Sulla costituzione ermeneutica del pensiero rabbinico

1.

Secondo la lettura heideggeriana dell’ontologia e della teologia occidentale, queste sono caratterizzate in modo pregnante dal loro essere «logie», cioè pensiero del «fondamento»: esse, infatti, «ricercano il fondo dell’essente», risalgono dal causato alla causa, nella sua universalità e totalità.1

Se prendiamo per buona questa lettura, il pensiero ebraico (più precisamente, quello del cosiddetto Giudaismo rabbinico) sembra divergere essenzialmente dal pensiero «metafisico» che ha dominato la tradizione dell’Occidente. E forse — almeno in certa misura — si avvicina al paradigma «ermeneutico» della riflessione contemporanea.2

Per il pensiero rabbinico, il fondo del pensiero o dell’essente è senza dubbio il Libro «donato» agli uomini da Dio stesso. «Voltala e rivoltala poiché tutto è in essa»: questo detto famoso di Ben Bag Bag esprime con chiarezza il carattere ultimativo e inclusivo della Torah, che si presenta come l’orizzonte e il medium del pensare.3

Non vi è, nella riflessione dei rabbini, ricerca del fondamento come articolazione del logos intorno alle cause prime o al cominciamento assoluto. Non può esservi. Non c’è primum o trascendentale, verità metafisica, naturale o razionale, da cercare nella nell’ontologia o nella logica, «dietro» o «oltre» quelle parole. Se il cominciamento è la Narrazione e la Legge data, il pensiero può essere solo «commentario» intorno alla Narrazione e alla Legge. Si interroga il linguaggio del testo, e — semmai — si esplora la realtà (e la verità) «dentro» le sue parole. Ricercare è li-derosh: interrogare, interpretare, investigare il senso dei suoi versetti. La ricerca è midrash.

In questo senso, si può definire il pensare rabbinico come essenzialmente «testocentrico’: riflessione sugli eventi e sulle esperienze come sono dati nelle parole/immagini di un libro (riflessione tutta «a posteriori’). E certamente, si può definirlo come un pensare «ermeneutico», laddove pensare significa innanzitutto commento e interpretazione della scrittura, dei testi, di una tradizione.

Le riflessioni che seguono verranno ad articolare meglio (e a complicare un po’) queste affermazioni, dal momento che il circolo ermeneutico elaborato dal Giudaismo rabbinico è di natura complessa, e anche perché — come credo — l’opposizione tra pensiero metafisico (logocentrico) e pensiero ermeneutico (testocentrico) ha un senso, solo se non viene eccessivamente irrigidita.

2.

La riflessione rabbinica si costruisce su una dinamica continua fra tre diversi fuochi: Scrittura — Tradizione — Interpretazione.

Sarà bene ricordare, innanzitutto, che il termine Torah rimanda a un’area semantica vasta: può indicare non solo la Legge mosaica (o i primi cinque libri della Bibbia), ma l’insegnamento profetico e sapienziale, e finanche tutto il complesso di norme sviluppato dalla tradizione.4 Non a caso, per i maestri del Rabbinismo, Scrittura e Tradizione risalgono allo stesso modo all’esperienza originaria della Rivelazione sul Sinai. Ciò che della rivelazione divina non si è incarnato nello scritto, o meglio, ciò a cui lo scritto allude soltanto, è disvelato dalla tradizione orale. Il Testo appare come fondamento, orizzonte e medium del pensare, ma esso è già in qualche modo «duplice’: accanto alla Torah scritta, c’è la Torah orale.5

Il rapporto dialettico tra Torah scritta e Torah orale costituisce il fulcro del Giudaismo rabbinico, e solleva domande e discussioni complesse già nella letteratura talmudica e midrashica. Esse riguardano non solo il valore assoluto delle due fonti della rivelazione (è più grande la Torah scritta o la Torah orale? qual è la loro origine?), ma anche i modi della loro interpretazione.

Da un lato, i libri della Bibbia (e in special modo, il Pentateuco) vengono considerati come «Torah dal cielo», parola di Dio in senso stretto (al di là di tutti i dibattiti sul ruolo dell’uomo nella sua composizione).6 Dall’altro, è diffusa l’opinione che — dopo il dono del Sinai e la fine della profezia — «la Torah non è [più] nei cieli»: essa è stata affidata alla responsabilità di Israele, alla interpretazione secondo le possibilità dell’umano e secondo le regole della maggioranza e dell’autorità terrena.7

Da una parte, ogni istanza della tradizione orale appare «inclusa» nella Scrittura: si afferma, ad esempio, che la Mishnah, il Talmud, l’Aggadah, e perfino la lettura più attuale che un discepolo acuto fornirà davanti al suo maestro, tutto «è già stato detto a Mosè sul Sinai».8 D’altra parte, alcuni maestri tendono a sfumare il «massimalismo» di questa impostazione (che finisce per dare legittimità di rivelazione ad ogni lettura possibile) e a proporre concezioni più «moderate» (secondo cui, ad esempio, Dio avrebbe rivelato a Mosè le questioni, ma non le risposte, oppure i principi generali, ma non le determinazioni specifiche).9

E» evidente, a ogni modo, che l’Ebraismo vive di questa dialettica continua, che non fissa e non privilegia né la Scriptura né la Traditio. Entrambe sono costantemente rimesse in gioco dal terzo polo, quello della Interpretatio. Le affermazioni più esplicite ci dicono che la novella interpretazione (hiddush) è accolta senza riserve e con gioia solo se essa si mantiene nell’alveo della tradizione, altrimenti viene rifiutata. Tuttavia, non è facile stabilire che cosa voglia dire essere rispettosi della Scrittura e nel solco della tradizione. L’esperienza dell’interpretazione si presenta come un’esperienza potente, legata alla rivelazione stessa del Sinai, e altrettanto valida.10 Inoltre, come vedremo meglio nel paragrafo successivo, la pratica concreta dell’esegesi rabbinica sembra delineare un’azione interpretativa apparentemente senza limiti.

Queste poche indicazioni bastano a mostrare che il circolo del linguaggio (e della Rivelazione) in cui pensa l’ebreo è di natura complessa. Potrebbe essere immaginato come un cerchio che ruota su tre fuochi, oppure come una spirale che si allarga in tre cerchi concentrici (Scrittura — Tradizione — Interpretazione). Il rapporto fra loro viene elaborato in modi diversi, ma è sempre estremamente dinamico.

3.

Una questione di fondo sembra emergere immediatamente: essa riguarda il rapporto dialettico tra natura testocentrica e natura ermeneutica nel pensiero rabbinico. Da un lato, la Torah resta innegabilmente primum e medium di ogni riflessione (e sembra comprendere in sé tutto). D’altro lato, la potenza dell’azione interpretativa appare fortissima (e sembra trascendere il testo stesso).

Soffermiamoci, per il momento, su questo secondo aspetto. Abbiamo visto in precedenza che il valore della tradizione orale eguaglia quello della tradizione scritta, e che un’esegesi tradizionale o una nuova interpretazione possono rivendicare il proprio carattere «rivelativo». Non stupisce, quindi, che il potere dell’interprete nella tradizione rabbinica sia notevolissimo e legittimato nella sua audacia.

In effetti, come è noto, la lettura rabbinica sembra spesso stravolgere il senso «piano» dei passi biblici; può utilizzare i versetti per una elaborazione personale o attualizzante; costruisce nella sua ri-narrazione qualcosa di assolutamente nuovo rispetto al contesto scritturale… La forza del lettore è tale che, in molte occasioni, risulta difficile stabilire se il testo biblico sia davvero oggetto di interpretazione (ad es., per rispondere a problemi esegetici interni) o se esso sia piuttosto utilizzato come «appoggio» per validare una norma esterna o un’opinione di stretta attualità. E. Urbach ha così efficacemente definito un certo tipo di esegesi rabbinica: «Rabbi Akiva incorporated the Oral Law in the Written Law, in its words, and in its letters».11 Il lavoro esegetico arriva ad essere qui «interposizione» nelle parole del testo, partecipazione a una ri-scrittura continua e creativa della Torah.12

Si spalanca, allora, in tutta la sua gravità, il problema dei limiti dell’interpretazione. In che misura il testo stesso viene rimesso in gioco (o ri-scritto) dall’interpretazione? In che misura il testo «di partenza» è diverso dal testo «di arrivo» (dopo l’interpretazione)? Si tratta, evidentemente, di domande cruciali, anche per il dibattito contemporaneo. Ma è necessario distinguere bene i diversi piani su cui tali problematiche possono essere affrontate, e la complessità di ognuno di essi.

Un’analisi storico-culturale dovrebbe distinguere innanzitutto tra le diverse forme dell’esegesi rabbinica: tra l’esegesi tipica del corpus normativo (midrash halakhah) e quella di carattere non-normativo (midrash aggadah); tra l’approccio che tiene conto del contesto e delle regole del linguaggio biblico (peshat) e l’approccio che si presenta come libero da questi vincoli, esplicitamente creativo e ri-narrativo (derash); tra la prospettiva secondo cui «la Torah parla il linguaggio dell’uomo» (tipica, presumibilmente, della scuola di Rabbi Yishmael) e la prospettiva che considera il linguaggio della Bibbia come propriamente divino e onni-significante (R. Aqiva).13 Un’analisi di questo tipo dovrebbe anche indagare se, e in che misura, la codificazione di certe «regole» esegetiche (middot) sia intervenuta a dare dei limiti all’interpretazione. In questo contesto, si toccherebbe, inevitabilmente, la questione della «infinità» delle interpretazioni (naturalmente, legata alla «infinità» del Testo) — ed emergerebbero, anche qui, tendenze e modelli differenti.14

Vorrei abbozzare, in questo contesto, un’analisi di altro tipo. Tradizione e Interpretazione sembrano poter «proiettare» nella Scrittura — e poi, «tirar fuori» da essa — contenuti e segreti che il testo originario sembra lontano dal rivelare ad occhi «normali». Questo processo non si riscontra solo nell’ermeneutica della mistica medievale, ma anche in molti momenti dell’esegesi rabbinica più tradizionale. Il Talmud e il Midrash «scoprono» nelle pieghe dei versetti biblici la legittimazione di prescrizioni legali, di pratiche rituali, di regole morali e comportamentali, elaborate molto più tardi dal Giudaismo rabbinico; e vi «scoprono» anche prospettive cosmologiche e segreti relativi alla creazione del mondo, prospettive escatologiche, allusioni alle realtà superiori, ecc. Assistiamo, dunque, a due processi diversi e simultanei: a) tradizioni «esterne» (o extra-testuali) vengono «assimilate» e «ricollocate» nella Scrittura; b) realtà «esterne» vengono «pensate» e «riposte» nella Scrittura.

Interrogarsi su tale questione porta, naturalmente, molto lontano. A un primo livello, si tratta di capire come — nella tradizione rabbinica — si bilanciano l’elemento testocentrico e quello ermeneutico. A un livello ulteriore, si ripropone il confronto iniziale tra la costituzione testocentrica e ermeneutica della riflessione rabbinica e la costituzione logocentrica e onto-teo-logica della metafisica occidentale. In che misura il pensiero e il linguaggio dei rabbini vanno a cercare «fondamenti», «oltre» il linguaggio del testo?

4.

Nel paragrafo precedente abbiamo sottolineato il carattere aperto, innovativo e dinamico dell’ermeneutica rabbinica, dove domina la potenza dell’azione interpretativa. E tuttavia, abbiamo accennato al fatto che questo «esodo» interpretativo si accompagna continuamente al «ritorno» al Testo originario. In questa sezione, vorrei indicare come la permanente natura testocentrica del pensare rabbinico sia elaborata (e praticata) su piani diversi.

Il primo impulso è quello di indagare le speculazioni esplicite sul linguaggio e sul testo di cui sono piene la letteratura talmudico-midrashica e quella mistica (antica e medievale). L’idea di fondo è che la Scrittura sia «divina». Questa assunzione conduce ad affermazioni molto radicali di mistica e magia del linguaggio, che attribuiscono un valore e un potere straordinari alla Bibbia, o alle lettere dell’alfabeto ebraico.

Un’antica e fortunata tradizione sviluppò l’idea di una Torah originaria o primordiale, sostenendo che il mondo «è stato creato per mezzo della Torah» e «sussiste grazie alla Torah». E su queste basi, le tendenze più mistiche dell’ebraismo arrivarono ad ampliare in modo sempre più audace il ruolo della Torah: essa «comprende e mantiene tutto», dimensioni terrene e dimensioni celesti, ovvero — come affermano infine certi cabbalisti — la Torah è il nome di Dio, la veste di Dio, un’emanazione speciale di Dio, Dio stesso!15

Per altri versi, alcune tradizioni amoraitiche (e poi, di nuovo, molta mistica medievale) iniziarono ad alludere a una Torah superiore o escatologica — una Torah «celeste», «nuova», del «mondo a venire», che si darà con l’avvento del mondo messianico. In questo caso, non si tendeva a porre in una Scrittura primordiale i caratteri del divino (infinità, perfezione, potenza creatrice, ecc.), ma si delineava l’esistenza di una Legge più alta, donata da Dio alla fine dei tempi.

Non è cosa semplice chiarire il nesso tra queste idee della Torah e il testo mosaico. Va detto, tuttavia, che la maggior parte delle affermazioni rabbiniche fanno riferimento proprio alla scrittura attuale — la Torah «di questo mondo» — come Scrittura divina, ultima e onnicomprensiva. D’altra parte, si tratta di un’entità dinamica, di una scrittura che «si rinnova» e «si dona di nuovo ogni giorno». La Torah deve essere «rivelata» in tutti i suoi aspetti nascosti, deve essere «aperta» dai suoi lettori e «crescere» con i suoi interpreti. Qui, dunque, la Scrittura divina (primordiale e finale) appare come lo stesso testo mosaico: un testo, tuttavia, che è «dispiegato» nelle sue profondità e «compiuto» solo dalla tradizione e dall’interpretazione.

Discutendo del carattere «divino» della scrittura, occorre sottolineare infine un altro aspetto su cui la tradizione rabbinica ritorna in vari modi. La Torah — sia quella scritta sia quella orale — è Rivelazione: non è, dunque, dottrina razionale, le cui verità possano essere raggiunte con la mera ragione umana o spiegate in toto. La Legge (nomos) non coincide qui con la natura (physis).16

Accanto a un’analisi rigorosa di queste speculazioni (e dei loro sviluppi nelle diverse epoche della tradizione ebraica), credo che sarebbe utile esplorare certe forme storico-culturali, certi aspetti della «pratica» del mondo rabbinico, che — sebbene in maniera più indiretta — possono gettar luce sulla costituzione testocentrica del pensiero.

E» evidente, innanzitutto, che — in tutte le fasi del Giudaismo rabbinico — lettura ed esegesi del Testo rivestono un ruolo di primo piano nell’esperienza religiosa. Sia nella dimensione collettiva e quotidiana, sia nelle forme più individuali; sia come prassi rituale (le tredici regole esegetiche di R. Yishmael vengono ripetute ogni giorno nella liturgia del mattino!), sia come esperienza mistica. L’esperienza religiosa normale viene pensata e vissuta primariamente come esperienza del medium testuale: esperienza di «ascolto», «visione», «decifrazione» del Libro. E il mistico ebreo — piuttosto che cercare una liberazione dai lacci «umani» del linguistico e del corporeo per attingere le dimensioni del silenzio «divino» — fa esperienza delle «profondità» della parola scritta.

La centralità del Testo può essere inoltre facilmente ravvisata, osservando i generi letterari più propri della tradizione ebraica. E» difficile sopravvalutare il fatto che, in tutte queste forme, di tutte le epoche, ciò che domina è il «fare midrash», ovvero la pratica interrogativa-interpretativa sulla Scrittura biblica. Vi è una costante storico-culturale che dà forza a questa affermazione: ogni qual volta la tradizione ebraica ha sviluppato (o assorbito dall’esterno) un genere letterario autonomo, ha poi sempre articolato una letteratura capace di mediare quel genere con la Bibbia. Così, dopo che i maestri del Giudaismo rabbinico ebbero elaborato un corpus di norme legali e regole comportamentali essenzialmente nuove (la Mishnah), lo sforzo successivo fu quello di riannodare questa struttura normativa e rituale al Canone scritturale (ciò che avviene nella Gemara, una sorta di commento alla Mishnah). Così, la speculazione mistica antica sul Carro divino o sull’Opera della creazione è stata poi sviluppata in commentari che la legavano strettamente alla lettera e ai contenuti della Bibbia (tipico è il caso dei commentari al Sefer Yetzirah). Così, l’assorbimento della filosofia è potuto avvenire solo a patto di conciliare le verità «greche» con il discorso biblico (mediante la sua interpretazione allegorica, ecc.). Così, i generi letterari più tipici della mistica medievale (la Qabbalah) sono il commento alla Torah, il commento alle aggadot talmudiche, la ricerca delle ragioni dei precetti; e persino quando il suo discorso appare più speculativo o slegato dal dettato della Bibbia (commentari alle dieci sefirot; trattati di cosmologia mistica, ecc.), esso si presenta costantemente come un florilegio vertiginoso di citazioni e interpretazioni di versetti.

Si tratta, è bene sottolinearlo, di un’esperienza del Testo nella sua «lettera». Laddove — infatti — la Scrittura sia divina, le parole «significano» nella loro stessa costituzione materiale, fisica, sensoriale (di certo, non potranno mai essere prese come ombra o figura, veicolo convenzionale o segno arbitrario, secondo quel dualismo tra corpo e anima, tra lettera e spirito, tra significante e significato, che viene ad imporsi in forme diverse nell’orizzonte onto-teo-logico). Nel paragrafo successivo metteremo in evidenza le conseguenze in campo esegetico di questa percezione iper-letteralista o iper-semantica della Scrittura. Essa è stata vista nel tempo come un segno di insufficiente spiritualità o come l’indice di un «primitivismo pre-logico’,17 ma potrebbe essere considerata come l’estrema implicazione di una visione del Testo, in cui la lettera stessa si offre come fondamento assoluto.

Occorrerà osservare, infine, certe modalità concrete della pratica esegetica. Sebbene l’esegesi rabbinica possa essere indagata solo in uno studio di ampio respiro, vorrei offrire qui minime indicazioni preliminari su alcuni dei suoi caratteri più tipici: letteralismo, inter-testualità, ri-narrazione, pluralismo.

  • Se l’approccio alla Scrittura secondo lo peshat tiene conto, almeno in certa misura, della natura umana (e del contesto storico-linguistico) del testo, l’approccio del derash parte dal postulato della divinità della parola biblica. Da qui, un’interpretazione «letteralista» o «iper-letterale» (che, ai nostri occhi, appare «non-letterale’). Ogni espressione, ogni parola, ogni lettera del testo biblico diviene significante; non ci sono dettagli inutili o superflui; non possono esservi contraddizioni; tutto è in corrispondenza con tutto. Il midrashista carica di valore semantico non solo la singola parola, sganciata dal suo contesto, ma il numero delle sue lettere, la loro forma, e così via.18

  • Non sorprende che il lavoro esegetico del Midrash sia principalmente «inter-testuale’: esso si occupa di gettar luce sul senso di un termine, di un versetto o di un passo della Bibbia associando ad essi altri elementi del testo. Il fine ultimo non è quello di «spiegare» le parole del Testo, rimandando alla cosa/verità che esse nascondono, ma quello di associare le parole e analogizzare le esperienze, ampliando costantemente l’area semantica della Scrittura, in modo da offrire elementi di senso per l’esperienza attuale del lettore.19

  • Una modalità fondamentale dell’esegesi rabbinica è il suo essere «ri-narrativa». Il Testo non è un codice chiuso, da tradurre in un sistema universale e concettuale, ma una narrazione aperta, da sviscerare nei suoi diversi volti e da ricostruire continuamente.

  • Questo approccio interpretativo non può che essere «pluralistico». Viene costantemente ripetuto ed elaborato il detto di Sal. 62, 12: «Una parola ha detto Dio, due ne ho udite». La parola divina è necessariamente polisemica, offre volti differenti e livelli di significato plurimi. L’interprete di turno non pretende di fornire la spiegazione ultima e trasparente del Testo, ma pone la propria lettura come un ulteriore livello di senso aperto dalla Scrittura, includendola all’interno del groviglio di tradizioni interpretative precedenti, e invitando la tradizione successiva a tenerne conto.

5.

Se è vero che la dimensione testocentrica rimane dominante nell’esperienza rabbinica, come questo determina le modalità del pensiero e del linguaggio? Vorrei mettere in evidenza almeno due implicazioni cruciali.

In primo luogo, mi pare che testo-centrismo significhi inevitabilmente marcare dei limiti, o, meglio, disporre il pensiero in un orizzonte dato, unificante, condizionante. Si riaffaccia, dunque, il problema dei limiti: non tanto i limiti dell’interpretazione, quanto i limiti della speculazione.

La sezione del Talmud che affronta più ampiamente tematiche di natura mistica, protologica e cosmologica, si apre con parole che sottolineano il carattere esoterico, e al limite del proibito, di quei discorsi. Poi aggiunge: «Colui che contempla queste quattro cose sarebbe stato meglio se non fosse venuto al mondo: quel che sta sopra, quel che sta sotto, quel che sta davanti, quel che sta dietro».20 Come è stato messo in evidenza, il pericolo fondamentale avvertito dai Maestri è quello di una hybris speculativa o di un misticismo senza limiti, che possono intaccare «l’onore» di Dio (e della Legge), enfatizzando eccessivamente la statura dell’uomo e del suo intelletto.21 Si potrebbe dire che la speculazione possibile è solo quella «all’interno» dell’orizzonte del Testo (nell’immagine grafica: dentro la «riga» della scrittura, non prima, né sopra, né sotto). Una speculazione non concettuale, che non tenta di «fissare» la natura ultima del divino o del cosmo, ma «si limita» a rielaborare e ri-narrare quell’orizzonte di significanti e di significati già dato dalla Scrittura, impegnandosi nel compito infinito di legare ogni interrogazione al testo e di rispondere mediante un lavoro strettamente esegetico.

Ritengo che la costituzione testocentrica del pensare sia una delle spiegazioni possibili della natura fortemente unitaria, oltre che fortemente plurale, della tradizione rabbinica. I limiti dell’interpretazione midrashica appaiono assolutamente sfuggenti (anche perché la tradizione rabbinica non conosce una strutturazione dogmatica dei suoi contenuti). Tuttavia, l’interprete sembra muoversi in un campo di forze determinato, e, di fatto, al livello dei contenuti fondamentali, le sue innovazioni sono piuttosto limitate. La libertà della ricerca si esercita su un Testo unico, e — per dirla con Eco — questo testo «fa resistenza», anche laddove la nozione del suo significato letterale sia molto vaga. Inoltre, l’interrogazione si pone nel solco della precedente tradizione interpretativa su quel Testo: entro le «cornici» stabili dettate dalla narrazione iniziale e dalla storia dei suoi effetti nella comunità interpretante. Infine, la lettura dell’interprete attuale, per quanto potente, sarà sempre «relativa», «limitata’: non potrà mai proporsi come «dottrina» ultima, capace di «sostituire» il Testo.

In secondo luogo, mi pare che le modalità dell’interrogare in un orizzonte testocentrico suppongano una nozione peculiare di causalità — tale da rendere impossibile quell’indagine sulle cause prime così essenziale per il pensiero metafisico. Anche nell’esegesi midrashica, le domande-tipo «perché?», «per quale motivo?», ricorrono in gran quantità; ma la ricerca di cause e ragioni risulta assai diversa. Prenderò tre tematiche diverse per illustrare questo approccio rabbinico ai «fondamenti».

Il Dio della Scrittura, nella sua relazione con Israele, presenta volti o aspetti differenti: il volto dell’ira e della potenza, il volto della misericordia e della debolezza… La tradizione rabbinica si interroga continuamente su di essi, ma non pone domande su ciò che precede ontologicamente quei volti dati nella relazione. Essa non cerca «dietro» i dati primari della Scrittura, ovvero, nel caso specifico, non cerca il «perché» in speculazioni sulla volontà, sulla libertà o necessità in Dio stesso, ecc., ma «si limita» a confrontare tra loro quei diversi eventi.22 Anche per questo, il Dio unico continua ad essere visto nei suoi volti mutevoli, colti o trasmessi dall’esperienza, piuttosto che come Ente supremo e immutabile, o Fondamento primo.

Un altro tema esemplare è offerto dall’indagine sulla creazione del mondo. La tradizione rabbinica tende a negare sia la possibilità di una delucidazione razionale e definitiva dell’Inizio delle cose, sia la costruzione di modelli di necessitarismo e determinismo continuistico. Da un lato, è come se per rabbini (e cabbalisti) le Scritture chiudessero lo sguardo sull’Inizio; dall’altro, essi insistono sul fatto che la Bibbia ci narra di sempre nuovi inizi, e di un tempo fatto di istanti discontinui.23

Osserviamo, infine, quel vastissimo sistema di precetti, intorno a cui si dispiega un enorme lavoro interpretativo da parte di generazioni di rabbini. L’interrogazione riguarda molto più la modalità performativa che non la causalità esplicativa. Ma anche quando si domanda il «perché», la strategia di risposta è sempre quella di un confronto con eventi e elementi corrispondenti di altre parti del testo. Questo approccio peculiare emerge in modo netto nel Medioevo, nel confronto tra filosofi e mistici ebrei. Nella sua costruzione fortemente impregnata di aristotelismo, Maimonide offre un sistema globale di spiegazione dei precetti, in base a un’idea di causalità razionale e strumentale. I cabbalisti, invece, che pure cercano le «ragioni dei comandamenti» nel loro orizzonte teosofico e teurgico, rifiutano la pretesa al sistema trasparente e alla causalità ultima, e si propongono di fornire «narrazioni» o «ipotesi» in grado di illuminare parte dei significati della struttura normativa della Scrittura.24

6.

La tesi di una costituzione testocentrica ed ermeneutica del pensare rabbinico incontra maggiori difficoltà se si osservano certe istanze presenti in modo piuttosto marginale ed esoterico nel corpus rabbinico tradizionale, ma che diventano tuttavia fondamentali nei materiali di natura più mistica. Qui, per così dire, l’interprete «parte» da costellazioni di tipo extra-testuale (realtà teosofiche, cosmiche, astrologiche, ecc.). Si pensi a attributi o forme del divino come la Shekhinah o il Cavod: elementi che — seppure fatti risalire a parole e versetti della Torah — possiedono un carattere ipostatico, di tipo ontologico o mitico, certamente assente dall’orizzonte scritturale. Si pensi all’emergere progressivo delle sefirot come articolazioni o emanazioni del divino. Nella Qabbalah, questo processo è tanto più evidente quanto più elementi dell’ontologia neoplatonica o categorie aristoteliche vengono assorbiti nella teosofia speculativa.25

In questa sede, vorrei soffermarmi solo su un punto. I cabbalisti «partono», indubbiamente, da un nuovo orizzonte di costellazioni fondamentali con cui rileggere la tradizione: dopodiché, il Testo viene sottoposto a un processo di «arcanizzazione e decifrazione» (Idel), che permette di «trovarvi» quelle costellazioni. Tuttavia, mi pare, ciò che è peculiare è proprio questo sforzo continuo per reintrodurre dimensioni extra-testuali nel circolo ermeneutico (e sarebbe molto proficuo indagare con attenzione le diverse strategie con cui questo avviene).

Alla fine del Duecento, mentre la teosofia diventava sempre più sistematica e chiara nelle sue articolazioni, sempre più aperta a un pubblico vasto, lo sforzo principale dei cabbalisti spagnoli continuava ad essere quello di ritrovare la teosofia nel medium scritturale, di riannodare le costellazioni mitico-teosofiche o le strutture metafisiche con la Legge rivelata e la Narrazione ricevuta. La loro domanda era di questo tipo: in che modo un frammento di verità aperto dalla tradizione esoterica o da una nuova rivelazione mistica viene a chiarire questo evento biblico o offre ragioni di quel precetto rituale? In altri termini, essi non cercavano la definizione sistematica di un sapere sulla realtà metafisica o divina, ma facevano sì che elementi di teosofia, norme tradizionali e versetti biblici si illuminassero a vicenda.

Non c’è dunque alcun superamento effettivo della natura ermeneutica e della natura testocentrica del pensiero. Da un lato, l’esperienza mistica o speculativa resta assolutamente legata all’esperienza ermeneutica, al rapporto dinamico tra Interpretazione, Tradizione e Scrittura. Prima o dopo l’accesso alla propria esperienza pneumatica o a una tradizione nascosta, l’interprete «scopre» le costellazioni del divino come trasmesse in modo velato nella Scrittura, o nella precedente tradizione midrashica.

D’altro lato, lo svelamento della verità superiore non significa mai la definitiva «sostituzione» del Testo, la possibilità di gettar via la scala una volta attinto il livello della Realtà superna (e meta-linguistica). L’interprete, infatti, continua a descrivere le realtà superiori come legate in una relazione dinamica e biunivoca con gli elementi testuali (in tutto il loro spessore storico e letterale).

7.

Nonostante il loro carattere schematico, le analisi precedenti potrebbero gettare qualche luce sulla divergenza tra pensiero rabbinico e pensiero metafisico. Permettetemi di accennare in conclusione a un tratto di tale divergenza.

Semplificando molto, si potrebbe sostenere che il pensiero metafisico (in ambito greco e cristiano, ma anche nella filosofia ebraica) si accompagna spesso, sul piano esegetico, alla «allegoresi filosofica», dove gli elementi del testo (e della realtà storica) vengono letti come allegorie di un sistema concettuale (e di realtà universali, intellettuali, soprasensibili).

Questo approccio esegetico di matrice genericamente «platonica» — volto alla «traduzione» o «sostituzione» del testo narrativo con un codice di verità meta-linguistiche — appare impraticabile laddove il Testo sia pensato come più «profondo» della ragione e della natura, e dove venga assunto come orizzonte ultimo e medium della conoscenza.

Con la stessa necessaria semplificazione, potremmo dire che il pensare rabbinico e cabbalistico (nella sua matrice genericamente «mitica») si determina piuttosto, sul piano esegetico, in una «ermeneutica analogica». Essa è ermeneutica dell’integrazione, in quanto ripone e include tutti i livelli del pensiero e della realtà nel linguaggio del Testo; ed è ermeneutica mitopoietica, in quanto disvela e racconta le dinamiche mutevoli tra tutti quei livelli.26

In conclusione, anche laddove il pensare rabbinico sembra aprirsi a elementi «oltre» il linguaggio, esso è orientato a riportare tutto «dentro» al linguaggio. Non si cerca l’uscita o la traduzione verso un orizzonte onto-teo-logico ulteriore, ma si tenta piuttosto di ricondurre ogni riflessione esogena e ogni realtà esterna all’interno del circolo ermeneutico, e infine all’interno della Scrittura. Costituzione ermeneutica del pensiero significa, in primis, collocare l’esperienza della differenza «nel» linguaggio.27

D’altra parte, in una cultura fondata sul Testo, questo — il dono divino, il medium, il fondo — rimane essenzialmente oscuro. La stessa permanenza della Torah come orizzonte e medium fa cadere ogni pretesa all’afferramento concettuale (begriff) della realtà prima. Il Testo si offre come «simbolo» permanente, luogo di tutti i significati possibili, e tuttavia simbolo «non trasparente», aperto al succedersi delle interpretazioni. Il circolo ermeneutico — che parte dalla Scrittura, si distende nella Tradizione e si rinnova nell’Interpretazione — produce un pluralismo di opinioni, attualizzazioni, ri-narrazioni; e tuttavia, queste partecipano soltanto alla verità del Testo, non possono pretendere al Codice finale e trasparente, che dica la verità sul Testo.


  1. Si veda La costituzione onto-teo-logica della metafisica (trad. it. in Identità e differenza, «aut-aut» 1982, pp. 17-37), la conferenza del 1957 in cui Heidegger sintetizza efficacemente la sua prospettiva critica. ↩︎

  2. L’ipotesi che Heidegger stesso abbia inteso la tradizione ebraica come il luogo di un pensiero «altro» (e più «originario’), al tempo stesso cancellandone la traccia, è stata sviluppata da M. Zareder nel suo Il debito impensato. Heidegger e l’eredità ebraica, trad. it. di M. Marassi, Milano 1995. ↩︎

  3. Pirqei Avot 5, 24. Dato il carattere filosofico o — se volete — panoramico di questo intervento, il richiamo ai testi (e alla bibliografia) sarà estremamente ridotto. ↩︎

  4. Per un esame preliminare delle fonti su questo tema, si veda lo studio classico di E. Urbach, The Sages, Their Concepts and Beliefs, Jerusalem 1968, in part. cap. XII. ↩︎

  5. I testi parlano spesso di torot al plurale: cfr. ad esempio Talmud Bavli, Shabbat 31a*; Sifre Deuteronomio* su Deut. 33, 10 e Sifra su Lev. 26, 46. Una buona raccolta di testi su questi temi è disponibile in italiano in A.C. Avril — P. Lenhardt, La lettura ebraica della scrittura, a cura di A. Mello, Magnano 1984. ↩︎

  6. Si veda, ad esempio, TB, Sanhedrin 99a. ↩︎

  7. Si veda, ad esempio, TB, Bava Metzia 59b. Il detto nasce da un’interpretazione peculiare di Deut. 30, 12. Per uno sguardo generale sul problema, si veda M. Halbertal, People of the Book: Canon, Meaning and Authority, Harvard UP 1997. ↩︎

  8. Si veda, ad esempio, Talmud Yerushalmi, Pe’ah 2, 4, 17a; Kohelet Rabbah 1, 9, § 1. La varietà delle opinioni rabbiniche intorno al ruolo di Dio e dell’uomo nelle fonti della Rivelazione è stata esplorata da D.W. Halivni in Peshat and Derash, Plain and Applied Meaning in Rabbinic Exegesis, Oxford UP 1991. ↩︎

  9. Si veda, ad esempio, TB, Menahot 29b: in questo racconto di straordinaria densità e ironia, Mosè osserva sgomento la capacità di Rabbi Aqiva di trarre «montagne su montagne di halakot» (determinazioni pratiche) dalla Torah a lui rivelata. ↩︎

  10. Si veda, ad esempio, TY, Hagigah 2, 1, 77b. ↩︎

  11. The Sages, cit., p. 299. ↩︎

  12. Cfr. S. Rawidowicz, On Interpretation, in Studies in Jewish Thought, Philadelphia 1974, in part. pp. 52-53; e il più recente articolo di M. Hirschmann, Theology and Exegesis in Midrashic Literature, in Interpretation and Allegory, From Antiquity to the Modern Period, ed. J. Whitman, Leiden 2000. ↩︎

  13. Per un buon quadro preliminare, si veda R. Kasher, The Interpretation of Scripture in Rabbinic Literature, in Mykra, Assen 1988. ↩︎

  14. Questi modelli si ritrovano, approfonditi e potenziati, nella letteratura mistica medievale. Cfr. M. Idel, Infinities of Torah in Kabbalah, raccolto (insieme ad altri studi interessanti dal nostro punto di vista) in Midrash and Literature, ed. G. Hartman and S. Budick, New Haven, Conn. 1986. ↩︎

  15. Su questi temi immensi, che qui possono essere appena accennati, si veda il fondamentale saggio di G. Scholem, Il significato della Torah nel misticismo ebraico, in La Kabbalah e il suo simbolismo, trad. it. di A. Solmi, Torino 1980, e le recenti ampie ricerche di E. Wolfson, Through a Speculum that Shines. Vision and Imagination in Medieval Jewish Mysticism, Princeton UP 1994, e M. Idel, Absorbing Perfections. Kabbalah and Interpretation, Yale UP 2002. ↩︎

  16. Si veda anche E. Urbach, The Sages, cit., pp. 289-292. ↩︎

  17. Cfr. la nota successiva. ↩︎

  18. E» interessante osservare come il Midrash sia stato accusato al tempo stesso di essere «litera» e «fabula». Secondo le note tesi di I. Heinemann, le forme principali del Midrash Aggadah (ad esempio, la sua filologia o storiografia «creativa») si basano su un pensiero pre-logico, che cerca il significato del Testo nella sua «materialità esterna» (la lettera), e non nel «senso interno» del discorso (il logos): cfr. Darkhei ha-aggadah (Le vie dell’aggadah), Jerusalem 1974. ↩︎

  19. Si veda, in tal senso, D. Boyarin, Intertextuality and the Reading of the Midrash, Indiana UP 1990. ↩︎

  20. TB, Hagigah 11b. ↩︎

  21. Si veda Y. Liebes, Het’o shel Elisha (Il peccato di Elisha), Jerusalem 1990, che indaga da questo punto di vista la storia talmudica dei «quattro saggi che entrarono nel Pardes». ↩︎

  22. Nell’elaborazione medievale, si distingue tra la conoscenza possibile delle diverse «azioni» o «vie» di Dio, e la conoscenza impossibile della Sua «essenza» nascosta. Sarebbe importante indagare in che modo (soprattutto nella Qabbalah) i «limiti» dell’interrogare rabbinico si armonizzino con quelli della speculazione filosofica di matrice neoplatonica. ↩︎

  23. Mi permetto di rinviare al mio articolo: Inizio come renovatio (hiddush). Note sulla concezione ebraica della creazione e del tempo, «Teoria» 21/2001. Ai testi lì riportati, si potrebbe aggiungere il commento di cabbalisti della scuola di Nahmanide a Es. 20, 2 («Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto»). Nessuna dimostrazione speculativa, ma un’esperienza concreta dell’evento di salvezza (esperienza prima «visiva», poi «raccontata’) è la base del credere in Dio, del credere nella provvidenza, e persino del credere nella creazione del mondo (la liberazione dall’Egitto, infatti, è la prova che il mondo non è eterno, che il tempo è fatto di eventi discontinui…). ↩︎

  24. Così R. Ya«aqov ben Sheshet invita a «creare» ragioni cabbalistiche dei precetti più oscuri, senza pretendere che la propria singola «ragione» sia «l’essenza della trasmissione di quel precetto». Si veda sul tema, D. Matt, The Mystic and the Mizwot, in Jewish Spirituality, II, ed. A. Green, New York 1987. ↩︎

  25. Nella sua indagine più recente, Moshe Idel ha dedicato alcune importanti osservazioni a questo intreccio di testo-centrismo e logo-centrismo, modelli ermeneutici e strutture metafisiche, nell’interpretazione cabbalistica (cfr. n. 15). ↩︎

  26. Nella mia tesi di dottorato (Forms of Analogical Hermeneutics. An inquiry into the interpretation of the Temple from Midrash to Early Kabbalah, Hebrew University 2002), ho tentato di mostrare come l’esegesi rabbinica e cabbalistica elabori, ad esempio, un’analogia dinamica e circolare tra il Tempio storico, il Tempio testuale e il Tempio dell’alto, senza porre un rapporto rigido di causalità (metafisica) tra alto e basso, intelligibile e sensibile, realtà e figura. L’interprete costruisce semmai una narrazione, in cui vengono messi in scena i nessi e gli eventi che legano l’elemento testuale, l’elemento storico-concreto e l’elemento teosofico, ogni volta in modo diverso (nel caso specifico, si tratta della storia della Presenza divina, e dei suoi diversi «luoghi’). ↩︎

  27. In uno dei suoi brillanti schizzi, Umberto Eco ha opposto «due modelli d’interpretazione», che si accompagnano a due modi di pensiero totalmente divergenti (I limiti dell’interpretazione, Milano 1990, pp. 41-55). Da un lato, il modo del razionalismo, fondato sui principi del logos, sulla non-contraddizione, la catena causale, la definizione univoca. Dall’altro, il modo dell’ermetismo, fondato sui principi della somiglianza, sulla coincidentia oppositorum, la reversibilità, la semiosi illimitata. Credo che, nonostante molteplici affinità con il modus ermetico, il Giudaismo rabbinico presenti uno stile di interpretazione e di pensiero peculiare — laddove, ad esempio, la narrazione analogica delle relazioni prevale sul cumulo delle somiglianze, e la dialettica plurale delle interpretazioni non coincide con la semiosi illimitata. Forse anche per questo, alcuni tratti della tradizione midrashica e cabbalistica si offrono come sponda possibile per i tentativi attuali di costruire un paradigma ermeneutico, capace di andare oltre la costituzione onto-teo-logica del pensiero occidentale, senza finire nella deriva nichilistica o scettica di certa post-modernità. ↩︎