Quattro principi della fenomenologia

A cura di Giuseppe Crivella

La fenomenologia poggia su quattro principi che essa rivendica esplicitamente come suoi fondamenti.

Il primo: tanta apparenza, quanto essere, è preso in prestito dalla Scuola di Marburgo. A questa proposizione equivoca, a causa del doppio significato del termine /apparenza/, noi preferiamo tale enunciato rigoroso: tanto apparire, quanto essere.

Il secondo è il principio dei principi: formulato da Husserl stesso nel § 24 di Ideen I, esso pone l’intuizione, o meglio, «ogni intuizione offerente quale fonte di diritto per la conoscenza» e in tal modo per ogni asserzione chiaramente razionale.

Nel terzo principio la rivendicazione è così veemente che essa possiede il tenore di una parola d’ordine, quasi di un grido: zu den Sachen selbst!, cioè «alle cose stesse».

Il quarto principio è stato definito più tardi da Jean-Luc Marion nella sua opera Réduction et donation, ma la sua importanza si riverbera sul complesso dello sviluppo fenomenologico nei confronti del quale esso agisce come una presupposizione nascosta ma sempre già all’opera. Esso è formulato così: quanta più riduzione, tanta più donazione.1

Questi quattro principi fondatori della fenomenologia presentano due tratti che vanno sottolineati da subito. Da una parte, e a dispetto della rivendicazione di radicalità che traspare dalla loro espressione letterale, essi restano profondamente indeterminati. Tale indeterminazione è tanto più grave e pesa tanto più sul destino della fenomenologia, in quanto si tratta precisamente di una indeterminazione fenomenologica nel senso essenziale. La prima conseguenza di questa indeterminazione fenomenologica dei principi fondatori della fenomenologia è il carattere puramente formale degli enunciati a cui essi danno luogo, carattere che sottrae loro buona parte di rigore e di fecondità.

Dall’altra parte, e questo malgrado il loro carattere formale, i quattro principi racchiudono delle tensioni latenti poco compatibili con la coerenza che ci si attenderebbe da un sistema di presupposti collocati all’inizio di una ricerca e incaricati di assumerne l’unità. Tali tensioni sono tali che, a dire il vero, esse sfociano in vere contraddizioni.

Cominciamo dall’indeterminazione: il primo principio stabilisce una correlazione decisiva tra apparire e essere. Tale correlazione si impone con la più grande forza perché essa è del tutto immediata: se qualcosa appare si trova immediatamente ad essere. Così potente è la correlazione che essa sembra riportarsi alla identità: apparire significa già per questo essere. Quando il principio recita: tanto apparire quanto essere, esso non mira né all’estensione né in qualche modo alla intensità delle determinazioni fenomenologiche e ontologiche che esso mette in relazione, ma proprio alla identità della loro essenza. È nella misura in cui l’apparire appare ed è per questa regione che l’essere è, è perché l’apparire dispiega il suo regno che l’essere dispiega nello stesso modo il suo, poiché essi hanno un solo e medesimo regno, una sola e medesima essenza.

Ora, dal momento che vogliamo procedere oltre questa identità di essenza, di apparire ed essere, noi siamo obbligati a rimetterla in discussione. Poiché apparire ed essere, a dispetto della identità supposta dalla loro essenza, non si trovano per nulla sullo stesso piano e la loro dignità ontologica non è la medesima, se possiamo dir così. Pertanto: l’apparire è tutto, l’essere non è niente. O piuttosto, esso è solo poiché l’apparire appare e in quanto questo accade. L’identità di apparire ed essere si risolve nella fondazione del secondo sul primo. Identità d’essenza vuol dire che qui c’è all’opera sempre un solo potere e che questo potere è quello dell’apparire. Indipendentemente da quest’ultimo, finché esso non appare, l’essere non è — nel senso che è il nulla totale. La sua essenza, ciò che gli permette di essere, l’essere lo trova solo nell’apparire che ha dispiegato intrinsecamente la sua propria essenza, l’essenza dell’apparire, che consiste nel fatto di apparire effettivamente.

Al contrario, interrogarsi sul senso dell’essere in quanto tale, su ciò che gli permetterebbe di essere in qualche modo da se stesso e per se stesso, grazie alla sua stessa forza e per sua propria volontà è un puro non-senso. Poiché l’essere stesso non ha né forza né volontà e non è che un flatus vocis, a meno che noi non riconosciamo in lui il potere sui generis che lo fa essere e che fa essere tutte le cose, ovvero quello dell’apparire in quanto esso appare.

Più in alto quindi dell’ontologia si trova la fenomenologia. Bisogna inoltre osservare che questo modo di esprimere la preminenza della fenomenologia rischia di indurci in errore. Poiché non vi sono due domini distinti di cui uno prevarrebbe sull’altro per qualche ragione, giocando in tal senso il ruolo di campo preliminare, mentre il secondo non ne sarebbe che l’effetto o il prodotto. Fenomenologia e ontologia non sono due, ma designano la stessa cosa, una medesima cosa la cui essenza è di apparire e che si trova costituita unicamente da ciò.

Conviene quindi citare qui colui che, ben prima dello sviluppo della fenomenologia moderna, aveva colto l’intuizione fondatrice di ogni fenomenologia pura, suscettibile di elevarsi all’altezza del suo concetto — ciò di cui né la fenomenologia husserliana, né quella heideggeriana sono state capaci.

Due volte almeno in effetti Descartes aveva ridotto l’essere all’apparire in modo così radicale che nulla sussistesse dell’essere, né di ogni essere possibile che non fosse sostanza dell’apparire e, cosa che è ancora più notevole, dell’apparire puro. Ovvero un apparire nel quale ciò che appare è il puro fatto di apparire in quanto tale. Il puro fatto di apparire considerato in quanto tale Descartes — che lo comprendeva in una maniera ancora tradizionale nelle Regulae e lo designava sotto diversi termini impropri come quello di Lumen naturale — lo coglie nella intuizione folgorante delle Méditations nella sua vera essenza: egli lo nomina allora cogitatio. Nel contesto di questa problematica, la relazione apparire/essere è messa a nudo: noi siamo quindi solo perché pensiamo. Cosa che vuol dire: l’essere che noi siamo e al quale si riduce ogni essere (sussistente dopo il dubbio) — quindi l’essere nella sua totalità — ha il potere d’essere dall’apparire e da quest’unico potere. Cosa che viene formulata nel linguaggio delle Méditations: «io sono una cosa che pensa, ovvero la cui essenza integrale è di pensare».2 Ciò significa: l’essere risiede nell’apparire e si esaurisce in lui. O ancora: non c’è alcun essere che sia in sé differente dall’apparire dell’apparire e che non possa essere ridotto puramente e semplicemente ad esso.

Siamo allora condotti al terzo principio. Il suo enunciato lascia apparire una dualità di termini, dualità che non dipende qui da una questione di linguaggio, rimanda a ciò di cui pretende di parlare: da un lato /Zu/, dall’altro /die Sachen/, cioè l’accesso a qualcosa, la possibilità di raggiungerla, mentre /Sachen/ designa il qualche cosa a cui si perviene in tale accesso, il contenuto a cui l’accesso dà accesso.

Nel momento stesso in cui noi procediamo alla prima esplicazione della parola d’ordine della fenomenologia, alla sua esplicazione più semplice, non può sfuggirci che da una parte noi siamo ricaduti nella problematica più tradizionale e che, d’altra parte, noi abbiamo abbandonato, o meglio rigettato, ciò che il commento del primo principio ci aveva fatto guadagnare come una acquisizione essenziale, ovvero l’identità dell’apparire e dell’essere sullo sfondo della riduzione del secondo al primo.

Questa è la contraddizione. Poiché l’essere non è più riducibile all’apparire, esso non attinge più il potere che lo fa essere nel puro fatto di apparire, se vi sono delle Sachen, delle cose in sé alle quali noi dobbiamo sforzarci di arrivare, seguendo un certo cammino, tramite un accesso che è soltanto il modo di pervenire a queste cose — che sono il termine, l’essere che è già per se stesso e prima che lo si incontri.

La problematica dell’apparire non è però elusa in tal modo, poiché nell’imperativo della fenomenologia il /Zu/ che ci conduce alle cose direttamente e senza sviamenti è precisamente l’apparire stesso. Soltanto, questo apparire pensato come una pura possibilità di accesso, si propone come subordinato per principio a ciò che esso ci permette di accedere. Tale subordinazione si estende a tal punto che non solo la possibilità di accesso è dispiegata solo al fine di raggiungere la cosa che è quindi il vero scopo, ma l’accesso stesso si trova determinato da questo scopo. È la natura dell’oggetto da conoscere che decide sul mezzo appropriato alla sua conoscenza, ovvero in fin dei conti dell’accesso stesso, e che dice che cosa debba essere questo, quali procedure e quali metodologie conviene mettere in campo in modo da poter cogliere un tale oggetto, in modo da raggiungerlo in se stesso e quale esso è. Il rapporto di subordinazione di fenomenologia e ontologia si rovescia quindi, poiché la cosa costituisce l’unico fine in vista del quale il mezzi di accesso sono stati messi in opera e anche perché, d’altra parte, la natura di questi mezzi dipende dalla natura della cosa.

Ma è qui che tale rovesciamento della relazione tra fenomenologia e ontologia conduce all’aporia. Perché che cosa possiamo sapere noi della natura della cosa e del modo in cui essa determina le modalità di avervi accesso — a meno che questa cosa e ciò che noi chiamiamo la sua natura non siano già a noi noti — nel loro apparire e grazie ad esso? All’affermazione secondo la quale è la natura della cosa che decide dei mezzi per pervenire ad essa non conviene forse replicare: sono i metodi di accesso alla cosa che fanno la sua natura, che sono la sua natura, è il vedere che determina il carattere visuale di ciò che è visto, l’ascolto il suo carattere sonoro, lo spazio il suo carattere spaziale, il tempo il suo carattere temporale, ecc? Una volta quindi scartata la determinazione ingenua della fenomenologia tramite l’ontologia, resta tuttavia il problema della loro dualità presupposta dal pensiero classico come dalla fenomenologia contemporanea — abolita invece nel caso di una riduzione radicale dell’essere all’apparire.

La connessione dell’essere e dell’apparire si determina nel fenomeno il cui concetto designa qualcosa che si mostra e salda quindi i due significati della cosa, dell’essere da una parte, del fatto di mostrarsi, d’apparire dall’altro. Che il qualcosa non sia che in forza del fatto che si mostra, che l’essere quindi rinvii insormontabilmente all’apparire, non elude la questione di sapere se il qualcosa che si mostra, divenendo fenomeno, non è in sé differente dall’apparire stesso, addirittura profondamente eterogeneo a questo. Ciò che legittima una tale domanda è il fatto che ciò che si dà nel fenomeno, nel fenomeno mondano in ogni caso, si dà precisamente come già là prima della scoperta che ne propone il fenomeno — prima che l’apparire lo posizioni nella condizione di ciò che appare, di ciò che è a titolo di fenomeno per noi.

Quindi una nuova contraddizione si innalza dinanzi a noi. Alla riduzione radicale dell’essere all’apparire viene a sostituirsi la loro inevitabile dissociazione. Poiché l’essere è del tutto indipendente dall’apparire se esso «è» in un certo modo e per quanto oscuro questo modo possa essere, prima di mostrarsi a noi nel fenomeno e tramite esso.

Lo stesso concetto di fenomeno è colpito dalla contraddizione e dall’ambiguità. Nel suo significato positivo esso esprime la stretta interconnessione primitiva tra l’essere e l’apparire, quel suolo irremovibile riconosciuto nel primo principio e sul quale la fenomenologia ha voluto fondarsi. Poiché, infine, per quanto a lungo qualcosa appaia, nessuna critica potrà essere legittima. Si potrà certo dire questa cosa è un’illusione, ma nulla cambierà, nulla è colpito in tal modo nel fenomeno stesso finché la sua apparizione non cessa di prodursi e finché ci riferiamo ad essa.

Sottratto alla critica, il fenomeno non lo è però all’analisi. Ciò che quest’ultima mette in causa in un primo tempo non è senza dubbio la connessione apparire/essere, ma la riduzione del secondo al primo, l’idea che l’unico essere possibile sia quello dell’apparire in quanto tale. A guardar meglio, in effetti, il fenomeno non implica affatto questa radicalità della riduzione dell’essere dell’essere all’apparire dell’apparire: non sembra presupporre, al contrario, la loro connessione e, per quanto stretta questa possa essere, la loro distinzione almeno a titolo di possibilità ideale? Non è proprio questa distinzione, iscritta in qualche modo in ciò che fenomenologicamente è il fenomeno, che ne rende l’analisi necessaria?

Questa separa nel fenomeno ciò che appare da un lato e dall’altro il fatto di apparire. Il concetto di fenomeno in altri termini è doppio, ontico e fenomenologico nello stesso tempo. Dal punto di vista ontico il fenomeno designa ciò che appare, questo tavolo, questa proposizione, questo ricordo. Ma il contenuto ontico del fenomeno, ciò che il senso comune intende con tale termine, non esaurisce in nulla il suo concetto, il quale implica, oltre a questo contenuto specifico, la sua fenomenalità, ovvero il fatto che esso si mostra e non è fenomeno che in forza di ciò.

Fin dove si estende questo sdoppiamento del concetto di fenomeno che diventa, nella rottura devastatrice che esso opera, l’unità primitiva dell’apparire e dell’essere è ciò che resta da pensare fino in fondo. Poiché non si tratta più di una semplice distinzione nozionale tra il contenuto del fenomeno e il suo apparire puro, allorché il primo è suscettibile di variare indefinitamente mentre il secondo termine rimane immutato. Questa permanenza dell’apparire, nonostante si modifichi senza sosta ciò che appare in esso, implica tra di loro una differenza di natura. Nel pensiero tradizionale che comprende la fenomenalità come luce — che sia la luce naturale, quella della ragione, del mondo o infine questo mondo stesso — la differenza dell’apparire e di ciò che appare riveste la forma di una differenza assoluta, nel senso della indifferenza della luce rispetto a tutto ciò che essa illumina, secondo quanto dice Descartes nella sua prima Regula.3

Tuttavia, se nel fenomeno il contenuto e il suo apparire differiscono al punto di tenersi l’uno di fronte all’altro in una differenza assoluta, se essi ricadono ciascuno dal proprio lato senza avere più nulla in comune, in che modo la loro unità può essere ancora preservata nel fenomeno come ciò che la fonda? L’aporia del fenomeno non fa comunque che portare alla luce quella che colpisce ora la relazione dell’apparire con l’essere, sulla quale si credeva di poter costruire la fenomenologia. In che modo il contenuto, la cosa, l’ente, saranno suscettibili di essere condotti all’essere tramite l’apparire e mediante il suo atto proprio di apparire, se essi gli sono per principio indifferenti? In che modo, in altri termini, l’essere potrebbe ricevere il suo essere dall’apparire se in se stesso e nella sua natura, in quanto contenuto del fenomeno, esso è irriducibile alla fenomenalità di quest’ultimo? È il principio della fenomenologia, il legame interno tra essere e apparire che è colpito, è la fenomenologia in sé che perde i suoi sostegni e va alla deriva.

E come potrebbe essere altrimenti finché l’apparire e, nello stesso tempo, l’essere stesso ridotto al suo apparire, si presentano come dei concetti puramente formali, finché i principi fondatori della fenomenologia restano in una indeterminazione fenomenologica profonda?

Che cosa può significare mai il primo principio se si ignora ciò che vuol dire apparire e di conseguenza ciò che vuol dire essere, un essere il cui essere sarebbe l’apparire — quale senso dare alla relazione di proporzionalità che li unisce e che diviene una proporzione per sempre enigmatica tra due termini ugualmente sconosciuti?

Come comprendere nello stesso modo il terzo principio se l’accesso alle cose espresso dallo /zu/, e che non è altro se non l’apparire stesso, rimane totalmente oscuro, se non si sa come appaiano le cose né di conseguenza come arrivare ad esse per afferrarle e conoscerle? La questione stessa di sapere se queste cose differiscono dalla possibilità pura che vi dà accesso e se di conseguenza questa possibilità possa e debba essere pensata a parte o se al contrario cose e accesso non abbiano e non siano una stessa essenza, tale questione in cui si decide della pretesa ultima della fenomenologia di circoscrivere l’essere mediante la fenomenalità, addirittura di ridurla a questa, resta senza risposta.

La stessa incertezza colpisce il quarto principio. Tale enunciato recente di una proporzione rigorosa tra la riduzione e la donazione ci riconduce in realtà alle fonti della fenomenologia al primo principio stesso, quale almeno noi lo abbiamo formulato. Poiché, lo vedremo, la riduzione colta nella sua significazione fenomenologica altro non è che una riduzione all’apparire. Che tale riduzione possa essere condotta più o meno lontano, secondo una radicalità più o meno grande — come implica la proposizione quanta più riduzione […] — non vuole solo dire che è rilevante circoscrivere tale apparire in maniera rigorosa, distinguendolo da ciò con cui il pensiero lo confonde da sempre, con ciò che appare in esso. Se la radicalità della riduzione deve concernere l’apparire stesso, non bisogna supporre allora che questo non sia così semplice come appare in tutti questi enunciati che vi si riferiscono come ad una maniera unica e monotona di mostrarsi — implicando invece e mettendo in gioco delle differenze fondamentali e, ben al di là di esse, una differenza assoluta tra due modi eterogenei di manifestazione, modi secondo cui si manifesta tutto ciò che è suscettibile di manifestarsi e di rivelarsi? Irriducibile allora a un significato formale univoco, l’apparire differisce in quanto tale nella materia fenomenologica pura di cui esso è fatto. Solo la presa in considerazione di questa, del come dell’apparire, può dare un senso alle proposizioni che si appoggiano su di esso, specificamente ai principi della fenomenologia. Solo una tale ponderazione diretta sulla sostanzialità fenomenologica della fenomenalità pura può dire se quest’ultima sia omogenea all’essere, capace di circoscriverlo e di determinarlo o no.

Collochiamoci quindi nella prospettiva di una fenomenologia materiale al fine di gettare sui principi fondatori della fenomenologia uno sguardo più penetrante. Ciò che abbiamo dinanzi non è solo questa indeterminazione fenomenologica dannosa a causa della quale la fenomenologia ha lasciato nel vago la natura interiore del suo oggetto effettivo. Si presenta al contrario il sospetto che, grazie a questa indeterminazione, al fatto cioè che le modalità fenomenologiche effettive e concrete dell’apparire non siano fissate, una certa concezione della fenomenalità, quella che si presenta da subito e più di sovente al pensiero ordinario e che costituisce nello stesso tempo il presupposto più antico e meno critico della filosofia tradizionale, una concezione della fenomenalità presa in prestito dalla percezione quotidiana degli oggetti del mondo, si sia imposta non per ciò che essa è in effetti, ovvero una forma particolare di esperienza, ma come la struttura dell’apparire in generale e propria di ogni fenomeno. Tale confusione catastrofica dell’apparire del mondo con l’essenza universale dell’apparire corrompe quasi tutte le filosofie che compongono il pensiero occidentale al punto che l’intelligenza critica di queste ultime ritorna molto spesso a cogliere tale confusione al principio dei loro postulati e delle loro analisi. Nella fenomenologia husserliana è il secondo principio che espone a tale confusione in tutta la sua ampiezza.

Tale principio famoso e considerato il più fondamentale nasconde sotto la sua semplicità apparente una doppia tesi che lo rende contraddittorio. Da una parte esso mira in maniera esplicita alla universalità. Ciò di cui esso pretende parlare, sotto il titolo di intuizione, è ciò che rende possibili tutti i fenomeni e tutte le esperienze in qualsiasi ambito e indipendentemente dalla specificità di questo fenomeno o di questa intuizione. Si tratta quindi dell’apparire in generale, è la condizione universale dei fenomeni, la fenomenalità nella sua struttura primaria e onnipresente, nella sua essenza che è designata con la formula di intuizione donatrice originaria.

D’altra parte tuttavia, sotto questo stesso termine di intuizione viene preso di mira un modo particolare dell’apparire che non è più quello di semplice concetto ancora indeterminato. L’intuizione indica in Husserl la struttura della coscienza in quanto coscienza di qualcosa, in quanto intenzionale. Certo, è la intenzionalità riempita che qualifica strictu sensu il concetto di intuizione, ma è alla intenzionalità in quanto tale che l’intuizione deve il suo potere di mettere in fenomenalità, di istituire la condizione di fenomeno. A tale messa in fenomenalità l’intenzionalità procede andando verso ciò che si trova in un certo modo gettato davanti ad essa in quanto suo correlato intenzionale, in quanto oggetto trascendente. È la trascendenza di questo oggetto, la sua continua messa a distanza, che costituisce la fenomenalità come tale.

Da questa definizione unilaterale, ma presa tuttavia come universale, del concetto puro della fenomenalità risulta una limitazione il cui significato non è solo gnoseologico, ma vitale. Non è solo la conoscenza che, secondo la tesi più tradizionale della filosofia occidentale, si trova ad essere colpita da una finitudine insormontabile, invece di essere fondata, ma è la nostra vita stessa che è messa da parte, dimenticata, perduta, se l’essenza della vita non è diversa da quella della fenomenalità originaria e se da questa Archi-Rivelazione la fenomenalità che attinge la sua sostanza nella luce estatica di un mondo e nella sua trascendenza, si trova esclusa per principio. Ma l’intuizione non è che un nome di questa trascendenza ed essa implica quindi in se stessa questa eliminazione incosciente ma radicale della vita.

La pretesa ultima della fenomenologia di rapportarsi ai fenomeni in modo tale che sia raggiunto in essi l’essere in se stesso non urta più qui soltanto nelle difficoltà e nelle contraddizioni già messe in luce, ma piuttosto incontra uno scacco assoluto. Ponendo l’intuizione al principio di ogni esperienza e di ogni conoscenza, la fenomenologia dispiega quella sorta di apparire in cui l’essere non è mai nella sua essenza più originaria: come ciò che zampilla in noi quale Vita infinita che non cessa di darci a noi stessi e di generarci nel momento stesso in cui si genera essa stessa nella sua auto-affezione eterna. Lungi dall’annodarsi nella intuizione, il legame di apparire e essere vi si disfa totalmente al punto che nel fenomeno sortito da essa e specificamente nella evidenza, l’essere non è affatto presentato o donato, ma al contrario eluso o, per dire meglio, abolito. Poiché esigere dall’essere che esso si offra nella intuizione, e per lo più sotto la sua forma compiuta che è l’evidenza, significa negare in effetti che un essere altro da quello intuito o intuibile sia possibile, significa cioè, nei confronti dell’essenza originaria, che apparire e essere attingono nella vita, significa smentire in ultima istanza la sua semplice esistenza. Il secondo principio — in realtà il primo — è un assassinio.

Tale eliminazione mediante il principio dei principi di ciò che, come auto-affezione della vita, costituisce l’Archi-Rivelazione dell’apparire stesso, spiega in primo luogo il destino della fenomenologia storica, dal momento che questa non ha saputo mai rompere davvero con la presupposizione fondatrice della fenomenologia husserliana. Ciò rende inattive le critiche dirette da Heidegger contro di essa. Proprio perché ciò che fa essere l’essere non è affatto l’apparire colto nel concetto della intuizione, ma sfugge irriducibilmente ad essa, è in effetti a una ricerca senza fine e, come si suol dire, a una ermeneutica, che è affidato il compito di non trovare mai ciò che è in questione e che non è d’altronde il senso dell’essere ma la forza che lo fa essere. Tuttavia, ciò che si oppone all’intuizione o alla intenzionalità sotto nomi diversi — Dasein, trascendenza, verità estatica — non fa che enunciare la condizione di questa intuizione o di tale intenzionalità: alcuna fenomenalità altra nella sua materialità fenomenologia pura rispetto a quella dell’Ex-statis in cui si dispiega ogni intuizione viene ad essere concepita o intravista. A dire il vero la semplice questione della possibilità di una materia fenomenologica impressionale, quale quella di una auto-affezione, nella sua essenza patetica non si presenta mai al pensiero.

In Husserl la lacuna centrale della sua fenomenologia, il fatto che essa manchi nel principio dei principi la via trascendentale che costituiva tuttavia la sua principale preoccupazione, tale lacuna rimane mascherata dal carattere sistematico della problematica e dalla ricerca che essa suscita. Una volta collocata l’intuizione al fondo di ogni forma d’essere possibile, una filosofia che si voglia una ontologia formale universale non può compiersi che mediante una delucidazione esaustiva delle sue diverse forme possibili di intuizione alle quali corrispondono altrettanti tipi di evidenza, dal momento che l’evidenza è ogni volta il modo perfetto di intuizione al quale si possa aspirare per ogni forma di essa e così quindi per ogni dominio dell’essere. Il perseguimento minuzioso e accanito di questo progetto grandioso è culminato, tramite la messa a nudo delle nuove forme di intuizione, con la scoperta di regioni di essere ancora sconosciute. E tuttavia questo straordinario ampliamento dell’esperienza umana e dei domini di oggetti che diventava possibile raggiungere va di pari passo con una limitazione tragica. Tutti questi modi di accesso sapientemente riconosciuti e descritti sono precisamente delle forme dell’intuizione alla quale la vita si sottrae per natura. Così la fenomenologia produceva una riduzione in un senso puramente negativo di ciò che essa voleva ampliare e liberare: la nostra relazione con l’essere in quanto relazione fondata nella nostra stessa vita.

È il merito del quarto principio, che designa senza deviazioni i due concetti chiave della fenomenologia e stabilisce una relazione di proporzionalità tra di essi, a restituire alla riduzione un significato veramente positivo. Lungi dal limitare, dal restringere o omettere, lungi dal ridurre quindi, la riduzione apre e offre. E che cosa offre? La donazione. Così la prima conduce alla seconda, l’ampliamento e l’approfondimento dell’una sono l’ampliamento e l’approfondimento dell’altra: quanta più riduzione tanta più donazione. È questo che dobbiamo mostrare.

Il primo intervento della riduzione nelle Lezioni del 1905 e del 1907 resta presa nell’equivoco ontico-fenomenologico che abbiamo denunciato. Nel suo sforzo verso il fenomeno puro, il fenomeno nel senso della fenomenologia, Husserl non distingue nettamente ciò che appare dall’apparire stesso. Tale equivoco corrompe il concetto di dato assoluto, di dato in persona [absolute Gegebenheit, Selbstgegebenheit]^[5] che designa nello stesso tempo il dato e il modo in cui esso è dato. Il raggiungimento di simili dati è allora il fine della ricerca. Così nelle Lezioni del 1905 i dati di sensazione costituiscono i dati assoluti ai quali conduce questa prima riduzione, mentre tutto ciò che oltrepassa tali apparizioni soggettive incontestabili, ovvero l’oggetto trascendente costituito a partire da esse, si trova colpito da un coefficiente di incertezza e quindi messo fuori gioco dalla riduzione. Le impressioni sonore o visuali, per esempio, sono certe mentre l’oggetto preso di mira attraverso esse ma non effettivamente dato in esse potrebbe anche non essere. O ancora: ciò che è direttamente raggiunto, i fenomeni puri, sono i fenomeni della coscienza che prendono di mira l’oggetto, non ciò che è colto mediante essi.

Non possiamo dimenticare tuttavia che è nelle Lezioni del 1905 che interviene, con la designazione esplicita degli oggetti della fenomenologia come «oggetti nella modalità del come».4 La distinzione decisiva del dato e del modo della sua donazione, dell’oggetto e della sua modalità [di offerenza], il quale non è altro che la modalità della donazione, ovvero la donazione stessa. La dissociazione tra i contenuti certi e quelli che sono sospesi non è altro che il modo di risalire alla maniera in cui essi si offrono. Solo essa li rende certi o meno. Dalla riduzione alla donazione — allorché la fenomenologia stessa resta presa nell’equivoco ontico — il tragitto è percorso a partire dal 1905, dal momento dell’apparizione della riduzione.

Il vero senso della riduzione quindi non è mai ontico. Non si tratta di stabilire una suddivisione tra dei contenuti sicuri, su cui potrebbe fondarsi per esempio la conoscenza, ed altri ritenuti dubbiosi. Nel suo principio la riduzione è fenomenologica ed essa lo è per una ragione decisiva: essa si rapporta all’oggetto stesso della fenomenologia, al modo della donazione. In che modo dunque sono dati i contenuti che possono aspirare alla certezza — e in che modo quelli che non lo possono? Nell’evidenza e tramite essa per quello che concerne i primi, al di fuori e indipendentemente da essa per quanto riguarda i secondi. Non è mai il contenuto certo ciò che è evidente ed è suscettibile di proporsi come fondamento per la conoscenza, ma solo ciò che lo rende evidente e in tal modo certo, ovvero l’evidenza stessa. Questo si vuole intendere quando si dice che l’evidenza, e l’evidenza sola, è un principio, questo è il senso del principio dei principi.

Ad esso l’analisi ha già obiettato che, sotto il regime di tale principio, ciò che interessa unicamente quale oggetto della fenomenologia — e con esso ogni determinazione ontologica che riceve la sua consistenza e il potere essere dall’apparire originario — si trova perduto. Poiché mai l’Archi-Rivelazione della Vita si dà sotto lo sguardo dell’evidenza, e non si confonde con esso — e l’essere che noi siamo in quanto generati in questa Archi-Rivelazione, in quanto viventi, vi si sottrae allo stesso modo. Non è un caso se, subordinando ogni ontologia all’Ego trascendentale, la fenomenologia husserliana si è mostrata totalmente inabile nel momento in cui si è trattato per essa di circoscrivere l’essere di questo Ego o ciò che poteva farne le veci.

Lo svanire dell’apparire originario, e quindi dell’oggetto proprio della fenomenologia sotto il regime dei principi dei principi ci costringe a tornare sulla riduzione al fine di conferire ad essa un significato davvero radicale e innovativo. Ciò che i principi della fenomenologia presuppongono è una riduzione pura, una riduzione che, mettendo in opera l’opposizione al contenuto ontico dell’apparire che lo rende manifesto, tematizza infine quest’ultimo allo scopo di riconoscerlo in ciò che esso è. Ora abbiamo appena scoperto che questa riduzione pura, mirante alla fenomenalità pura, invece di liberare questa in base alla sua pienezza, occulta in essa proprio il suo potere più primitivo. Prolungando l’opera della riduzione pura e spingendola fino al suo termine, la riduzione radicale riduce l’apparire stesso, essa mette da parte in questo quella parte di luce che noi chiamiamo mondo per scoprire ciò senza cui tale orizzonte di visibilizzazione non diverrebbe mai visibile, cioè l’auto-affezione della sua esteriorità trascendentale nel pathos senza esterno della Vita. Solo una riduzione che vada fino al termine della sua capacità di ridurre, che sospenda il Dimensionale estatico di visibilità in cui si gettano ogni intuizione donatrice concepibile e l’evidenza stessa, ogni far vedere possibile, scopre la donazione originaria, quella che, dando la vita a se stessa, le dà di essere la vita. E nello stesso modo le dà ogni cosa del mondo e ogni mondo possibile, così che la donazione di questo non si compie mai altrove se non nell’auto-donazione della vita. In tal modo bisogna spingere la riduzione fino al suo termine, secondo quel plus che la radicalizza, affinché la donazione si dia essa stessa secondo il suo proprio eccesso, eccesso che le appartiene come la sua possibilità stessa e senza il quale nulla, nemmeno l’ente più triviale, non sarebbe mai dato. Il tratto che unisce il metodo e l’oggetto della fenomenologia, secondo una proporzionalità ancora inaudita, si svela allora a noi nel quarto principio: quanta più riduzione, tanta più donazione.

Tre osservazioni sono qui necessarie. La prima concerne il fatto che il /più/ che caratterizza la donazione originaria non si limita a significare l’altro apparire che la fenomenologia classica aveva costantemente mancato, quell’altra faccia che non è più quella che il mondo volge verso di noi, che non è alcun volto concepibile, ma il Non-Volto dell’essenza invisibile della vita. Non si tratta, riconoscendo infine la duplicità dell’apparire, di aggiungere al modo della donazione estatica o intenzionale che l’evidenza mette a profitto, quell’altra modalità impensata in cui la vita stessa si contrae secondo le tonalità dei suo stesso pathos. Il plus di questa nuova donazione significa che in questo modo completamente diverso dell’offrire la finitudine che colpisce ogni orizzonte estatico della visibilità perde il suo potere. Mentre nell’orizzonte tutto ciò che è visto rinvia al non-veduto, tutto ciò che è reale al non-reale, tutto ciò che dato al non-dato, di modo che ogni donazione è qui puntuale, provvisoria, circondata di orizzonti non riempiti, sottomessa al fluire, alla scomparsa così come alla vanità della speranza, nella Vita al contrario, che tocca ogni punto del suo essere e non ha mancanze da nessuna parte, tutto è lì completamente integro ad ogni istante. Ma ciò è possibile solo perché in questa donazione ultima della vita non troviamo né schizzi, né aspetti, né orizzonti di riempimento, né contenuti che vengono a riempire, nulla che sia al di là o al di qua di una prova irredimibile la cui materia fenomenologica è il pathos e le cui modalità appartengono ad esso nella loro pienezza ogni volta non oltrepassabile.

Husserl auspicava che nella riduzione non fosse perduto nulla, ma tutto ritrovato ad un livello più alto di consistenza e legittimità. Così per il cogitatum nella riduzione, che egli credeva essere quella del mondo stesso. La riduzione radicale, che lavora all’interno dell’apparire puro e riconosce la sua duplicità al fine di preservare la donazione più originale della vita, può avvalersi di un risultato simile? Lasciando il regno del visibile, ogni mondo concepibile, non è essa stessa colpita da un indice negativo? Al termine di questa riduzione inaudita che elimina ogni trascendenza e tutto ciò che è dato tramite essa, può ancora dirsi: quanta più riduzione, tanta più donazione?

Mai tuttavia si produrrebbe l’affezione per il mondo né, di conseguenza, per un ente se questa affezione estatica non desse luogo ad un’auto-affezione nella Vita, la quale non è altro che questa auto-affezione primitiva. Per questo il mondo non ha essere che nella vita, poiché esso è solo come cosmo vivente, solo la riduzione radicale che traccia nell’apparire la linea di divisione ultima tra l’immanenza e la trascendenza preserva ciò che sfugge nel principio ad essa, pur agendo in questa come sua condizione.

Poiché ogni vedere, per esempio, porta in sé un non-vedere senza il quale esso non vedrebbe nulla: la prova immanente che esso fa costantemente di se stesso. È d’altronde per questo che esso è un vedere patetico, un vedere nel desiderio, nella noia, nella passione e a loro sottomesso. Nella riduzione radicale all’immanenza pura bisogna dire che non soltanto essa non dimentica e non elimina nulla, ma è grazie ad essa soltanto che ciò che questa ha messo tra parentesi riceve le sue proprietà particolari, mentre il vedere, l’intuizione, l’evidenza lasciate a se stesse non le spiegano affatto.

Ma questo non è solo il carattere desiderabile, orribile, odioso di ciò che è visto; è il vedere in quanto tale che possiede dalla vita il suo proprio potere. Che la riduzione radicale all’immanenza pura non colta da Husserl e dalla fenomenologia contemporanea compia da sola la promessa di non perdere nulla, mentre la riduzione all’evidenza manca completamente la vita e così la donazione stessa nel suo tenore originario, rappresenta la nostra seconda osservazione.

La terza concerne la relazione della riduzione radicale alla riduzione pura. La riduzione pura si è presentata come proveniente dapprima sul tragitto che può condurre alla riduzione radicale. Bisogna mettere fuori gioco l’ente, pensare l’apparire in se stesso se lo si vuole riconoscere nella sua duplicità, la suddivisione in essi dei due regni, se si vuole comprendere infine il loro rapporto, la fondazione della donazione finita in quella che esclude ogni orizzonte e in tal modo ogni limitazione.

Ma ecco il rilievo: sebbene sia la prima, la riduzione pura non può compiersi davvero se essa si limita a se stessa e ciò perché, per quanto puro esso sia, l’apparire che essa isola non sussiste affatto per se stesso. Questa è la principale e più potente illusione della fenomenologia contemporanea: credere che l’Essere definito fenomenologicamente come un Dimensionale estatico trovi in ciò una condizione fenomenologica sufficiente — in ultimo, che la trascendenza sia fenomenologicamente e ontologicamente una essenza autonoma. Poiché la riduzione non è condotta fino in fondo come una riduzione all’immanenza pura, la donazione alla quale essa giunge non resta solo presa in una finitudine essenziale: infatti essa non offre nulla — ed essa stessa meno di ogni altra cosa. Proprio perché essa non ha compiuto di fronte a se stessa l’opera originaria di auto-donazione, dal momento che l’apparire non si è prodotto come un auto-apparire e in tal modo non appare affatto, null’altro è suscettibile di apparire in esso. Poiché l’altro dell’apparire, specificamente l’ente, può apparire solo in quanto l’apparire appare in se stesso e in quanto tale.

Ma il suo auto-apparire è ciò che l’apparire astratto, al quale si è limitata la fenomenologia storica, è per se stesso incapace di produrre ed è perché l’apparire resta impensato nella sua possibilità più specifica, e in qualche modo interiore, che esso è sempre stato compreso come l’apparire di qualche cosa d’altro rispetto a lui — e che è esso stesso estraneo alla fenomenalità, come un apparire di ciò che appare, dell’ente. Che ciò che mi appare nell’apparire sia da principio e necessariamente l’apparire stesso è ciò che la fenomenologia classica non ha mai chiaramente colto. Il tema al quale essa si limita, il fenomeno quale si mostra, non implica solo un apparire astratto, incapace di sussistere per se stesso e che come tale rinvia costantemente al suo contrario, all’elemento opaco e morto della determinazione ontica. Ma perché la fenomenologia classica si è limitata all’apparire dell’ente, al punto di ignorare tutto ciò che in fatto di apparire sarebbe radicalmente di un altro ordine, se non perché è l’ente in quanto tale che essa ha preso per guida?

Il fenomeno della fenomenologia non era null’altro in fin dei conti, e a dispetto dei significati illusori conferiti a una pretesa soggettività che si esaurisce nella sua relazione alle cose, che l’apparire greco. Tutte le critiche della soggettività proliferate nella nostra epoca sono delle false critiche: esse possono al massimo rimproverare al concetto di soggettività di pensare male — per esempio di pensare onticamente — l’apparire al quale esse rimandano e che è quello della cosa mondana; esse non pensano mai ad un altro apparire rispetto a questo. Così restano senza saperlo chiuse in ciò che esse criticano.5 È qui che esigendo la radicalità di una riduzione che sospenda la fenomenalità propria dell’ente il quarto principio forza la strada verso una donazione più originaria.

Il quarto principio sorge al termine della problematica di Jean-Luc Marion, ma esso la illumina retrospettivamente e le conferisce la sua carica innovativa. La subordinazione della ontologia alla fenomenologia, che ha determinato tutta la nostra analisi, è esplicita nella breve ma decisiva spiegazione con Husserl del quinto studio.6 La critica troppo sovente e troppo rapidamente accettata di Heidegger contro il suo maestro appare contestabile. È vero che, affascinato da i nuovi campi di oggetti che l’analisi intenzionale faceva sorgere davanti ai suoi occhi, Husserl ha troppo spesso riservato la sua attenzione a queste oggettività piuttosto che al problema dell’essere colto nella universalità del suo senso. Ma non bisogna dimenticare che l’insieme di questi campi di oggetti e nello specifico il campo degli oggetti qualsiasi dell’ontologia formale è subordinato per principio a una istanza più elevata e di ordine diverso. Ora questa istanza è fenomenologica: che essa sia designata sotto il titolo improprio di Ego trascendentale non le impedisce in verità di significare la fenomenalità pura come tale. È ciò che appare nettamente nel testo di Ideen del 19127 in cui, sbarazzatasi del riferimento ontico che non smette di frustrarla in Heidegger,8 «la meraviglia delle meraviglie» è qui «la coscienza pura», «il fenomeno per eccellenza». Non basta più allora obiettare che l’essere di questo soggetto resta indeterminato, così come restavano indeterminati la differenza tra la cosa e la cosa per la coscienza della riduzione husserliana o ancora l’oggettività degli oggetti qualsiasi della ontologia formale, ma si tratta con Jean-Luc Marion di porre la questione di sapere se questo Io non si eccettua dall’essere, non si situa al di fuori dell’essere,9 ipotesi che basterebbe a squalificare ogni problematica heideggeriana dell’essere, per quanto riguarda la sua pretesa alla radicalità ultima in ogni caso.

È nel confronto diretto con Heidegger, che attraversa tutta l’opera e culmina nel quinto studio, che si compie la squalifica dell’ontologia a favore di un nuovo modo di pensare fenomenologico e forse di una nuova fenomenologia. L’oltrepassamento necessario dell’analitica esistenziale dispiegata in Sein und Zeit ha come motivo principale il preliminare ontico di cui il pensiero dell’essere rimane costantemente prigioniero. Il Dasein ha un bell’essere quell’ente unico nell’essere del quale ne va del suo essere e in ultimo dell’essere stesso, resta tuttavia un ente — da cui la critica secondo la quale «il senso dell’essere non può direttamente leggersi in un ente qualsiasi; nel Dasein, in quanto ente, non va letto null’altro che l’essere dell’ente».10

Mettendo deliberatamente fuori gioco l’ente, dal momento che è esso stesso estraneo alla fenomenalità pura, la questione fenomenologica dell’essere, che attraversa delle fasi minuziosamente analizzate e sempre superate (analitica dell’angoscia, ermeneutica del fenomeno del Nulla), giunge alla «irruzione dell’Essere stesso la cui voce convoca direttamente l’uomo11 e che sola è capace di cogliere l’enigma ultimo del fenomeno d’essere». È qui, ci sembra, che la subordinazione della ontologia alla fenomenologia appare ineluttabile e che, in modo più essenziale, questa subordinazione implica il rinnovamento della fenomenologia stessa con la messa in evidenza, al culmine della riduzione, di quella donazione che eccede ogni essere concepibile.

Due tratti decisivi segnano la problematica di Marion, nella misura in cui essa obbedisce ora al quarto principio. Si tratta in primo luogo della regressione dell’Essere alla rivendicazione o al richiamo dell’Essere, regressione costantemente reclamata e compiuta nelle sue analisi finali. «L’Anspruch precede e solo rende possibile il Sein […] . La rivendicazione — più dell’essere. Il Dasein si espone all’essere per divenirne il luogo solo in quanto esso si arrende all’appello». Bisogna «pensare il Dasein in totalità a partire dalla istanza che lo rivendica […] . Il Da resta totalmente determinato dall’appello, poiché esso non serve che a rispondere all’appello».12

Così la riduzione, di cui l’opera segue il tragitto e le diverse formulazioni in questa fenomenologia storica — dagli oggetti alla coscienza di un Io, dagli enti al Dasein, da tutti gli enti all’essere — conduce ad esso solo per subordinare quest’ultimo a qualcosa di più essenziale e di più antico, alla rivendicazione e all’appello.

Ora che cosa aggiunge la rivendicazione all’Essere di più fondamentale e di più primitivo rispetto ad esso, che cosa è tale interrogazione che ci indirizza, se non il fatto che esso viene, che esso ci appare senza maschere o deviazioni, senza intermediari né dilazioni, di modo che ci è impossibile sottrarci alla sua stretta così come a ciò che essa comporta nell’immediato? L’appello dell’essere è semplicemente il suo sorgere in noi, è la stretta nella quale esso si dà a noi nello stesso tempo in cui esso ci dà ad essere. In tal modo non ci sarebbe nulla senza questa irruzione trionfale di una rivelazione che è quella dell’Assoluto.

Ed è qui il tormento singolare, sorprendente, per non dire stupefacente, di questa problematica dell’appello. Ecco quindi che, dopo aver stabilito pazientemente che nell’essere tematizzato infine secondo il suo senso proprio, è il richiamo la maniera in cui esso ci cinge d’assedio e si impossessa di noi, è l’Ereignis che prevale, così che la problematica si rovescia brutalmente. Sulla base del suo modo di esprimersi, ciò che interviene e si essenzifica [s’essencifie] in ultima istanza come primum non è propriamente l’essere e neppure nello specifico il suo appello: è un altro appello che non ha nulla a che fare con quello dell’essere, ma piuttosto finisce col revocarlo, per stabilirsi e regnare al suo posto. Prima di cogliere il senso di questo rifiuto dell’appello dell’Essere, vediamo come esso si sviluppa, come sia possibile, quale istanza più alta dell’essere e più alta del suo appello possa appunto interporsi qui e dare loro congedo.

Tale istanza è l’ennui, che Marion propone in una problematica interamente originale di trattare come un «contro-esistenziale»: invece di predisporre, in quanto struttura del Dasein, il nostro accesso all’essere, il potere dell’ennui13 è al contrario quello di stornarci da tutto ciò che è. E questo perché esso ci distoglie da ogni ente d’essere: dall’essere stesso. In modo ancora più radicale: l’appello silenzioso che l’essere non smette di indirizzare all’Io che si annoia non interessa più quest’ultimo, «non gli dice più nulla».14 Così si crea una situazione straordinaria, quella del più grande pericolo e del più grande disgusto, quella in cui l’Io in qualche modo non è più lì per nulla e per nessuno.

In una prospettiva heideggeriana si potrebbe contestare questa possibilità per l’Io-Dasein di distaccarsi nella noia dall’essere e dal suo appello. Se, secondo l’analitica esistenziale, il Dasein è costituito essenzialmente dalla sua relazione all’essere, se esso è l’ente nell’essere del quale ne va del suo essere in generale, come abolire tale rapporto all’essere senza abolire il Dasein stesso? È, ricordiamolo, per la sua essenza più propria che il Dasein «si solleva estaticamente nella verità dell’essere» — verità dell’essere che è soltanto una sua folgorazione, il rischiaramento tramite cui il Dasein si trova dall’inizio ad essere rischiarato in se stesso e nella sua profondità. Ma tale folgorazione rischiarante è l’appello e in che modo il Dasein interamente rischiarato da essa e collocato allora nella luce dell’essere, nel Da del Sein, potrebbe di colpo e come per miracolo non essere più? Bisognerebbe che esso non fosse più ciò che è, Da-sein? Ora, una tale possibilità non è esclusa da Heidegger: «non contraddice la determinazione stessa del Dasein, inteso come essere — là, il fatto che esso possa non essere».

È il merito estremo di Marion quello di cercare si stabilire nell’analitica stessa del Dasein la possibilità per quest’ultimo di revocare l’appello ritenuto costitutivo della sua essenza. Da una parte lo stupore che suscita l’essere e riveste la stessa funzione dell’appello, quella cioè di«accordare il Dasein a ciò che si destina a esso e che, senza stupore, non potrebbe manifestarsi» — stupore che implica almeno l’attenzione che viene a prestargli il Dasein ma che questo potrebbe benissimo non dargli. Che l’appello si radichi nella necessità eidetica della folgorazione estatica, nella verità dell’essere, non impedisce ma presuppone la contingenza di una risposta che può anche non prodursi — a dispetto dell’appello, a causa di un ennui senza limite di cui in effetti solo il rifiuto radicale di ogni appello può suggerirci l’idea. Cosa che si può ancora esprimere d’altra parte dicendo che se nel suo essere più intimo il Dasein è l’apertura alla verità e quindi all’appello dell’Essere, rimane non di meno — secondo ciò che potrebbe valere senza dubbio anche come un’altra formulazione limite dell’ennui — «la possibilità di non essere sé», la quale arriva così in effetti «a revocare l’appello dell’essere stesso».

Di concerto con sua originalità, la lettura qui proposta manifesta anche un incontestabile potere critico. Questo consiste nel rovesciare contro Heidegger i grandi temi del suo pensiero o, se si preferisce, a proporne una nuova valutazione. È il caso della improvvisa e singolare apologia della inautenticità. È vero che la possibilità dell’inautenticità non è altro che quella di revocare l’appello dell’essere, negando in tal modo «che il rinvio all’essere costituisca la possibilità ultima di ciò che io sono».15

Così si rovescia la famosa analisi della quotidianità. Perché, se nell’esistenza quotidiana il Dasein si sottrae al suo destino di Dasein, all’Essere che si destina ad esso nel suo Da, non vuol dire ciò che questo destino non è necessariamente il suo, che un altro destino si offre ad esso? Ora la semplice possibilità per l’Io-Dasein di un destino altro rispetto a quello di ascoltare l’appello dell’essere e di rispondervi, scuote fondamentalmente la sua definizione ontologica di Sein und Zeit e vieta di comprendere la relazione estatica all’Essere come l’essenza di ogni Da concepibile, come una possibilità che è una essenza, così da non vedere null’altro in essa che una semplice possibilità tra altre. L’analitica del Dasein ha smesso di costruire la filosofia di ciò che fa l’humanitas dell’uomo e si limita a indicare una delle virtualità della sua natura.

Per quanto paradossale sia questa ultima riduzione — la messa fuori gioco dell’essere nella sua pretesa di definire il nostro essere tramite il suo appello — il suo significato in ogni caso è esplicito e le analisi terminali lo dimostrano: la squalifica dell’appello dell’essere nell’ennui operante come un contro-esistenziale non ha altro fine che quello di aprirci a un altro richiamo o piuttosto a «un richiamo completamente diverso» o meglio ancora non a un richiamo ma «al richiamo in quanto tale». È qui che all’appello dell’essere si sostituisce una sorta di «modello del richiamo» o ancora una «forma pura del richiamo» — il richiamo come tale quindi. Il motivo di questa sostituzione è avanzato: qualsiasi appello concreto e, nello specifico, quello che l’essere rivolge al Dasein, presuppone come sua propria possibilità una struttura pura dell’appello, il suo modello o la sua forma pura. Ancor prima che l’essere rivendichi, è l’appello come puro appello a rivendicare. E ancora: «la rivendicazione stessa dell’essere non può chiamare che rivestendo questa forma pura».16

Da questa sussunzione dell’appello dell’essere sotto la forma pura dell’appello tale problematica dei limiti guadagna un doppio vantaggio: da una parte quello di non contraddire un immenso pensiero di cui essa si è nutrita, ma piuttosto di integrarlo — e ciò per quanto concerne chiaramente l’analitica esistenziale stessa — in una prospettiva più vasta, aperta in ogni caso a dei modi di esperienza altri rispetto a quelli che si iscrivono nel fenomeno dell’essere. Dall’altra parte, e proprio grazie a questo riferimento nonché ad ogni altro riferimento possibile, ad un appello del tutto diverso, quello di evitare che il rifiuto dell’appello dell’essere interpretato come condizione dell’apertura all’appello in quanto tale non appaia troppo formale, per non dire indeterminato e vuoto.

E in tal modo contesta il quarto principio. Poiché il quarto principio spinge la riduzione al limite, riduce sempre di volta in volta l’ente all’essere e in ultimo l’appello dell’essere solo per condurci a una certa X indeterminata, a un modello, a una forma pura, a un Assoluto, a un Trascendente, essi stessi definiti in un modo puramente formale — ma alla donazione e al suo culmine, all’apparire più originario. Nel quarto principio tutto è fenomenologico. E come la riduzione lo è in quanto, come riduzione pura dapprima e radicale in seguito, coglie esplicitamente per tema la fenomenalità stessa e in essa il modo più primitivo della sua fenomenalizzazione, nello stesso modo la donazione alla quale essa conduce non si lascia pensare né come forma né come modello, ma solo a partire dal Modo di questa fenomenalizzazione prima.

È su questa strada che si impegna e procede da principio il pensiero di Marion. Poiché, per quale motivo sostituire all’essere il suo appello o la sua rivendicazione, se non per designare in esso ciò che viene per primo, la folgorazione di un apparire che ci sommerge e che, in quanto folgora, ci fa essere nello stesso tempo che esso è? Ora, se è questo appello dell’essere stesso che deve essere rigettato17 perché si apra la possibilità di un altro appello e in esso soltanto del più essenziale, che vuol dire questa ultima sostituzione?

A tale domanda non c’è che una risposta: se l’appello dell’essere non è che la sua apparizione e se conviene preferire a tale appello un altro, tale opposizione può significare solo quella tra due fenomenalità e quindi di due fenomenologie. Essa implica la duplicità dell’apparire nello stesso tempo in cui essa indica una gerarchia.

Di quale fenomenalità l’appello dell’essere è il nome? Della sua verità estatica. Proprio perché esso trova in questa il suo basamento fenomenologico, l’essere heideggeriano può e deve essere criticato e vi è un senso all’escludersi dall’essere. L’a-Dio, l’altrimenti che essere di Levinas, il fuori-dall’essere di Marion possono significare il congedo dall’essere solo perché questo ha usurpato addirittura il suo nome, poiché esso non rappresenta, specificamente presso Heidegger, che una istanza regionale. Tale limitazione impensata ma decisiva della problematica, il pensiero che subordina l’ontologia alla fenomenologia riesce a coglierla nel momento in cui essa porta a termine tale subordinazione. L’essenza di questo Essere rispetto a cui può essere sospeso l’appello è la fenomenalità del mondo, la finitudine di questo Essere è cioè la finitudine di ogni orizzonte estatico.

Dare congedo all’essere così inteso — il quale non è che nella comprensione del Dasein che si rapporta ad esso come a ciò che esso comprende, come a un senso — è possibile solo a una condizione: che al dispiegamento estatico dell’apparire nell’orizzonte del mondo si opponga senza misura il suo auto-apparire non estatico nella essenza patetica della Vita. È possibile dare congedo all’essere solo fenomenologicamente. È possibile dare congedo all’essere solo se, in assenza di ogni fenomenalità estatica e a dispetto di tale assenza, qualcosa piuttosto che nulla è ancora possibile — qualcosa, ovvero l’Archi-Rivelazione della Vita. Altrimenti che essere vuol dire apparire altrimenti. Solo la Vita nella sua Archi-Rivelazione chiama ancora e può chiamare, allorché l’essere ha preso a tacere.

Soltanto perché l’appello della Vita è fenomenologicamente determinato, perché nella sua carne affettiva e nella sua brutalità dell’emozione o dell’amore esso non assomiglia a null’altro e in ogni caso per nulla allo svelamento dell’ente nel mondo così come neppure all’Ek-stasis di quest’ultimo, è possibile parlare di un altro appello rispetto a quello dell’essere. E non c’è, non c’è mai al di là dell’irruzione patetica in noi della vita, al di là della sua parola i cui termini siano il nostro desiderio, la nostra passione o il nostro amore, una forma pura dell’appello, una struttura di richiamo più alta o differente da quella del pathos.

Poiché l’appello è sempre determinato. La determinazione dell’appello è fenomenologica e si esaurisce ogni volta nella sua fenomenalità effettiva. Ma questa non si esaurisce mai. Sempre di nuovo risorge l’apparire, ma in un modo che ogni volta è il proprio. Riconoscere questo modo per quello che è, nel come della sua materialità fenomenologica concreta, non significa tenersi ad un grado di generalità meno elevato di quello di una forma o di una struttura pura di appello. Al contrario: la struttura dell’appello, per quanto essa si trovi descritta per lo più secondo la bipolarità dell’appello e della risposta, modella questa disposizione su un modo determinato d’apparire, quello in cui l’opposizione è costitutiva della fenomenalità — e questo apparire è precisamente quello del mondo. Poco importa che la coppia Appello/Risposta, sostituendosi alla dicotomia classica Soggetto/Oggetto pretenda, eliminando quest’ultima, di rinnovare il nostro rapporto con l’essere: come non vedere che esso non fa che rovesciare una relazione pensata in entrambi i casi come creatrice della fenomenalità, ovvero che finisce col conservarla? Lungi dallo sfuggire al richiamo dell’Essere e alla sua fenomenologia implicita, la struttura dell’appello vi rinvia e riceve giustamente da essa la sua struttura propria: l’opposizione dell’Ek-stasis.

Questa è concepita come fondatrice di una libertà e ciò che caratterizza l’appello in effetti è il fatto che esso attende e suscita una risposta che gli si può accordare o meno. È proprio su questa libertà della risposta, dell’accoglimento o del rigetto, che Marion fa riposare l’ultima possibilità per l’Io — Dasein di «poter assumere il destino dell’essere come quello del suo essere».18

Ma ciò che caratterizza il raggiungimento della vita è che essa sopravanza ogni risposta e non ne attende alcuna. Poiché, nella irruzione della vita e nel suo flutto che ci attraversa e ci rende come ebbri di lei e di noi stessi, non vi è alcuno Scarto, non vi è il minimo arretramento in cui si trami la possibilità di una risposta, di un sì o di un no. E questa impossibilità di ogni ripiegamento e di ogni replica,19 questo modo di essere aderenti a sé, assestati punto per punto a tutto ciò che è, è la prova eterna e irrefutabile, instancabile e serena che la Vita fa di se stessa ad ogni istante, è la ferita che essa scava in noi, che è la nostra soggettività stessa e ciò che fa di noi dei viventi.

E se non c’è qui il posto per una risposta, che ci darebbe il piacere di assumere o rifiutare il destino dell’essere, è perché non si può neppure parlare di appello. L’altro appello, l’appello della vita, si tiene al di là di ogni appello, non ci propone di vivere. Ci ha già gettati nella vita, schiacciati contro di essa e contro noi stessi, nel soffrire e nel gioire di un pathos invincibile. L’appello ci ha già fatti vivere nel momento in cui lo intendiamo, il suo ascolto non è altro che il rumore della vita, il suo brusio in noi, la stretta nella quale essa si dà a se stessa e ci dà a noi stessi in una sola e medesima donazione.

E ciò fa sì che in ogni vivente non vi sia null’altro che la Vita — una vita che non è la sua nel senso che sia esso stesso a crearla, porla, volerla — ma che gli appartiene, irriducibilmente e per sempre, per la stessa ragione: ovvero perché non c’è niente in lui, neppure la minima testimonianza [épreuve] della più piccola impressione che non sia l’esperienza [épreuve] che la vita fa di se stessa, neppure la più piccola particella di sé che non sia il Sé della Vita. Per questo noi diciamo che noi siamo nati dalla Vita e che questa nascita non cessa, perché nell’auto-affezione che ci fa sentire noi stessi in ogni istante non v’è null’altro che l’auto-affezione della vita stessa, la sua Archi-Rivelazione.

Ed è per questo anche che l’io [moi] generato nella vita, quel me [me] di Marion, è anche un io [«moi»], un ego, perché la vita, secondo l’ammirevole parola dei mistici «non può dare poco», poiché essa non può dare null’altro che se stessa e così l’Ipseità, che nella sua auto-donazione essa genera eternamente in sé come in tutto ciò che è vivente.

Fuori dall’essere, altrimenti che essere, l’essere che si rapporta all’essere e che è solo in questo rapporto, che è Là solo per l’essere, non è possibile che a condizione di una fenomenologia fondamentale e della riduzione radicale che essa mette in pratica. Quale istanza pratica la riduzione radicale che mette fuori gioco l’appello dell’essere così come ciò che si trova definito nel suo essere tramite questo appello? L’ennui, secondo il senso che Marion gli conferisce. Ma non dobbiamo allora porre all’ennui la domanda che l’autore di Riduzione e donazione poneva all’Ego husserliano, così da smarcarsi da ogni ontologia nell’atto stesso mediante il quale esso la costituisce — la questione del luogo in cui questo Ego può ancora mantenersi, dell’area che esso abita e infine del suo essere?

O ancora, più precisamente: il potere riduttore dell’ennui dipende dal fatto che esso si annoia di tutto e dell’essere stesso, o forse dal fatto che, annoiandosi di tutto e dell’essere, esso non riesce mai a farla finita con se stesso? Poiché nessun ennui libererà mai l’ennui da se stesso. Ove si trova allora questo ennui se non nella Vita, là dove il legame della vita con sé non può essere infranto? È l’auto-donazione della vita che regge tutto, che dà tutto, che dà ancora l’ennui a se stesso quando l’appello dell’essere ha taciuto, l’essere si è disfatto e essere rapportandosi all’essere non è più nulla.

«Quanta più riduzione»: tale congedo estremo e radicale [dà] significato all’essere e a tutto ciò che è, a tutto ciò che viene da lui e o va a lui, parla e chiama in suo nome — in nome del mondo. «Tanta più donazione»: ciò che, in assenza di questo essere e del suo appello, dell’apparire estatico, dà comunque, dà tutto — l’auto-donazione, la Vita e in essa tutti i viventi e il cosmo stesso.

Il quarto principio, così come lo enuncia Marion, non reca alla fenomenologia un semplice arricchimento degli sviluppi già inclusi nei suoi presupposti storici. Assegnando ad esso degli obiettivi fin là non visti e di maggior ambizione, esso l’impegna su dei percorsi nuovi.

Michel Henry, «Quatre principes de la phénomenologie», in Revue de Métaphysique et de Morale, n 1/1991. Traduzione italiana a cura di Giuseppe Crivella.


  1. J-L Marion, Réduction et donation, Recherches sur Husserl-Heidegger et la phénoménologie, Paris, PUF, 1990, p. 302. Da ora in nota sempre con RD. ↩︎

  2. Rispettivamente AT IX-III, p. 28; AT, IX, p. 22. ↩︎

  3. AT, X, p. 360. ↩︎

  4. Leçons pour une phénoménologie de la conscience interne du temps, trad H Dussort, PUF 1964, p. 157. ↩︎

  5. M. Henry, La critique du sujet, Cahiers confrontation, n 20, pp. 141-152. ↩︎

  6. RD, pp. 211-247. ↩︎

  7. Citato e commentato da Marion, Ivi, p. 243. ↩︎

  8. «[…] che l’ente è», dice la postfazione del 1943 a Che cos’è Metafisica, citato e commentato, Ibid. ↩︎

  9. RD, p. 240. ↩︎

  10. Ivi, p. 208. Mi permetto di richiamare qui la vibrante critica che avevo diretto contro il preliminare ontico della fenomenologia heideggeriana ne L’essence de la manifestation, PUF 1963, 11-12-13. ↩︎

  11. RD, p. 278. ↩︎

  12. Ivi, pp. 297, 298, 299. ↩︎

  13. Letteralmente /noia/. Lasciamo il termine francese non tradotto perché riteniamo che il corrispettivo italiano non riesca a rendere in pieno tutta la vasta area di risonanze semantiche afferenti a quello stato di stagnazione esistenziale che l’ennui dispiegherebbe, divenendo così agli occhi di Marion e di Henry una specie di breccia metafisica tramite cui sottrarsi all’appello dell’essere per entrare in diretto contatto con l’apparire stesso dell’apparire. Il traduttore coglie qui l’occasione per ringraziare il Professor Gens della facoltà di Filosofia di Dijon, consultato in merito a questo dilemma di traduzione [NdT]. ↩︎

  14. Ivi, p. 284. ↩︎

  15. Ivi, pp. 292, 291, 292, 293. ↩︎

  16. Ivi, pp. 294, 295, 295, 296, 297. ↩︎

  17. Nel testo Henry usa /débouté/, il quale è un termine proprio del lessico giuridico avente il significato molto forte di respinta formale riferita alla presentazione di una istanza [NdT]. ↩︎

  18. Ivi, p. 293. ↩︎

  19. Gioco di parole intraducibile in italiano tra /repli/ e /replique/ [NdT]. ↩︎