Sergio Benvenuto, Perversioni. Sessualità, etica, psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2005, 190 pp.
Uno dei paradossi intellettuali del nostro tempo è la marginalità di Freud nella scena della riflessione contemporanea proprio mentre si va affermando con forza quella “riscoperta della mente”, per dirla con il filosofo americano John Searle, che ha (ri)portato la psicologia al centro dei curricula contemporanei.
La psicoanalisi e le sue istituzioni hanno risposto a questo mutamento con un certo imbarazzo e debolezza: o rinchiudendosi in gerghi di scuola impenetrabili alle sollecitazioni del presente, oppure, specularmente, cercando di rivestire Freud di preoccupazioni e temi cari all’attuale philosophy of mind, al prezzo, tuttavia, di smarrire la sostanziale incommensurabilità della psicoanalisi e del suo vocabolario rispetto al paradigma della filosofia della mente.
Sergio Benvenuto è certamente una felice eccezione in questo panorama non sempre confortante e questo suo ultimo lavoro — Perversioni. Sessualità, etica, psicoanalisi — ne è un’ulteriore, ben riuscita dimostrazione.
È innanzitutto grande merito di Benvenuto quella di tornare a prendere sul serio il vocabolario freudiano, senza neutralizzarlo, o annacquarlo nella retorica psicoanalitica fatta di “feelings, emozioni, affetti” (p. 25).
Se oggi ci si sforza di rendere la psicoanalisi rispettabile, depurandola dell’elemento selvaggio per farla accomodare nel “salotto mentalista”, Benvenuto ci ricorda che l’epistemologia freudiana è a tutti gli effetti una teoria della carne: “il supposto sapere psicoanalitico, scrive, ha ancora delle carte da giocare […] nella misura in cui nel crescente dominio del virtuale ci ricorda la servitù della nostra carne reale” (p. 30).
Il secondo movimento controcorrente dell’autore, e qui emerge con forza il debito lacaniano, è quello di non fare della fenomenologia delle perversioni un trattatello psicologico — scelta tanto più meritevole nel trionfo odierno della chiacchiera psicologista, così funzionale all’emotivismo della società dello spettacolo. Benvenuto lo dichiara da subito (p. 32): la psicoanalisi corrente tende ad affrontare i dilemmi morali come se fossero nevrosi: questo libro vuole fare il gioco contrario, ovvero mostrare nevrosi e perversioni sullo sfondo più ampio di dilemmi esistenziali, etici. A partire da questa premessa, per Benvenuto la sofferenza nevrotica e quella perversa sono il risultato dell’assenza di una causa per cui vivere: in questo senso è la personalità narcisistica contemporanea il nocciolo duro della malattia del nostro tempo. “Non è l’oggetto anatomico desiderato a fare la perversione, ma, direi, la presenza o meno della cura dell’altro come soggetto di desiderio” (p. 36), scrive l’autore, la mancanza cioè di caritas, ovvero in termini cari alla tradizione lacaniana, di quel terzo che rende trascendente il rapporto chiuso-duale. Abbiamo detto “rapporto” ma appunto la scommessa dell’autore è quella di mostrare che quello perverso non è mai un rapporto, che quella perversa non è una coppia, semmai un “cozzo cacofonico di due perversioni”, dal momento che la relazione tra due amores senza caritas è in ultima analisi impossibile. È un tema assai ricco, sul piano filosofico, che richiama la contrapposizione habermasiana di ragione comunicativa e ragione strumentale, quest’ultima accostabile alla perversione. Ma — ed è ancora una volta il debito lacaniano in gioco, ovvero la distanza qui non affrontabile tra lo psicoanalista Freud e il filosofo Lacan — forse il tema meno immediatamente freudiano del libro. D’altronde Freud si astenne dal proporre una teoria normativa così forte, come quella che risulta da queste pagine, quando ad esempio si limitò ad osservare, con sguardo freddamente naturalistico, che “l’onnipotenza dell’amore forse non si rivela mai con tanta forza come in queste aberrazioni” (OSF 4, 474).
Che la sofferenza nevrotica sia “il prezzo da pagare per una mancata apertura all’altro” (p. 98) è peraltro una tesi piuttosto discutibile: un genere tutto particolare di perversioni è proprio quello tipico, e Benvenuto le richiama pure, degli utopisti, cioè di soggetti dotati di “Cause per eccellenza”. Solo con fatica si può pensare che questo genere di perversioni sia sovrapponibile o unificabile a quello postmoderno di individui e società deboli, senza super Io, senza altro concreto a cui fare cura e caritas, che Benvenuto pone al centro della sua riflessione.
Il Dolore e la Cura sono — più o meno sotto traccia — i due poli intorno a cui si articola questo lavoro. La perversione è in ultima analisi un certo modo di padroneggiare-giocare il trauma doloroso, di riattualizzarlo al fine di curarlo e sbarazzarsi dell’impatto: “l’atto parafilico rappresenta il trauma della gelosia, lo ripresenta, ma proprio in questo modo il soggetto se ne libera, sia pure solo provvisoriamente” (p. 80).
Questo paradossale elemento di autocura della perversione è ciò che la rende, in ultima analisi, un piacere, una rassicurazione da cui è laborioso distogliere l’economia psichica del perverso: “la perversione è la medicina di un dolore di cui egli ha perso la memoria […]”(p. 147).
È il grande tema della freudiana Bindung, di come cioè il soggetto leghi a sé per trasformarlo in godimento un trauma doloroso, di come egli schivi, pari (questo il significato di Abwehr, difesa, ci ricorda Benvenuto) rabbia e depressione, traendo sublime piacere dalla propria ferita, col risultato ben noto da sempre alla psicoanalisi di rimanervi pervicacemente attaccato. La perversione mette in forma la depressione, ma allo stesso modo rimanda all’infinito quella legge del lutto e della perdita a cui, si direbbe, il perverso non vuole pagare dazio.
Si capisce da questi passaggi quanto qui la psicoanalisi abbia rovesciato uno dei cardini della cultura occidentale che trova nell’agire l’eccellenza e una terapia sempre a portata di mano, mentre in chiave psicoanalitica, come Benvenuto ben mette in luce, ciò che servirebbe al perverso è un sovrappiù non di azione ma di pathos, la possibilità di farsi davvero passivo per poter soffrire, piuttosto che reiterare l’agito perverso.
Ma il cuore squisitamente filosofico del libro — e, lo si comprende, forse anche l’interesse cruciale dell’autore — si trova nell’Appendice.
Il fascino filosofico di Freud, ci dice Benvenuto, sta nell’aver puntato lo sguardo sullo scandalo che tutti i razionalismi e gli utilitarismi tendono a rimuovere, ovvero quella sorta di resto inassimilabile di cui le perversioni sono manifestazioni, Vertreter nel senso freudiano. Quell’unico pensiero che Heidegger attribuiva come nota distintiva dei grandi pensatori, vero e proprio “pensiero focale” è stato per Freud, ci dice Benvenuto, die Lust (parola che significa ben più che “piacere”; si pensi all’uso corrente in tedesco Ich habe Lust zu oppure al suo derivare in Vollust, lascivia, nota l’autore). Eppure ben sappiamo che quello straordinario procacciatore di Lust che è l’essere umano, assumerà nel corso dell’itinerario freudiano le tinte sempre più fosche che culmineranno nel tema del masochismo morale e della coazione a ripetere. Freud “pensatore del Lust” è allo stesso tempo costantemente ossessionato da quell’“enigma” (così lo chiama ne Il Problema economico del masochismo) di cui il pensiero — e le terapie — ha sempre avuto gran fretta di sbarazzarsi, ovvero ciò che al Lust mette un freno.
Freud avrebbe tentato, argomenta Benvenuto, di “mostrare che proprio tutto nel vivente tende al piacere” ovvero che “anche là dove il soggetto pare infliggersi stranamente del dispiacere si afferma il dominio di principio di Lust” (p. 160). E questo nel tentativo estremo di tenere in piedi una sorta di (psico)teodicea, con la quale non si giustifica più Dio davanti al male del mondo, ma i due masters dell’utilitarismo (evitare il dolore e procacciarsi il piacere) davanti al mistero dell’auto-afflizione che si produce il masochista. Eppure si capisce che la grandezza dell’operazione freudiana consiste proprio nella tensione che si viene a creare all’interno della sua stessa teoria per l’inestirpabile presenza di forze che tendono a gettare il soggetto continuamente fuori di sé: le pulsioni sono “in sé niente affatto soggettive, scrive Benvenuto: biologiche piuttosto. Infatti, la pulsione di morte porta ad annullare il soggetto, mentre quella di vita porta ogni soggetto verso l’altro: ”entrambe portano il soggetto fuori di sé […]. Questa trascendentalità o estaticità (ekstasis) — il decentramento del soggetto fuori di sé — è certo la condizione del legame psicoanalitico, che altrimenti si ridurrebbe a strategia interpersonale, a “terapia cognitiva”" (pp. 160-161).
Freud non rinuncia a misurarsi con questo scandalo filosofico del soggetto che vuole il proprio male, con questa “vocazione radicale, irriducibile, all’infelicità ancor più che al dispiacere” (p. 165), ovvero in termini filosofici col fenomeno del soggetto che si (auto-)assoggetta. Fenomeno radicale di cui le perversioni sarebbero la manifestazione più loquace. Se per Kant lo scandalo della filosofia (teoretica) stava nel suo non poter dimostrare la realtà esterna, lo scandalo della filosofia morale e politica è allora quello di ospitare nel cuore della parola “soggetto”, che più di tutte rappresenta le istanze di autonomia, consapevolezza e ragione proprie della modernità — una duplicità grammaticale che allude al massimo del potere (sono io il soggetto delle mie azioni, intendendo: proprietario) e al massimo della vulnerabilità (essere soggetti a un potere estraneo, essere in-soggezione, assoggettati).
Freud infine, e questa non è una operazione nuova, serve a Benvenuto per mettere sotto critica, si vorrebbe dire “accusa”, un certo carattere della modernità. Freud è il nome di una certa Dialettica dell’illuminismo. Si capisce che se, come egli scrive, il masochista è il narcisista che non ha causa, che non si apre all’altro, se la “malattia” è il sintomo di un disagio in ultima analisi morale, la colpa ha un suo fondamento reale, seppur in forma dialettica: colpa è “colpire l’altro” scrive. È questo un aspetto certamente interessante ma anche molto discutibile dell’operazione di Benvenuto. Dunque, il bisogno di punizione non risale solo a qualche fantasia immaginaria, come pensano i troppo moderni kleiniani, da far evaporare in quella caccia al fantasma che è la terapia analitica. No, la colpa, la sofferenza del soggetto trovano invece una loro legittimazione nella realtà inter-soggettiva si potrebbe dire: esse, scrive l’autore, sono “il solo modo in cui la Legge riesce a colpire il soggetto, a farsi accogliere, pur se in forma negativa. Per il masochista morale — la personalità narcisistica della psicopatologia attuale — l’etica è impensabile, è solo esperibile: è scalogna reale non sentenza di colpevolezza” (p. 179). Non si può mancare di notare come per questa via, con un gesto fortemente antimoderno, si corra verso la riabilitazione di una certa idea di sensatezza della sofferenza di cui la modernità, a torto o a ragione, ha fatto di tutto per sbarazzarsene.