1. Introduzione
La forza fa dell’uomo una cosa. Intanto in senso letterale, uccidendolo. L’uomo che la morte rende improvvisamente una cosa, l’Iliade dipinge venti volte questo quadro.1
Uno dei concetti cardine della filosofia di Simone Weil, quello di «necessità», di «forza» cieca, si ritrova perfettamente rappresentato ne L’Iliade poema della forza (iniziata a scrivere già nel ’33 ma ultimata nel ’39-’40). L’opera tratta del poema omerico in cui le pesanteur della necessità ricopre ogni cosa col suo velo che obbliga a sognare, rendendo chiunque sia sottomesso alla «forza» «una cosa nel senso più letterale della parola»2. L’Iliade insegna che nessuno a questo mondo può veramente possedere la forza, e che tutti sono indistintamente in balìa del «destino cieco» che può trasformare improvvisamente il vincitore in vinto. Tutto risulta avvilito dal contatto con la forza: «il freddo dell’acciaio è ugualmente mortale all’impugnatura come alla punta»,3 scrive Weil. La vera disgrazia dell’essere umano è ignorare la sua inevitabile condizione di «sventurato»: che «il forte non è mai assolutamente forte, né il debole assolutamente debole»4.
Secondo la riflessione weiliana, questo «quadro uniforme d’orrore», in cui l’uomo sembra essere completamente soggiogato dalla necessità, si manifesta nel suo tempo sotto forma dell’oppressione sociale. La forza, che per l’uomo primitivo si presentava nei bisogni naturali e nella subordinazione obbligata alla natura, secondo Weil, si manifesta oggi nella sottomissione dell’individuo alla collettività sociale. In altre parole, potremmo dire che l’«oppresso» a cui si riferisce la filosofa sia la declinazione storica della figura ontologica dello «sventurato» nella modernità. Quest’ultima, come dicevo prima, è infatti una condizione subìta da tutti, indistintamente dal ceto di provenienza e dalle contingenze pratiche, in quanto tutti gli esseri umani sono eternamente inseriti nell’ordine incontrovertibile e imprescindibile del mondo, la cui necessità è sovente percepita dall’uomo come cieco destino. L’analisi della natura dell’oppressione viene svolta in particolare nelle Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934), opera in cui la filosofa tenta di ricostruire le condizioni materiali che avrebbero determinato quel distacco tra l’essere umano e la realtà da lei ritenuto caratteristico del suo tempo. Proprio per tale motivo, in questo studio ho deciso di confrontarmi in particolar modo con questo testo, seguendo come filo conduttore il rapporto che intercorre fra l’essere umano e le cose. L’economia con le cose del mondo viene definita dalla giovane Weil inautentica: l’uomo moderno si scontra con l’impossibilità di raggiungere le cose nell’esperienza del mondo, constatando di essere stato ridotto a «cosa fra le cose».
Tuttavia, lo spirito temerario della filosofa francese non si ferma alla semplice constatazione della «società della perdita» (per usare un’espressione di Cristina Campo, sua allieva spirituale), bensì individua nelle idee di «pensiero metodico» e «azione efficace» delle modalità «quotidiane» che possono portare l’essere umano a rendersi consapevole delle maglie strette del necessario. In questa prospettiva, il pensiero weiliano non farà pendere l’ago della bilancia, ad esempio, dalla parte del soggetto come ha fatto la metafisica occidentale in particolar modo da Cartesio sfociando nel culto dell’individualismo contemporaneo, o viceversa elevando le cose – liberate dal coagulo di significati umani – al di sopra dell’uomo. Ciò che vorrei sottolineare è che la risposta weiliana è invece quella di appropriarsi di questa distanza fra l’essere umano e le cose facendola emergere. Simone Weil propone pertanto la pratica del «lavoro» come spazio di relazione in cui l’essere umano – in quanto lavoratore – e le cose del mondo – in quanto cose lavorate – si incontrano. Sicché, nell’impossibilità di una presa «diretta» sul mondo, l’unica via percorribile è per Weil il riconoscimento del distacco stesso che emerge fra l’uomo e il mondo e la possibilità di ristringere ogni volta, nell’emersione di questo rapporto nella pratica del lavoro, «il patto originario dello spirito con l’universo»5. Quel patto che implica la totale ubbidienza all’ordine armonico delle cose, poiché nella riflessione poliedrica e amante della «contraddizione» di Weil, la «necessità», che sul piano della materia e sovente dei rapporti umani prende il significato di «forza» cieca, su di un piano ermeneutico «superiore» significa allo stesso tempo «l’equilibrio dei rapporti» fra le cose, dunque l’«ordine» dell’universo, e ancora «amore» nel suo essere anche «giustizia»: «la necessità è, rispetto all’individuo, ciò che vi è di più basso – costrizione, forza, «una dura necessità» – la necessità universale libera da essa»6. Sicché, il poeta dell’Iliade è riuscito, secondo Weil, a farsi «specchio» riflettendo gli inconciliabili che nel pensiero weiliano assurgono a contraddizione fondamentale e indissolubile; è riuscito a far trasparire dagli eventi della guerra di Troia una verità, per Weil, incontrovertibile: che dal riflesso della forza emerge la giustizia, dalla guerra l’amore.
2. Il mito del progresso
Il processo storico che avrebbe portato al mito del progresso viene analizzato in particolare nelle Riflessioni. Le analisi riportate in questo scritto sono quanto di più lucido si possa chiedere ad una giovane donna di venticinque anni. Ancora oggi, se lette con attenzione, dischiudono un orizzonte ben definito della sua contemporaneità e del percorso storico che ne ha determinato la deriva. L’idea del progresso è considerata una delle malattie più pericolose per l’essere umano. Nella prospettiva weiliana, l’errore di Marx, quanto quello dei bolscevichi, fu di alimentare il mito del progresso, nonostante venisse concepito nella logica opposta a quella del capitalismo. Una volta estirpate le forme capitalistiche dell’economia che tengono in pugno la tecnica, e una volta lasciato ad essa lo spazio di svilupparsi diversamente dalla linea specializzante e degradante che le aveva imposto il sistema capitalista, allora – secondo Marx – si sarebbe riusciti ad «alleggerire ogni giorno di più il peso della necessità materiale, e per una conseguenza immediata quello della costrizione sociale»7. Ma questa idea, secondo Weil, si rivela essere una menzogna dovuta alla mancanza di rigore scientifico.8 La dottrina marxista, infatti, non sarebbe altro che una mutazione di termini di quella hegeliana. Quello che Hegel identificava con Spirito, nella teoria marxista diventa materia, la quale pertanto assume «una perpetua aspirazione al meglio»:
Trasferire il principio del progresso dallo spirito alle cose significa dare un’espressione filosofica a quel «rovesciamento del rapporto tra soggetto e oggetto»; nel quale Marx vedeva l’essenza stessa del capitalismo. Lo sviluppo della grande industria ha fatto delle forze produttive la divinità di una sorta di religione.9
L’inusuale accostamento di Marx a termini quali «religione» e «provvidenza», si manifesta negli scritti weiliani in affermazioni perentorie quali: «tutte le religioni fanno dell’uomo un semplice strumento della Provvidenza, e anche il socialismo mette gli uomini al servizio del progresso storico, vale a dire del progresso della produzione»10. Tuttavia, la grande intuizione di Marx resta per Weil quella di aver individuato un’analogia tra natura e società che si gioca sul concetto di materia: «nella società come nella natura tutto si svolge mediante trasformazioni materiali»11. In tal prospettiva, risulta dunque necessario riflettere su queste condizioni materiali in quanto determinanti per la capacità di azione dell’essere umano, incentrando la riflessione sulle modalità in cui l’uomo risponde ai bisogni naturali. Infatti, «nell’ambito sociale queste condizioni sono definite dal modo in cui l’uomo obbedisce alle necessità materiali provvedendo ai propri bisogni, in altri termini dal modo di produzione»12. L’analisi del progresso doveva essere un compito del marxismo, ma il problema secondo Weil non è stato neanche affrontato. Soprattutto per quanto riguarda il progresso tecnico, afferma Weil, «il problema è capitale»:
è bastato che negli ultimi tre secoli il rendimento dello sforzo umano aumentasse in modo inaudito per aspettarsi che questa crescita prosegua allo stesso ritmo. La nostra cultura cosiddetta scientifica ci ha dato la funesta abitudine a generalizzare, a estrapolare arbitrariamente, invece di studiare le condizioni di un fenomeno e i limiti che esse implicano.13
Nelle Riflessioni, la filosofa avvertiva che l’idea di un progresso sempre in aumento, senza alcun limite, è in realtà inconcepibile: «solo l’ebbrezza prodotta dalla rapidità del progresso tecnico ha potuto far nascere la folle idea che il lavoro potrebbe un giorno diventare superfluo»14. Infatti, anche nelle forme primitive di produzione, se da una parte l’essere umano risulta libero dagli altri uomini e «in contatto immediato con le condizioni della propria esistenza»15, dall’altra è perennemente soggiogato dai suoi bisogni e quindi assoggettato al dominio della natura. Di ciò, afferma Weil, ne è un chiaro segno la divinizzazione della natura da parte dell’essere umano primitivo.
Osservando questo processo storico, sembra che l’essere umano passi gradualmente da uno stato di asservimento nei confronti della natura, al dominio esercitato su di essa. Tuttavia, per Weil, questa è solo un’apparenza. A suggerire tale impressione è il fatto che la sottomissione dell’essere umano ad una forza esterna avviene gradualmente in modo meno immediato nei confronti della collettività rispetto a quanto accadeva con la sua subordinazione alla natura. L’azione non aderisce più al solo fine del soddisfacimento dei propri bisogni per rispondere al tormento della natura. L’uomo inizia a dilatare lo spazio e il tempo e dunque l’orizzonte delle sue azioni, inizia a produrre non solo per un soddisfacimento immediato, ma riservandosi i risultati di una produzione avvenuta oggi per soddisfare i bisogni di domani. Nonostante questa apparenza, avverte Weil, la pressione della natura si fa sentire in modo indiretto, infatti, «l’azione umana continua, nell’insieme, a essere pura obbedienza al pungolo brutale di una necessità immediata; solo che, invece di essere tormentato dalla natura, l’uomo è ormai tormentato dall’uomo»16. Del resto, «l’oppressione si esercita mediante la forza e (…) ogni forza ha la sua origine nella natura»17. Tuttavia, l’oppressione sociale deriva da condizioni oggettive, come l’esistenza dei privilegi che infatti non sono sanciti dagli uomini, bensì – spiega Weil – dalla natura delle cose. I privilegi, continua Weil, non possono essere ripartiti fra i molti, per definizione possono solo appartenere a pochi. Se in passato alla cerchia dei privilegiati appartenevano coloro che detenevano il potere spirituale, oggi «questo monopolio non consiste più in riti, ma in procedimenti scientifici, e coloro che lo detengono si chiamano scienziati e tecnici piuttosto che sacerdoti»18.
3. La corsa al potere
Nelle Riflessioni Weil menziona accanto ai privilegi, quale altra causa dell’oppressione, la lotta per il potere. L’analisi weiliana del potere si risolve nella definizione di instabilità. Il potere stabile non esiste, al suo posto può esservi solo una perpetua corsa al potere, che dunque «asservisce tutti, potenti e deboli»: «così Agamennone che immola sua figlia rivive nei capitalisti che, per conservare i propri privilegi, accettano a cuor leggero guerre che possono rapire loro i propri figli»19. Infatti, scrive Weil:
Il vero e proprio soggetto dell’Iliade è l’impero della guerra sui guerrieri e, mediante loro, su tutti gli esseri umani; nessuno sa perché ciascuno si sacrifichi, e sacrifichi tutti i suoi a una guerra micidiale e senza oggetto, ed è per questo che, lungo tutto il poema, viene attribuito agli dèi l’influsso misterioso che fa fallire le trattative di pace, riaccende continuamente le ostilità, riporta indietro i combattenti che un lampo di ragione aveva spinto ad abbandonare la lotta. In questo antico e meraviglioso poema appare già in questo modo il male essenziale dell’umanità, la sostituzione dei mezzi ai fini.20
La mancanza di aderenza dell’azione sulla realtà, ossia l’impossibilità di afferrarne i risultati a causa della modalità indiretta che caratterizza l’azione, ha portato secondo Weil ad una condizione esistenziale paradossale: «che ciascuno sacrifichi la vita umana, in sé e negli altri, per cose che costituiscono solo dei mezzi per vivere meglio»21. Questa condizione, che sacrifica a tutti gli effetti l’essere umano, è causata dal potere e dal fatto che esso non possa mai essere posseduto interamente o per un tempo stabile. Pertanto, poiché avere potere significa disporre di mezzi che possono opporsi alla forza, e dato che la corsa al potere è destinata a non possedere mai il suo oggetto, la considerazione del fine dell’azione decade nell’oblio, e la ricerca di potere .– che è «mezzo» – «giunge, per un rovesciamento inevitabile, a prendere il posto di tutti i fini»22. In merito Weil scrive:
Èquesto rovesciamento del rapporto fra il mezzo e il fine, è questa follia fondamentale che rende conto di tutto ciò che vi è d’insensato e di sanguinoso nel corso della storia. La storia dell’umanità viene a coincidere con la storia dell’asservimento che fa degli uomini, oppressi e oppressori, il puro zimbello degli strumenti di dominio che essi stessi hanno fabbricato, e riduce così l’umanità vivente a essere cosa fra le cose inerti.23
In questo modo le cose diventano ciò che fornisce il limite e le leggi alla corsa al potere, la quale è diventata l’essenza stessa dell’esistenza sociale dell’essere umano, fine indiscusso sancito solamente dalle condizioni materiali. Tuttavia, vi è una «contraddizione interna» al fenomeno del potere. Quest’ultimo, secondo Weil, tende inevitabilmente a premere contro i limiti dettati dalla natura delle cose: «esso si estende al di là di ciò che può controllare; comanda al di là di ciò che può imporre; spende al di là delle proprie risorse»24. È questo ciò che Weil chiama «un germe di morte»25 interno ad ogni forma di regime oppressivo, che lo condanna al suo inevitabile declino:
Èdunque la natura stessa delle cose a costituire quella divinità giustiziera che i Greci adoravano sotto il nome di Nemesi, e che punisce la dismisura.26
Ma lo sprofondamento dato dal tentativo di oltrepassare il limite non è qualcosa che accade in un momento. Secondo Weil la storia conosce solo «lente trasformazioni». Quelle cesure storiche che chiamiamo «rivoluzioni», intese come «rovesciamento improvviso dei rapporti di forza», sono per Weil qualcosa di inconcepibile: «perché sarebbe una vittoria della debolezza sulla forza, l’equivalente di una bilancia in cui si abbassasse il piatto meno pesante. (…) Ma qualunque siano le forme assunte dalle trasformazioni sociali, se si tenta di mettere a nudo il meccanismo non si percepisce altro che un tetro gioco di forze cieche, le quali si uniscono o si urtano, progrediscono o declinano, si sostituiscono le une alle altre, senza smettere mai di stritolare sotto di loro gli sventurati umani»27. Vi è dunque un «equilibrio misterioso», che unisce in modo proporzionale l’oppressione sociale e il progresso della tecnica: quanto più l’uomo si illude di detenere la potenza per disporre della natura a suo piacimento, tanto più l’aderenza ad essa si affievolisce in nome di stratificazioni sociali altrettanto opprimenti. Scrive Weil: «sembra che l’uomo non riesca ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire nella stessa misura quello dell’oppressione sociale»28.
4. La collettività anonima
L’uomo si è rimesso alla collettività, l’unica in grado di affrancarlo dal peso che la natura esercitava su di lui, ma al prezzo di far succedere alla natura la collettività, la quale schiaccia in modo analogo l’individuo. Infatti, se l’uomo primitivo era totalmente soggiogato dai suoi bisogni, e dunque dalla natura – e per questo costituiva forme divinizzanti la forza naturale che lo opprimeva – l’umanità ora, grazie alla tecnica, avverte se stessa come una collettività dominante la natura che può disporre di essa a suo piacimento. Tuttavia, Weil sostiene che questo ragionamento non tiene quando si passa al livello dell’individuo, il quale nell’epoca moderna è altrettanto asservito ad una forza brutale quanto lo era l’uomo primitivo, e forse ancora di più:
per quanto un uomo primitivo potesse essere sottomesso alla ripetitività e a muoversi alla cieca, poteva almeno tentare di riflettere, di combinare e innovare a proprio rischio e pericolo, libertà di cui un lavoratore alla catena di montaggio è assolutamente privato.29
Il progresso, preso nella sua accezione positiva, ossia di mezzo grazie al quale l’uomo moderno può assicurarsi la sopravvivenza con più facilità dell’uomo primitivo, può essere per definizione attribuito esclusivamente alla collettività umana. Invece, gli individui presi singolarmente non possono disporre di questa vittoria poiché sono tutti, senza eccezione alcuna, sottomessi al gioco del potere. Bisogna quindi capire il meccanismo del transfert compiuto dall’essere umano, il quale se prima era asservito alla materia inerte, ora è invece sottomesso alla società a cui appartiene e che lui stesso contribuisce a mantenere e nutrire, per di più estendendola pericolosamente, così da rischiare di farle «oltrepassare la portata di uno spirito umano»30.
Weil ritrova nel contemporaneo l’apice di un ideale della forma contrapposto alla capacità di azione e di pensiero: «mai l’individuo è stato così completamente abbandonato a una collettività cieca, e mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai loro pensieri, ma persino di pensare»31. La collettività sociale e impersonale altro non è che «una macchina per fabbricare incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia, e soprattutto vertigine»32. Tale condizione è il segno del totale «squilibrio», della «sproporzione» fra lo spirito dell’uomo, il corpo dell’uomo, e le cose che incontra nella realtà. Questo disordine, esteso a tutti i campi dell’esistenza umana, si mostra in maniera evidente soprattutto nelle nuove generazioni, che «più degli altri riflettono in loro stessi il caos che li circonda»33. Come non scorgere in queste parole i sintomi della malattia che oggi è in pieno sfogo purulento:
In apparenza quasi tutto ai giorni nostri si realizza metodicamente; la scienza è sovrana, il macchinismo invade a poco a poco tutto l’ambito del lavoro, le statistiche assumono un’importanza crescente e, su un sesto del globo, il potere centrale tenta di regolare l’insieme della vita sociale in base a dei piani. Ma in realtà lo spirito metodico sparisce progressivamente, per il fatto che il pensiero ha sempre meno la possibilità di afferrare qualcosa.34
Tutto assume una complessità che implica distanza. In altre parole, così come la scienza è divenuta un’opera collettiva, per cui anche i risultati di una scoperta scientifica sono talmente attraversati da un insieme complesso di rapporti che neppure l’inventore è in grado di averli tutti presenti alla mente, allo stesso modo anche la vita pratica ha assunto una complessità rintracciabile nel suo esser divenuta puramente collettività. Per citare nuovamente le parole di Weil, sembra che ogni cosa nella dimensione sociale superi la portata di uno spirito umano. In merito, la filosofa spiega:
Quanto all’insieme della vita sociale, questa dipende da fattori così numerosi, ciascuno dei quali è impenetrabilmente oscuro e mischiato con gli altri in rapporti inestricabili, che a nessuno verrebbe neppure l’idea di tentare di concepirne il meccanismo. Così la funzione sociale più essenzialmente legata all’individuo, quella che consiste nel coordinare, dirigere, decidere, oltrepassa le capacità individuali e diventa in una certa misura collettiva e come anonima.35
La perdita di rapporti sensati con le cose ha dunque la sua causa nella vita sociale, nel «grosso animale»36 di cui parlava Platone, che permette relazioni soltanto nella dimensione illusoria del sogno e della menzogna. Tale immaginario deviato e distante dalla realtà delle cose ha tuttavia ripercussioni reali, poiché ogni idolo, ogni mostro fantasticato nella mente collettiva, è capace di muovere gli animi e quindi implica conseguenze effettive nella dimensione del reale. In altre parole, l’immaginazione «fornisce» o «ruba» energia, nondimeno questa è sempre «energia reale»37. Scrive Weil: «l’immaginazione è qualcosa di reale. In un certo senso la realtà principale. Ma in quanto immaginazione»38. Nei Quaderni, Simone Weil annota: «tentazione della vita interiore (tutti i sentimenti che non sono immediatamente bevuti dal pensiero metodico e dall’azione efficace). Bisogna annoverarvi tutti i pensieri, tutte le azioni che non raggiungono l’oggetto»39. Tali sentimenti sono propri della dimensione del sogno, tuttavia resta possibile incontrare le cose senza cadere preda delle trappole dell’immaginazione: «agire, per quanto posso. È tutto»40, continua Weil nello stesso scritto. Come raggiungere, quindi, le cose? Nel testo citato si comprende che la risposta sul «come poter pensare» il mondo, e la stessa condizione del soggetto in relazione al mondo, si deve ricercare nell’azione.
5. «Che fare?»
Molte volte negli scritti di Weil si ritrova la domanda «che fare?». Questa è sintomo di un impulso viscerale all’azione. Del resto, tutta la sua speculazione filosofica è rivolta a trovare soluzioni al «tempo della perdita» che si ritrova a vivere. Le sue esperienze da attivista in Spagna, da lavoratrice in fabbrica e come insegnante liceale, mostrano quanto rinnegasse un pensiero astratto e una vita da «semplice» intellettuale. In questo Weil ha rispecchiato con la sua vita il suo pensiero, se si tiene a mente che, come dicevo prima, la risposta al «come pensare» si ritrova per la filosofa nell’azione. La sua massima coerenza ha fatto di questa regola la «spina nelle carni» che quotidianamente ha reso il suo pensiero «vitale», e «vivo» ancora oggi.
I grandi nemici, invece, dell’esercizio del pensiero individuale al quale Weil tenta di fornire delle nuove condizioni di possibilità, sono la scienza, il macchinismo, le statistiche, il denaro, la burocrazia, i quali subordinano il pensiero cristallizzando la vita collettiva in tali enormi meccanismi. In questo modo, l’incontro con le cose reali diventa sempre più impraticabile, poiché nella vita sociale i rapporti si giocano tra segni che costituiscono la materia della sfera sociale, mentre «la percezione della realtà appartiene all’individuo»41:
Poiché il pensiero collettivo non può esistere come pensiero, esso passa nelle cose (segni, macchine…). Ne consegue questo paradosso: la cosa pensa, e l’uomo è ridotto allo stato di cosa. Dipendenza dell’individuo rispetto alla collettività, dell’uomo rispetto alle cose: una eademque res.42
Pertanto, rileva Weil, il rapporto con le cose oggi sembra passare senza rimedio quasi esclusivamente attraverso la collettività. Ad esempio, i lavoratori che producono un determinato prodotto non possono, nella maggior parte dei casi, raggiungerlo o possederlo senza l’aiuto intermediario della società e del denaro. O ancora, affinché alcuni lavoratori possano raggiungere la materia del lavoro devono prima passare per una collettività che glielo permetta sottoforma di un compito servile. Spiega Weil:
L’uomo è schiavo finché tra l’azione e il suo effetto, tra lo sforzo e l’opera trova posto l’intervento di volontà estranee. Tale è il caso e per lo schiavo e per il signore, al giorno d’oggi. L’uomo non è mai di fronte alle condizioni della propria attività. La società fa schermo tra la natura e l’uomo.43
Il pensiero autentico in tal guisa diviene totalmente inapplicabile. Al suo posto si elevano le cose che divengono ciò che detiene il controllo disponendo di un giudizio di valore. Ma nella sua evidente paradossalità – sostiene Weil – questa condizione ha portato ad un cortocircuito che ha stabilito una cecità imperante, e dunque il caos, in tutti i campi dell’esistenza: «la nostra civiltà è invasa da un disordine continuamente crescente, e rovinata da uno spreco proporzionale al disordine»44. Pertanto, anche la tendenza della vita intellettuale e artistica ad una spinta individualistica – che Weil rinviene nell’arte del suo tempo – risulterebbe essere una semplice reazione a questa forza oppressiva proveniente dalla collettività anonima. Inoltre, «l’impossibilità di mettere in rapporto ciò che si dà e ciò che si riceve ha ucciso il senso del lavoro ben fatto, il sentimento della responsabilità, ha suscitato la passività, l’abbandono, l’abitudine ad aspettarsi tutto dall’esterno, la credenza nei miracoli»45. Tale condizione non può che dare libero spazio all’immaginazione – che per la filosofa è facoltà fautrice di mostri, idoli e menzogne – che ancora di più amplia il divario fra l’essere umano e le cose. L’uomo così disposto crede ossessivamente che «la potenza risieda misteriosamente in uno degli ambienti a cui non ha accesso, perché quasi nessuno comprende che essa non risiede da nessuna parte, cosicché ovunque il sentimento dominante è questa paura vertiginosa che produce sempre la perdita di contatto con la realtà»46. Era solo in un mondo in cui il pensiero autentico non può più essere esercitato, dove vigono solo opinioni, che la forza – che in potenza può tutto – poteva prendere la forma dei regimi totalitari del secolo scorso.
Il grande problema rilevato da Weil è che storicamente gli oppressi che sono riusciti ad opporsi al potere costituito cambiando la loro condizione hanno sempre, loro malgrado, ricostituito un’organizzazione sociale sul modello di quella precedente. Questa tendenza è quasi inevitabile per l’essere umano. L’unico antidoto, osserva Weil, sarebbe quello di una decentralizzazione della vita sociale, atto che dovrebbe essere compiuto metodicamente da tutti, potenti e deboli; tuttavia, «l’assurdità di una simile idea salta subito agli occhi»47. Si deve ricordare però che l’esercizio del pensiero può venire meno solo quando si parla di asservimento di un essere umano nei confronti degli altri uomini. Weil spiega che «soltanto l’uomo può asservire l’uomo. Gli stessi primitivi non sarebbero schiavi della natura se non vi collocassero esseri immaginari analoghi all’uomo, le cui volontà sono peraltro interpretate da uomini»48. Infatti, la natura non potrebbe in alcun modo umiliare l’uomo, questa è una facoltà propria solo di un altro uomo, benché la natura sia assolutamente in grado di sopprimerlo. Ma l’inibizione del pensiero può provenire solo dalla coercizione di un uomo sulla vita di un altro. Tuttavia, sebbene questo asservimento inibisca il pensiero, resta un’azione che può essere individuata da chi la subisce, così come può essere individuato colui che la esercita su colui che è oppresso. Infatti, in siffatta situazione, quest’ultimo sarebbe perlomeno soggiogato da esseri «reali», visibili. Mentre oramai, ed è questa la malattia che Weil attribuisce alla società oppressiva, «qualsiasi uomo, a qualunque rango appartenga, dipende non solo da coloro che si trovano al disopra o al di sotto di lui, ma innanzitutto dal gioco stesso della vita collettiva, gioco cieco, che da solo determina le gerarchie sociali; (…) Ora se c’è al mondo qualcosa di assolutamente astratto, assolutamente misterioso, inaccessibile ai sensi e al pensiero è la collettività»49.
Questa condizione si può e si deve affrontare, nuovamente, armandosi di consapevolezza, tentando cioè di conoscere tale collettività affinché si possa agire su di essa. Del resto, l’individuo resta al di sopra della collettività solo quando si tratta del pensiero. Una collettività non pensa, ricorda a più riprese Weil nei suoi scritti, «poiché il pensiero si forma soltanto in uno spirito che si trova a essere solo dinanzi a se stesso»50. Inoltre, la facoltà di pensare è l’unica cosa che l’uomo possa fornire alla società che essa non possa fornirsi da sola. Il legame di dipendenza da parte della collettività nei confronti del singolo è ciò che fa del pensiero – il quale non è possibile suscitare coercitivamente nella mente di alcuna persona – una forza nelle mani dell’individuo:
La collettività è più potente dell’individuo in tutti gli ambiti, salvo uno solo: il pensare. (…) Il pensiero costituisce una forza e dunque un diritto unicamente nella misura in cui interviene nella vita materiale.51
L’ideale di società in cui la collettività è sottomessa agli uomini, e non viceversa, prevede «una forma di vita materiale in cui intervengono solo gli sforzi diretti esclusivamente del pensiero illuminato»52. Ciò vorrebbe dire che ogni azione, tanto nella vita quanto nel lavoro, sarebbe accompagnata dal pensiero metodico:
Essere di fronte alla natura, non agli uomini, è la sola disciplina. Dipendere da una volontà estranea vuol dire essere schiavi. Ora, è questa la sorte di tutti gli uomini. Lo schiavo dipende dal signore e il signore dallo schiavo. (…) Al contrario, di fronte alla materia inerte non vi è altra risorsa che pensare.53
6. Il pensiero metodico e l’azione efficace
Ma cosa intende Simone Weil quando parla di «pensiero metodico»? Si tratta di un pensiero che è consapevolezza della necessità a cui è sottoposto il mondo e l’esistenza umana e che implica l’assunzione di un metodo che rispetti tale necessità. È un pensiero, ma lungi dall’essere astratto è altresì ancorato al reale in quanto conscio dell’ordine necessario del mondo, e inoltre, in quanto intessuto di un metodo che rispetta e applica tale ordine.
L’«azione efficace», invece, attiene alla materia per via del limite costitutivo della sua essenza. Un’azione, infatti, è sempre compiuta da un corpo, ed il corpo, per definizione, resiste al pensiero. Tuttavia, questo limite partecipa della materia subendone le stesse leggi necessarie. Pertanto, sia il pensiero metodico, sia l’azione efficace, riconducono l’essere umano all’ordine della necessità. Contrariamente, la «libertà» della società della tecnica deresponsabilizza, tutto manca di metodo. L’azione ha perso aderenza sulla realtà e il pensiero il suo oggetto: «il bisogno stesso di libertà, così essenziale per l’intelligenza, esige una protezione contro la suggestione, la propaganda, l’influenza ottenuta con l’ossessione. Sono forme di costrizione, una costrizione particolare, non accompagnata dalla paura o dal dolore fisico, ma che nondimeno è una violenza. A questo tipo di costrizione la tecnica moderna fornisce strumenti estremamente efficaci. Questa costrizione, per sua natura, è collettiva e le anime umane ne sono vittime»54. In merito a ciò, Weil sostiene che, ad esempio, quando avviene una repressione dei mezzi di comunicazione perché utilizzati contro i principi morali riconosciuti universalmente ciò non comporta una limitazione della libertà d’opinione. Un giornale può essere soppresso giacché i singoli giornalisti non subirebbero alcuna censura, potrebbero comunque continuare ad esprimersi, solo non più tramite quel canale. Questo perché, come ho detto sopra, la libertà appartiene al singolo, e l’intelligenza non può essere esercitata collettivamente. Quindi nessun gruppo può legittimamente aspirare alla libertà d’espressione. Weil ricorda:
bisogna aver cura di distinguere tra oppressione e subordinazione dei capricci individuali a un ordine sociale. Finché ci sarà una società, questa racchiuderà la vita degli individui in limiti molto stretti e imporrà loro le proprie regole.55
Questo è per Weil, inevitabile, anzi necessario. L’ordine viene concepito come uno dei bisogni vitali dell’anima umana. Senza di esso, l’essere umano non potrebbe mai tendere al bene. Se la necessità non può e non deve essere eliminata, bisognerebbe, piuttosto, concepire un nuovo modo di organizzare la produzione senza che essa provochi l’oppressione «degli spiriti, e dei corpi». Per fare ciò, occorre prima capire il meccanismo dell’oppressione, e il suo legame con la produzione. Come rileva Gianfranco Gaeta: «il progresso sociale viene allora a dipendere non da una necessità storica indefinibile, ma dalla possibilità per gli individui di agire responsabilmente in una realtà sociale chiaramente definita»56. Come afferma Weil in merito:
La buona volontà illuminata degli uomini che agiscono in quanto individui è l’unico principio possibile del progresso sociale; se le necessità sociali, una volta colte con chiarezza, si rivelassero al di fuori della portata di questa buona volontà, alla stregua di quelle che reggono gli astri, ciascuno dovrebbe limitarsi all’assistere allo svolgersi della storia come si assiste al succedersi delle stagioni, facendo tutto il possibile per evitare a se stessi e agli esseri amati la sventura di essere o uno strumento o una vittima dell’oppressione sociale. Ma, se le cose stanno diversamente, bisognerebbe innanzitutto definire a titolo di limite ideale le condizioni oggettive che consentirebbero un’organizzazione sociale dove non vi sia traccia di oppressione; quindi esaminare con quali mezzi ed in quale misura è possibile trasformare le condizioni effettivamente date in modo da avvicinarle a questo ideale; trovare qual è la forma meno oppressiva di organizzazione sociale per un insieme di condizioni oggettive determinate; infine definire in questo ambito il potere d’azione e la responsabilità degli individui considerati come tali. Solamente a questa condizione l’azione politica potrebbe diventare qualcosa di analogo a un lavoro, invece di essere, come è stato finora, o un gioco o una branca della magia.57
Del resto, «si direbbe che l’uomo nasca schiavo e la servitù sia la condizione che gli è propria»58, poiché, dallo stato di natura alla società, non ha sperimentato altro che un duplice dominio mai interrotto. Nonostante ciò, l’uomo non può fare a meno di aspirare alla libertà. Per questo Weil non si trattiene nelle Riflessioni dal delineare un quadro teorico di una società libera, sostenendo che la libertà, piuttosto che essere sognata, deve essere concepita. Concepire la libertà vuol dire passare per un ideale, che sarebbe la forma necessaria per pensare ad un concetto, mirando alla perfezione. L’ideale, differentemente dal sogno, mantiene un rapporto con la realtà, e proprio per questo l’ideale di libertà non aspirerebbe alla cancellazione appunto utopica della necessità. Per dirla con le parole di Weil:
la libertà perfetta non può essere concepita come se consistesse semplicemente nella scomparsa di quella necessità la cui pressione subiamo perpetuamente; finché l’uomo vivrà, vale a dire finché egli costituirà un infimo frammento di questo universo spietato, la pressione della necessità non si allenterà mai un solo istante.59
L’idea di un’assenza totale di ogni necessità non sarebbe peraltro una prospettiva desiderabile. Ad esempio, una vita senza lavoro, senza compito alcuno né bisogni, e dunque, senza nessun ostacolo da affrontare, sarebbe una vita preda delle emozioni: «sono gli ostacoli con i quali ci si scontra e che occorre superare a fornire l’occasione per vincere se stessi»60. In altre parole, per Weil l’anima ha bisogno di ordine per non cadere nella follia e nel gioco delle passioni, «e non c’è altra fonte di disciplina per l’uomo oltre lo sforzo richiesto dagli ostacoli esterni»61. L’uomo libero è quello che assume la «concezione eroica» della «saggezza comune». In questo senso, la libertà non si gioca nel rapporto tra il desiderio e il suo soddisfacimento, bensì tra il pensiero e l’azione. La concezione weiliana della libertà prevede che l’essere umano disponendo di pensiero razionale possa porsi autonomamente un fine, prevedendo i mezzi necessari a tale compimento, e contestualmente possa rendersi consapevole dell’inevitabile necessità a cui è subordinato. Proprio tale lucidità consente all’uomo di «conformarsi alla raffigurazione interiore che egli se ne forgia»62, anziché soccombere ciecamente a tale necessità. Dunque, l’uomo libero coincide con l’uomo consapevole, colui che dispone totalmente della propria sorte in quanto predispone il pensiero nei confronti di ogni istante vissuto, concependo ogni volta le proprie azioni attraverso un’attenta analisi dei mezzi necessari e del fine proposto:
Non è possibile concepire nulla di più grande per l’uomo di una sorte che lo mette direttamente alle prese con la necessità nuda, senza che egli possa attendersi nulla se non da se stesso, e tale che la sua vita sia una perpetua creazione di se stesso da parte di se stesso.63
Nei suoi quaderni Weil annota:
definizione concreta di libertà: quando il pensiero dell’azione precede l’azione. (…) quale sarà ora il contenuto di questo pensiero? Non può essere che la necessità, poiché il pensiero non ha altro oggetto che il mondo. Stesso criterio per il lavoro.64
Risulta evidente che tale condizione sia irrealizzabile, poiché le infinite possibilità che dipendono da un’azione sono impossibili da concepire insieme in un atto del pensiero. Inoltre, per quanto l’essere umano possa tentare di far fronte a tutti quei fattori dipendenti dal suo spirito in merito ad un’azione possibile, non potrebbe mai tenere conto dei fattori della contingenza esterna indipendenti da lui. Questo tracciato da Weil è dunque un ideale, che non si può ritrovare nella realtà, «così come la retta perfetta non può essere tracciata dalla matita»65. Tuttavia, nonostante la componente della casualità inibisca questa condizione ideale, Weil afferma lucidamente: «l’uomo potrebbe eliminare il caso, se non attorno a lui, almeno in se stesso; tuttavia anche questo è un ideale inaccessibile»66.
È qui che rientra in gioco ciò che Weil chiama «pensiero metodico». Questo metodo si fonda sull’analogia con le ipotesi scientifiche, la quale ci permette di comprendere fenomeni parzialmente oscuri poiché governati dalle stesse leggi scientifiche di cui sappiamo invece disporre: «questo basta a eliminare, se non l’ignoranza, il sentimento del mistero, e a farci comprendere che viviamo in un mondo dove l’uomo non deve attendersi miracoli se non da se stesso»67. Ciò che l’uomo deve richiedere a se stesso è di non cadere nell’immobilità:
Il segreto della condizione umana è che l’equilibrio tra l’uomo e le forze della natura circostanti «che lo superano infinitamente» non è nell’inazione, bensì soltanto nell’azione con la quale l’uomo ricrea la sua vita: il lavoro.68
Il rapporto fra spirito e materia è ciò che pertiene al problema della conoscenza, come sottolinea Gaeta: «cercare la verità non in astratto, ma attraverso l’atto concreto con cui «l’uomo ricrea la sua vita», significa riflettere aderendo alla natura particolare dell’oggetto assunto come ostacolo, negando ogni spazio al sentimento, al desiderio, all’immaginazione come bisogni di presa illusoria sulle cose. Dunque, sforzo anonimo di penetrazione del pensiero nell’oggetto tramite un lavoro, e quindi ricerca del rapporto tra pensiero e azione, tra soggetto e oggetto, tra spirito e natura, tra limite e illimitato, tra uomo e Dio»69. È importante rilevare l’innegabile matrice cartesiana di questa prospettiva. Nei primi scritti liceali per il suo maestro Alain,70 Simone Weil segue un approccio filosofico rigoroso ereditato dallo studio di Cartesio. Nei confronti del problema della percezione Weil individua le sensazioni come punto di partenza su cui erigere l’analisi filosofica. Nei confronti della «cosa» percepita, Weil ritiene che noi «sentiamo», e questo è indubitabile, ma ciò che sentiamo resta relegato nell’ambiguità. Sebbene l’iniziale dubbio metodico della sua analisi sia una tappa obbligata nello studio che conduce su Cartesio, l’esistenza effettiva del mondo non risulterà nella prospettiva weiliana un nodo problematico.71 Spiega Rita Fulco: «Weil, elaborando il cogito cartesiano, afferma che è proprio il potere di pensare (rivelatoci tramite il fatto che possiamo dubitare delle cose), che rende cosciente il soggetto del fatto di poter affermare io sono, o meglio; io posso (pensare, agire), dunque io sono»^[72] – tale «potenza d’agire» assumerà tutto il suo significato nei riguardi proprio dell’idea di lavoro.72 In merito alla questione della «percezione», Weil sostiene che l’oggetto percepito come «ostacolo» costituisce già un metodo di presa indiretta sulla natura. Quest’ultimo predispone l’essere umano a cogliere la distanza fra sé e il mondo, giacché la percezione non è pura passività in quanto nella ricezione vi è già un «lavoro» per la misurazione dell’ostacolo,73 in cui avviene una lettura di segni provenienti dalla reazione istintiva alle cose del mondo. Ancora, nei Quaderni Weil scrive:
Lettura. Non ci sono date (in un certo senso) altro che sensazioni, e qualsiasi cosa facciamo non possiamo mai, mai pensare (in un certo senso) altro che sensazioni. Ma non possiamo mai pensare le sensazioni; noi leggiamo attraverso di esse. Che leggiamo? Non qualsiasi cosa, a nostro piacimento, neppure qualcosa che non dipenda in alcun modo da noi.74
Nonostante l’eco cartesiano, che implica l’inevitabile distanza fra l’uomo e il mondo, Weil rileva che proprio di questa distanza occorre appropriarsi in un atto che è espressione del legame stesso fra mondo e uomo. Tale azione si risolve nella nozione di «lavoro», in cui la mediazione della «leva»75 riafferma l’incontro con la materia nel suo modo più proprio, ovvero nella modalità indiretta e mediata della pratica del lavoro. È facile notare come il ruolo affidato alla ragione sia in accordo con la riflessione di Cartesio, in virtù di una nozione di «ordine» che sola può guidare la ragione. Simone Weil, infatti, porta avanti l’idea di una morale autonoma deducibile dall’esercizio lucido della ragione e dunque dall’accettazione della necessità come unico significato della libertà.76 Non è un caso che nell’ideale di civiltà pensato da Weil il lavoro manuale sia il valore supremo: «il lavoro manuale deve diventare il valore supremo, non certo per il suo rapporto con ciò che produce bensì per il suo rapporto con l’uomo che lo esegue»77. Un lavoro non meccanico porta ad un contatto autentico con la realtà e asseconda così un avvicinamento fra l’essere umano e le cose. Avvicinandosi molto ai momenti che Weil definirà «soprannaturali» nella speculazione filosofica più matura, il lavoro manuale rende consapevoli, apre gli occhi, conferendo senso e valore alla vita del lavoratore. Weil in merito scrive:
in quei momenti di gioia e di pienezza incomparabili si sa a sprazzi che la vita vera è lì, si prova con tutto il proprio essere che il mondo esiste e che si è al mondo.78
Sopra ho sottolineato che nell’azione efficace il corpo è ciò che, partecipando della materia, fa dell’azione un atto asservito all’ordine della necessità. Questo equilibrio tra lo spirito e il corpo è ciò che è stato dimenticato nell’epoca moderna, e che nel lavoro invece troverebbe il suo luogo di elezione. In merito, Weil afferma: «le condizioni della vita moderna rompono ovunque l’equilibrio dello spirito e del corpo nel pensiero e nell’azione (…) La civiltà in cui viviamo, sotto tutti i suoi aspetti, schiaccia il corpo umano. Lo spirito e il corpo sono divenuti estranei l’uno all’altro. Il contatto è perduto»79. Pertanto, l’unica forma di lavoro concepibile in questo senso è, per Weil, un lavoro sempre accompagnato dal pensiero metodico. Dunque, un «lavoro lucido», che tendi a stabilire «un certo equilibrio tra lo spirito e l’oggetto a cui lo spirito si applica»80.
7. Sul lavoro
Le riflessioni weiliane sul lavoro tentano di ricostruirne un significato di dignità. Secondo Weil «la missione», «la vocazione della nostra epoca è di costituire una civiltà fondata sulla spiritualità del lavoro»81. Quando Weil parla di spiritualità, nei testi ancora precedenti al ’38, si riferisce piuttosto all’amor fati stoico che riconosce nella necessità e nella bellezza il segno dell’ordine e dell’armonia dell’universo. Mentre negli ultimi scritti, specialmente ne La prima radice (1943) al quale farò riferimento in questo paragrafo, si riferisce all’amore per la necessità in virtù di quel radicamento nel «sovrannaturale» che, ad esempio, in uno stato lavorativo ideale, «dovrebbe» essere consaputo o almeno intuito dal lavoratore. Tale radicamento, suggerisce Weil, ad esempio, nel testo del ’43, potrebbe essere avvertito dal contadino attraverso la lettura di alcune parti di carattere «rurale» del Nuovo Testamento.
Cerchiamo per ora di confrontarci con l’idea di lavoro negli scritti precedenti al ’37-’38. Di grande aiuto per capire ciò è l’immagine che Weil ci fornisce della donna intenta nell’esercizio del cucito. Weil pone a confronto due immagini. La prima è quella di una giovane donna incinta che cuce un corredino. Impegnata nell’esercizio concreto del cucire ella non perde di vista il suo compito minuzioso, ma allo stesso tempo non dimentica mai il bambino che porta in grembo, il quale dà quel significato di amore che l’accompagna nel gesto. L’altra immagine, invece, è quella di una donna in carcere nell’intento di cucire bene per paura di venir punita. «Potremmo immaginare», nota Weil, «che le due donne facciano nello stesso momento lo stesso lavoro e che siano attente alla stessa difficoltà tecnica. E nondimeno esiste un abisso di differenza fra l’uno e l’altro lavoro. Tutto il problema sociale consiste nel far passare gli operai dall’una all’altra di queste due situazioni»82. E ancora, «bisognerebbe che questo mondo e l’altro, nella loro doppia bellezza, fossero presenti ed associati all’atto del lavoro, come il nascituro lo è alla preparazione del corredino»83. Inoltre, secondo Weil, una civiltà fondata su tale spiritualità del lavoro sarebbe l’unica in grado di «creare l’unanimità» da parte dei vari movimenti politici. Poiché tutti dicono la stessa e medesima cosa solo in modalità differenti, ovvero «che soffriamo di uno squilibrio dovuto ad uno sviluppo esclusivamente materiale della tecnica»84. L’unico antidoto al distacco dalla realtà sarebbe allora uno speculare sviluppo spirituale «nel medesimo ambito, vale a dire nell’ambito del lavoro»85. La conclusione delle Riflessioni mostra limpidamente il pericolo della collettività e la possibilità di affrancarsene:
Soltanto dei fanatici possono attribuire valore alla propria esistenza unicamente nella misura in cui essa serve una causa collettiva; reagire contro la subordinazione dell’individuo alla collettività implica che si cominci col rifiuto di subordinare il proprio destino al corso della storia. Per risolversi a un simile sforzo di analisi critica basta aver compreso che esso permetterebbe a chi vi si impegnasse di sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’universo.86
Questo «patto originario» fra l’uomo e la natura, e fra l’anima e il suo corpo – lo scrive nei Quaderni –87 è riscontrabile nella pratica del lavoro. Nella speculazione matura, il lavoro assume un ruolo del tutto peculiare. Esso prende posto vicino alla morte, divenendo una delle due forme più elevate di ubbidienza a Dio. La morte e il lavoro fisico nel corso della storia hanno assunto il significato di «castighi», ma accettarli e subirli vuol dire rientrare in quell’ubbidienza all’ordine necessario che nella riflessione matura di Weil diventa ubbidienza a Dio:
Questo è di una evidenza luminosa se, come gli antichi, consideriamo la passività della materia inerte come la perfezione dell’obbedienza a Dio, e la bellezza del mondo come lo splendore della perfetta obbedienza. Quale che sia il significato celeste del mistero della morte, in terra essa è la trasformazione di un essere fatto di carne fremente e di pensiero, di un essere che desidera e odia, spera e teme, vuole e non vuole, in un mucchietto di materia inerte. Il consenso a questa trasformazione è per l’uomo l’atto supremo di obbedienza totale. È per questo che San Paolo dice di Cristo stesso, riguardo alla Passione, «quello che ha sofferto gli ha insegnato l’obbedienza e l’ha reso perfetto». Ma l’accettazione della morte è pienamente reale solo quando essa è presente. L’accettazione è vicina alla pienezza quando la morte è vicina. Quando la possibilità della morte è astratta e lontana, l’accettazione è astratta. Il lavoro fisico è una morte quotidiana.88
Questo perché il lavoro «mortifica» l’uomo, «fa violenza alla natura umana», poiché sottomette al tempo e, dunque, costituisce uno sradicamento dall’io – concetto, quello della rinuncia a tutto ciò che compete la «persona», di capitale importanza in tutta la riflessione weiliana in particolar modo nella speculazione più tarda. In secondo grado rispetto all’accettazione della morte, ma pur sempre più di ogni altra attività umana, il lavoro fisico custodisce questo significato spirituale, e per questo dovrebbe rappresentare per Weil il centro della vita sociale. Nella cultura pre-romana, ricorda Weil, il lavoro fisico è custodito in un’ottica sacra. I mestieri vengono concepiti come diretto insegnamento di Dio, ossia come un divino intervento pedagogico nel mondo. Per i greci, invece, anche se il lavoro era già divenuto un’attività peculiare della condizione di schiavitù, allo stesso tempo tutte le attività umane erano ritenute sacre. È con i romani, invece, che avviene la definitiva decadenza del lavoro, che da quel momento verrà concepito come attività pertinente solo alla schiavitù. Questa predilezione per il lavoro – come ricorda Chiara Zamboni – non è una semplice preferenza morale. Il lavoro, infatti, è ciò che mette in rapporto l’essere umano con la materia. Per compiere un lavoro manuale occorre un’azione sulla materia. Occorre un metodo che valuti le leggi necessarie a cui è sottoposta la materia, e allo stesso tempo la presenza del corpo – anch’esso sottoposto alla necessità – nell’azione.
Questa dinamica implicita nel lavoro permette, secondo Weil, la presa di consapevolezza da parte dell’essere umano della necessità, e un guadagno di realtà. Allo stesso tempo, la pratica del lavoro comporta un certo grado di «attenzione». Quest’ultimo è un concetto molto caro a Weil soprattutto nella speculazione più tarda, che consiste nell’osservare fissamente una cosa, e nell’attesa che qualcosa sopraggiunga da essa – che dunque non sopraggiunga da noi osservatori, ma che provenga dall’esterno. Zamboni spiega: «così nella pratica del lavoro si impara che per spostare un masso occorre una leva. Si ha bisogno cioè di qualche cosa di completamente diverso sia dal masso che abbiamo davanti sia dal nostro desiderio di spostarlo. Un qualche cosa – la leva – che non è deducibile direttamente da una attenzione costantemente rivolta al sasso. Occorre prendere le distanze»89. In questo senso, il lavoro non ha solo un ruolo sociale, giacché detiene in sé la capacità di porre una distanza fra l’essere umano e l’oggetto lavorato. Tale distanza costituisce l’unica modalità che rende visibile la necessità a cui l’essere umano e il mondo sono sempre assoggettati: «ci vuole un lavoro per esprimere il vero. Anche per riceverlo. Si esprime e si riceve il falso, o almeno il superficiale, senza lavoro»90. D’altronde, come ho anticipato sopra, già il percepire è per Simone Weil il risultato di uno sforzo, appunto di un lavoro che predispone al superamento di un «ostacolo». Come puntualizza Chenavier:
l’attività formatrice grazie alla quale si va dall’impressione prima all’oggetto nel mondo non è il giudizio, né la sintesi immaginativa o lo schema kantiano, è il lavoro, che diventa così il vero e proprio schematismo in Simone Weil. Secondo lei non è solo l’oggetto ad essere rappresentato, immaginato nella forma di una previsione di affezioni di cui sarebbe origine se la toccassimo – interpretazione che era quella di Alain. L’immaginazione rende evidente soprattutto la «legge del lavoro» grazie ai movimenti mimati. Con maggior precisione rende evidente la legge geometrica che, a sua volta, esprime la legge del lavoro. Il lavoratore è colui che, agendo secondo le necessità della geometria, prova la verità delle necessità concepite, ne prova la necessità reale.91
Del resto, lo stesso pensiero filosofico di Simone Weil vuole essere «un esercizio della nostra capacità che come un utensile penetra la realtà e prova la nostra presenza al mondo nel senso di un rapporto di lavoro»92. Nel lavoro occorre analizzare i mezzi utilizzati in vista di un fine prefissato. Per essere in grado di funzionare e di portare a quel fine, i mezzi devono accordarsi con le leggi necessarie, con l’ordine della materia, e non ai desideri i quali muovono l’«animale sociale» rovesciando il rapporto fra il mezzo e il fine e portando alla sproporzione. Per questo, il lavoro aiuta l’essere umano ad uscire dall’immaginario. Il lavoro distoglie il lavoratore dal rovesciamento paradossale del rapporto fra il mezzo e il fine, riportandolo all’ordine necessario della materia: «lavoro: sentire in tutto il proprio essere l’esistenza del mondo»93. Per capire cosa Weil intenda con «azione efficace», occorre fare riferimento alla nozione di lavoro nella fisica meccanica. In Sulla scienza Weil scrive:
la scienza classica, promossa dal Rinascimento e soppressa verso il 1900, ha tentato di rappresentare tutti i fenomeni che si producono nell’universo, immaginando, tra due stati successivi di un sistema rilevati dall’osservazione, stati intermedi analoghi a quelli attraverso i quali passa un uomo che fa un lavoro semplice (…) la scienza classica arrivò infine a sottomettere qualsiasi studio della natura ad una nozione unica, derivata direttamente dalla nozione di lavoro: alla nozione di energia. Lagrange, basandosi su ciò che avevano scoperto Bernoulli e D’Alambert, e attraverso il calcolo differenziale, arrivò a definire, con una formula unica, tutti i possibili stati di equilibrio o di movimento di qualsiasi sistema di corpi sottomessi a forze qualsiasi, formula che può avere rapporto solo con distanze e forze – oppure, il che è lo stesso, con masse e velocità –, e cioè con qualcosa di analogo al peso.94
Per spiegare come l’azione umana possa entrare in una relazione di contrasto con la gravità esercitata dalla «forza», Weil fa riferimento al concetto di «energia» nato in fisica traslandolo analogicamente sul piano dell’umano. Accanto all’energia vegetativa, la quale pertiene solo allo sforzo per la sopravvivenza, vi è l’energia spirituale. Quest’ultima è una spinta impersonale a «salire» verso l’alto, che si oppone al peso della gravità esercitato dalla forza. Weil in merito afferma: «la forza di gravità è la costrizione che noi subiamo, la catena; salire è soprannaturale; il cielo è il luogo dove noi non andiamo. Dal cielo, noi vedremmo ogni cosa, ma senza distinguere nulla (taoisti)»95. Se nella riflessione weiliana posteriore al ’38 – illuminata da richiami costanti a Giovanni della Croce, Meister Eckhart, Santa Teresa di Lisieux, alla Bhagavad Gītā e alla spiritualità delle Upanishad (testo sacro dell’induismo veda) – lo «sforzo soprannaturale» sarà quello del congedo dall’io personale e della «non-azione», sul piano della quotidianità Weil, invece, individua il lavoro come trasformatore dell’energia spirituale dell’uomo. Come ho già detto, l’uomo nella quotidianità può rendersi consapevole del rapporto fra il mezzo e il fine attraverso il lavoro, il quale pone l’essere umano immediatamente di fronte alla materia e al proprio corpo, e dunque all’ordine della necessità. In virtù di ciò Weil annota: «leva. Salire abbassando. Forse non ci è consentito di salire se non così»96. Per spostare un masso si necessita di una leva, un mezzo esterno alla cosa osservata. Solo mediante questo distacco si potrà acquisire il fine che concerne l’oggetto osservato.
Il lavoro, lo ribadiamo, permette dunque di raggiungere il suo oggetto, tuttavia sempre tramite un intervento esterno che implica la distanza necessaria alla presa. Le cose, come ricorda Zamboni, non possiedono energia; l’economia che si gioca fra l’essere umano e le cose proviene sempre dall’energia spirituale dell’essere umano la quale si muove verso il basso, dall’uomo alle cose. Weil scrive: «gli oggetti come trasformatori d’energia. Noi diamo loro la nostra energia ed essi ce la rendono rigradata o degradata»97. E ancora: «lavoro: movimento discendente. L’uomo deve farsi cosa affinché la cosa si faccia energia umana»98. Una volta che le cose si sono caricate di energia attraverso il lavoro, queste entrano a far parte dell’orizzonte familiare dell’essere umano che le ha lavorate. In altre parole, questo scambio di energia permette il radicamento, nelle cose e nel luogo prossimo alle proprie azioni; ed è proprio questo sentimento ad essere difeso da Weil quando annovera la proprietà privata fra i bisogni vitali dell’anima. Il lavoro rispetta, dunque, l’ordine della necessità. Esso si gioca su bisogni effettivi e si opera su oggetti reali che implicano uno scambio materiale che permette il radicarsi nell’oggetto da parte dell’essere umano.
La macchina del «grosso animale», invece, fa leva sulla seduzione e sui desideri infiniti suscitati nell’uomo. Gli oggetti di questo desiderio sono cose immaginarie, nel senso che non permettono alcuno scambio di energia poiché rappresentano soltanto valori sociali. Lo scambio silenzioso, oramai avvenuto da tempo, fra cose reali e cose immaginarie ha definitivamente inibito l’andamento dell’energia spirituale di cui parla Weil: questa procede naturalmente verso l’alto, ma l’essere umano può salire soltanto abbassandosi, appunto, tramite lo scambio materiale peculiare del lavoro. Contrariamente, la seduzione della semplicità ha portato l’uomo moderno a perseguire tale spinta verso l’alto attenendosi a cose immaginarie quali il potere. Quest’ultime, infatti, traggono in inganno in quanto cose pur sempre perseguibili dall’energia spirituale, poiché più elevate della mera dimensione della sopravvivenza. Il movente del lavoro dovrebbe essere, invece, una «volontà cosciente», che è ciò che la divisione del lavoro ha tolto all’operaio. La causa dell’oppressione, infatti, non è tanto lo sviluppo delle macchine, ma il lavoro in serie nella catena di montaggio.99 Solo l’operaio specializzato possiede tale possibilità di pensiero «cosciente». Infatti, la macchina necessita di essere compresa solo nel venire riparata o adattata, mentre per essere manovrata ciò non è necessario: «una macchina è una coordinazione metodica tra movimenti affidata alla materia. È schiavo della macchina colui le cui azioni non presuppongono l’assimilazione di questa coordinazione metodica»100.
Come spiega bene Zamboni: «la possibilità per l’operaio di sottrarsi all’oppressione della macchina è resa possibile dalla conoscenza dell’intero ciclo di lavoro a cui partecipa e dalla possibilità di riapplicare il pensiero al lavoro di modo che esso non sia ridotto ad una serie di gesti ciechi, subordinati alla materia bruta»101. «Invece di essere una specie di prigione», il lavoro detiene questo legame strutturale con la dimensione della necessità diventando «un contatto col mondo e col prossimo»102: è questo il motivo per il quale esso non può divenire superfluo. L’idea marxista di un tempo in cui il lavoro non sarebbe più stato necessario è un’idea aberrante per Weil. Un mondo senz’ordine, cadrebbe nella noia, nell’inoperosità, o peggio nell’esasperazione delle passioni: «l’infelicità è un brodo di coltura per falsi problemi. Fa nascere ossessioni. Il mezzo per placarle non è di dare quel che esse pretendono, bensì di far sparire l’infelicità. Se un uomo soffre di sete per una ferita al ventre non bisogna dargli da bere, bisogna guarire la ferita»103.
8. Conclusioni
La prospettiva weiliana del ruolo che dovrebbe detenere la pratica del lavoro nella società, che abbiamo tentato di riproporre qui, risulta evidentemente una concezione ideale costruita con coraggio dopo una lucida analisi del proprio tempo. Questo soprattutto per quanto riguarda le connotazioni spirituali conferite a questa idea nel periodo più tardo del suo pensiero. Evidentemente un ideale siffatto sembra, dobbiamo dirlo, irrealizzabile. Ma gli ideali sono necessari. Per quanto inseriti in una cornice inevitabilmente teorica, non mancano allo stesso modo di realtà, se si pensa, come ricorda Weil, che «anche il quadro di una vita sociale assolutamente oppressiva e tale da sottomettere tutti gli individui al gioco di un meccanismo cieco era puramente teorico»104. Pertanto, l’ideale può, o meglio deve, fungere da punto di riferimento, se si vuole tendere alla forma migliore possibile. Ecco, allora, che all’idea del progresso – tutta protesa verso l’avvenire, e dimentica del passato – Weil sostituisce «la nozione di una scala di valori concepita al di fuori dal tempo»,105 così come è fuori dal tempo l’ordine armonico dell’universo che analogicamente, nel tempo, diventa «necessità».
«Aprire gli occhi» è anche il compito che Weil attribuisce alla cultura. La quale, lungi dall’essere una semplice distrazione o qualcosa di fine a se stesso, avrebbe il suo valore «nel preparare alla vita reale»106 l’uomo, così che quest’ultimo possa intrattenere dei rapporti con gli altri uomini, e con le cose di questo mondo, autentici e dunque «degni della grandezza umana»107. Allo stesso modo la scienza, nella civiltà ideale auspicata da Weil, avrebbe l’obbiettivo di rendere «più cosciente e più metodica»108 la tecnica. Così l’arte sarebbe espressione di siffatto equilibrio, e i rapporti sociali ruoterebbero intorno al perno costituito dal lavoro, da cui scaturirebbe un’organizzazione sociale costituita da piccole collettività in cui vigerebbe la cooperazione come valore supremo. In definitiva, tutto asseconderebbe la massima di Cristo: «cercate innanzitutto il regno dei cieli e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù»109. Ma il regno dei cieli – l’ordine del mondo – può essere cercato solo scontrandosi con la necessità, che è appunto indispensabile all’esistenza. Infatti, Weil trova nella formula di Bacone una verità incontrovertibile: «l’uomo comanda alla natura obbedendole»110, a riguardo scrive:
Questa formula così semplice dovrebbe costituire da sola la Bibbia della nostra epoca. Essa è sufficiente a definire il lavoro vero, quello che rende gli uomini liberi, e questo nella misura stessa in cui è un atto di sottomissione cosciente alla necessità.111
La sottomissione alla necessità, il monito a prendere consapevolezza del limite, può apparire come passività, ma al contrario, allude ad una fragilità che però «avvolge la partecipazione ai conflitti del mondo»112. Infatti, «l’uomo non ha alcuna potenza, e tuttavia ha una responsabilità»113 di fronte alla progressiva trasformazione del mondo in luogo dell’illimitato, dell’indefinito impero della forza, in mero divenire che non conosce ordine. Se da una parte l’uomo non ha alcuna potenza poiché è costantemente preda della sventura, intrappolato nelle maglie del necessario, dall’altra parte può riprodurre l’ordine dell’universo acconsentendo ad esso nella sua obbedienza alla necessità. L’uomo ha questa responsabilità di liberarsi gli occhi «quasi ciechi sotto la povere» e di riprodurre tramite la pratica del lavoro l’«equilibrio tra lo spirito e l’oggetto a cui lo spirito si applica»114, ossia la declinazione quotidiana di quel patto originario fra spirito e materia. Dunque, di «stringere» nelle mani non l’oggetto lavorato, l’oggetto prodotto in nome di un qualche possesso, bensì di stringere la distanza emersa, la verità della «relazione»: è così che, nella pratica del lavoro secondo Weil – usando le parole di Rilke – «invece del possesso s’impara la relazione»115.
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S. Weil, Quaderni vol. I, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1982, p. 122. ↩︎
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S. Weil, L’Iliade poema della forza, in Intuizioni precristiane, trad. di M. Harwell Pieracci e C. Campo, Borla, Torino, 1967, p. 11. ↩︎
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S. Weil, Ispirazione occitana, trad. di D. Fergnani, Farina Editore, Novara, 2016, p. 30. ↩︎
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S. Weil, L’Iliade poema della forza, cit., p. 21. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1983, p. 130. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 333. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 19. ↩︎
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L’idea di una speranza di liberazione dalla necessità del lavoro viene definita anche da Hannah Arendt, riprendendo proprio il testo La contition ouvrière di Weil, «quell’“oppio del popolo” che Marx riteneva essere la religione», in Vita Activa, Bompiani, Milano, 1964 / 1989, p. 262. In merito cfr. R. Chenavier, Simone Weil et Hannah Arendt. La place du travail dans la modernité, in Aa. Vv. Modernité, Démocratie et Totalitarisme. Simone Weil et Hannah Arendt, a cura di M. Cedronio, Klincksieck, Paris, 1996, pp. 114-5. ↩︎
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Ivi, p. 21. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 22. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 24. ↩︎
-
Ivi, p. 34. ↩︎
-
Ivi, p. 45. ↩︎
-
Ivi, p. 46. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 48. ↩︎
-
Ivi, pp. 52-53. ↩︎
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Ivi, pp. 53-54 (corsivo mio). ↩︎
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Ivi, p. 54. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
-
Ivi, pp. 54-55 (corsivo mio). ↩︎
-
Ivi, p. 63. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 65. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 68. ↩︎
-
Ivi, p. 69. ↩︎
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L’ammonimento weiliano suona così: «le collettività non dovrebbero mai essere così vaste da oltrepassare la portata di uno spirito umano». In Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 108. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, pp. 108-109. ↩︎
-
Ivi, p. 109. ↩︎
-
Ivi, pp. 109-110. ↩︎
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Riportiamo qui di seguito il passo della Repubblica (VI 493 a-d) tradotto da Weil nel suo scritto Dio in Platone: «supponi un animale grosso e forte; colui che ne ha cura impara a conoscere le sue collere e i suoi desideri, come bisogna avvicinarlo, da che parte lo si deve toccare, in quali momenti e per quali motivi diviene irritabile o dolce, quali grida è solito gettare quand’è del tale o tal altro umore, quali parole son suscettibili di calmarlo o di irritarlo. Supponi che, avendo appreso tutto ciò per pratica, con l’aiuto del tempo, egli lo chiami una saggezza; che ne componga un metodo e ne faccia materia di un insegnamento. Egli non sa affatto, in realtà, ciò che tra quelle opinioni e quei desideri è bello o brutto, buono o cattivo, giusto o ingiusto. Applica tutti questi termini in funzioni delle opinioni del grosso animale. Ciò che fa piacere all’animale, egli lo chiama buono, ciò che ripugna all’animale lo chiama cattivo,e non ha a questo proposito altro criterio. Egli chiama giuste e belle le cose necessarie, perché è incapace di vedere o di mostrare agli altri fino a qual punto differiscono in realtà l’essenza del necessario e quella del bene». In S. Weil, Dio in Platone, in La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., pp. 57-58. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 269. ↩︎
-
Ivi, p. 270. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 182. ↩︎
-
Ivi, p. 184. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 113. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 139. ↩︎
-
Ivi, p. 129. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 116. ↩︎
-
Ivi, p. 121. ↩︎
-
Ivi, p. 122. (Corsivo mio). ↩︎
-
Ivi, p. 124. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, pp. 92-93. ↩︎
-
Ivi, p. 94. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 115. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 95. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 137. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 33. ↩︎
-
Ivi, p. 36. ↩︎
-
G. Gaeta, Leggere Simone Weil, Quodlibet, Macerata, 2018, p. 73. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 43. ↩︎
-
Ivi, p. 74. ↩︎
-
Ivi, p. 75. ↩︎
-
Ivi, p. 76. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 77. ↩︎
-
Ivi, p. 79. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 136 (corsivo mio). ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 80. ↩︎
-
Ivi, p. 81. ↩︎
-
Ivi, p. 82. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., pp. 126-127. ↩︎
-
G. Gaeta, op. cit., p. 75. ↩︎
-
Pseudonimo di Émile-Auguste Chartier (1868-1951). ↩︎
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Alcuni studiosi hanno rinvenuto una consonanza con l’idea di intenzionalità di Edmund Husserl. Cfr. S. Pétrement, Rémarques sur Lagneau, Alain et la Philosophie allemande contemporaine, in “Révue de métaphisique et de morale”, 3, 1970. ↩︎
-
Nella riflessione weiliana più matura – in cui la matrice platonica del suo pensiero accoglie l’immagine del Cristo – che per motivi di spazio non ho modo di affrontare in questa sede, il lavoro e l’azione cederanno il posto a idee quali l’“attesa” e l’“ascolto”. In merito alla compresenza nel pensiero weiliano di platonismo, cristianesimo e gnosi rimandiamo in particolare al lavoro di A. Del Noce, Simone Weil interprete del mondo d’oggi, introduzione a Simone Weil, L’amore di Dio, trad. it., di G. Bissaca e A. Cattabiani, Borla, Roma, 1979. E al testo di M. Cacciari, Note sul discorso filosofico-teologico di Simone Weil, in «Il futuro dell’uomo», n. 2, 1982. ↩︎
-
Cfr. W. Tommasi: «con la percezione realizziamo la distanza tra noi e le cose e conosciamo le cose come estensione», Simone Weil: segni, idoli e simboli, Franco Angeli, Milano, 1993, p. 16. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 230. ↩︎
-
Vd. infra. ↩︎
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Negli ultimi anni la riflessione weiliana si discosta dall’idea di «ordine», concentrandosi sempre più su quella di «contraddizione» quale metodo per comprendere una realtà che già per sua essenza è contraddizione, come spiega Fulco: «tanto da individuare come metodo proprio della filosofia, non solo il concepire in modo chiaro i problemi insolubili, ma anche contemplarli nella loro insolubilità “fissamente, instancabilmente, senza nessuna speranza, nell’attesa”» R. Fulco, op. cit., pp. 32-33. La citazione proviene da Quaderni vol. IV, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1993, p. 363. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 102. ↩︎
-
Ivi, p. 103 (corsivo mio). ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 149. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 91. ↩︎
-
Ivi, p. 92. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, pp. 92-93. ↩︎
-
Ivi, p. 93. ↩︎
-
Ivi, p. 130. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 146. ↩︎
-
S. Weil, La prima radice, Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, trad. it. F. Fortini, SE, Milano, 1990, pp. 266-267. ↩︎
-
C. Zamboni, Interrogando la cosa. Riflessioni a partire da Martin Heidegger e Simone Weil, a cura dell’istituto di filosofia dell’università di Verona, IPL, Milano, 1993, pp. 242-243. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 366. ↩︎
-
R. Chenavier, Simone Weil, L’attenzione al reale, a cura di F. Negri, Asterios, Trieste, 2016, pp. 37-38. ↩︎
-
Ivi, p. 38. ↩︎
-
S. Weil. Quaderni vol. I, cit., p. 116. ↩︎
-
S. Weil, Sulla scienza, cit., pp. 104-106. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 296. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. II, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, 1985, p. 274. ↩︎
-
Ivi, p. 202. ↩︎
-
Cfr. Quaderni vol. I, cit., pp. 150-151. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni vol. I, cit., p. 177. ↩︎
-
C. Zamboni, op. cit., p. 245. ↩︎
-
S. Weil, La prima radice, cit., p. 91. ↩︎
-
Ivi, p. 64. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 97. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 103. ↩︎
-
Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 104. ↩︎
-
Matteo, VI, 23. In Ivi, p. 104. In Quaderni vol. I, il passo viene riportato come segue: «cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia», cit., p. 137. ↩︎
-
Cfr. S. Weil, Lezioni, a cura di M. C. Sala, trad. it. L. Nocentini, Adelphi, Milano, pp. 255-258. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 106. ↩︎
-
A. Del Lago, L’etica della debolezza, Simone Weil e il nichilismo, in AA. VV. Il pensiero debole, a cura di G. Vattimo e P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano, 1983, p. p. 102. ↩︎
-
S. Weil, Quaderni, vol. I, cit., p. 334. ↩︎
-
S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, cit., p. 91. ↩︎
-
R. M. Rilke, Lettere da Muzot (1921 – 1926), a cura di M. Doriguzzi e L. Traverso, Cederna, Milano, 1947, p. 175. ↩︎