I Beiträge zu einer Kritik der Sprache di Fritz Mauthner

Le parole del linguaggio sono … inadatte a penetrare l’essenza della realtà, perché sono solo segni mnestici per le sensazioni dei nostri sensi e perché tali sensi sono sensi contingenti che, in verità, non possono venire a conoscenza della realtà, più di quanto un ragno possa conoscere il palazzo nel quale ha tessuto la sua tela.1

Il linguaggio è metafora.2

La natura è completamente muta. Muto sarebbe anche chi la comprendesse.3

In queste frasi si condensano le tesi principali dei Beiträge zu einer Kritik der Sprache, opera scritta da Fritz Mauthner nell’ultimo decennio del XIX secolo e pubblicata tra il 1901 e il 1902. Quest’opera è all’origine della citazione Wittgenstein nel Tractatus: «Tutta la filosofia è “critica del linguaggio”. (Ma non nel senso di Mauthner)».4 In quale senso però Mauthner intendesse la critica del linguaggio è, oggi, cosa poco nota.

1. Vita di Fritz Mauthner

«Non vedo come un ebreo nato in un territorio slavo dell’impero austriaco potesse non essere attirato dallo studio del linguaggio».5 Con queste parole, tratte dalla sua autobiografia, Mauthner spiega come l’esperienza diretta abbia indirizzato la sua attenzione al linguaggio come questione primaria rispetto alla conoscenza. La necessità di destreggiarsi tra diverse lingue e culture segna infatti la sua formazione. Nato nel villaggio boemo di Hoøice, nel 1849, da famiglia tedesca, già da bambino impara a parlare il tedesco e il ceco; allo stesso tempo comprende i dialetti derivati dall’incontro di queste due lingue. La sua famiglia, inoltre, era di origine ebraica, seppur non praticante già dalla generazione precedente; per questo motivo Mauthner conosce anche i primi rudimenti di ebraico e il Mauscheldeutsch, dialetto formatosi dall’incrocio di elementi yiddish e ebraici.

Queste diverse componenti culturali si ritrovano commiste nel percorso di studi, compiuto in diverse scuole, per la maggior parte a Praga. L’istruzione ricevuta è giudicata da Mauthner inadeguata e costituisce motivo di rimpianto per tutta la sua vita. L’avvicendamento di insegnanti, molte volte incompetenti, e delle scuole, dai metodi spesso antiquati, causa un ritardo nella formazione tanto che Mauthner farà ingresso all’università solo a ventidue anni. In seguito a tormentate vicende familiari e contro la propria volontà intraprende gli studi giuridici; il suo più forte desiderio tuttavia è quello di affermarsi come scrittore e a questo scopo pubblica, nel 1872, una raccolta di poesie. Il manifestarsi di una grave malattia, dalla quale comunque si riprenderà, gli consente di lasciare i poco amati studi giuridici e di trasferirsi, nel 1876, a Berlino, dove vuole mantenersi come giornalista. Decisiva nella scelta di tale città, centro importantissimo per l’editoria giornalistica, è la sua ammirazione per Bismarck e l’interesse per gli avvenimenti politici nella capitale tedesca.

A Berlino Mauthner si afferma come giornalista — scrivendo sui più diversi temi — come romanziere, critico teatrale e parodista. Proprio come parodista acquista una certa fama con la raccolta Nach berühmten Mustern, pubblicata nel 1879. Frattanto, alle ambizioni letterarie si vanno gradualmente sostituendo quelle filosofiche fino a quando, nel 1891, Mauthner inizia a lavorare al progetto di critica del linguaggio. Tale progetto giunge a compimento con la pubblicazione dei Beiträge, alla quale non giova però l’immagine pubblica che Mauthner aveva consolidato. Non essendo un filosofo di professione, infatti, viene considerato da molti un dilettante. Il desiderio di dedicare la propria vita alla ricerca filosofica e il trauma successivo alla morte della moglie, avvenuta nel 1896, lo inducono a lasciare Berlino. Nel 1905 si ritira prima a Freiburg im Breisgau e da ultimo a Meersburg, sul Lago di Costanza, dove rimane fino alla morte, avvenuta nel 1923. Nel periodo che abbraccia questi due soggiorni scrive molte opere di carattere filosofico che continuano l’indirizzo di critica del linguaggio, tra cui il Wörterbuch der Philosophie, il breve volume Die Sprache su commissione di Martin Buber, monografie su Spinoza e Schopenhauer, che si aggiungono ad una precedente su Aristotele, e i quattro volumi di Der Atheismus und seine Geschichte im Abendlande portati a termine negli ultimi giorni di vita.

2. Basi psicologiche della critica del linguaggio

I passi che si è scelto di tradurre sono tratti dalle oltre duemila pagine della seconda edizione dei Beiträge, uscita nel 1923, che contiene, rispetto alla prima, alcune aggiunte e un’importante prefazione. È qui infatti che Mauthner dichiara di intendere la filosofia come critica della conoscenza e la critica della conoscenza come critica del linguaggio; esercitando tale critica arriva ad affermare l’impossibilità del costituirsi di una conoscenza autentica. Le ragioni che fondano tale giudizio derivano da un’analisi del linguaggio e della psicologia che occupa il primo dei tre volumi in cui si articolano i Beiträge. Per meglio comprendere le argomentazioni di Mauthner è forse meglio però capovolgerne l’esposizione ed affrontare prima le basi psicologiche della sua riflessione che occupano il secondo capitolo dei Beiträge, intitolato «Sulla psicologia».

Le due nozioni psicologiche centrali nel pensiero di Mauthner sono quelle di Zufallssinne e di memoria. Con Zufallssinne, qui tradotto con «sensi contingenti», Mauthner indica l’insieme dei nostri organi di senso. Tali organi sono contingenti in quanto limitati e arbitrariamente costituiti. Percepiscono infatti solo una parte di ciò che accade in natura e questa loro parzialità si palesa grazie ai vari strumenti scientifici che ne rappresentano un miglioramento. L’uomo percepisce ad esempio solo suoni al di sopra o al di sotto di una certa soglia e non percepisce affatto le onde elettromagnetiche. Sugli organi di senso, che già per la loro natura sarebbero d’ostacolo alla conoscenza del reale, interviene poi il linguaggio. Senza il linguaggio le sensazioni non sarebbero per l’uomo riconoscibili. Così nell’uomo l’immagine di una rosa6 non è prodotta dalla retina, cioè unicamente dal vedere la rosa, ma precede la sensazione; una rosa è riconosciuta come tale attraverso il ricordo, che è, come si vedrà successivamente, un prodotto linguistico. Il linguaggio ordina le sensazioni secondo criteri di utilità pratica ed introduce così un ulteriore elemento d’arbitrarietà: l’interesse. L’interesse infatti impone una scelta ristretta di caratteri nei fenomeni e una loro organizzazione che non risponde ad esigenze conoscitive. Nel terzo volume dei Beiträge Mauthner dirà:

dietro i principi di classificazione di ogni catalogo del mondo, anche dei più recenti, è nascosta l’opposizione tra commestibile e non commestibile. L’interesse dirige l’attenzione, questa si fa ricordo, il ricordo si fa linguaggio.7

Per dar conto di come le sensazioni vengano elaborate si deve passare dall’esame degli organi di senso a quello della mente, che in Mauthner è sinonimo di memoria. Egli non crede tuttavia che, volendosi occupare dei processi mentali, cioè dei processi mnestici, si possa seguire il modello della psicologia tradizionale. La psicologia dell’Ottocento concepiva infatti lo studio della mente come indagine sull’interiorità, contrapposta ai fenomeni che si verificano all’esterno dell’uomo, studiati dalle scienze naturali. Per Mauthner invece la possibilità del costituirsi di una scienza deriva dalla possibilità di recezione degli organi di senso; questi non sono mai rivolti verso l’interno di noi stessi, che quindi non è mai direttamente rilevabile e descrivibile. Si deve tener comunque presente che anche le scienze che si basano sull’osservazione diretta sono per Mauthner inadatte a descrivere la natura, come si vedrà in seguito. L’unica possibilità di studiare il modo di operare della memoria è data dallo studio della sua controparte osservabile, vale a dire del linguaggio.

Mauthner nega che la memoria sia una facoltà o una forza, nozioni che costituiscono una ipostatizzazione di entità inconoscibili; preferisce piuttosto parlare di memoria come di un processo di unificazione e organizzazione di un molteplice, riconoscibile mediante un sistema di segni. Nell’uomo, in particolare, sono i ricordi che organizzano e unificano le rappresentazioni attraverso processi associativi. Le catene associative che così si formano rendono possibili combinazioni di più sensazioni in rappresentazioni, di più rappresentazioni in parole, di più parole in pensieri. Questo procedimento della memoria rende impossibile una conoscenza autentica per due motivi: la privatezza delle rappresentazioni e la costruzione approssimativa delle parole.

In primo luogo infatti ogni catena associativa si accompagna in ciascun individuo a rappresentazioni personali che non sono controllabili; tali rappresentazioni rendono impossibile quindi una comprensione in senso forte tra i parlanti. In secondo luogo, la costruzione delle parole che avviene attraverso catene associative si basa sulla somiglianza e non sull’uguaglianza dei concetti. Sotto uno stesso concetto vengono riuniti fenomeni che non sono precisamente uguali. I termini del linguaggio, di conseguenza, descrivono la realtà in maniera approssimativa e perciò non possono rappresentare i processi infinitamente diversi che hanno luogo in natura. Queste due caratteristiche si aggiungono dunque alla concezione degli Zufallssinne nel fondare lo scetticismo linguistico di Mauthner. Altre ragioni in tal senso emergono dall’analisi del linguaggio fatta da Mauthner in apertura dei Beiträge.

3. «Certamente la conoscenza del linguaggio, qualora fosse possibile, sarebbe anche conoscenza del mondo»8

Nel primo capitolo, «Essenza del linguaggio», Mauthner precisa subito che al termine astratto «linguaggio» non corrisponde alcuna realtà. Lo stesso accade anche per le lingue naturali che, a giudizio di Mauthner, sono una massa di suoni troppo vasta per essere ridotta ad unità. Una lingua madre «è in comune allo stesso modo di un orizzonte; non ci sono due uomini che abbiano in comune lo stesso orizzonte, ognuno trova in sé stesso il punto focale».9 Il linguaggio e le lingue non sono enti o sostanze. La ricerca sull’essenza del linguaggio non si configura quindi come indagine sulla ‘natura’ di una ‘cosa’. Non ci sono proprietà essenziali e necessarie, contrapposte a caratteristiche accidentali. L’uso della parola «linguaggio» è quindi solo un espediente che permette di criticare concezioni ritenute erronee. Nel parlare umano si esprime infatti qualcosa di comune ed è questo che Mauthner vuole indagare.10

Il piano dell’indagine mauthneriana non è subito evidente; non si deve però essere tratti in inganno dalle iniziali dichiarazioni di Mauthner contro la sistematicità, dallo stile effettivamente dispersivo, e credere che egli proceda in maniera casuale. Nei Beiträge, soprattutto nei paragrafi che ne compongono la prima parte, si possono infatti isolare alcuni caratteri generali fra loro connessi che Mauthner attribuisce al linguaggio.

Il primo carattere con cui, secondo Mauthner, il linguaggio si presenta è quello dinamico. Il linguaggio è considerato come una serie di movimenti, un agire, al pari del camminare o del respirare. Le parole si producono, infatti, attraverso movimenti nel cervello che originano movimenti degli organi fonatori. Per tali movimenti non c’è bisogno di ipostatizzare una particolare facoltà del linguaggio. Non qualsiasi movimento è però un’espressione linguistica, ma, per esserlo, deve venir riconosciuto come tale da una collettività. Ciò significa che il linguaggio ha anche un carattere sociale, come si palesa nel paragrafo «Linguaggio e socialismo». La normatività linguistica non risiede infatti in leggi individuabili, ma nella società che quindi ha un forte potere sul singolo parlante; questa situazione evidenzia un altro carattere che è quello costrittivo. Questi due aspetti ne implicano un altro, di grande rilievo ontologico. I segni linguistici usati non ricalcano in alcun modo la realtà, non sono in sé significanti, ma acquisiscono significato attraverso un lungo addestramento che mette i parlanti in grado di riconoscerli e comprenderli. Il linguaggio, di conseguenza, ha un carattere non rispecchiante: non rispecchia alcun ordine del mondo precostituito. Una collettività conferisce significato alle parole, esercita il suo potere attraverso l’uso. Il linguaggio coincide con l’uso o in altre parole ha un carattere pragmatico, oggetto del quarto paragrafo. Le regole d’uso si stabiliscono socialmente, ma non in modo assolutamente privo di vincoli. Il carattere sociale del linguaggio fa sì che in esso si depositi la memoria dell’ambiente culturale in cui si è sviluppato: il linguaggio ha anche un carattere storico-tradizionale che limita la libertà dei parlanti.

Ogni lingua è contrassegnata da una notevole instabilità semantica. Il significato delle parole cambia di continuo sia nella sua componente pubblica che in quella rappresentativa privata. Ogni parola ha un riferimento ambiguo, per cui una comprensione in senso forte, come perfetta coincidenza di significato è impossibile. Una comprensione in senso debole avviene invece ordinariamente; ciò che rende possibile tale superficiale intendersi, ciò che tra due parlanti individua un significato comune, è il contesto. Si comprende una parola in una situazione grazie ad una precedente conoscenza del contesto. Il carattere contestuale si unisce così a quello tautologico. Questi ultimi tre caratteri sono particolarmente interessanti se esaminati in ambito artistico; infatti, sebbene rendano impossibile la scienza, favoriscono la poesia, che, sfruttando tali peculiarità del linguaggio, le mostra in maniera evidente.

La forza evocativa della poesia rende più evidenti anche le conseguenze che ha il potere della parola, tra le quali quella di indurre a credere che il linguaggio possa influenzare la realtà. Questa credenza è detta da Mauthner «superstizione linguistica» e si presenta a tutti i livelli con diverso grado di raffinatezza. Nelle scienze, tra l’altro, si traduce nel ritenere che in natura operi realmente una finalità, nozione che invece è una costruzione puramente umana. La peculiarità della parola artistica di esprimere proprietà del linguaggio in generale risulta con particolare chiarezza dall’esame del carattere metaforico del linguaggio. Mauthner ne parla nel secondo volume dei Beiträge, affrontando il tema dell’origine del linguaggio. La discussione sulla metafora va però oltre tale questione specifica. La metafora è infatti il meccanismo psicologico fondamentale attraverso cui opera la memoria, cioè la comparazione mediante la quale le rappresentazioni sensoriali vengono sussunte sotto concetti, che possono essere già esistenti o nuovi. Tale processo comparativo si realizza, come si è visto, seguendo un criterio di somiglianza, non di uguaglianza.

Da quanto finora detto, emergono due ragioni fondamentali che rendono impossibile una conoscenza della natura: la costituzione degli organi di senso, limitata dal caso e indirizzata dall’interesse, e la formazione delle parole, ugualmente condizionata dall’interesse e costitutivamente metaforica. Ne segue che il linguaggio non riproduce un ordine naturale oggettivo, ma umano; ciò che d’altronde si era già constatato considerando il carattere sociale e costrittivo del linguaggio. La domanda sull’essenza di una cosa deve trasformarsi allora nell’indagine sull’uso del nome che la designa. Non c’è nelle cose un ordine autonomo predeterminato che ci permetta di classificarle in un certo modo, ma la critica del linguaggio deve dar conto dell’ordine costituito dal linguaggio.

4. Critica della logica e della grammatica

Il terzo volume dei Beiträge è interamente dedicato alla critica della grammatica e della logica attraverso la quale si fa più puntuale anche la contestazione della legittimità del sapere scientifico. La critica a grammatica e logica è infatti sostenuta con argomenti generali in parte deducibili dalla teoria della conoscenza finora esposta e in parte elaborati attraverso l’analisi delle articolazioni e degli elementi principali delle due discipline.

Mauthner riconosce che il contravvenire alla grammatica e alla logica delle diverse lingue impedisce la comprensione. Nega però che le regolarità espresse nelle formulazioni logiche e grammaticali equivalgano a leggi intese in senso rigoroso; i cosiddetti ‘principi’ logici e grammaticali registrano regolarità che non sono né universali, né necessarie, né univoche, come le autentiche leggi dovrebbero essere. Nega che la correttezza logica e grammaticale sia la principale condizione sulla quale si basa la comprensione che si fonda invece sulla conformità all’uso linguistico. L’uso ha sì carattere costrittivo, ma non coincide con regole grammaticali o logiche. Mauthner nega che vi siano una logica e una grammatica comuni a tutte le lingue; le regole grammaticali sono diverse da lingua a lingua e non sono riducibili le une alle altre, la logica aristotelica sarebbe intraducibile in una logica formulata per la lingua cinese.

Anche le scienze naturali sono la fable convenue del sapere, sono cioè una descrizione convenzionale, socialmente determinata e metaforica del reale. Il loro presunto carattere nomologico è infondato, poiché si servono di procedimenti inferenziali e i tali procedimenti non sono mai universali.

5. Fortuna dell’opera

L’accoglienza che ricevettero i Beiträge non fu unilaterale. Accanto a recensioni elogiative ve ne furono di negative, acrimoniose e spesso superficiali.11 Anche in quelle positive inoltre si mostra spesso una comprensione solo parziale dell’opera di Mauthner, che rimase deluso sia dal tono delle recensioni che dalla loro quantità, in vero giustificata dalla tiratura dell’opera. Di certo i Beiträge non suscitarono il clamore che l’autore si aspettava. Benché Mauthner abbia continuato a destare l’interesse di molti pensatori che sono rimasti da lui influenzati,12 i suoi scritti sono stati progressivamente dimenticati dal mondo filosofico. Nonostante la comparsa di scritti monografici già ai primi del ’900,13 bisogna aspettare il 1970 per trovare la prima esposizione chiara e filosoficamente approfondita del pensiero di Mauthner in Mauthner’s Critique of Language14 di Gershom Weiler.

Questo libro segna una rinascita degli studi su Mauthner. Tralasciando gli articoli, importanti libri sono stati dedicati alla figura di Mauthner (Kühn), all’approfondimento del contesto storico (Arens,15 Eschenbacher,16 Kurzreiter17) e all’interpretazione generale della sua opera (Albertazzi,18 Bredeck19).

Nonostante il moltiplicarsi dei libri su Mauthner e la nuovissima edizione delle sue opere, il suo pensiero rimane ancora in gran parte sconosciuto in Italia. Si spera di contribuire con questa breve traduzione alla sua diffusione.

6. Dai Beiträge zu einer Kritik der Sprache

6.1. Prefazione alla seconda edizione del primo volume

Confido di aver battuto una strada che conduce direttamente a una filosofia, alla critica della conoscenza, che è critica del linguaggio. Altri potranno procedere oltre, potranno cercare di aprire, nella stessa direzione, una via regia che porti alla critica della conoscenza, che può essere solo critica del linguaggio. […]

Certamente non sono un esperto delle molte discipline alle quali devo ricorrere per giustificare ed esemplificare i miei pensieri. Non sono un esperto di logica, matematica, meccanica, acustica, ottica, astronomia, biologia delle piante e degli animali, storia, psicologia, grammatica, linguistica indiana, romanica, germanica, slava, eccetera eccetera. Molti anni fa ho fatto un calcolo, per il mio lavoro sarebbero state necessarie nozioni dalle 50 o 60 discipline nelle quali è attualmente divisa la conoscenza del mondo. Una mente capace ha bisogno di almeno 5 anni per ciascuna di queste discipline, anche solo per impadronirsi dei fondamenti di un sapere specialistico. Avrei dovuto lavorare senza sosta per circa 300 anni prima di poter iniziare a mettere per iscritto le mie idee. […] È stato quindi necessario che decidessi di rinunciare a divenire esperto in tutte le discipline che sono d’ausilio al mio lavoro; studiando per 27 duri anni, ho dovuto accontentarmi di padroneggiare solo quelle nozioni di tali discipline che mi servivano per assolvere il mio compito.

Il mio compito appunto, poiché ne avevo uno. Non sono un esperto. Un compito grande e nuovo si è imposto da sé: la critica del linguaggio. […] Se volevo esprimere le mie idee, che la conoscenza del mondo sia impossibile attraverso il linguaggio, che non si dia una scienza del mondo, che il linguaggio sia uno strumento inservibile per la conoscenza. se volevo far crescere queste idee e illustrarle in modo esauriente e convincente, vivo e chiaro, libero dalla logica e dai giochi di parole, se volevo tutto questo, dovevo, come critico del linguaggio, conoscere il linguaggio nei suoi alti e bassi, essere in grado di guardare il popolo in bocca e seguire le dispute dei ricercatori sui concetti scientifici. Ho dovuto imparare i principi che governano il lavoro e il metodo, la logica e il linguaggio specifici, in tutti i campi di lavoro scientifico. E nessuno dei piccoli uomini di fatica che lavorano in qualche ambito ristretto ha forse provato, nella sua somiglianza a Dio, un sentimento così forte come l’ho provato io; il sentimento che non si possono comprendere i principi e il linguaggio specifico di ogni disciplina senza uno studio accurato del campo di lavoro, che è poi un campo di macerie. Senza più ridere, nella più amara rassegnazione, è stato necessario ripetermi ogni giorno che a malincuore non procedevo oltre i principi e che inoltre ero piacevolmente costretto a non fare una semplice passeggiata tra le scienze. Ma non potevo indugiare, se volevo compiere il mio lavoro. Non potevo soffermarmi da esperto su nessuna disciplina. Non è necessario che dia conto di quanto ciò mi sia riuscito facile o difficile.

Solamente, mi pare che questo lavoro, che era un lavoro del tutto mio e, per di più, un compito del tutto mio, non sia stato completamente infruttuoso; mi sembra almeno che con esso si sia aggiunta una nuova disciplina alle molte di cui non sono esperto: la critica del linguaggio. […]

Mi sono prefisso di costruire una grande casa in un nuovo stile e con un nuovo materiale. Ho dovuto disegnare io stesso ogni linea del nuovo stile, estrarre dalla roccia ogni pietra del nuovo materiale. So che, nel migliore dei casi, l’architettura complessiva ne ha molto risentito. Che un fortunato successore possa usare il materiale puro e l’onesto disegno per un edificio simmetrico. Ecco la boa per le balene esperte.

Nell’esposizione rinuncio quindi ad una accurata sistematicità. Non vengo meno invece all’impegno di offrire un sistema della critica del linguaggio.

È stata anzi la tragica maledizione dei grandi filosofi quella di lasciarsi influenzare da modelli sbagliati nell’imporre un sistema alle fiamme guizzanti dei loro pensieri. Maledizione divenuta ridicola negli sforzi degli storici della filosofia, uomini ordinati, che hanno voluto imporre un sistema nella successione dei sistemi. Nei Veda non c’è alcun sistema. Si tratta solo d’Oriente? Platone, il greco, non offre alcun sistema. C’è un sistema nel mondo che le nostre lingue pretendono di comprendere e descrivere? Forse. O forse no. Sicuramente però non c’è nel mondo alcun sistema umano, scientifico o linguistico. Le piante o gli animali non sono ordinati secondo un sistema naturale, ma artificiale, umano, linguistico. Se nelle connessioni tra tutti i materiali e le forze vi fosse un universale sistema umano; se potessimo avvicinarci ai materiali e alle forze della natura con i concetti e i giudizi del nostro misero linguaggio; se potessimo arrivarvi proprio vicino, vicinissimo, tanto da poter imprigionare i fenomeni con le tenaglie del nostro linguaggio; in tal caso troveremmo certo nel linguaggio un sistema adeguato alla conoscenza del mondo. Tuttavia questa ricerca che voleva provare e ha provato proprio l’eterna inaccessibilità della natura alla parola, questa ricerca che, incapace com’è di scorgere nel mondo un sistema umano, linguistico, non può offrire alcun sistema della conoscenza del mondo; per questo non può forse neppure esigere sistematicità dall’esposizione del rapporto [tra parola e natura].

Ognuno ha gli errori dei propri pregi. Sarei sufficientemente soddisfatto se avessi avuto i pregi dei miei errori.

Chi vuole coltivare la critica del linguaggio in maniera seria e radicale è amaramente condotto dai suoi studi all’ignoranza. Chi fa ricerca in un ambito ristretto deve fare affidamento sui risultati ottenuti dai ricercatori di un ambito confinante. Non si può fare affidamento invece proprio sui concetti fondamentali, sui principi e gli elementi di aree molto ampie del sapere. Le somme proposizioni della matematica e della meccanica, della chimica e della biologia non sono dimostrate. Tutte le somme proposizioni e i concetti non sono definiti. E con questi concetti e somme proposizioni deve lavorare la critica del linguaggio. Per questo può capitare che non siano stati affatto sistematici gli uomini che per primi nella loro concezione del mondo hanno anticipato la critica del linguaggio. Vico e Wilhelm von Humboldt non erano affatto sistematici. […]

Sarebbe stato meglio inoltre se fossi riuscito ad eliminare ogni presunzione dal mio modo di esprimermi. In ogni caso, però, il cuore più sincero che abbia a disposizione è, di nuovo, il mio.

Nei mesi di revisione vi sono stati momenti di superbia nei quali sentivo il potere di unire un misticismo saldo e vicino alla terra con una scepsi distaccata e serenamente celeste; in questi momenti credevo di aver assolto il mio compito: mostrare l’impossibilità di un’umana conoscenza del mondo. Il nostro multiforme dominio sulla natura è solo uno sfruttamento della natura, senza comprensione. Allo stesso modo nell’antichità si sfruttavano gli schiavi, senza riconoscerne l’umanità. È dovuto venire un maestro a predicare il rispetto per le persone che soffrono. La nostra ammissione d’ignoranza insegnerà forse il rispetto della muta natura.

Vi sono stati momenti mortificanti in cui tutto il logorante lavoro per risolvere i problemi della critica del linguaggio sembrava d’infimo valore; sembrava tale se paragonato all’attività degli uomini che vivono lottando, agli sforzi della scienza naturale, alla maggior gioia di vivere che è data all’uomo quando riesce a procurare del pane per un bambino povero.

Non saprei neanche dire se siano stati migliori i momenti d’orgoglio o quelli di mortificazione. […]

6.2. Introduzione

«Nel principio era la parola.»20 Con la parola gli uomini sono al principio della conoscenza del mondo, ma si arrestano finché restano presso la parola. Chi vuole procedere oltre, anche solo di un minuscolo passo, per il quale può spendere il lavoro intellettuale di un’intera vita, deve liberarsi dal linguaggio e dalla superstizione linguistica, deve provarsi a riscattare il proprio mondo dalla tirannia del linguaggio. In questo caso però nessuna prospettiva è d’aiuto, nessun ateismo critico-linguistico. Nell’aria non c’è alcun sostegno. Si devono salire dei gradini e ognuno di essi è un nuovo inganno, perché non si sostiene liberamente. Anche se ogni gradino fosse molto basso, anche se chi sale vi si trattenesse per brevissimo tempo e lo toccasse solo in punta di piedi, nell’attimo del contatto chi sale non si innalzerebbe liberamente: resterebbe incatenato alla lingua di quel momento, di quel gradino; anche se egli stesso si fosse costruito un gradino e una lingua per quell’istante.

Chi allora, lavorando per anni, si è voluto far carico della liberazione dal linguaggio, sperando di realizzare tale compito in un’opera dalla forma regolare e ordinata è stato vittima di una continua autoillusione. Per nulla è libero l’uomo che pure si definisce ateo, nemico di ciò che nega. Non può compiere l’opera di liberazione dal linguaggio chi inizia la stesura di un libro avendo insieme fame, amore e vanità della parola. Se voglio salire su per la critica del linguaggio, che è l’occupazione più importante dell’uomo pensante, devo distruggere ad ogni passo la lingua dietro, davanti e dentro di me; devo distruggere ogni piolo della scala sul quale metto piede. Chi vuole seguirmi ricostruisca i pioli, per poi distruggerli nuovamente. […]

6.3. Essenza del linguaggio

Accingendomi a fornire una critica del linguaggio umano — anche perché l’oggetto della mia ricerca è designato proprio attraverso il mezzo della stessa, cioè la parola «linguaggio» — devo vagliare i concetti, anche con maggior precisione di quanto accada altrove. […]

Ma cos’è il linguaggio che, facendo una promessa ai lettori, mi sono prefisso di esaminare attentamente? Non presterò attenzione alla singola parola di una lingua determinata come il compilatore di un vocabolario; non raggrupperò le diverse forme di una stessa lingua come un grammatico. Non voglio neanche scrivere la storia di una singola lingua e tanto meno la storia di una famiglia linguistica, come ha fatto la grammatica comparata, proponendosi tale compito inattuabile prima per la nostra «famiglia linguistica» e poi per tutte le lingue della terra. Io voglio indagare e rendere davvero comprensibile ciò che è comune alle lingue umane, ciò che si potrebbe chiamare, in maniera certo astratta, l’essenza del linguaggio. È subito evidente che «il linguaggio» significa, in questo senso, qualcosa di molto diverso da «una lingua» o da «le lingue»; rispetto a queste si può pur sempre pensare, se necessario, a qualcosa di reale, anche se questo qualcosa, poiché è un suono fugace, può a stento essere considerato tra le cose materiali. Quale realtà però sarebbe, in fondo, più che una forma fugace?

Le lingue particolari sono dunque i raggruppamenti di suoni attraverso i quali gruppi umani si comprendono. Ma cos’è «il linguaggio» con cui ho a che fare? Qual è l’essenza del linguaggio? In che rapporto è «il linguaggio» con le lingue?

La risposta più semplice sarebbe: «il linguaggio» non esiste; la parola è un astratto così pallido che difficilmente gli corrisponde ormai qualcosa di reale. E se il linguaggio umano fosse affidabile come «strumento» di conoscenza, se lo fosse in particolare anche la mia madrelingua, allora dovrei rinunciare al tentativo di questa critica fin dall’inizio, giacché l’oggetto della ricerca è un astratto, un concetto irreale e inafferrabile. A questo punto mi trovo dinanzi al primo penoso dilemma. Solo se il linguaggio umano e in particolare la mia madre lingua non sono né affidabili né logici potrò ancora scoprire qualcosa di reale dietro l’estremo astratto «il linguaggio»; allora però, a causa dell’inaffidabilità dello strumento, non potrò effettuare la ricerca così a fondo come vorrei. Poiché comunque non scrivo di fatto queste proposizioni iniziali all’inizio della mia riflessione, ma in seguito a lunghi travagli, so già che tale penoso dilemma mi seguirà passo dopo passo.

Quale senso abbia l’astratto «il linguaggio» si chiarirà in parte quando avremo almeno scoperto quanto irreali e astratte siano le lingue particolari; lingue che, solo per il momento in buona coscienza, abbiamo accettato come reali. [. .]

Le lingue particolari individuate dalla scienza del linguaggio non sono unità così chiaramente definibili, come certo si potrebbe credere. In realtà anche il concetto di lingua particolare è solo un astratto per la gran quantità di somiglianze, anzi di grandissime somiglianze presenti nelle lingue individuali di un gruppo umano, il cosiddetto popolo. Natura sane nationes non creat sed individua.21 Ciò vale per il diritto, la legge e i costumi come per il linguaggio. A questo punto dobbiamo subito prendere atto di ciò che in seguito risulterà in maniera più trasparente, e cioè che la lingua individuale di un uomo non è mai perfettamente uguale a quella di un qualsiasi altro uomo e che lo stesso uomo non parla la medesima lingua in diverse età, anche quando vengano lasciate da parte le particolarità della lingua infantile. […]

Potremmo dire quindi che le lingue particolari, considerate reali dalla scienza del linguaggio che se ne occupa abitualmente, assomiglino a correnti, nelle quali ogni singola goccia d’acqua, nel tempo, si dissolve incessantemente in altre gocce d’acqua, nello spazio confluisce in esse. L’antico detto greco «non si può discendere due volte nello stesso fiume» vale anche per il linguaggio. Le sue parole e le sue forme sono incessantemente mutate. […]

C’è stata un’epoca in cui l’umanità, pressata da un vivo bisogno mitologico, ha immaginato un qualche un dio — una figura maschile o femminile — seduto all’inizio di un fiume; tale dio, per scopi misteriosi, avrebbe fatto scorrere dell’acqua nel letto del fiume o l’avrebbe fatta sgorgare dalla sorgente, determinandone quantità, temperatura e potabilità.

Nelle scienze dello spirito tuttavia, e specialmente nella considerazione del linguaggio umano, questo bisogno è ancora fortemente presente. Le convinzioni linguistiche dei preti qualunque e del volgo (anche se non sono i soli ad averle), quelle che quasi tutti i ricercatori del linguaggio copiano uno dall’altro, secondo le quali il linguaggio è uno strumento del nostro pensiero — uno strumento mirabile per giunta — mi sembrano una forma di mitologia. Secondo tale idea, ancora oggi unanimemente condivisa, in una parte del fiume linguistico siede una divinità — una figura maschile o femminile — il cosiddetto pensiero, che regna sul linguaggio umano grazie ai suggerimenti di una divinità affine, la logica, e con l’aiuto di una terza divinità, la grammatica. Poter convincere gli uomini dell’irrealtà, della pochezza di tale trinità sarebbe il risultato della mia ricerca di cui andrei più orgoglioso; servire divinità irreali infatti richiede sempre sacrifici, ed è sempre, quindi, nocivo.

Ritengo che, in seguito ad una più ponderata considerazione, «il linguaggio», il linguaggio in generale o l’essenza del linguaggio, non vorrà più saperne della sovranità del pensiero, della logica e della grammatica. «Il linguaggio» si rivelerà, per lo più, un vuoto astratto; dove invece noteremo effettive somiglianze tra le lingue particolari, che in sé sono certamente astrazioni, dove il linguaggio diverrà per noi una designazione per un modo dell’agire umano, non avremo alcuna necessità di risalire al pensiero, alla logica o alla grammatica quali momenti originari. Scopriremo che pensiero, logica e grammatica sono piuttosto aspetti del linguaggio che, per così dire, si nascondono nel linguaggio e vengono scovati da sfaccendati fanatici dell’ordine. Così in natura non c’è altro blu che quello dei fenomeni blu. Sarebbe così anche se la lingua non si fosse data la pena di astrarre l’aggettivo blu. Allo stesso modo l’elettricità era presente prima che la si scoprisse, rendeva cioè i suoi effetti percepibili ai nostri sensi. Ugualmente tutti gli elementi che ancora non conosciamo sono già presenti in natura. […]

Dobbiamo considerare anche il linguaggio tra le altre attività umane come il camminare o il respirare. Per il biologo è un’idea sensata non che l’uomo cammini perché ha gambe, ma che abbia gambe perché cammina; non che l’uomo respiri perché ha polmoni, ma che abbia polmoni perché respira.

Detto più correttamente: lo sviluppo di uno strumento e quello di un’attività procedono parallelamente. Se consideriamo l’insieme dei reali strumenti linguistici (con strumenti linguistici intendo oltre all’apparato che produce suoni, anche tutti i muscoli e i nervi che ne sono al servizio o lo comandano) come manifestazione reale di un’immaginaria facoltà linguistica, è certo possibile che lo sviluppo del linguaggio sia stato accompagnato nell’uomo dallo sviluppo degli organi linguistici. [. .]

Mi sembra che il valore di questo punto di vista risieda nella possibilità di eliminare alcuni astratti dall’uso scientifico. Locuzioni quali «facoltà linguistica» o «dono del linguaggio» diverrebbero superflue se venisse chiaramente riconosciuto che l’uso linguistico, vale a dire l’esercizio dell’attività linguistica, ha per primo sviluppato gli strumenti linguistici. In tal caso si troverà assurdo il concetto «facoltà linguistica» come quello di una particolare «facoltà motoria» o «facoltà respiratoria». […]

La somiglianza tra il camminare, o altre azioni, e il parlare diverrebbe più evidente se fin d’ora, assumendo una prospettiva precisa, potessimo sempre sostituire l’astratto «linguaggio» con il termine «parlare», che designa un’attività. […]

I movimenti finalizzati che riuniamo sotto il nome linguaggio, anzi meglio: sotto il verbo «parlare» (ogni verbo [è] un concetto di ordine dal punto di vista finalistico, proprio dell’uomo) hanno un loro percorso generale che parte dal movimento inconscio, attraversa il volere conscio e ritorna verso l’inconscio; questo processo si manifesta sia nello sviluppo linguistico generale che in quello dell’individuo. Le manifestazioni di dolore e di gioia non provengono invece da una volontà conscia; provengono, volendo accogliere un uso linguistico della psicologia francese, dalle volizioni, non dalla volonté. Nei bambini imparare a parlare e imparare a camminare sono ugualmente legati alla coscienza; dobbiamo ritenere che anche nello sviluppo genetico della lingua ogni arricchimento, ogni metafora audace, fossero legati alla coscienza. Alla fine comunque il parlare abituale diviene così automatico che riesce difficile al profano vedere la realtà linguistica solo nei movimenti. Ciò accade perché egli in fondo presta attenzione solo ai risultati dei movimenti, cioè ai suoni, e non ai movimenti stessi. Il parlare o il pensare rimangono sempre legati con il volere, conscio o inconscio, e lo stesso vale per tutto il conoscere, in quanto esso ha la sua ultima origine nell’attenzione, quella sviluppata dall’interesse individuale e quella ereditata dagli antenati che l’hanno sviluppata seguendo il proprio interesse.

Se gli uomini non avessero imparato a parlare, e solo un singolo tra loro parlasse, sarebbe naturale per un osservatore interpretare tale fenomeno come una successione di movimenti e difficilmente gli verrebbe in mente di dare loro un nome comune. Così, un bambino posto di fronte a un bue che muggisce, percepisce chiaramente la fatica dell’animale. Al contrario, movimenti linguistici di un individuo che sia il solo a parlare tra simili privi di linguaggio non sarebbero affatto linguaggio. Un unico uomo che parli tra compagni che non ne siano in grado è così poco immaginabile quanto un dio che, dotato di linguaggio, per prima cosa lo doni agli uomini. Oppure sarebbe come l’abbonato di un’estesa catena telefonica che non avesse un secondo abbonato. I suoi movimenti funzionali non sarebbero linguaggio. Tali movimenti diverrebbero linguaggio solo attraverso la caratteristica, che va oltre l’individuo e la realtà, di essere uguali in un gruppo di uomini, di essere perciò comprensibili, di essere utili. Solo come fattore sociale la lingua, che prima dell’invenzione dell’arte della stampa non era neppure raccolta in un vocabolario, diviene qualcosa di reale. Il linguaggio è una realtà sociale; separato da questa realtà è solo un’astrazione di determinati movimenti. […]

Non ci sono due uomini che parlino la stessa lingua. Chiunque, nei momenti di malumore più profondo, avrà pensato almeno una volta che nessun altro comprenda la propria lingua (particolare). Metaforicamente chiunque afferra questa proposizione. Tuttavia non si concede facilmente che essa contenga una verità scientifica obiettiva. Una verità che si potrebbe esprimere anche così: che ciascuno «domini» un frammento diverso della madrelingua comune. Mi riesce difficile scegliere il verbo «dominare». Capita quotidianamente infatti di comprendere una porzione più grande della nostra madrelingua e di poter parlare invece utilizzando una frazione più piccola; in maniera simile del resto si comprende in genere qualche dialetto vicino, mentre si riesce a parlare solo il proprio.

Il concetto di una lingua comune ad un popolo, la madrelingua, è alla base di questa riflessione. Dov’è la realtà di tale lingua? Dove in tutto il mondo? Non nel singolo. Perché chi comprende solo una parte del patrimonio di parole e di forme, usa solo una piccolissima parte di quello che comprende. Non nei libri. Perché altrimenti non ci sarebbe stata nessuna lingua prima dell’invenzione della scrittura. In qualsiasi libro c’è, al massimo, una raccolta di parole e regole, dalle quali si sviluppa casualmente la letteratura; non c’è mai però neppure la possibilità di raccogliere una lingua. Dov’è allora la realtà dell’astratto «linguaggio»? Nell’aria. Nel popolo, tra gli uomini. […]

6.4. Linguaggio e Socialismo

Lo straordinario gioco di prestigio del linguaggio consiste in questo, che la ragione e la prova della sua deplorevole povertà sono ritenuti una ricchezza smisurata; le masse degli uomini e gli uomini di massa sono giustificati in tale opinione, poiché il linguaggio è un oggetto d’uso che guadagna in valore col diffondersi dell’uso. Il prodigio si svela facilmente. Tutti gli altri oggetti d’uso o vengono annientati dall’uso, come gli alimenti, o rovinati, come gli strumenti o i macchinari. Se il linguaggio fosse uno strumento, sarebbe anch’esso rovinato o logorato. Invece solo le parole divengono logore, sono messe da parte, svalutate. Proprio attraverso questo processo però, acquistano maggior valore per le masse. Il linguaggio, tuttavia, non è un oggetto d’uso o uno strumento, non è in nessun modo un oggetto; non è altro che il suo uso. Il linguaggio è l’uso linguistico. Che l’uso si accresca con l’uso non costituisce più allora alcun prodigio.

Questo fatto, che non ha potuto certo passare inosservato, ha subìto, a partire da Hegel, tali tentativi di travisamento, che il linguaggio è stato annoverato assieme all’arte, alla religione e alle istituzioni statali, tra le creazioni del cosiddetto spirito oggettivo. Lo spirito è, propriamente, ciò che c’è di soggettivo nell’uomo; scaraventandolo fuori da un singolo uomo e chiamandolo oggettivo, si crea un nuovo dio, con il quale si dovrebbero trovare d’accordo i socialdemocratici. Tale spirito oggettivo infatti pensa, vuole e fa ciò che la massa pensa, vuole e fa. In realtà il fatto che, con parole altisonanti, si presenta come spirito oggettivo non è altro che la dipendenza dal linguaggio di ogni singolo uomo. Il linguaggio è un’eredità costituitasi dal fitto avvicendarsi degli antenati ed ha un valore per il singolo uomo in quanto è una proprietà in comune con tutti i connazionali. Gli oggetti d’uso rimangono inalterati quando non vengono consumati dall’uso umano o dalla non voluta usura degli agenti naturali. Il linguaggio, al contrario, senza uso muore, poiché non è oggetto d’uso, ma esso stesso uso. È di importanza decisiva, inoltre, che tutte le parti del linguaggio siano sempre usate da qualcuno del popolo. Il singolo uomo usa forse per anni solo la decima parte delle parole messegli a disposizione dal linguaggio e solo una piccolissima parte delle combinazioni di queste parole. Egli, come si è detto, non domina la sua madrelingua. Altrove c’è certamente in uso un altro decimo e a volte risuonano all’orecchio tanti centri d’associazione linguistica provenienti dai decimi non usati, che, alla fine, una parte molto più ampia dell’intero linguaggio è costantemente a disposizione grazie all’esercizio passivo.

Il comunismo ha potuto divenire realtà sul terreno del linguaggio, poiché il linguaggio non è qualcosa su cui si possa imporre la proprietà; il possesso comune è possibile senza contrasti, visto che il linguaggio non è nient’altro che la comunanza o la comune volgarità delle concezioni del mondo. Le masse di uomini e gli uomini di massa sono contenti e stupiti di tale possesso e non sospettano che sia un’autoillusione. Anche la luce e l’aria sono in comune, ma sono qualcosa e ogni raggio di luce, ogni particella d’aria che una persona consuma è sottratto ad un’altra. Luce e aria sono pur sempre valori. Il cittadino le deve pagare salate. Il linguaggio è solo un valore apparente, come una regola del gioco, che diviene tanto più cogente, quanti più giocatori vi si sottopongono; questo gioco però non vuole né cambiare né comprendere la realtà. Nel gioco sociale del linguaggio, che su tutto il mondo si estende, quasi sovrano, il singolo è contento quando pensa assieme a milioni di persone seguendo le stesse regole; quando, ad esempio, ha imparato a rispondere ai vecchi indovinelli ripetendo la parola «sviluppo»; quando la parola «naturalismo» è divenuta di moda o quando le parole «libertà», «progresso», lo entusiasmano come farebbe un reggimento. La storia viene fatta dalle nature forti, che, in questo gioco, sociale e universale, comandano le masse di uomini attraverso le parole. Tali masse si adeguano al mondo. La storia spirituale viene costruita da uomini d’eccezione che non si confanno al mondo; da uomini che, discostandosi dal gioco [comune], guardano il mondo diversamente dalle masse dei predecessori e diversamente da come esige la lingua ereditata; tali uomini, originali e senza eredi, ritengono di comprendere in maniera nuova il mondo e a mala pena riescono a riconoscere che anch’essi, sacrificando la propria vita, hanno escogitato solo piccole modifiche nelle regole del gioco sociale che nel mondo vige. Tali piccole modifiche, che possono anche essere considerate variazioni casuali, rompono il comportamento rigidamente ereditario e contribuiscono, forse, ad un suo cambiamento. Questi uomini difficilmente sanno cosa farsene della comune proprietà del linguaggio e la comune società difficilmente sa come servirsi di loro.

Così spesso si è detto che il linguaggio fosse una meravigliosa opera d’arte e la maggior parte degli uomini ha realmente stimato un’opera d’arte questa massa nebulosa e fluttuante che si compone in un confuso concetto. Solo che la stessa opera è per l’uno una distesa erbosa, per l’altro un antico tempio, per un altro ancora il ritratto del nonno.

Il linguaggio non può essere un opera d’arte per il mero fatto che non è una creazione del singolo. Come ho già detto, non posso immaginarmi, anche se posso rappresentarmelo a parole, che l’umanità abbia vissuto per migliaia d’anni priva di linguaggio e concetti, priva di dubbi e bugie come gli animali, e poi all’improvviso sia nato un uomo gigantesco, alto una tesa, tra uomini alti un cubito. E che tale uomo sia stato un poeta. Poiché il linguaggio non è mai stato un’opera d’arte, ma sempre il mezzo artistico della poesia. Un tale uomo, tutto solo con sé stesso, come se avesse voluto scaricare la tensione in un tuono, avrebbe bramato, inventato e costruito il linguaggio. Tutto questo sarebbe divenuto un’opera d’arte. Il lavoro di un singolo. Anche un monologo però. Gli uomini alti un cubito non l’avrebbero capito. Il linguaggio nato dal bisogno di scaricare un tuono avrebbe potuto essere un’opera d’arte. Il linguaggio nato da un ordinario istinto di comunicazione è un brutto lavoro di fabbrica, raffazzonato da miliardi di lavoratori giornalieri.

Tuttavia, come il linguaggio non può essere un’opera d’arte, poiché non è stato creato da un singolo, così non è un’opera d’arte anche perché non è stato creato per il grande bisogno d’un gigante, ma per i piccoli bisogni di tutti. Il linguaggio è cresciuto come una grande città. Camera su camera, finestra su finestra, appartamento su appartamento, edificio su edificio, strada su strada, quartiere su quartiere, e ogni cosa inscatolata dentro l’altra, legata con un altra, dal profilo malamente scarabocchiato con tubi e fosse. Se si prende un botocudo, lo si porta davanti a tutto ciò e gli si dice che quella è un’opera d’arte, quell’asino ci crede, eppure a casa sua ha una capanna bella e spaziosa.

Che il linguaggio non sia un’opera d’arte, costituisce però anche il motivo per il quale è, fino ad oggi, l’unica istituzione della società che veramente si fondi su basi socialistiche. Certamente la città, come il linguaggio, ha i suoi tubi del gas, che portano una luce avvelenata in tutte le camere; i tubi di piombo, che portano un’acqua infetta in tutte le cucine; le condutture, che smaltiscono la sporcizia di milioni di persone prodotta in bell’ordine dalla vita in superficie, la fanno fluire sotto terra in maniera rapida e continua e la trasportano infine nelle marcite, i nuovi territori per l’umanità a venire. Le esalazioni del carbone, l’acqua putrida e il concime non sono affatto un bene comune. Ma l’esattore fiscale regola il rubinetto e pretende denaro. Per questo il linguaggio è una cosa ancora più spassosa. Volendosi esprimere senza cautele: nei suoi tubi arrugginiti scorrono insieme luce e veleno, acqua potabile ed epidemie, che dalle giunture, gratuitamente, vanno a schizzare tra gli uomini. La società non è altro che un’opera idraulica, enorme e gratuita, che permette tale guazzabuglio; ognuno è un doccione che, passando di bocca in bocca, si getta in una sorgente torbida e così si mischia, gravido e contagioso, infruttuoso e ignobile; per questo non c’è nessuna proprietà, nessun diritto e nessun potere. Il linguaggio è un bene comune dove tutti fanno il bagno, che tutti respirano, e tutti producono.

Speranza e dottrina degli utopisti è che un giorno l’intera natura divenga comune così come lo è il linguaggio; ciò accadrà quando ogni proprietà sarà, come il linguaggio, condivisa e a buon mercato.


  1. Fritz Mauthner, Das philosophische Werk. Beiträge zu einer Kritik der Sprache, Böhlau, Wien-Köln-Weimar, vol. III, p. 520. ↩︎

  2. Fritz Mauthner, Beiträge zu einer Kritik der Sprache, cit. alla nota 1, vol. II, p. 453. ↩︎

  3. Fritz Mauthner, Beiträge zu einer Kritik der Sprache, cit. alla nota 1, vol. I, p. 49. ↩︎

  4. Ludwig Wittgenstein, Logisch-philosophische Abhandlung, in Annalen der Natur-Philosophie XIV, pp. 185-262; trad. ingl. di C.K. Ogden, Tractatus logico-philosophicus, Routledge and Kegan, London, 1922; trad. it. di G. Conte, Einaudi, Torino, 1964, p. 43. ↩︎

  5. Fritz Mauthner, Erinnerungen: Prager Jugendjahre, G. Müller, München, 1918, p. 30. ↩︎

  6. Cfr. Fritz Mauthner, Beiträge zu einer Kritik der Sprache, cit. alla nota 1, vol. I, pp. 306-308. ↩︎

  7. Fritz Mauthner, Beiträge zu einer Kritik der Sprache, cit. alla nota 1, vol. III, p. 13. ↩︎

  8. Fritz Mauthner, Beiträge zu einer Kritik der Sprache, cit. alla nota 1, vol. I, p. 22. ↩︎

  9. Fritz Mauthner, Beiträge zu einer Kritik der Sprache, cit. alla nota 1, vol. I, p. 19. ↩︎

  10. Se Mauthner differenzia tra lingua storico-naturale e linguaggio è pur vero che entrambe le accezioni sono implicate nella parola tedesca «Sprache». Nella traduzione la si è resa generalmente con ‘linguaggio’, talora con ‘lingua’, cercando di cogliere, di volta in volta, il senso in italiano più vicino; si dovrebbe comunque tener conto che così si rende solo una parte del significato della parola, fondamentalmente ambigua. ↩︎

  11. Gli studiosi che più diffusamente hanno trattato quest’argomento sono stati Joachim Kühn e Katherine Arens. Il primo si è occupato per lo più delle recensioni favorevoli a Mauthner, la seconda invece di quelle critiche. Cfr. Joachim Kühn, Gescheiterte Sprachkritik: Fritz Mauthners Leben und Werk, de Gruyter, Berlin-New York, 1975, pp. 211-225 e Katherine Arens, Functionalism and Fin de siècle: Fritz Mauthner’s Critique of Language, Lang, New York-Bern-Frankfurt am Main, 1984, pp. 44-78. ↩︎

  12. Il rapporto tra Mauthner e la letteratura del Novecento è stato approfondito da Kühn e Eschenbacher; cfr. Joachim Kühn, Gescheiterte Sprachkritik, cit. alla nota 11, pp. 1-50 e W. Eschenbacher Fritz Mauthner und die Deutsche Literatur um 1900: Eine Untersuchung zur Sprachkrise der Jahrundertwende, Lang, Frankfurt am Main, 1995. . ↩︎

  13. Cfr. Gustav Landauer, Skepsis und Mystik: Versuche im Anschluss an Mauthners Sprachkritik, E. Fleischel, Berlin, 1903; Max Krieg, Fritz Mauthners Kritik der Sprache, Georg Müller, München, 1914; Walter Eisen, Fritz Mauthners Kritik der Sprache. Eine Darstellung und Beurteilung vom Standpunkt eines kritischen Positivismus, Braumüller, Wien, 1929. ↩︎

  14. Cfr. Gershom Weiler, Mauthner’s Critique of Language, Cambridge University Press, Cambridge, 1970. Tale studio fu preceduto in realtà da un articolo di Weiler e di Leinfellner, che però ebbero un impatto decisamente minore; cfr. Gershom Weiler, «On Fritz Mauthner’s Critique of Language», Mind, vol. 67, 1958, pp. 80-87 e Elisabeth Leinfellner, «Zur nominalistischen Begründung von Linguistik und Sprachphilosophie: Fritz Mauthner und Ludwig Wittgenstein», Studium Generale, Bd. 22, 1969, pp. 209-251. ↩︎

  15. Cfr. Katherine Arens, Functionalism and Fin de siècle, cit. alla nota 11. ↩︎

  16. Cfr. W. Eschenbacher, Fritz Mauthner und die Deutsche Literatur, cit. alla nota 11. ↩︎

  17. Cfr. Martin Kurzreiter, Sprachkritik als Ideologiekritik, Lang, Bern, 1993. ↩︎

  18. Cfr. Liliana Albertazzi Fritz Mauthner: la critica della lingua, Carabba, Lanciano, 1986. ↩︎

  19. Cfr. Elisabeth Bredeck, Metaphors of Knowledge: Language and Thought in Mauthner’s Critique, Wayne State University Press, Detroit, 1992. ↩︎

  20. È chiara l’allusione all’inizio del Vangelo di Giovanni. [NdT]. ↩︎

  21. «Ma la natura non crea nazioni, essa crea soltanto individui». Baruch Spinoza, Trattato teologico-politico, La Nuova Italia, Firenze, 1971, p. 313. [NdT]. ↩︎