due modi diversi: «io credo nell’esistenza di Dio» (D1) o in qualche altra cosa relativa a Dio (che Egli sia buono, etc.); «io mi fido di Dio» (D2). La proposizione D1 rientra nel campo delle credenze e, al pari delle altre credenze, può essere giustificata in molteplici modi e in relazione al significato attribuito alla parola «Dio»: il deista, ad esempio, che crede nell’esistenza di un Dio che ordina razionalmente l’universo, potrà produrre alcune prove a sostegno della propria credenza; il cristiano, che potrà pure accettare alcune prove del deista, dovrà in ogni caso giustificare la propria credenza nell’esistenza di Gesù Cristo e nella Sua natura umano-divina. Ad ogni modo, la credenza espressa in D1 è, appunto, solo e soltanto una credenza. L’esperienza del credente, tuttavia, cioè l’esperienza di colui che ha una fede religiosa, è qualcosa di diverso dall’esperienza di colui che ritiene soltanto che la proposizione «Dio esiste» sia vera. Il credente, cioè, intrattiene un rapporto di fiducia con Dio e solo a partire da questo rapporto possono essere intesi alcuni gesti tipicamente religiosi come la preghiera, la lode, il culto, etc. Viceversa, colui che crede esclusivamente nella verità di D1 non è tenuto, in base a questo, a rendere culto a Dio o a pregarLo. Certamente il credente dovrà credere anche nell’esistenza di Dio (poiché sarebbe folle fidarsi di qualcuno che non esiste), ma la credenza nell’esistenza di Dio non esaurisce il fenomeno della fede religiosa, né riesce a coglierne la specificità. Per questo motivo, la proposizione D2 mi pare ben più adatta della proposizione D1 ad esprimere l’esperienza della fede religiosa.

La fede in Dio, così, non è soltanto il riconoscimento della verità di alcune credenze su Dio, ma è ciò che scaturisce all’interno di un rapporto personale con Dio e ciò che sostiene, almeno dal punto del credente, l’esistenza di tale rapporto.

5. Fidarsi per conoscere (parte seconda)

Le tesi enunciate all’inizio di questo saggio sono state difese e giustificate in maniera sufficientemente ampia. Può essere utile, a questo punto, tracciare un bilancio complessivo delle mie argomentazioni: si può credere alla verità o alla falsità di qualsiasi proposizione, purché tale proposizione sia effettivamente dotata di un valore di verità ben definito (3); l’instaurazione e la giustificazione di un rapporto di fiducia implica in maniera ineludibile precise operazioni conoscitive e non è mai un atto «cieco» (2); la fede religiosa è una forma particolare di rapporto di fiducia tra l’uomo e Dio e può essere intesa a partire da una descrizione della dinamica dei rapporti di fiducia (1).

Nel §3, inoltre, ho spiegato come sia possibile (e altresì necessario) introdurre il fattore «fiducia» all’interno del contesto di giustificazione di alcuni tipi di credenze. In questo ultimo paragrafo mi propongo di mostrare come vi siano altri tipi di credenze, per le quali la fiducia non svolge alcun ruolo nel contesto della giustificazione (sia pure in linea teorica), ma può svolgere un ruolo centrale nel contesto della scoperta. Queste credenze pertengono, in generale, all’ambito delle scienze dimostrative e a quello delle scienze sperimentali.

Per questo motivo, mi sembra opportuno distinguere le nostre credenze in due classi: tutte le credenze nel cui contesto di giustificazione deve rientrare almeno un’occorrenza del fattore «fiducia» (a) e tutte le credenze nel cui processo di scoperta deve rientrare almeno un’occorrenza del fattore «fiducia» (b).

Analizzerò ora brevemente le credenze della classe (b). In linea teorica, tali credenze possono essere giustificate senza l’intervento del fattore «fiducia»: un esperimento può essere ripetuto dal singolo soggetto conoscente ottenendo risultati pressoché eguali (nelle medesime condizioni) a quelli ottenuti da altri soggetti conoscenti, così come un teorema di geometria può essere dimostrato dal soggetto conoscente senza che quest’ultimo debba fidarsi di altri soggetti conoscenti che abbiano effettuato la medesima dimostrazione. In entrambi i casi, insomma, la credenza può essere giustificata adeguatamente con procedimenti di conoscenza diretta. Nel contesto della scoperta di tali credenze, però, la fiducia gioca ancora un ruolo decisivo. Lo scienziato, ad esempio, allorché si accinge ad ampliare una teoria o a modificarla in via sperimentale, deve fidarsi di altri colleghi di altre parti del mondo che hanno condotto esperimenti significativi in proposito e accettare i risultati di questi esperimenti, così come deve fidarsi degli scienziati del passato e credere nella validità del loro lavoro. Allo stesso modo, lo studioso dovrà fidarsi dei suoi insegnanti o degli autori del suo manuale di testo, allorché costoro gli diranno che un preciso teorema di geometria o una precisa legge della fisica sono già stati dimostrati validamente. Il «dovere» espresso in queste situazioni non è certamente un dovere fondato logicamente nella natura delle scienze dimostrative o in quella delle scienze sperimentali: si può ipotizzare un soggetto conoscente che procede da sé alla dimostrazione e alla sperimentazione di tutti i teoremi e di tutte le leggi possibili senza fidarsi di altri soggetti conoscenti, ma questo soggetto conoscente non esiste e non può esistere. Esso non esiste perché, nei fatti, ciascuno procede alla scoperta personale di nuove conoscenze solo e soltanto fidandosi di alcune persone: di coloro che gli insegnano le conoscenze utili a scoprire direttamente nuove conoscenze o di coloro che gli trasmettono direttamente nuove conoscenze. La dimostrazione di un teorema geometrico è un esempio del primo caso (poiché gli insegnanti — o gli autori dei manuali — trasmettono le informazioni preliminari e le regole per dimostrare il nuovo teorema), mentre la lettura delle informazioni sperimentali contenute in un articolo scientifico è un esempio del secondo caso. Il soggetto conoscente «solipsista» non può esistere perché nessuno può riuscire a scoprire, da sé, tutte le conoscenze che sono parte integrante del patrimonio scientifico dell’umanità.

Il procedimento del soggetto conoscente «solipsista», poi, è eminentemente anti-economico e conservatore: esso non dà profitto alcuno sul piano della conoscenza, poiché tale soggetto, non fidandosi dei suoi colleghi né di coloro che lo hanno preceduto, deve procedere da solo ad acquisire le conoscenze di cui la comunità scientifica e l’umanità in generale già dispongono, senza avere il tempo di acquisire nuove conoscenze; è un procedimento conservatore perché, se il soggetto conoscente «solipsista» non fornisce nuove conoscenze alla comunità scientifica o all’umanità in generale, egli non contribuisce affatto al progresso delle conoscenze ma, al contrario, si limita ad appurare la verità di alcune delle conoscenze già possedute, giacché non ha il tempo né la possibilità di fare altro.

La fiducia, ancora una volta, si dimostra parte integrante del modo in cui gli uomini conoscono e vivono. Sarebbe difficile immaginare un mondo totalmente privo di fiducia, poiché la fiducia è il segno del legame che ci vincola agli altri uomini, che ci fa nascere da loro e che ci fa crescere con e grazie a loro. Se il termine non rimandasse immediatamente ad altri ambiti di indagine diversi dagli ambiti di questo saggio, potrei allora persino dire che la fiducia è il segno di un destino comune.


  1. Non voglio assegnare a questo preteso «main stream filosofico moderno» alcun valore teoretico positivo derivante unicamente dalla sua collocazione storica o dalla sua diffusa accettazione. Se con l’espressione «main stream filosofico moderno», ad esempio, intendiamo l’insieme delle dottrine connotate dal primato fondativo della questione del soggetto, è certamente innegabile che in epoca moderna il tema della soggettività sia stato trattato in maniera ben più diffusa e dettagliata che in epoca premoderna. Resta da capire, tuttavia, (1) cosa sia esattamente la soggettività dei moderni; (2) perché essa sia la soggettività autentica, in opposizione alle trattazioni premoderne della stessa. Se anche si fosse data una risposta esauriente alle questioni (1) e (2), individuando un insieme di autori moderni che abbiano trattato la soggettività in maniera autentica, bisognerebbe comprendere (3) perché non tutti i filosofi vissuti in epoca moderna non abbiano condiviso i fondamenti dottrinali di tali filosofi. Per rispondere alla (3), si può affermare che tali filosofi o (3a) non sono stati veri filosofi, o (3b) non sono stati filosofi in linea con il panorama dottrinale del loro tempo. Accettare la tesi (3a) significa esporsi al pericolo di circoscrivere a priori ed in modo arbitrario l’ambito della riflessione filosofica, mentre il filosofo, almeno a mio avviso, se è veramente interessato a ricercare la verità, dovrebbe vagliare ogni argomentazione che si presenti al suo pensiero, senza escludere preliminarmente alcunché sulla scorta di rigide divisioni disciplinari. Se si è interessati alla verità di un oggetto, non si cercherà di trattenerlo entro un ambito predefinito o di escluderlo dal proprio spazio di pensiero, così come (mi si conceda il paragone), se si è davvero innamorati di una donna o di un uomo, non si baderà al fatto che ella (o egli) sia o non sia un nostro vicino di casa. Per quanto riguarda la tesi (3b), essa o è un truismo, o nasconde un giudizio di verità sulle dottrine filosofiche fondato sulla loro collocazione storica. In questa sede, non posso confutare quest’ultimo punto in maniera sufficientemente ampia. Mi limito a sottolineare che ogni visione storicista della verità filosofica ha il difetto di dover far torto alla reale storia della filosofia (o, semplicemente, all’insieme di tesi filosofiche proposte nel corso dei secoli), per definire una storia della filosofia ideale in cui, sulla scorta di un criterio metastorico, si intraveda ciò che è attuale e ciò che non è attuale in ogni periodo storico. Mi chiedo, inoltre, a mo’ di provocazione: perché un filosofo, se ritiene in modo giustificato che la tesi a sia più valida della tesi b, e riesce ad argomentare le proprie convinzioni, dovrebbe interessarsi primariamente al fatto che la tesi a sia sostenuta, ad esempio, da un oscuro e dimenticato filosofo del ’600 e che la tesi b sia condivisa, poniamo, da Hegel o da qualche illustre filosofo del proprio tempo? Con l’espressione «main stream filosofico moderno», dunque, intendo un insieme di dottrine ritenute largamente diffuse in epoca moderna, pur non prendendo posizione né sulla loro effettiva diffusione maggioritaria né sul loro valore di verità. ↩︎

  2. Cfr., in particolare, Agostino d’Ippona, La vera religione, Utilità del credere, La fede e il simbolo, La fede nelle cose che non si vedono, a cura di A. Pieretti, Città Nuova, Roma, 1995 ↩︎

  3. Cfr. J. H. Newman, An essay in aid of a grammar of assent, 1870, trad. it. Grammatica dell’assenso, in J. H. Newman, Scritti filosofici, a cura di M. Marchetto, Bompiani, Milano, 2005 ↩︎

  4. Desidero ringraziare anche tutti coloro che hanno partecipato al Caffè filosofico organizzato a Perugia il 24 novembre 2010 dalla Società Filosofica Italiana (sezione di Perugia), che hanno stimolato con le loro domande e le loro obiezioni l’approfondimento di questa tematica ed il perfezionamento di alcune delle tesi proposte. ↩︎

  5. In altri termini: anche se il nostro cane Fido ed il nostro amico Pietro potranno non abbandonarci nel momento del bisogno, essi giungeranno allo stesso risultato in maniere differenti (con processi cognitivi e con reazioni diverse) e dimostreranno in maniera differente la propria fedeltà. ↩︎

  6. L’uso linguistico sembra negare questa tesi, giacché è possibile dire, ad esempio, che «io credo in Dio» o che «io credo nella giustizia». Queste proposizioni, tuttavia, mi paiono incomplete, dal momento che «io credo in Dio» sembra essere l’abbreviazione di altre proposizioni che possono essere desunte dal contesto («io credo che Dio esista», ad esempio, o «io credo che Dio sia buono»), così come «io credo nella giustizia» sembra spesso abbreviare la proposizione: «io credo che la giustizia debba essere un valore da me perseguibile». Allo stesso modo, la proposizione «io credo in Giovanni» può essere l’abbreviazione delle proposizioni: «io credo che Giovanni non mi tradirà», «io credo che Giovanni sia un buon amico», etc. ↩︎

  7. È interessante il fatto che, nel nostro uso linguistico, non si parli mai di «fiducia» al plurale (mentre si può parlare al plurale di «credenze») e che, in generale, ci si riferisca quasi sempre a «rapporti di fiducia». ↩︎

  8. Non ho ancora definito, in effetti, i vari campi in cui si producono credenze su alcuni oggetti e in cui è necessario procedere per conoscenza indiretta. ↩︎

  9. Ometto la premessa: «secondo i postulati della geometria euclidea», giacché un triangolo è, per definizione, una figura dotata di tre angoli e qualsiasi figura somigliante al triangolo, benché priva di tale caratteristica, non sarebbe un triangolo, ma un’altra figura. ↩︎

  10. Con l’espressione «probabilità soggettiva» intendo il grado di certezza soggettiva della verità di una proposizione, fondato sulla verità delle conoscenze di cui dispone il soggetto conoscente. Viceversa, la «probabilità oggettiva» è inversamente proporzionale alla sussistenza di n controesempi alla verità di una proposizione: la proposizione «tutti i cigni sono bianchi», così, può essere dotata di una scarsa probabilità soggettiva (giacché il soggetto conoscente può aver osservato uno scarso numero di cigni), ma può essere parimenti dotata di un’assoluta probabilità oggettiva e, pertanto, di una somma certezza oggettiva, se non esistono affatto cigni non-bianchi nel mondo (se il n effettivo di controesempi è pari a 0). La proposizione «tutti i cigni sono bianchi», certamente, deve essere determinata spazio-temporalmente e solo in questo senso è dotata di una probabilità oggettiva. Tale proposizione può essere vera oggi (e dotata di assoluta probabilità oggettiva), ma può essere stata falsa tre secoli fa, ammesso che tre secoli fa vi fossero cigni non-bianchi. La verità della stessa proposizione, comunque, può esser dotata di assoluta probabilità oggettiva anche qualora ci si riferisca a tutti i cigni di ogni tempo e di ogni spazio, poiché può essere vero che non sono esistiti, né esistono, né potranno mai esistere cigni non-bianchi. ↩︎

  11. Anche l’ambito delle credenze prodotte dalla comunicazione mediatica rientra in questo discorso: per definizione, infatti, la comunicazione mediatica avviene sempre tramite un medium, nel senso specificato nel testo. Una credenza fornita dai media, dunque, può essere anche ottenuta direttamente dal soggetto conoscente. In TV possono dire, ad esempio, che c’è stato uno tsunami nel sud-est asiatico e il soggetto conoscente può aver assistito direttamente agli eventi. Nondimeno, quando il soggetto conoscente ha assistito direttamente agli eventi, non si tratta più del contesto di una comunicazione mediatica, ma del contesto di una conoscenza diretta. Per questo motivo, l’ambito della conoscenza mediatica contiene nel contesto della propria giustificazione elementi di conoscenza indiretta, ma le credenze fornite dai media possono essere scoperte e giustificate anche direttamente, purché ciò avvenga senza la partecipazione dei media↩︎

  12. Dio, certamente, può esser considerato anche come Padre, Giudice, etc., ma queste attribuzioni non impediscono al credente di qualificare Dio anche come amico. Al contrario, almeno secondo la tradizione di fede che analizzerò (quella cristiano-cattolica), Dio è Padre e amico, Giudice e amico. In tutti i casi (anche nel caso del Padre o del Giudice), il credente deve potersi fidare o meno di Dio. Se ho scelto il rapporto di amicizia come caso esemplare per l’analisi della fede religiosa, dunque, è solo perché questo rapporto mostra in modo più nitido, a mio avviso, le complesse dinamiche della fiducia e il ruolo decisivo giocato dai suoi tre fattori: conoscenza, volontà, libertà. ↩︎

  13. Si pone, tuttavia, a questo punto, un ulteriore interrogativo: le Scritture sono testimonianze dirette di Dio (provenienti direttamente da Dio) o testimonianze indirette su Dio (provenienti da altri uomini)? Non ho gli strumenti per chiarire questo problema. Mi pare, tuttavia, che le Scritture possano essere studiate validamente in entrambi i modi: come fonti storiche, esse riferiscono fatti riguardanti Dio (in modo particolare, nella persona di Gesù Cristo); dal punto di vista esegetico, invece, esse trasmettono messaggi di Dio agli uomini, che gli uomini devono opportunamente interpretare. Prendiamo un passo biblico: «“Io sono l’alfa e l’omega”, dice il Signore Dio, “colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente” (Ap 1,8). Dal punto di vista esegetico, la situazione è ben chiara: Dio comunica a Giovanni (e a tutti gli uomini) che Egli è l’alfa e l’omega, colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente. Dio, cioè, parla attraverso Giovanni a tutti gli uomini. È Dio stesso a parlare. Dal punto di vista storico, tuttavia, si può indagare (almeno in linea teorica) se Giovanni, in quanto testimone, sia passibile di fiducia e se egli abbia ricevuto effettivamente questa rivelazione. Il metodo storico, cioè, procede ad attribuire un valore di verità al seguente enunciato: «Dio ha detto a Giovanni che Egli è l’alfa e l’omega, colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente». Trattandosi di un fatto del passato, il metodo storico avrebbe il diritto di occuparsene, ferma restando l’effettiva difficoltà di corroborare la verità o la falsità di una simile affermazione. ↩︎