Per un nuovo paradigma etico. Vegetarismo e diritto animale: sull’attualità della riflessione etico-filosofica di Porfirio

1. Premessa

Con il suo De abstinentia (ab esu) animalium, ossia Sull’astinenza dal cibarsi di animali, Porfirio (III secolo d.C.) ci ha consegnato, oltre a un fondamentale documento storico-culturale per comprendere il significato e la valenza attribuita al vegetarianismo nella tradizione greca antica e tardo-antica,1 la testimonianza di una concezione filosofica che, se ben analizzata, in un’ottica transculturale, si rivela capace di superare, o almeno rinnovare, il dibattito etico contemporaneo riguardante l’argomento piuttosto controverso dei così detti «casi marginali», di cui possiamo trovare degli antecedenti in nuce proprio in quest’opera di Porfirio.2 A partire dalla pars destruens del I libro del De abstinentia, l’autore antico chiarisce che gli Stoici, gli Epicurei e i Peripatetici, a seconda dell’esigenza di rendere o meno partecipi gli animali del «diritto», sceglievano dei criteri secondo i quali, a loro parere, sarebbe stato possibile tracciare le «linee di confine della comunità morale»: ovvero individuavano, in base al soddisfacimento di alcuni requisiti, chi ne faceva parte o meno (Porph., Abst. I, 4, 1-2)3. Nell’ambito del dibattito morale dei giorni nostri, nello specifico quello sulla liceità della sperimentazione animale, quello dei «casi marginali» è un argomento limite addotto da P. Singer che nella sua formulazione assume per dato l’ininfluenza della proprietà relazionale – ovvero il principio dell’appartenenza a un determinato gruppo o a una determinata specie, già teorizzato dagli stoici – nel determinare a quali specie biologiche si debba estendere il diritto. L’argomento di Singer trova nella categoria degli «umani marginali», a cui appartengono gli esseri umani che non riescono a esprimere certe proprietà intrinseche funzionali al pari di individui adulti normali, interessanti analogie con l’animale. Galletti parafrasa così l’ormai noto argomento di Singer: «due individui che possiedono proprietà intrinseche uguali o sufficientemente simili da poter essere comparate, anche se differiscono per proprietà relazionali […], hanno diritto a un’eguale considerazione degli interessi e, prima facie, a un eguale trattamento. Perciò se è lecito sottoporre a un determinato trattamento un animale ma non un essere umano, perché il secondo ma non il primo possiede una determinata proprietà intrinseca, come la razionalità o l’autocoscienza, dobbiamo concedere che in base a questa ragione è (prima facie) moralmente lecito riservare quel trattamento anche a tutti gli esseri umani che non possiedono quella specifica proprietà»4. Di contro, si potrebbe invece osservare come Anderson rivendichi la validità dell’ipotesi stoica, spiegando che le rivendicazioni animaliste del più noto Singer, supportate dalla sua teoria, che egli stesso definisce fortemente utilitaristica, come quella dei casi marginali, perdono ogni efficacia non appena si riconosca che il valore morale non si basa sul solo possesso di sole proprietà intrinseche, ma in base al fatto che gli individui si trovano al centro di relazioni (l’appartenenza a un determinato gruppo o a una determinata specie), che sono più importanti delle stesse condizioni intrinseche quando pensate all’interno di uno spazio sociale. Questo può essere chiamato «argomento della comunità morale»5. Anche ai tempi di Porfirio, molti pensatori appartenenti a differenti correnti filosofiche appaiono fondare la propria prospettiva anti-animalista sul criterio dell’appartenenza ad una data comunità, spesso con l’obiettivo di controbattere alle tesi di chi sostiene la valenza etica del vegetarismo o di pratiche sociali che assicurino il rispetto dell’animale non-umano. Attraverso il presente articolo si vuole mettere in luce la validità teoretica della peculiare posizione filosofica elaborata da Porfirio, evidenziando, in tal modo, come la sua riflessione rappresenti tutt’oggi una forte critica all’argomento della comunità morale.

2. Le ragioni e l’urgenza della ricerca

Sulla base dell’argomento della comunità morale, che si basa su quello dell’appartenenza di specie, nel dibattito etico contemporaneo ha assunto notevole rilevanza l’adesione ad un sistema di valori in base al quale gli esseri umani sono considerati possedere uno status assolutamente superiore rispetto a quello degli animali. La dignità degli animali è formulata all’interno di una prospettiva concettuale in cui gli interessi umani hanno la precedenza: la considerazione secondo cui un animale ha diritto al riconoscimento della sua propria dignità come essere vivente, che Anderson chiama «l’interesse di un animale alla sua dignità», ha senso solo in riferimento e in relazione agli esseri umani.6 A causa di questa «parzialità di specie» si nega – direbbe Williams – la possibilità di assumere un punto di vista morale.7 «Tutte le volte che giudichiamo un dilemma morale lo facciamo a partire dalla prospettiva umana e questa collocazione prospettica pregiudica la possibilità di guadagnare una perfetta prospettiva imparziale, lo «sguardo da nessun luogo» che caratterizzerebbe l’etica»8. Di fronte a una discriminazione, come quella di razza, nota Galletti: «l’appello finale è sempre alla condivisione delle stesse capacità, in quanto apparteniamo alla stessa comunità umana»; egli inoltre chiarisce che per contrastare il razzismo si fa ricorso a un’idea condivisa di comunità umana, ma ciò non può avvenire con lo specismo: perciò ogni analogia tra razzismo e specismo è da ritenersi argomentativamente e filosoficamente fallace. Ancora Galletti osserva: in un contesto come quello dei casi marginali di Singer, «la nostra preferenza verso l’essere umano è motivato dalla comunità umana» e «la prospettiva umana fornisce anche ragioni per difendere l’interesse umano promosso dalla sperimentazione» animale. «Che salute e vita degli esseri umani ci stiano più a cuore della sofferenza e della vita degli animali è richiesto dalla stessa struttura grazie a cui si forma la pratica della moralità, una struttura delimitata dalla prospettiva umana»9. A tal proposito, è interessante notare che il concetto richiamato da Galletti ha già avuto un preludio nell’elaborazione del concetto di οκεωσις da parte degli stoici. Il medesimo concetto, nel De abstinentia di Porfirio, è assimilato al principio dell’appartenenza di specie che si rivela fondativo del diritto e dell’interesse dell’uomo a servirsi dei non-umani.10 Porfirio ha, in tale sede, negato valenza morale al principio dell’οκεωσις e ha corretto le particolari prospettive filosofiche alla base dell’etica stoica, epicurea e peripatetica, riconducendole a quella che egli ha riconosciuto come la loro origine filosofica comune. Vagliando le condotte di vita dei fondatori e di alcuni importanti esponenti di tali tradizioni di pensiero, Porfirio ha il merito di aver preso in esame l’esistenza di un filone del vegetarianismo denominato «individuale», che caratterizza, a suo giudizio, i fondatori delle seguenti scuole: l’Accademia (Platone), la Stoà (Zenone) e il Giardino (Epicuro). A questi si aggiunge, nel caso dei Peripatetici, il diretto successore di Aristotele, ossia Teofrasto (Ereso 370 ca. - Atene 286 a. C). Così, anche in base al principio dell’autorità, a parere di Porfirio, si dimostrerebbe che, per antica tradizione platonico-pitagorica, il distacco dalla materia, dal sensibile e dalla molteplicità, è necessario per la contemplazione dell’immateriale e del trascendente. Tale esercizio del distacco dalla molteplicità, propriamente catartico, risulta imprescindibile per la pratica della filosofica e al contempo viene a identificarsi con la filosofia stessa. Proprio per i citati motivi, Porfirio reputa che i suoi oppositori filosofici siano caduti nell’incoerenza di essere entrati a far parte di scuole filosofiche che in qualche modo hanno tradito, con la loro origine, anche l’essenza stessa della filosofia. Ed è questa una delle ragioni principali per cui Porfirio apre la sua opera, il Primo Libro, con il fine esplicito di persuadere i membri di quelle scuole che, seppure si oppongano alle sue teorie, sono già a conoscenza della tradizionale importanza della frugalità per fare filosofia, ma comunque insistono sulla rivendicazione di una superiorità assiologica dell’uomo sull’animale non-umano.11 Il De abstinentia si configura così come l’unico testo dell’antichità capace di offrirci la possibilità di una ricostruzione «storico-filosofica» di tali concezioni: sulla sua scorta esse possono essere ricondotte a due grandi filoni, rintracciabili anche nel dibattito etico contemporaneo. Abbiamo due «opzioni», che fungono da linee guida qualora si affronti la tematica del «diritto degli animali»: la prima si basa su quell’indirizzo speculativo che mantiene salvo sullo sfondo la comunità morale, identificandola con quella umana (la parzialità di specie di Williams), la seconda è costituita dal tentativo promosso da studiosi come Singer e Dombrowski, (l’argomento dei casi marginali)12, che consiste nel superare la prospettiva umana per ottenere quello «sguardo da nessun luogo» a cui l’etica tende per sua conformazione disciplinare, ma che, come afferma Williams, essa pare non aver mai raggiunto. I sostenitori della prima opzione, pur ammettendo che la prospettiva umana costituisca lo sfondo della comunità morale, affermano che essa è sempre modificabile: «La priorità data all’uomo sull’animale è solo presuntiva» – sostiene Galletti – «la prospettiva umana è condizione necessaria, ma ancora non sufficiente nella determinazione del peso morale degli interessi della nostra specie»13. E benché studiosi come Anderson attacchino e indeboliscano l’argomento dei casi marginali, Galletti non esclude che possano avere un certo valore nel mostrare, euristicamente, quali siano le vulnerabilità a cui tutti, umani e animali, risultano esposti.14

3. Risultati

Dati tali premesse, analizzare l’opera di Porfirio vorrebbe significare far dialogare la filosofia e l’ontologia platoniche, presupposte in essa, con la bioetica moderna: solo entro tale prospettiva assurge come dato il prendere in esame la fattibilità di una «correzione» della prospettiva umana della quale parla Galletti.15 Più in generale, ciò significa proporre un confronto fra il pensiero greco tardo-antico e il moderno dibattito «animalista». Porfirio definisce le argomentazioni dei suoi oppositori «sofismi»16, che trovano una qualche forma di fondamento concettuale sulla base di una sorta di «utilitarismo» (Abst. I, 4 – 6,3.)17. Secondo la logica del filosofico tardo-antico, sembra essere quello stesso sistema di valori secondo cui gli esseri umani sono considerati possedere uno status superiore rispetto a quello degli animali, ad avere connotati marcatamente utilitaristici. Sicché, nel caso in cui, allora come oggi, all’animale di una qualsiasi specie venga riconosciuto il diritto alla sua propria dignità come essere vivente, ciò lo si deve solo al fatto che la sua sopravvivenza comporta un utile per l’uomo.18 Finanché il rispetto per la natura, la presa di coscienza ambientale, presuppongono un tale assunto prettamente utilitaristico. Williams osserva che è l’uomo ad affrancare l’animale, è l’uomo a seguire «norme» ed è quindi l’uomo ad avere connotazione morale, mostrandosi come autocoscienza, soggetto osservatore: l’unico, con facoltà e abilità esclusive, a determinare, in base alla propria riflessione razionale unitamente alla propria prassi, se stesso e l’ambiente circostante.19 Ma per Porfirio il tema dell’utilità non è in grado di fondare un ragionamento etico, perché il principio dell’utilità non comporta la distinzione fra giusto e ingiusto, che sono i termini propri e soli del pensiero morale, ma soltanto fra «utile» e «dannoso» a cui anche gli animali pervengono. Per Porfirio, anche nel caso si determinasse che gli animali siano dotati di «ragione», ciò non comporterebbe automaticamente che essi possano, una volta che la ragione gli fosse riconosciuta, partecipare della legge ed ottenere una forma di tutela. Questo perché non è il possesso della «razionalità dell’utile» a garantire il diritto degli animali ad essere considerati «pazienti di diritto», ma è a chi possiede la «razionalità del giusto», fondante dell’etica, che spetta la «costruzione» di norme tali che collochino la «realtà» in un orizzonte anche «morale». All’interno delle premesse finora poste, l’argomentazione porfiriana non può risultare sufficiente alla fondazione di un’etica «alternativa», anche in considerazione del fatto che l’argomento sviluppato da Williams invita a condurre all’ambito della moralità solo chi è accumunato dall’umanità: attribuire la razionalità agli animali non modifica la natura di quest’ambito. Si potrebbe osservare che un motivo «oggettivo» come quello della razionalità degli animali è affrontabile solo dopo che siano state illustrate le ragioni della nostra «sensibilità» morale.20

Porfirio, rispondendo alle obiezioni dei filosofi appartenenti ad altre correnti di pensiero, in qualche modo fornisce alcune risposte critiche alle posizioni di Anderson e Williams. Porfirio, in effetti, ha trattato innanzitutto il motivo «soggettivo» nel I libro del De abstinentia:21 in base alla sua prospettiva filosofica, l’etica è attuazione dell’indagine speculativa, la quale distingue fra situazioni e azioni che gli uomini devono perseguire o fuggire per il raggiungimento del loro scopo che è, in generale, il bene. Ma se l’appagamento del desiderio è il perseguimento di un bene e se davvero incontriamo una comunità morale là dove si manifesta il principio di utilità all’interno di relazioni a cui i componenti attribuiscono significato, ciò che vale per un villaggio di umani varrà anche per un branco di lupi. La capacità di distinguere tra utile e dannoso, che per gli oppositori filosofici di Porfirio implica «razionalità» e della quale, a loro giudizio, gli animali sarebbero privi, è presente anche negli animali stessi. Ovviamente l’uomo è in grado di sviluppare una riflessione e un ragionamento etici, mentre l’animale no ed altresì è vero che la pratica della moralità rientra nell’orizzonte della prospettiva umana.22 Porfirio insiste: razionalità e irrazionalità non si mescolano.23 Neppure l’utilità della conservazione della specie, che è un istinto, ha nulla a che vedere con la Ragione, che è la ragione della moralità. La «specie» dell’uomo, nell’ottica neoplatonica di Porfirio, non consiste nella sua vita sensibile, ma è determinata essenzialmente dalla relazione tra Uno e Logos: è verso il Principio e il fondamento di tutto il reale che l’uomo deve volgere il proprio sguardo per perseguire l’unità con esso (Abst. I, 57, 1-2)24. L’etica non è ragione al servizio dell’istinto e della «sensibilità», ma è il controllo delle pulsioni da parte della ragione: insomma è, come direbbero i sostenitori della prima opzione, peculiarità umana, dell’intelletto, e perciò ha radice nello stesso «ragionamento» umano. La posizione di Porfirio, d’altronde, mostra diversi punti di contatto anche con le riflessioni etiche degli studiosi della seconda «opzione», ossia di coloro che sostengono l’esigenza di un’etica da «nessun luogo», vale a dire svincolata da ogni forma di pregiudizio: per Porfirio infatti il Logos “non ha luogo” e permea tutta la realtà intelligibile. Benché qui Porfirio sembri assumere la prospettiva assiologica criticata da Williams,25 è opportuno sottolineare come in base alla concezione porfiriana venga in qualche modo superata la tradizionale visione antropocentrica del pensiero greco-occidentale. L’uomo si ricolloca in un più ampio orizzonte di senso morale, pur riaffermando la sua specificità. Sono la sensibilità, l’istinto, ossia ciò che non è puramente razionale, a porre meramente l’«utile» come fine che muove l’azione in senso pratico: alla luce di tale considerazione è possibile comprendere come teorie moderne postulino principi sensibili come concetti orientativi della prassi. Di conseguenza, la maggior parte delle riflessioni etiche, secondo una prospettiva sia platonica sia aristotelica, prenderebbero le mosse da premesse fallaci, mentre la pratica della moralità scaturirebbe dall’esercizio della razionalità e dal Logos: il solo ad orientare la prassi umana e a fondare l’etica.

Per riassumere, la riflessione etica porfiriana consente di riflettere sulla «correzione» di prospettiva, richiamata da Galletti, il cui fine è costituito da un rafforzamento dell’etica della responsabilità.26 Occorre quindi esaminare le implicazioni della peculiare concezione filosofica di Porfirio, in base alla quale l’uomo è ricondotto alla sua natura prettamente teoretica e il suo fine naturale, il suo vero bene, si declina in contrasto con l’utile del corpo. Si possono formulare e ripensare alcuni principi costituitivi dell’attuale dibattito etico alla luce della filosofia di Porfirio, per la quale l’«utile per la ragione» coincide col «giusto orientativo» dell’etica in quanto ne costituisce il fondamento (Abst. I, 48, 1); dal punto di vista «etico», scegliere un «bene» non definisce solo un utile o un dannoso per la nostra incolumità fisica, ma un giusto o un ingiusto, perché il bene non sarà tale se si rivelerà un male per la «ragione» (Abst. I, 44, 3 – 47, 4). Nell’ottica porfiriana fra teoria e prassi non c’è frattura: la dignità dell’animale non esiste in relazione all’interesse umano, ma scaturisce dal possesso da parte dell’uomo di quella razionalità che lo distingue dagli animali e che gli consente di rapportarsi rispetto ad essi in modo tale da non considerarli entità marginali o puramente funzionali al suo proprio interesse e bisogno. Il possesso della razionalità non pretende una superiorità sul non-umano, ma, agli occhi di Porfirio, impone il rispetto verso gli animali, dal momento che è proprio della natura umana il filosofare, l’«elevarsi» al di sopra del piano meramente fenomenico-materiale per giungere alla contemplazione di quella unità di insieme che permea il tutto (Abst. I, 57, 3).


  1. Cfr. M. Abbate, in M. Caputo, Vegetarianismo, frugalità e ascetismo nella filosofia antica. Analisi e commento del I Libro del De abstinentiadi Porfirio, Meligrana Editore, Tropea (VV) 2017, Prefazione p. 8. ↩︎

  2. Vedi D. A. Dombrowski, The Philosophy of Vegetarianism, Amherst 1984, pp. 141-3. ↩︎

  3. «Gli Stoici avvertono che è necessario difendere il «confine» posto al sentimento dell’oikeiosis, dell’appartenenza, come fonte della giustizia» (M. Caputo, Vegetarianismo, op. cit., p. 17); cfr. E. J. Mannucci, La cena di Pitagora. Storia del vegetarianismo dall’antica Grecia a Internet, Carocci Editore, Roma 2008, p. 29. ↩︎

  4. Cfr. M. Galletti, Casi marginali. L’etica e la sperimentazione animale, in G. Erle (a cura di), Alla ricerca di un ethos tra mente e corpo, Cortina editrice, Verona 2016, p. 159. ↩︎

  5. Cfr. E. Anderson, Animal Rights and the Values of Nonhuman Life, in C. R. Sunstein, M. Nussbaum (eds.), Animal Rights. Current Debates and New Directions, Oxford University Press, Oxford 2004, pp. 280-3. ↩︎

  6. Ibidem, p. 283. ↩︎

  7. S. v. B. Williams, Il pregiudizio umano, in La filosofia come disciplina umanistica, Feltrinelli, Milano 2006, p. 174. ↩︎

  8. Cfr. M. Galletti, Casi marginali, op. cit., pp. 166-7. Lo stesso Galletti, commentando la riflessione di stampo «naturalista» di Williams (nel senso che si configura come critica a chi sostiene versioni dell’antropocentrismo sia di stampo «topografico» che «assiologico», cercando talvolta spiegazioni biologiche di alcune norme morali e sociali), scrive: «la differenza tra umani e animali che è possibile individuare si genera solo all’interno di una struttura sentimentale e mentale, attraversata la parzialità, entro cui si articola la nostra esperienza condivisa di azione pratica nel mondo. L’individualismo morale egualitario non riesce a cogliere questo punto» (M. Galletti, Antropo-prospettivismo. Il ruolo del concetto di ‘essere umano’ nella moralità e nelle relazioni con gli altri animali, in B. Accarino (a cura di), Antropocentrismo e post-umano: una gerarchia in bilico, Mimesis, Fano (PU) 2015, p. 79). ↩︎

  9. Cfr. M. Galletti, Casi marginali, op. cit., p. 167. ↩︎

  10. Cfr. Abst. I, 4, 2, 12-14. ↩︎

  11. M. Caputo, Vegetarianismo, op. cit., cap. 2.3; p. 12. ↩︎

  12. Cfr. D. A. Dombrowski, Babies and Beasts: The Argument from Marginal Cases, University of Illinois Press, Champaign 1997, pp. 26-7. O. Horta lo chiama «argomento della sovrapposizione di specie» (O. Horta, The Scope of the Argument from Species Overlap, «Journal of Applied Philosophy», 31 (2014), pp. 147-50). ↩︎

  13. Cfr. M. Galletti, Casi marginali, op. cit., p. 167. ↩︎

  14. Ivi, p. 168. ↩︎

  15. «Lo “sguardo da nessun luogo”, se inteso come il superamento della prospettiva umana, corre il rischio di precludere l’accesso a risorse morali umane fondamentali. Ciò non esclude che vi siano altre vie, anche diverse tra loro, per ottenere una correzione della prospettiva umana, per estenderla fino a farla coincidere con la prospettiva di individui situati in relazioni reciproche, che al contempo devono fare i conti con l’interazione con altre creature che vivono vite indipendenti ed esposte anch’esse a vulnerabilità» (ivi, p. 167). ↩︎

  16. Porph, Abst. 1, 3, 2: Εψυχρος καγανλοις σοφισματίοις πεισθέντες ατούς τε πατν. ↩︎

  17. M. Caputo, Vegetarianismo, op. cit., pp. 13-6. Porfirio fa anche cenno all’argumentum ad populum, che è per lui un grave «errore» filosofico (Abst. I, 13, 3-5); cfr. D. A. Dombrowski 1984, p. 110. ↩︎

  18. Cfr. C. Diamond, Eating Meat and Eating People, in Philosophy, Vol. 53, No. 206, Oct., 1978, Cambridge University Press, p. 468: «A pet is not something to eat, it is given a name, is let into our houses and may be spoken to in ways in which we do not normally speak to cows or squirrels. That is to say, it is given some part of the character of a person. (This may be more or less sentimental; it need not be sentimental at all.) Treating pets in these ways is not at all a matter of recognizing some interest which pets have in being so treated». L’affezionarsi implica l’interesse, quindi l’utilità che ne ricava l’uomo. Secondo la logica di Anderson, ogni danno ad animali che si trovano in un tale stato, cioè ad essere nostri «compagni», viene considerato come moralmente riprovevole, spesso punito dalla legge, perché è violazione di un diritto della persona a cui l’animale si trova ad essere legato: questo riconoscimento non può che avvenire a partire dalla prospettiva umana. ↩︎

  19. Cfr. B. Williams, Evolution, Ethics and the Representation Problem, in Making Sense of Humanity and Other Philosophical Papers, 1982-1993, Cambridge University Press, Cambridge 1995, p. 106. ↩︎

  20. Scrive in questi termini anche Girgenti in Porfirio, Astinenza dagli animali, «Il pensiero occidentale», testo greco a fronte, a cura di G. Girgenti - A. R. Sodano, Bompiani, Milano 2005, Introduzione; cfr. anche M. Caputo, Vegetarianismo, op. cit., p. 26. ↩︎

  21. L’argomento della «razionalità degli animali» può venire in aiuto alla «causa» animalista. Porfirio stesso lo affronta nel III libro del De abstinentia, ma al contempo è convinto della necessità, di per sé già sufficiente, di fondare il rispetto del non-umano su ciò che fonda l’etica stessa, ovvero su di un motivo soggettivo e non su quello oggettivo della «razionalità» degli animali; proprio come ci ricorda Anderson, la pratica della moralità è sempre delimitata dalla prospettiva umana. ↩︎

  22. L’argomento provocatorio dei casi marginali di Singer è al margine di una più ampia riflessione che dimostra quanto siano pretestuosi i tentativi di alcuni filosofi di confutare la tesi del suo libro, Liberazione animale, con argomenti che richiamano l’autocoscienza e la razionalità. Afferma lo stesso Singer: «essi hanno affermato che un essere per avere dei diritti deve essere autonomo, o appartenere a una comunità, o avere la capacità di rispettare i diritti degli altri, o possedere un senso di giustizia» (1975; 2015 p. 30 ; cfr. pp. 23-45). Per Singer, ci si rifiuta di prendere in considerazione la sofferenza che sono costretti a subire gli animali per spostare l’attenzione sull’elemento non-umano così da sorvolare il punto cruciale e più problematico dell’intera questione, ovvero, quali sono le ragioni del nostro comportamento morale. Sentenzierebbe Porfirio, «per restare “incatenati” alla difesa dei loro errori sono caduti in un abisso di sventura, infelicità e immoralità» (Abst. I, 42, 4-5). ↩︎

  23. S. v. Abst. I, 32-34. Per Porfirio l’anima è diadica: νος o λόγος, la parte razionale, e μερισμός, quella irrazionale o elemento passionale. ↩︎

  24. Cfr. G. Girgenti, Porfirio, Astinenza, op. cit., Introduzione p. 27. ↩︎

  25. V. n. 7 ; n. 8. ↩︎

  26. V. n. 15. ↩︎