Laura Boella, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006, 119 pp., 11. 50 €.
Nell’accurata disamina condotta da Laura Boella sull’empatia emerge non solo l’esigenza di ricostruirne i lineamenti più propri, anche richiamando il contributo di altri filosofi contemporanei direttamente impegnati sul tema dell’intersoggettività, ma addirittura l’urgenza di riconsiderare tale atto alla luce delle sfide poste dalla cultura e dalla società attuale.
Infatti, proprio in direzione di uno «sviluppo pieno delle potenzialità dell’atto empatico (p. 26)», della propria specificità e complessità di esperienza essenziale del nostro vivere insieme, l’autrice denuncia l’insistente contrapposizione culturale tra dimensione incoscia e involontaria della corporeità ed esperienza morale di condivisione e di responsabilità per l’altro. Dall’altra parte, Boella non de-contestualizza pienamente l’esperienza empatica dal bisogno tempestivo, e sempre più confuso, di dar conto dei grandi mutamenti socio-culturali e politici cui la nostra società globale è chiamata a far fronte. In altre parole, ella non si ferma ad una descrizione dell’atto empatico in quanto tale poiché, riconoscendone la portata conoscitiva ed il valore etico, giunge alla delineazione di una vera e propria pratica dell’empatia, il cui esercizio, pur quando inconsapevole, ha il merito di accrescere la cognizione del nostro con-vivere in un preciso contesto storico.
Lungi dall’essere equivocata con la simpatia, con la compassione, con l’identificazione o con il contagio emotivo, e tanto più dall’esser costretta in una teoria della mente, l’empatia si radica nel presupposto imprescindibile del nostro essere-in-relazione ed è condizione stessa della relazione intersoggettiva.
Sin dall’estetica settecentesca l’empatia si configura come l’immergersi, il sentire e il proiettarsi in ciò che scopriamo davanti a noi, sia questo un volto o un’opera d’arte. Si tratta, dunque, di uno scambio di esperienza che, tuttavia, non deve essere frainteso con altri tipi di partecipazione emotiva che le danno compimento; piuttosto, pur richiamando propriamente ad una modalità del sentire, l’empatia si dà come apertura del lieb — corpo vivo, appunto — alla realtà.
L’intreccio tra l’esperienza dell’io e quella dell’altro passa, allora, per il riconoscimento del fatto che «l’altra donna, l’altro uomo non si limitano a comparire nel nostro orizzonte visivo, tattile, uditivo con il loro corpo e i suoi movimenti e mutamenti: essi esprimono integralmente se stessi in quell’orizzonte, non semplicemente attraverso di esso (p. 18)».
Già nel suo lavoro giovanile dal titolo Il problema dell’empatia (1917), Edith Stein definisce l’essenza dell’atto empatico come un “rendersi conto” (gewahren) del sentire altrui, che si realizza propriamente nell’incontro tra soggetti e che apre il seguente dilemma: «[…] che tipo di esistenza è quella della gioia dell’altra, dell’altro, la gioia che mi può essere ben nota come stato d’animo, ma che non è la mia gioia, è la sua gioia, che si prolunga nell’invisibile e nell’ignoto di un altro cuore e ha un tratto irripetibile e unico, poiché appartiene integralmente all’altra, all’altro, alla sua storia, ai suoi segreti? (p. 20)».
In questo “rendersi conto”, quindi, «le attività cognitive si colorano emotivamente, le emozioni sviluppano un’intenzionalità verso ciò che sta fuori dell’io, che le rende modulabili e dotate di effetti di conoscenza e di guida dell’agire (p. 22)» tanto che l’empatia diviene «il termine unitario con cui nominare l’ambito di esperienza entro il quale si danno le molteplici forme del sentire l’altro, l’amicizia, l’amore, la compassione, l’attenzione, la cura, il rispetto, il riguardo (Ivi)».
In altre parole l’empatia, fondamento di tutti gli atti emotivi, volitivi, cognitivi, valutativi, narrativi etc. con cui incontriamo l’altro, richiama una dimensione dell’esperienza che si gioca sul confine tra interiorità ed esteriorità, tra ciò che accade dentro e fuori di noi, tra sensibilità e spiritualità.
Infatti, sebbene il dolore dell’altro si presenti solo inizialmente come evento immediato al confine tra la mia interiorità e l’estraneità, già un istante dopo «mi mette in contatto con il mondo esterno, ma ne ridisegna fortemente i tratti (p. 23)» poiché, coinvolgendomi, l’attività della mia coscienza muove verso l’altro, modificando il mio rivolgermi a ciò che è fuori di me e dando inizio ad una nuova esperienza, miracolosa e paradossale.
«L’empatia — chiarisce Boella — non si traduce nel provare lo stesso dolore, la stessa gioia […], non consiste nel “sapere” cosa sente l’altro […] non vuol dire gioire, soffrire insieme all’altra, all’altro, e nemmeno avere un’esatta nozione delle ragioni e delle cause del sentire altrui. Empatia vuol dire allargare la propria esperienza, renderla capace di accogliere il dolore, la gioia altrui, mantenendo la distinzione tra me e l’altro, l’altra. Empatia è “rendersi conto” […] (p. 24)».
In quanto condizione di possibilità per la partecipazione emotiva alla realtà altrui e, di conseguenza, per la circolazione e l’intreccio dei rispettivi vissuti, l’atto empatico ha una duplice natura nella misura in cui, pur essendo compiuto dall’io, ha il suo centro nella scoperta dell’altro e nella sua accessibilità.
Nonostante il passaggio dall’io all’altro e dall’altro all’io non possa essere oggettivato per via della ricchezza, della fluidità e dell’imprevedibilità degli scambi tra i soggetti, è possibile mettere in luce tre momenti fondamentali del movimento empatico: l’incontro con l’altro, la ricostruzione del suo vissuto e la trasformazione di sé a partire dallo scambio reciproco.
Tutto ha inizio con l’«emozione dell’incontro (p. 31)»: la scoperta dell’esistenza dell’altro, con la sua totalità di esperienze, origina lo sconvolgimento e lo stupore di una nuova ricerca. Ci si scopre, d’un tratto, dentro la relazione perché l’«esistenza dell’altro ci viene incontro, insieme, che ne siamo più o meno coscienti e anche nel caso in cui volutamente o no lo ignoriamo, come corpo fisico-organico e come corpo vivo animato da una vita psichica (p. 33)». A dispetto dell’immediatezza del nostro rapporto, l’apparizione del corpo dell’altro mi si dà come un «qualcosa di spesso e di opaco, una pienezza che è dell’ordine dell’indefinito. […] La sua differenza pone una barriera alla presa diretta da parte dei miei sensi, della mia vista, del mio tatto, del mio udito (p. 37)». È la differenza, ovvero l’esperienza che si ha dell’altro, che inizia a strutturare l’incontro tra i corpi sulla base di possibili somiglianze o analogie tra esperienze. Incontro che, tuttavia, non si gioca su un conflitto assoluto tra la differenza, l’accessibilità e l’identità dell’altro, quanto piuttosto sulla ricerca di comportamenti e funzioni comuni per la quale comprendiamo, al contempo, di non essere del tutto nostri e di essere depositari di una profondità impensabile. Anche la nostra collocazione spaziale si modifica, o meglio si relativizza fino a diventare compresenza e coesistenza.
È nell’immediatezza-mediazione di questo incontro di corpi, dunque, che avviene il duplice riconoscimento a cui si è precedentemente accennato: da una parte attribuisco all’altro sensazioni ed emozioni da me esperite, anche se egli mi si dà in un modo non pienamente accessibile; dall’altra parte, però, lo sguardo dell’altro mi libera dal vincolo con il mio corpo e, insieme, mi vincola a sé tramite l’immagine che si fa di me.
Ma se il corpo ha un ruolo decisivo nell’emozione dell’incontro, allora che tipo di rapporto intercorre tra le espressioni del volto, i gesti e i rispettivi vissuti? Contrariamente da quanto sostenuto da Lévinas, secondo cui l’assolutezza dell’esistenza dell’altro finisce per negare ogni reciprocità, il fenomeno dell’espressione attesta l’unità e la risonanza tra manifestazioni corporee e vissuti spirituali. In ogni caso tale corrispondenza, chiarita alla luce del rapporto tra anima-corpo, non è sufficiente per l’accesso all’integrità dell’altra persona poiché, anche se le espressioni possono «metterci a contatto con la visibilità dell’invisibile, confermano che […] per sentire l’altro è necessario un atto di empatia, ossia una forma specifica di elaborazione dell’esistenza dell’altro e di messa in rapporto della sua differenza […] con la nostra esperienza (p. 52)».
Dopo l’incontro/scontro iniziale si giunge, così, al secondo momento dell’empatia, dove il desiderio di capire e comprendere le ragioni del sentire altrui, e di entrare in relazione con la sua esperienza, provoca uno spostamento, da parte di chi empatizza, all’interno dell’orizzonte dell’altro. Egli, infatti, «vive […] qualcosa che assomiglia all’esperienza in prima persona, che ha tutta l’intensità del sentire, ma che è guidata interamente dal vissuto dell’altro, ne segue il decorso, ne assume il contenuto (p. 56)» senza per questo dissolversi nell’altro. L’identità personale, precedentemente messa a repentaglio, viene ricostruita nel momento stesso della comprensione, che rende possibile il “mettersi nei panni dell’altro” anche grazie all’immaginazione, vale a dire «all’attività mentale intrisa di emozione che permette di riprodurre interiormente un’esperienza altrui e di sentire un sentimento altrui (p. 57)».
Diversamente dal lavoro di presentificazione del ricordare, per cui vengono ricostruite immagini lacunose che appartengono direttamente al nostro vissuto, l’immaginare implica una mediazione indiretta, legittimamente paragonata da Boella ad un processo di trapianto, di traduzione, di trasferimento delle esperienze, per il quale la relazione si configura come ponte e oltrepassamento delle esperienze individuali. Invero, «nell’immaginazione si crea uno sfondo prospettico per i movimenti dell’io. Il paesaggio interiore cambia […] . Si apre uno spazio in cui l’io, muovendosi con una libertà che assomiglia a quella della fantasia, svincolata dall’obbligo della conferma nel reale, scopre che c’è altro e diventa capace di ospitarlo, di accoglierlo (p. 68)»
In questo secondo momento dell’atto empatico, l’altro non mi si dà mai come totalmente separato, ma come essere abitante il mio stesso mondo, come centro vivente di esperienze a me nuove e sconosciute; un essere con il quale posso entrare in contatto, intendermi e capirmi solo a patto che io riesca ad ascoltarlo dentro di me.
È un riconoscimento che implica un coinvolgimento attivo non fraintendibile né con i sentimenti di altruismo e di solidarietà, né tanto meno con i processi di proiezione e di immedesimazione, i quali limitano gravosamente la capacità di sentire l’altro.
L’empatia, allora, è un “rendersi conto” non solo del sentire altrui, ma anche di ciò che si è trasformato nell’io che oltrepassa se stesso, che modifica il proprio orizzonte di esistenza, che potenzia se stesso pervenendo ad una rinnovata consapevolezza di sé, dei suoi sentimenti, comportamenti e valori attraverso l’altro. In tal senso, l’empatia educa «a vedere e a interpretare i segni preparatori del bisogno di cambiamento e anche di assoluto nella vita quotidiana […] come qualcosa che fa rinascere e trasforma […] dentro la vecchia vita (pp. 74-75)». E ancora, «l’empatia insegna che tra gli esseri umani c’è una circolazione di senso per cui ciò […] che non ci appartiene […] diventa relazione, parola, ascolto (p. 83)».
La scoperta del far parte di un mondo comune e l’attesa reciproca segna, così, il passaggio dalla relazione al sentimento di cura, di riconoscimento, di amore che ci conduce, in ultimo, ad un compimento del vivere nelle nostre esigenze umane più profonde.
Nella seconda parte del saggio, Boella ricompone il guadagno teoretico ed etico sviluppato nella sezione «conoscere l’empatia» che, come si è visto, conduce all’assunzione di una responsabilità verso l’altro e che, in quanto tale, apre la possibilità di una pratica dell’empatia, intesa come «costante esercizio, che si muove attraverso errori, tentativi e correzioni di rotta, finalizzato allo sviluppo di una competenza nell’entrare in relazione, senza invadere lo spazio vitale dell’altro e senza lasciarsi schiacciare dalle sue esigenze (p. 93)».
«Praticare l’empatia» significa far accadere l’empatia in quanto capacità umana di sentire, di istaurare un contatto, uno scambio e, di conseguenza, di «gestire attivamente la relazione» con l’altro, il che implica necessariamente il «viversi come persone per riconoscere negli altri la qualità di persone (pp. 91-92)».
Infatti, poiché è desiderio vitale del “rendersi conto” scoprirsi persone autentiche in grado anticipare idealmente, grazie all’immaginazione, questa qualità nell’altro, è fondamentale esercitarsi all’empatia e sperimentare l’incognito, l’inaspettato, l’indesiderato proprio di qualsivoglia pratica umana. Che venga scelta o meno, la pratica empatica non coincide non con un’avventura intellettuale, ne tanto meno si ha solo in situazioni di reciprocità complessa giacché in essa può darsi corrispondenza anche nell’asimmetria, nella sproporzione di un gesto senza ritorno che, di per sé, è in ogni modo una risposta.
Ovviamente, tale pratica empatica può fallire dal momento che il suo esercizio consiste precisamente nell’esercizio personale di correzione e completamento della propria percezione, non meno che l’accettazione della novità e della durezza della possibilità di misure altre. A tal riguardo vanno distinte due specie di fallimenti: «le illusioni dell’empatia» e «l’empatia negativa». Nel primo caso accade che, in maniera quasi analoga al mentire cui fa riferimento Scheler in Essenza e forme della simpatia, la mia percezione mi porti ad attribuire all’altro sentimenti che non prova tanto da non riuscire “a sentirlo”, a contattare la sua pienezza. Si tratta, però, non di un errore congetturale o di uno scacco conoscitivo, bensì di una resistenza all’accoglimento dell’altro che è sempre possibile superare in virtù del fatto che l’altro è già stato percepito e riconosciuto.
Se in questa circostanza sarebbe sufficiente continuare la pratica empatica per superare una siffatta debolezza della percezione, nel caso dell’«empatia negativa», invece, si cade nel dissidio col sentire altrui. Proprio qui emergono due elementi fondamentali dell’atto empatico, ovvero il non essere vincolato a giudizi di valore sul sentire altrui e la permanente distinzione tra esperienze di soggetti diversi, i quali ribadiscono che lo scopo dell’empatia non è affatto quello di ricercare giustificazioni morali. Piuttosto l’empatia dice della volontà di comprendere l’altro, avvalendosi del tratto decisivo della distanza; non è suo compito, dunque, né permettere l’identificazione con un terrorista, né tanto meno cercare una giustificazione al male da questi commesso o perdonare la sua disperazione.
Concludendo, pur tenendo conto delle perplessità che può suscitare se considerata alla luce dall’asimmetria tra ciò che si può capire e ciò che si può spiegare, l’empatia comprova quotidianamente il nostro desiderio di dare significato alla nostra e all’altrui esistenza, alla relazione con l’altro iscritta dentro di noi.