Per una nuova versione in tedesco della Scrittura

A cura di Hagar Spano, Nunzio Bombaci

Prefazione, di Hagar Spano

I

Della singolare e assai proficua comunione spirituale suggerita dall’itinerario esistenziale e intellettuale di Franz Rosenzweig e Martin Buber, il comune lavoro sulla Scrittura rappresenta un compimento piuttosto conseguente. Il cospicuo carteggio dei due,1 il quale interessa un arco di tempo che a partire dagli anni del primo conflitto mondiale si protrae di fatto sino alla scomparsa di Rosenzweig avvenuta nel dicembre del 1929, documenta infatti un autentico sodalizio sul piano umano e un vivacissimo confronto su quello squisitamente teoretico, contribuendo in maniera puntuale a determinare l’entità del vicendevole condizionamento esercitato dall’uno sull’altro. Di tale condizionamento vi sono abbondanti riscontri, oltreché nell’epistolario, nella complessiva produzione letteraria dei due studiosi di origine ebraica. Non sorprende pertanto che in ragione del costruttivo confronto con Rosenzweig, Buber rinuncerà in ultimo al piano di un’opera in cinque volumi di cui Ich und Du (1922) avrebbe dovuto costituire il mero incipit; né che l’autentico Konzeptionsdokument di questo celebre scritto buberiano sul pensiero dialogico, ossia la prolusione sulla Religion als Gegenwart, sia fondamentalmente riconducibile all’attività didattica svolta da questi presso lo «Jüdisches Lehrhaus» di Francoforte, istituto diretto da Rosenzweig per un biennio a partire dal 1920. E in maniera del tutto analoga non può sorprendere il fatto che l’autore della Stella della redenzione (1921) dedicherà proprio all’amico Buber la traduzione delle liriche di Yehudah haLevy2 pubblicata nel 1924 o che, accogliendo il suo invito a prendere parte al lavoro di Verdeutschung della Scrittura, rinuncerà all’originario proposito di una revisione della traduzione di Lutero.

Ma questo suggestivo intreccio tra la vicenda umana e intellettuale dei due pensatori non deve distoglierci dal considerare le pur diffuse divergenze che intercorrono tra il percorso di maturazione condotto da entrambi negli anni che precedono e accompagnano il loro primo incontro, databile intorno alla primavera del 1914. E se è vero che questa non è la sede per ricostruire l’intero profilo biografico degli autori in questione, conviene pur sempre prendere in considerazione quantomeno quegli elementi che possono incoraggiare una più puntuale intelligenza del tema che stiamo affrontando.

II

È fatto sicuramente significativo questo, che nell’anno in cui per la prima volta si incontrano Rosenzweig e Buber, il 1914, il secondo vada adoperandosi assieme ad altri intellettuali suoi amici al fine di rinvigorire il dialogo diplomatico internazionale e scongiurare così l’imminente conflitto. Conflitto al quale, viceversa, Rosenzweig parteciperà in prima linea per essersi arruolato come volontario nella artiglieria a Kassel e, successivamente, a Karlsruhe in una squadra antiaerea. Inoltre, a differenza di Rosenzweig, l’ancora ventenne Buber ha aderito in maniera convinta ad iniziative politiche di matrice sionista; e più generalmente si è formato in un ambiente familiare, quello dei nonni a Lemberg, nel quale un grosso rilievo godono ancora le tradizioni ebraiche dell’Europa orientale (donde l’interesse che il Nostro manifesterà in particolare per il Chassidismo, fenomeno al quale dedicherà molti anni di studio). E proprio la guida del nonno Salomon, studioso della tradizione midrashica, gli garantirà sin da giovane una buona confidenza con i testi religiosi originali e una conoscenza dell’ebraico altrettanto solida.

Assai diverso, e per molte ragioni più tormentato, è il percorso di Rosenzweig, cresciuto «in una stimata famiglia di ebrei liberali ove sopravvive ben poco dell’osservanza delle norme rituali e liturgiche della fede che pur si continua a professare».3 Si è soliti ricondurne a tre momenti cruciali l’intera vicenda biografica; beninteso, tre momenti corrispondenti ad altrettante fasi critiche vissute da Rosenzweig sul piano esistenziale e intellettuale. Studente di Medicina a partire dal 1905, nel 1908 egli opta per la strada della ricerca storico-filosofica «percorsa, con risultati subito eccellenti, fra Berlino e Friburgo, sotto la guida di F. Meinecke, fino a conseguire il dottorato nel 1912, con una brillante tesi di laurea, che costituirà una prima parte della futura, monumentale monografia su Hegel e lo Stato».4 Ma tra il 1910 e il 1913 interviene una profonda crisi spirituale, peraltro ampiamente testimoniata dal carteggio intrattenuto in questi anni con Eugen Rosenstock oltreché con i cugini Rudolf e Hans Ehrenberg, la quale lo spingerà dapprima a prendere in considerazione il proposito di farsi battezzare nell’ambito della chiesa cristiana evangelica e successivamente — come del resto attesta una celebre lettera dell’estate del 1913 in cui egli significativamente confessa: «Ich bleibe also Jude» — lo guiderà alla riscoperta delle proprie radici ebraiche. Gli effetti di questa decisiva crisi, che avrà ovviamente profonde ripercussioni anche sull’attività intellettuale del Nostro contribuendo a riqualificarne la Denkweise storiografica in chiave precipuamente speculativa, sono diffusamente rintracciabili nella maggior parte degli scritti anteriori alla Stella, la sua Hauptschrift restando tuttavia il documento nel quale tali strascichi si depositeranno in maniera più suggestiva.5 L’insorgere nel 1922 di una paralisi progressiva dovuta a una grave malattia neurologica, la sclerosi laterale amiotrofica, rappresenta l’ultima decisiva svolta nella vita dell’autore ebreo-tedesco, che sarà costretto a rinunciare a molti degli impegni pubblici che allora lo vedevano coinvolto in prima persona, non esclusa l’attività presso il «Lehrhaus» di Francoforte alla quale pure aveva dedicato molti sforzi (condensati in alcuni significativi scritti programmatici). Sul piano intellettuale gli ultimi anni della vita di Rosenzweig saranno perciò esclusivamente dedicati alla pubblicazione di contributi deputati alla chiarificazione di tematiche già trattate nella Stella — i saggi del 1925 sul Neues Denken e Die Bauleute essendo dei veri e propri «parerga» al capolavoro filosofico del 1921 — nonché al lavoro di traduzione degli scritti di Yehudah haLevy e, con Buber, della Scrittura.

III

La comune fatica del Verdeutschen ha ufficialmente inizio nella primavera del 1925 quando, come ricorda lo stesso Buber nel Supplemento che qui Nunzio Bombaci ci offre in traduzione,6 il giovane editore cristiano Lambert Schneider lo inviterà a inaugurare attraverso una nuova edizione dell’Antico Testamento la casa editrice berlinese da poco costituitasi. Donde la sua decisione di raccogliere l’invito e di coinvolgere l’amico Rosenzweig. E tuttavia ha origini più remote l’idea di por mano alla Scrittura al fine di privarla di quella patina ideologica che nel corso dei secoli è andata sovrapponendosi alla sua originaria Gesprochenheit — al suo autentico «essere-parlata»;7 in modo tale cioè da restituire alle lettere ebraiche la loro «reale sonorità»8 e, al contempo, di rendere nuovamente attuale e fruibile il messaggio biblico. Beninteso, nella misura in cui una nuova traduzione della Bibbia possa contribuire a «procurare l’incontro tra essa e l’uomo di oggi».9 In particolare egli ricorda come negli anni immediatamente antecedenti alla Prima Guerra Mondiale andasse già costituendosi un gruppo di studiosi suoi amici, composto tra gli altri da Moritz Heimann e Efraim Frisch, accomunati da un proposito analogo. Proposito poi di fatto scoraggiato dall’inizio del conflitto.10 E, per quanto riguarda nello specifico Franz Rosenzweig, Buber consente di ricostruire la cornice all’interno della quale maturerà la scelta di entrambi di intraprendere questo percorso, nonché le motivazioni di tale scelta e gli effetti straordinari che il confronto con la Scrittura, che «si va rischiarando nello spazio di un influsso scambievole», saprà infine cagionare presso i due amici e interpreti. Osserva infatti il Nostro:

Orbene, quando nel 1923 Franz Rosenzweig, impegnato nella traduzione delle poesie di Jehudah haLevy, si rivolgeva spesso a me per un consiglio e noi arrivammo a discutere, sulla base degli esempi addotti dall’uno e dall’altro, la problematicità del tradurre e i problemi inerenti a tale compito, ci si presentarono senza che sapessimo come […] le domande: La Scrittura è traducibile? È già effettivamente tradotta? Che cosa rimane adesso da fare? Poco? Molto? La cosa decisiva? Come può essere fatto? Nel rapporto che una rielaborazione ha con una classica opera di traduzione? In un nuovo inizio che ha del temerario? L’epoca offre lo spazio nel quale possa respirare un nuovo inizio? La vocazione, la forza, l’aiuto, l’orecchio? E soprattutto: come va tradotta la Scrittura? Come va tradotta in questa epoca?11

La risposta migliore a questi interrogativi è senza dubbio da ricercare nel § 2 del Supplemento. È il paragrafo al quale Buber affida il compito di focalizzare nella maniera più netta i propositi che di fatto ispirano una nuova versione della Scrittura, le metodologie da utilizzare a tal fine e soprattutto i rischi da scongiurare. E non è raro individuare nelle righe che compongono questo e i paragrafi successivi diffuse consonanze con le pagine di Gottesfinsternis (1953), lo scritto con il quale egli denuncia nella modalità della «eclissi di Dio» la deriva razionalistica della modernità.12 Né parrebbe priva di fondamento una riconsiderazione complessiva della «Verdeutschung» che ne riconducesse l’autentico significato filosofico nell’alveo dell’interrogazione sui «due tipi di fede», giudaica e cristiana, quale attraversa in misura più o meno evidente l’intera produzione letteraria del Nostro. Tale interrogazione ispira, in fondo, quel confronto quasi trentennale con i maggiori teologi cristiani del ’900 che accompagnerà la maturazione intellettuale e spirituale di Buber e si depositerà in forma compiuta nelle dense pagine di Zwei Glaubensweisen.13 Se infatti un nesso capace di conferire un senso unitario alla complessiva riflessione buberiana si dà, occorre individuarlo proprio in quella dicotomia tra diverse tipologie di relazione che, espressa all’altezza di Ich und Du nella duplice modalità delle «parole fondamentali», si caratterizza in forma sempre rinnovata all’interno del suo Denkweg filosofico.14 E sottende, in ultima istanza, alla stessa divaricazione tra l’esperienza di fede tipicamente cristiana e quella autenticamente giudaica.

Del resto è altresì vero che, in maniera del tutto analoga, Rosenzweig affidava alle pagine della Stella una medesima preoccupazione teoretica, il suo capolavoro filosofico risolvendosi infine «in un’analisi dell’essenza dell’ebraismo e del cristianesimo».15 Un’analisi che beninteso trascende l’ordine di idee largamente affermatosi nel contesto storico in cui egli si trovò ad operare, e che noi possiamo a buon ragione ricondurre agli orientamenti espressi dalla Wissenschaft des Judentums nel quadro della teologia ebraica e dalla Religionsgeschichtliche Schule sul versante cristiano, ma che di questa temperie e di queste opposte tensioni teologiche è comunque ben consapevole. Un’analisi che dunque, proprio come nel caso dello scritto di Buber sui «due tipi di fede», intende tematizzare e alimentare le ragioni del dialogo tra cristiani ed ebrei; e che intende farlo, da un lato, valorizzando le pur irriducibili differenze che determinano la duplicità delle rispettive esperienze di fede e, dall’altro, promuovendo una migliore comprensione di ciò che viceversa accomuna cristiani ed ebrei: un Libro e un’attesa. Donde il lavoro a una rinnovata versione in tedesco della Scrittura, il quale per questa ragione può essere considerato come l’autentico punto di confluenza dell’itinerario intellettuale ed esistenziale di Franz Rosenzweig e Martin Buber.

Per una nuova versione in tedesco della Scrittura, traduzione e note di Nunzio Bombaci

1

Un duplice carattere distanzia la Scrittura, il cosiddetto Antico Testamento, dai grandi scritti sacri delle religioni. Uno è costituito dal fatto che qui l’ Evento e la Parola stanno profondamente nel popolo, nella storia, nel mondo. Ciò che accade, non accade in uno spazio a parte tra Dio e il singolo, ma la parola va, al di là di questi, al popolo, che la deve ascoltare e realizzare. Ciò che accade non si eleva al di sopra della storia del popolo, ma non è nient’altro che il mistero rivelato della stessa storia del popolo. Tuttavia, proprio con questo, il popolo è posto contro il farsi fine a se stesso di impronta nazionalistica, l’egoismo proprio dei gruppi, il «respiro della storia universale»; esso deve far sorgere la comunità dei suoi membri come prototipo di una comunità dei popoli, tanto numerosi e così diversi; il perdurare attraverso la storia nella «discendenza» e nella «terra» è legato alla «benedizione» [Gen 12, 7 ss.16], e la benedizione al compito. Il Sacro penetra nella storia, senza privarla dei suoi diritti. Quanto all’altro carattere, qui parla una Legge, che vale per la vita naturale dell’uomo. Il mangiare carni e il sacrificio di animali sono legati l’uno all’altro, la castità coniugale viene consacrata ogni mese nel santuario; l’uomo, l’uomo intriso di istinti e di passioni, viene preso così com’è e consacrato, in modo che non diventi succube degli uni e delle altre. Il desiderio del possesso della terra non viene assolutamente proibito, né viene comandata la rinuncia; ma il proprietario della terra è Dio, mentre l’uomo «assisteva» («Beisaß») soltanto, presso di lui, e il proprietario stabilisce con quale ritmo si debba livellare il possesso, cosicché la crescente disparità non faccia saltare la comunità tra i compagni. Il Sacro penetra nella natura, senza farle violenza. Lo spirito vivente vuole spiritualizzare e vivificare; vuole che spirito e vita si ritrovino l’un l’altra, che lo spirito trovi forma nella vita, che la vita si chiarifichi a partire dallo spirito; vuole che, a partire da sé, la creazione si compia.

L’«Antico Testamento» vuole essere la testimonianza di questo volere e del servizio, che viene comandato, allo spirito legato alla vita. Se lo si concepisce come «letteratura religiosa», appartenente a un ambito dello spirito irrelato, esso si nega, e quindi ci si deve negare ad esso.17 Se qualcuno lo concepisce come l’espressione di una realtà effettiva che racchiude in sé la vita, allora lo comprende, ed esso, allora, prende quest’uomo. Tuttavia, l’uomo di oggi non è quasi più capace di farlo. In genere, quando pure egli «prende interesse» per la Scrittura, foss’anche un interesse «religioso», non si tratta per lo più neanche di questo, ma di un interesse per la «storia delle religioni» o per la «storia della cultura» o di un interesse «estetico» e altri simili, in ogni caso di un interesse per lo spirito irrelato, ripartito in «sfere» autonome. A differenza delle antiche generazioni, egli non si rapporta alla parola della Bibbia per darle ascolto, né confronta più la sua vita con la Parola; egli colloca la Parola in uno dei molti cassetti profani, si mette l’animo in pace e neutralizza così la potenza che, più di ogni altra potenza che esista, sarebbe capace di salvarlo.

Coloro che riflettono al riguardo, possono chiedermi: «E se quest’uomo, ovvero se noi riuscissimo a porci, con tutto il nostro essere, davanti a quel tutto che è il libro di cui tu parli, non mancherebbe anche allora ciò che vi è di più indispensabile perché si compia un’autentica recezione? Potremmo allora credere al Libro? Potremmo crederlo? Potremmo fare qualcosa più di credere che un tempo si è creduto così come viene riferito e annunciato?»

L’«uomo di oggi» non può accedere alla certezza della fede (Glaubenssicherheit), né questa gli può essere resa accessibile. Se egli considera la cosa seriamente, egli ne ha consapevolezza e non può fingere a se stesso. Ma l’apertura alla fede (Glaubensaufgeschlossenheit) non gli è negata. Anch’ egli può, proprio allorché prende veramente sul serio la cosa, aprirsi a questo Libro e lasciarsi colpire dai suoi raggi, laddove essi lo colpiscono; egli può prestarsi a ciò e lasciarsi mettere alla prova, senza nulla anticipare né porre alcuna riserva; egli può accogliere, accogliere con tutte le sue forze, e attendere, qualunque cosa possa accadere a lui, attendere semmai sorgesse in lui un atteggiamento nuovo, scevro di prevenzioni, nei confronti di questa o di quest’altra cosa che è nel Libro. Per questo, egli deve certamente accostarsi alla Bibbia come se egli non la conoscesse ancora; come se non gli fosse stata presentata a scuola e, dopo, nelle apparenti sicurezze «religiose» e «scientifiche»; come se egli, in tutta la sua vita, non avesse appreso falsi concetti e proposizioni che si richiamavano ad essa; egli si deve porre di nuovo in rapporto con il Libro che si è fatto nuovo, non sottrarsi ad alcunché, lasciare che accada tra quello e lui tutto ciò che può accadere. Egli non sa quale espressione, quale immagine del libro lo prenderà e lo riplasmerà, da dove lo spirito fremerà (brausen… wird) e scenderà in lui, per prendere nuovamente corpo nella sua vita. Egli non crede nulla fin dall’inizio, e neppure non crede fin dall’inizio. Egli legge a voce alta ciò che vi è scritto, ascolta la parola che egli stesso dice, ed essa viene a lui; nulla viene pregiudicato, la corrente del tempo scorre, e lo stesso radicarsi nell’oggi, proprio di quest’uomo, diviene recipiente che tutto raccoglie.

2

Lo speciale dovere di intraprendere una rinnovata versione della Scrittura, che si era rinvigorito nel presente, inducendo alla nostra impresa, scaturiva dalla scoperta del dato di fatto che i tempi avevano ripetutamente trasformato la Scrittura in un palinsesto. Ai tratti originari dello scritto, al senso e parola dell’origine, si è sovrapposta la concettualità corrente — in parte di origine teologica, in parte letteraria — e ciò che l’uomo di oggi solitamente legge, allorché apre «il Libro», è così dissimile da quel parlare in attento ascolto, che si è immesso qui, che avremmo tutte le ragioni di preferire a questa recezione fittizia il rifiuto espresso da chi alza le spalle, che «non sa più che farsene di questa roba». Dico che ciò non vale semplicemente per la lettura delle traduzioni, ma anche per la lettura dell’originale: per un lettore, che non è più un ascoltatore, i suoni ebraici hanno perso la loro immediatezza, sono permeati di eloquenza teologico-letteraria, di una eloquenza che non ha voce, e vengono forzati a esprimere non lo spirito che prese voce in essi, ma un compromesso tra le spiritualità di due millenni; la stessa Bibbia ebraica viene letta come traduzione, come cattiva traduzione, come traduzione in un linguaggio concettuale introdotto a forza, in quello che si dice conosciuto, e che in verità è soltanto corrente. Al posto della confidenza riverente con il suo senso e la sua sensualità, è subentrata una miscela di timore (Respekt) irriconoscente e di miope familiarità. Di fronte a questo fatto, sarebbe impresa disperata il volere fare qualcosa con una nuova traduzione, una volta che la Scrittura fosse stata già tradotta in modo rigoroso e così portata a diffondersi, poiché allora sarebbe proprio la verità del testo stesso a irrigidirsi, e non soltanto la sua parafrasi; allora la plasticità, il dinamismo, la fisicità del discorso biblico si trasporrebbero nella coscienza dell’Occidente e qui incorrerebbero in una banalizzazione, dalla quale potrebbe forse trarla fuori un giorno la luce nuova irradiata da nuovi eventi religiosi, ma non un’ennesima traduzione in una delle lingue occidentali.

Ma le cose non stanno così. Anche le più significative traduzioni della Scrittura che ci sono state tramandate, quella greca dei Settanta, la latina di Gerolamo, la tedesca di Martin Lutero, non cercano essenzialmente di preservare il carattere originario del Libro nella scelta della parola, nella struttura della proposizione e nell’articolazione del ritmo; indotte dal loro intento di trasmettere un documento fondativo attendibile a una comunità attuale — alla diaspora del giudaismo ellenistico, all’ecumene del cristianesimo primitivo o al popolo credente della Riforma — trasferiscono il«contenuto» del testo nell’altra lingua, forse non rinunciando fin dall’inizio, ad esempio, alle peculiarità degli elementi, della struttura, della dinamica, ma certo rinunciandovi senza difficoltà laddove la ruvidezza della «forma» sembra voglia frapporre ostacolo alla traduzione del contenuto. Come se un messaggio autentico, una espressione autentica, un canto autentico, contenessero un «che» separabile senza danno dal proprio «come», come se lo spirito del discorso fosse rintracciabile in qualcosa d’altro che non la forma dell’organismo linguistico, e fosse trasmissibile, nel tempo e nello spazio, in un modo diverso dalla sua riproduzione, insieme fedele e senza prevenzioni, come se una comprensibilità universale guadagnata a spese dell’originaria plasticità non fosse un fraintendimento oppure non dovesse necessariamente diventarlo! Certo, i grandi traduttori erano entusiasticamente presi dalla convinzione che la parola di Dio valesse per tutti i tempi e luoghi; essi non comprendevano, tuttavia, che in forza di tale convinzione il peso dell’«A partire da dove», del «Là e Allora» in tutta la sua condizionalità — inerente al popolo, alla persona, alla dimensione fisica — non viene sminuito, ma accresciuto. La rivelazione compiuta è sempre corpo di uomo e voce di uomo, e ciò significa sempre: questo corpo e questa voce, mistero della sua unicità. All’annuncio dei profeti non appartengono semplicemente i loro simboli e le loro similitudini, ma anche la corrente fondamentale della sensibilità veteroebraica, presente pure nei concetti più spirituali, la forte tensione tra architettura veteroebraica della frase, la maniera veteroebraica di rapportare l’una all’altra parole contigue, ma anche lontane l’una dall’altra, attraverso l’affinità della radice o la assonanza, il ritmo veterobraico, potente, ma tale da oltrepassare ogni metrica.

Riconoscere questo, significa certamente assegnare al traduttore un compito fondamentalmente irrealizzabile; perché la singolarità è proprio la singolarità e non può essere «resa», le connotazioni sensibili delle lingue sono diverse, le loro rappresentazioni e le loro modulazioni divergono, come le loro innervazioni e i loro dinamismi, le loro passioni e la loro musica. Fondamentalmente, allora, neanche il messaggio, nella sua saldatura, inerente al suo destino, di senso e suono, può essere tradotto; in pratica, esso può esserlo soltanto approssimandosi, nella misura in cui lo consentono i confini propri della lingua in cui si traduce; ma a tali confini l’interprete deve ogni volta avvicinarsi nuovamente, prendendo istruzione solo da essi stessi, solo dalla bocca del più eminente custode, su ciò che gli è concesso e ciò che non lo è. Fondamentalmente, questo presupposto, ovvero il porre in luce lo scritto originario, non si lascia realizzare compiutamente neanche una volta, poiché ciò che in primo luogo veniva inteso da una parola biblica, non si rende naturalmente conoscibile ma, propriamente, si rende soltanto accessibile, e anche questo, spesso, solo in modo congetturale. Non di rado ci dobbiamo accontentare di presumere ciò che il «redattore» ha voluto dire, ovvero la coscienza dell’unità che ha costruito i padiglioni della Bibbia, a partire dalle opere e dai frammenti tramandati.18 Ma anche questo ci può bastare per il nostro intento di approssimazione, poiché, non nelle «fonti», ma, in verità, qui è la Bibbia, ovvero ciò che si aggiunge alle testimonianze e ai documenti originari, che esso raccoglie in libri e nel Libro: fede, che vale a saldare le epoche, nell’accogliere e nel trasmettere la visione d’insieme di tutte le trasformazioni nella quiete della parola.

Il rapporto che la nostra traduzione ha con il testo è determinato da questo sapere. Alla scienza analitica spetta il diritto — sempre laddove essa lo ritiene, a sua discrezione — di sostituire i segni che vi sono scritti con altri, che ad essa paiono più adeguati, ma a noi spetta quello di indugiare (verweilen) presso il dato costituito dalle «solide lettere», per tutto il tempo che ci è in qualche modo concesso; alla scienza è consentito risolvere un racconto, un cantico, una frase in elementi effettivamente o presumibilmente autonomi, a noi è permesso considerare e riformare l’ordito dell’opera nella sua totalità. Qui non bisogna intendere il «riprodurre» come l’arrischiare l’impresa, contraria allo spirito, di ripetere una forma rinvenuta in un materiale diverso, ma il tendere a crearle una corrispondenza, delle corrispondenze nella lingua in cui si traduce, la quale è sottoposta a leggi differenti. La sonorità (Lautgestalt) del tedesco non può mai riprodurre la sonorità dell’ebraico, ma essa può, scaturendo da un analogo impulso ed esplicando un effetto analogo, corrispondere alla maniera tedesca, renderla in tedesco.19

Al fine di rispondere adeguatamente a tale esigenza, il traduttore deve accogliere la reale sonorità delle lettere ebraiche; deve sperimentare l’essere-scritta della Scrittura, nella gran parte di essa, come la riproduzione su disco del suo essere-parlata.20 Tale essere-parlata, quale realtà effettiva della Bibbia, si desta nuovamente, dove un orecchio ascolta la parola biblica e una bocca la dice biblicamente. Non semplicemente la profezia, il salmo, il proverbio, originariamente sono sorti dalla lingua e non dalla penna, ma anche il resoconto e la legge; attraverso tutta l’epoca delle origini il testo sacro è per lo più per un testo tramandato oralmente — tramandato oralmente, spesso anche laddove sussista accanto a ciò una letteratura profana altamente evoluta. Esso viene messo per iscritto soltanto quando è diventato aleatorio il preservarlo inalterato — nonostante la sua ritmica sia tale da imprimersi nella memoria e a dispetto di tutte le rigide prescrizioni mnemotecniche — o quando particolari scopi lo esigano. Ma ciò che è sorto nel parlare può vivere ancora e sempre rivivere soltanto nel parlare, anzi soltanto attraverso il fatto che esso venga percepito e accolto nella sua purezza.21 Nella tradizione ebraica, la Scrittura è destinata a essere recitata; il cosiddetto «sistema di accenti», che accompagna il testo parola per parola, serve affinché il ritorno al suo essere-parlato sia conforme alle regole; già la parola ebraica che designa il «leggere» vuol dire: «proclamare», e il nome tradizionale della Bibbia è: «la Lettura», e dunque propriamente: «la Proclamazione»; e Dio non dice a Giosuè che il Libro della Torah non si debba allontanare dagli occhi, ma dice che non deve allontanarsi «dalla bocca», che egli deve — questo significa, in realtà, il seguito — «mormorarci» dentro, cioè riprodurne le tonalità muovendo appena le labbra.

A tale essere-parlato del testo, accolto in modo più pieno, deve quindi corrispondere la sonorità tedesca, ovviamente non per la lettura muta, ma per quella giusta, la proclamazione che ne trae fuori, nella sua pienezza, il valore insito nella sonorità. Anche la nostra versione in tedesco della Scrittura vuole essere «proclamata», poiché solo allora il carattere inusitato dell’effetto che gli è proprio non degenererà in stranezza.

Ma questo stesso carattere inusitato è necessario, è il necessario se, dopo tutta la falsa «informazione» intorno alla Bibbia, dopo tutto ciò che si è accomunato ad essa, una nuova traduzione deve aiutare a procurare l’incontro tra essa e l’uomo di oggi. Si tratterebbe di un carattere inusitato falso, superfluo, arrischiato, tardo-romantico, se fosse il risultato di riflessioni estetiche o letterarie; quando, ad esempio, il lessico venisse determinato interamente o anche solo in parte da un gusto — è indifferente se si tratti di un gusto arcaizzante o arbitrariamente neologizzante — e non, da quanto, volta per volta, esige il testo, dal suo imperioso essere-così, dai suoi peculiari tratti di vigorosità e di intimità. Per produrre al riguardo ciò che vi corrisponde in Occidente, in tedesco, è spesso necessario protendersi al di là del lessico attuale verso quello che è divenuto inusitato, anzi è scomparso, se questo, ben attestato dalla tradizione, non ha alcun sinonimo reale e perciò la sua reintroduzione è legittima e desiderabile; alle volte il traduttore non deve neanche temere di ricorrere a nuove formazioni linguistiche, laddove non può trovare nel lessico tedesco alcuna piena corrispondenza a una struttura biblica o a un concetto biblico. La possibilità che la nuova parola, anche solo come contrassegno di una cosa di quel mondo biblico, sia confermata e resa comune da altre generazioni, deve perciò dipendere dalla serietà del suo sapere linguistico, dalla padronanza del suo atto linguistico, dal suo atteggiamento nei confronti delle leggi della lingua nella quale si traduce, atteggiamento che deve essere, al contempo, ardito e ubbidiente. Il lettore che, libero da prevenzioni, ricerca la via verso la Bibbia, cercherà proprio ogni volta di nuovo — a partire dalle parole della nuova traduzione, che si allontanano da quelle a lui familiari — di penetrare in quelle realtà che vi si esprimono, valuterà se la versione corrente le rende adeguatamente nella loro peculiarità, misurerà la distanza tra le une e l’altra e allora verificherà come il nuovo lessico si autentichi davanti a lui; e così, con la lettura, si dischiuderà a lui il mondo biblico, territorio dopo territorio, la sua alterità nei confronti di qualcosa che è abituale, ma, al contempo, anche l’importanza di accogliere tale alterità nell’edificazione della nostra propria vita. Certo, spesso questo mondo sarà per lui linguisticamente più crudo, più franco che non per coloro che in esso vivevano, poiché nella versione in tedesco il concetto, elevato al di sopra di quanto è consueto, dice il suo fondamentale significato sensibile in modo più vigoroso che nell’originale, dove il ricorso ai concetti fa trasparire il sensibile, ciò che è plastico, sebbene spesso in un modo proprio efficace; ma proprio da ciò emergerà, per il lettore serio, il compito, che deve diventare fecondo, di una iniziazione, di una acclimatazione. È lo stesso compito che oggi si presenta, in altra forma, al lettore dell’originale, quando egli vuole affrancare il vivo «Là e Allora», e con esso la fisicità dello spirito biblico, dal carattere abituale della parola, che subito riveste ogni lettura fatta da chi ai nostri giorni studia ebraico, non importa se egli abbia imparato il significato attribuito comunemente ai vocaboli avvalendosi di un dizionario o del metodo della conversazione proprio del linguaggio corrente.

3

La Bibbia ebraica è essenzialmente caratterizzata e strutturata dal linguaggio proprio del messaggio (Botschaft).

La «profezia» è soltanto la più chiara e, per così dire, pura manifestazione del messaggio; qui viene apertamente annunciato ciò che va annunciato. Ma non vi è una qualsivoglia parte, né forma stilistica della Scrittura che non sia legata, immediatamente o in via mediata, al messaggio e che non tragga impulso da esso. Noi leggiamo le genealogie primordiali, e gli elenchi di nomi, che apparentemente non hanno alcuno scopo, si mostrano, nella scelta e nella disposizione, quali messi dell’annuncio. Leggiamo racconti che — come quello del figlio di Gedeone, Abimelech — ci sembrano appartenere completamente alla storia profana, fino al momento in cui notiamo che qui viene delineato il contraltare a una grande aspirazione che anima l’annuncio22 (nell’esempio riportato, l’aspirazione a una «teocrazia ingenua»). Leggiamo di prescrizioni giuridiche e rituali la cui precisa casistica è quanto di più freddo e oggettivo vi sia, ed ecco che improvvisamente un segreto pathos ci viene partecipato. Leggiamo i Salmi, che non sembrano dirci altro che il grido d’aiuto che l’uomo eleva al cielo nella sua angustia, ma dobbiamo solo prestarvi orecchio realmente per riconoscere che qui non parla un uomo qualunque, ma uno che sta sotto il governo della Rivelazione e la testimonia persino allorché prorompe in un grido. Leggiamo i libri sapienziali, che passano per scettici, e dal bel mezzo di essi balenano per noi grandi espressioni del messaggio. Non importa come stessero le cose riguardo a qualsivoglia brano della Bibbia prima che si inserisse nella Bibbia: in ogni membro del suo corpo la Bibbia è messaggio.

Se le cose stanno così, il messaggio, così come si è costruito nel discorso di colui che annuncia (des Künders) il proprio particolare linguaggio, deve necessariamente avere modificato il linguaggio biblico in molti del passi in cui esso si esprime in via mediata. Significherebbe disconoscere il carattere della Bibbia l’assumere che il messaggio inerirebbe ad essa così come alle cattive parabole inerisce una «morale» significherebbe dunque disconoscerebbe il carattere profondamente il carattere della Bibbia. Al contrario, anzi, in nessun luogo va tratto fuori un «contenuto» dai più tipici passi biblici; ognuno consiste piuttosto nella sua forma unitaria, indissolubile, ancora più indissolubile di quella della vera poesia. Da nessuna parte si può qui risalire a un «che cosa» originario, che abbia ricevuto questo «come», ma che sarebbe stato compatibile anche con un altro; tutto nella Bibbia è autentico «essere-parlato» (Gesprochenheit23), di fronte al quale «contenuto» e «forma» appaiono come i risultati di una pseudoanalisi, e così il messaggio, laddove si esprime in forma mediata, non può neanche ridursi ad annotazione o a commento. Esso penetra nell’assetto formale,24 concorre a determinare la forma, la trasmuta, vi penetra plasmandola, senza tuttavia agire per nulla in modo didascalico, così da sfigurarla, o da sfumarne i contorni. Il racconto mantiene limpida la sua compattezza epica, la prescrizione la sua rigorosa obiettività, ma all’interno di queste forme si compie l’azione modificatrice del messaggio.

Tale azione non può compiersi che proprio attraverso un principio formale. Questo principio formale è il ritmo, il ritmo in un senso ampio e, al contempo, peculiare.

Qui il ritmo è da intendersi non, in generale, come il movimento compaginato, ma come il legame fonetico, che si manifesta in un ordine ragionato di un elemento che rimane inalterato con uno che è molteplice. L’elemento inalterato può essere puramente strutturale — ripetizione dell’accentuazione, dell’intensità del movimento, della misura — o fonetico, come ripetizione di suoni, strutture fonetiche, parole, sequele di parole.

Il principio formale del messaggio è, in conformità a ciò, un principio duplice. E, invero, la ritmica fonetica — la «paronomasia» e i fenomeni affini — viene assunto come tale nella sua funzione, mentre quella strutturale lo è, al contrario, attraverso modificazioni, che si inseriscono nel momento dato, quale mezzo espressivo del messaggio.

4

Il testo, di cui si ha qui la versione in tedesco, è quello masoretico che è stato tràdito. Comprendere tale testo è il compito ineludibile del traduttore. A questi è affidato un solido patrimonio, in rapporto al quale ogni congettura, anche la più allettante, deve necessariamente apparire arbitraria. Poiché non vi è alcun metodo attendibile per giungere a un tenore letterale «ancora più originario», «dietro» il testo, la traduzione, la quale rappresenta l’originale, deve — a differenza di quanto fanno i commenti, che lo adornano in modo variopinto — ritenere e trasmettere ciò che sta in esso. Soltanto nelle rare situazioni-limite ove operando in tal modo se ne pregiudica il senso e la coerenza, ma si manifesta la possibilità di ripristinare l’uno e l’altra con una piccola modificazione, il traduttore, nella peculiare responsabilità del suo compito, si riterrà autorizzato e tenuto a farvi ricorso.

Lo sforzo di conservare il testo masoretico parte dall’idea che non si possa risalire dietro ciò di cui si dispone senza rimpiazzare la realtà effettiva con possibilità molteplici e mutuamente confliggenti; bisogna cercare di comprendere ciò che colui al quale spetta la responsabilità della forma del testo — ovvero il «Redattore» — ha voluto dire con essa, sforzarsi di seguire la consapevolezza maturata in ultimo, perché ci si può spingere solo apparentemente a una più remota. Proprio da questa stessa idea dipende il lessico di questa traduzione, in quanto si tratta di una traduzione che si è posta come sua finalità la versione in tedesco non della letteratura biblica nazionale, ma della Bibbia, e quindi di avere a che fare con la comprensione di un tutto che — per quanto possa essersi sviluppato da elementi così numerosi e così diversificati — pure è divenuto autentica unità.

La Bibbia vuole essere letta come un libro, cosicché nessuna delle sue parti rimane definita in sé; ognuna, piuttosto, si mantiene aperta nei confronti di ogni altra. Essa si vuole rendere presente al suo lettore come Un libro in senso così forte che egli, nel leggere o nel recitare un brano di una certa rilevanza, ricorda quei brani che possono riferirsi ad esso, specialmente quelli che gli sono identici, prossimi o affini nel linguaggio, e per lui ciascun brano rischiara e spiega il senso dell’altro, mentre tutti insieme si uniscono a formare un theolegumenon che non è espressamente insegnato, ma è immanente alla parola, ed emerge dai suoi rapporti e dalle sue corrispondenze. Non si tratta di un collegamento stabilito in seguito a una interpretazione, ma proprio sotto l’azione di questo principio è sorto il canone, e si può a buon diritto presumere che esso abbia concorso a determinare la scelta di ciò che vi è stato accolto, la scelta tra diverse redazioni. Ma tale principio domina inconfondibile già nella composizione delle singole parti: la ripetizione di vocaboli e locuzioni dal suono uguale o simile, dalla stessa radice o da una simile si presenta al lettore all’interno di un brano, all’interno di un libro o di un gruppo di libri, con una forza calma, ma che avvince il lettore capace di ascolto. Sulla base di questa idea, si considereranno, ad esempio, i rapporti linguistici tra i Profeti e il Pentateuco, tra i Salmi e il Pentateuco, tra i Salmi e i Profeti, e si riconoscerà ancora di nuovo l’impressionante sinotticità della Bibbia.

Le parole fondamentali della Bibbia non manifestano la loro ampiezza e profondità di senso alla luce di un singolo brano; è vero, piuttosto, che i vari brani si completano, si sostengono l’un l’altro. Tale manifestazione fluisce continuamente tra esse, e il lettore, il quale abbia fatto propria una memoria biblica organica, legge di volta in volta la singola connessione non per sé, ma come avviluppata alla ricchezza delle interrelazioni. La teologia che si cela nella Scrittura è immediatamente in atto qui, dove il contenuto delle singole parole fondamentali si dischiude così da proposizioni, forme testuali e livelli di espressività diversi come da quelli uguali. Certo, non è la parola, ma la proposizione il componente naturale del discorso vivente, e in confronto ad essa, la parola è il prodotto di un’analisi, ma la frase biblica vuole essere compresa biblicamente, cioè nell’atmosfera che si genera attraverso la ripetizione delle stesse parole fondamentali.

Rendere visibile questo intimo legame è un servizio in cui si situa anche il traduttore. Egli conosce la forza della pigrizia, della consuetudine, del leggere che passa oltre, in ebraico come in tedesco; egli sa come per tutti, dal bambino fino a colui che della Bibbia è dotto, sia straordinariamente facile cadere in suo potere; egli deve dare fondo alla sua forza per neutralizzare quella forza. Ciò implica che egli — quando è necessario e quando è anche plausibile — scelga la parola pregnante, che si imprima nella memoria e che, laddove si ripete, venga subito riconosciuta ancora, e inoltre che egli non rifugga da una parola inconsueta, quando questa trae fuori il linguaggio da un recesso dimenticato; ciò implica che egli, allorché è necessario ed è plausibile, cerchi di rendere una radice verbale ebraica con una sola radice tedesca, e che non ne traduca una con più radici, né più radici con una sola. Quando ciò è necessario; poiché in prossimità di parole di scarsa o nulla rilevanza spirituale, sarà permesso allentare o revocare il principio, se anche qui deve essere svolto il compito di tutti i traduttori, che è quello di non confondere i «sinonimi» l’uno con l’altro, ma di lasciarli così come sono, nel differenziarsi del loro senso.25 E quando ciò è plausibile; poiché spesso dal particolare contesto in cui è inserito un brano scaturirà il dovere di trattarlo come una eccezione.

Ogni interprete è soggetto, anzi, a una duplicità di leggi, che a volte sembrano mutuamente confliggenti: la legge di una lingua e la legge dell’altra; per colui che sta traducendo la Scrittura si aggiunge un’altra duplicità: la legge, che parla sulla base delle ragioni proprie del singolo brano e la legge che parla sulla base di quelle del tutto che è la Bibbia. Ma come quelle due si riconciliano, o piuttosto giungono a collegarsi, in forza del dato di fatto che soltanto a una considerazione preliminare si danno delle lingue, ma in definitiva vi è l’una lingua dello spirito, lingua che non si può udire e che pure è tale che non si può far finta di non sentirla., «quella lingua semplice, universale» [Goethe], così il conflitto tra le ragioni della frase e le ragioni del libro si supera in forza del dato di fatto per cui entrambe derivano il loro senso da un incontro dialogico, che là vale per la persona umana e l’attimo, qui per il popolo e il tempo cosmico (Weltzeit), per il popolo, in cui è inserita la persona nella sua autonomia, e il tempo cosmico, nel quale è inserito, nella sua autonomia, l’attimo.

5

Per parola-motivo si intende una parola, o una radice verbale, che si ripete, con pregnanza di senso, all’interno di un testo, di una sequenza di testi, o di una struttura che compagini un testo: a colui che segue queste ripetizioni si dischiude o si chiarisce un senso del testo, oppure esso si manifesta anche solo in modo più pieno. Non è necessario, come abbiamo detto, che si tratti della stessa parola, ma che si tratti della stessa radice verbale la quale ritorni in tal modo; le relative differenze concorrono all’effetto dinamico dell’insieme. Lo definisco dinamico poiché si realizza, per così dire, un movimento tra le strutture fonetiche riferite l’una all’altra: chi ha presente il tutto, sente le onde battere da una parte e dall’altra. La ripetizione regolare, che corrisponde al ritmo interiore del testo o, meglio, che scaturisce da esso, è probabilmente, la più efficace tra tutte le risorse, per rivelare un tratto del senso, senza esplicitarlo; essa può attingere una peculiare valenza espressiva, indipendentemente dal valore estetico, che noi conosciamo, si può dire, in una espressione esemplare, sulla base dell’allitterazione che si rinviene nell’Edda26 più antica.

Ciò vale sia nel caso di una «paronomasia» propriamente detta, che appare all’interno di un singolo nesso sintattico, sia di una paronomasia intesa in senso più ampio, comprendente al suo interno l’allitterazione e l’assonanza, o, ancora, di paronomasia a distanza, ovvero che si realizza non tra parole contigue, ma attraverso un più ampio spazio testuale. Questa peculiare valenza espressiva consiste nel fatto che il senso da esprimere non viene a presentarsi in un’appendice didascalica; la pura forma, pertanto, non viene disgregata, né destrutturata. Con tutto ciò viene presupposto che esista una forma siffatta, una forma artistica compiuta ma, al contempo, che si debba giungere a comunicare un senso, un messaggio, che trascendono tale forma artistica, e che dunque il senso e il messaggio, in conformità alla loro natura, debbano aprirsi un proprio percorso espressivo, e senza che ciò implichi un qualsivoglia strumento particolare, proprio come nel caso di una poesia avviene per il suo significato. Tale presupposto non si riscontra in alcun luogo come laddove vengono a convergere la forma epica, rigorosamente compiuta, e un messaggio «religioso» recato da uno spirito che è disceso.

Ma ciò non è avvenuto probabilmente in nessun altro luogo con la stessa forza che caratterizza la narrazione del Pentateuco. L’austerità della forma scaturisce qui dalla profonda intenzione di riferire, e soltanto di riferire; e proprio perciò è interdetto al messaggio il volersi imporre ad essa. Qui non vi è alcuno spazio per un discorso di carattere didattico sul contenuto religioso che trascenda il puro e semplice resoconto, e il racconto non ha alcuna discontinuità inserita artificiosamente. Qui il messaggio non può introdursi altrimenti che riconoscendo la legge dell’epos e ponendosi sotto la sua tutela. Questo lo fa, in quanto il messaggio, senza intaccare la struttura del racconto, conferisce ad esso il ritmo, in modo che il senso vi inerisca, e ciò attraverso le parole-motivo. Ora, è chi vi presta orecchio nel modo giusto a trarre fuori dall’assonanza il significato precipuo. Tra brano e brano, e quindi tra stadio e stadio della storia, viene stabilita una relazione che, in modo più diretto di quanto possa fare un’ espressione che vi venga aggiunta, esprime la causa prima dell’evento raccontato. In nessun luogo il linguaggio epico deborda dai suoi confini, in nessuno è retorico, o liricizzante; il ritmo della parola-motivo è qui un vero ritmo epico,27 il legittimo signum artistico di un mistero che si estende anche al mondo della forma, e lo comprende in sé.

6

Per quanto riguarda la ritmica fonetica [ritorno dell’identico all’interno di una varietà] vorrei riportare un paio di esempi dal primo dei Cinque Libri dell’Istruzione,28 il cosiddetto Pentateuco, per quella strutturale[modifica della struttura ritmica all’interno di una unità testuale] un paio di esempi dal secondo e dal quarto libro.

Nel racconto della costruzione della Torre di Babele, in sette parole-motivo si presenta la corrispondenza tra l’azione degli uomini e la contro-azione di Dio, la quale deve essere espressa in tal modo, non expressis verbis. Esso suona «Tutta la terra»29 all’inizio, laddove viene intesa la popolazione della terra ancora riunita e, nello stesso senso, alla fine della prima parte vi è «tutta la terra»,30 prima che cominci la contro-azione, e «tutta la terra» si ripete tre volte, ritornando alla fine, per designare la superficie della terra,31 sulla quale ora ognuno ora è stato disperso nella sua stirpe. Analogamente, sentiamo la parola «idioma»32[propriamente «labbro»], all’inizio, dove si parla dell’unità del genere umano quanto alla lingua, e poi di nuovo nel discorso di Dio,33 e ancora una volta nel resoconto finale. In quest’ultimo passo, si tratta dell’azione di Dio «che confonde»34 [ovvero: che scompiglia] questa lingua — la parola ricorre qui due volte, come verbo e come nome.35 «Orsù!» gridano per due volte36 l’uno all’altro i rivoltosi, e «Orsù» dice a se stesso Dio,37 scendendo sulla terra. A ciò si aggiungono, parimenti nella corrispondenza tra azione e contro-azione, il «costruire» e la «citta», il «nome» e il «disperdere». L’impresa degli uomini è motivata dal timore della dispersione che essi presumono incombente e ha come conseguenza l’effettiva dispersione.

I profeti, nonostante l’elezione di Giacobbe, non hanno mai fatto mistero di considerare colpevole il comportamento da lui tenuto nei confronti del fratello [Ger 9, 8, ma anche Os 12, 438]. Il narratore, che doveva riferire proprio l’inserimento di Giacobbe nell’elezione, non poteva esprimerlo se non per mezzo della ripetizione, ovvero in una forma allusiva ancora più discreta di quella adottata dai profeti. «Inganno» [Gn 27, 3539] è la colpa, e il soffrire l’«inganno» [29, 2540] vale come espiazione. Il peccato riguarda la «primogenitura»[capitoli 25, 31, 33, 34 come pure 26, 19, 36], e la punizione maggiormente sentita è che Giacobbe riceve in sposa la «primogenita»[29, 26, propriamente la «primogenitura»] anziché la donna che ama. Ma, come in questo brano, nel racconto del compimento del peccato [nel capitolo 27, ai versetti 4, 10, 12, 19, 23, 25, 27 due volte, 29, 30, 31, 33 due volte, 34, 35, 36 due volte, 38 due volte, 41 due volte, in tutto 21 volte], la parola «benedire-benedizione» sta al centro: nel racconto della lotta, dopo la quale Giacobbe viene benedetto dall’«uomo» [cap. 32, versetti 27 e 30] e in quello della riconciliazione con il fratello, dove il dono offerto da Giacobbe per la riconciliazione41 viene designato con la parola, altrove di uso non comune al riguardo, «benedizione».42 Un ulteriore esempio dell’impiego della paronomasia come mezzo espressivo: il rapporto che viene inteso tra la riconciliazione propria della sfera divina e quella della sfera umana si presenta anche nel fenomeno per cui la parola «volto» («Antlitz»), riferita alternativamente all’una e all’altra sfera, viene qui ripetuta diverse volte, finché Giacobbe dice a Esaù: «Ora ho visto il tuo volto, come si è alla presenza del volto di Dio».43

La forma strutturale, la significativa modificazione del ritmo, è riconoscibile con la massima chiarezza in alcuni discorsi di Dio. La «Scrittura» è — come già Girolamo aveva scoperto, in conformità al suo carattere originario, ovvero all’«essere-parlata» — articolata in unità ritmiche (Atemzug-Einheiten44), linee di senso, «kola», e noi, per la prima volta, l’abbiamo tradotta così, in quanto dovevamo aver riguardo alla molteplicità di forme tipiche che esiste all’interno della prosa biblica, molteplicità che viene a connotarsi anche attraverso il ritmo. Anche i discorsi, i comandamenti e le prescrizioni che vi sono contenuti si articolano così. Ma a volte, proprio all’interno di essi, è il ritmo a dominare, laddove, in effetti, una prescrizione si conclude con un’istruzione che indica l’essenziale, o addirittura trapassa in un’interpretazione divina del senso di quanto è prescritto. Ciò vale per la descrizione del «pettorale del giudizio» [Es 28, 13-28] del sommo sacerdote, che racchiude i misteriosi urim e tummim, «i rischiaranti e appiananti».45 La descrizione enumera, con una precisione ieratica e fredda, le stoffe e le pietre preziose, specificandone la fattura e la disposizione, ed è seguita da una istruzione finale, contessuta di ripetizioni ingegnose; quest’ultima si discosta dalla descrizione nel registro linguistico, nella struttura delle preposizioni e nel ritmo, senza che ne siano inficiati né la connessione né l’unità compositiva.

È così che si svolge anche la prescrizione, oggettivamente precisa nel linguaggio e nel suono, relativa alla «elevazione a» («Darhöhung»46) quotidiana — o, meglio, a «ciò che si leva», («die Aufsteigende») poiché questo è il senso letterale del cosiddetto «olocausto» («Brandopfer») — del quale si parla in Dt 29, 38-41.47 Tale prescrizione trapassa in una espressione sublime del messaggio(vv. 42-4648), puro esempio di proclamazione sacrale. E di nuovo, a partire da una prescrizione sul sacrificio [Nm15, 1-649] si sviluppa una legge che si estende molto al di là di essa, diversa nel tono e nella struttura; la significatività di questa legge viene messa in rilievo attraverso il richiamo, altrimenti sconosciuto: «Assemblea!»,50 che proclama la parità di diritti per lo straniero che vive in mezzo a Israele, del «forestiero», evidentemente non per il singolo rito, ma per l’intera vita comunitaria: «una stessa istruzione e uno stesso diritto per voi e per il forestiero, che è ospite presso di voi».51

7

Grazie all’esempio costituito da diversi concetti propri dell’ambito sacrale, e di ambiti in rapporto con esso, si può spiegare il lessico che viene a determinarsi in virtù dal compito proprio della nostra traduzione.

I concetti di natura sacrificale si trovano usualmente resi attraverso il termine generale «sacrificio, sacrificare», al quale si aggiungono le specificazioni «olocausto, oblazione di vivande». In tal modo ci si allontana da una situazione di fatto, di carattere cultuale-teologico, propria, in generale, della storia delle religioni. In verità, quasi tutti i concetti sacrificali dell’ebraismo risalgono al rapporto tra colui che offre il sacrificio e il suo Dio e a un evento che accade tra l’uno e l’altro, o comunque all’avvio di questo evento. Da qui la denominazione, alquanto comprensiva, qorban, derivata da un verbo, che significa vicino, avvicinarsi; il senso del sacrificio è ora quello di avvicinare se stesso a Dio; da qui le parole tedesche: «Nahung,52 Darnahung, nahen, darnahen» («avvicinamento, avvicinamento a, avvicinare, avvicinare a»). Il cosiddetto «olocausto», ’olah, significa «ciò che si leva» in alto, in alto fino a toccare il cielo; quindi «innalzamento, elevazione a, innalzare, elevare a»53 La cosiddetta «oblazione di vivande», minchah, significa semplicemente «dono», eppure ricorda il verbo nachah, «accompagnare», e veniva facilmente associata ad esso; perciò: «accompagnamento».54 La parola zebach significa invece «macellazione», «offerta proveniente da macellazione»: si macella un animale, se ne sacrifica una parte e si mangia il resto comunitariamente: la comunità viene fondata, in uno, con Dio e tra gli uomini, e ogni pasto comunitario include un sacrificio. Il fatto che con ciò vengano frequentemente legate insieme la parola «ringraziamento» e una parola che richiama fortemente «pace» appartiene allo stesso contesto. Dalla stessa radice di zebach deriva la parola ebraica che sta per «altare», perché si è macellato proprio alla mitzbeach e perché il macellare il «banchetto proveniente dalla macellazione» al «luogo della macellazione» è, sul piano biblico, la cosa più importante. L’odore che si leva dal fumo del sacrificio si chiama reach nichoach, un’assonanza che ricorre come un ritornello, il cui secondo membro, una parola che viene usata soltanto per il servizio sacrificale, ha la stessa radice di «quiete», ma anche «acquietamento» non sarebbe adeguato al concetto oggettivato; il nostro «odore di compiacenza» (Ruch55 des Geruhens) si avvicina al massimo al senso e alla forma.

Il nomen qodesh, ordinariamente reso con «santo, il Santo», è un concetto dinamico, che contrassegna innanzitutto un processo, quello della santificazione, del santificare e dell’essere-santificato, e solo in secondo luogo il santuario; quindi non «uomo santo», ma «uomo della santificazione», non offerte «sante», ma per la «santificazione»(«Darheiligung»); le parti che di queste vanno ai sacerdoti sono «cose-separate-per-la-santificazione» («Abheiligungen»), gli oggetti che rendono separato tutto ciò che li tocca, lo «santificano» («verheiligen»), e ciò che è nella parte più interna del santuario non è inteso come «il Santo dei Santi», ma come il luogo dal quale tutto nel santuario riceve il suo essere-santificato, «il santificante — propriamente: la santificazione — delle cose sante».

Il contrario di questo è chol, che non significa il «profano» («Unheilige») o «non-santo» («Nichtheilige»), ma ciò che, in quanto non soggetto a separazione cultuale, è «abbandonato» all’uso comune. Così anche l’inizio dell’uso ordinario della vigna debitamente consacrata nei primi quattro anni dal momento in cui è stata piantata [Lev 19, 2356] viene denominato «resa» (Preisgabe) o, meglio, «prendere-in-resa» (Preisnahme) [Dt 20, 6; 28, 3057].

Il contrario di «puro» non è «impuro», non è alcuna mancanza di purità, ma «macchiato», in quanto la macchia è intesa quale forza che agisce diffondendosi come un miasma.

Il santuario mobile della peregrinazione nel deserto, ’ohel mo’ed, non è un «tabernacolo», ma neanche «tenda della rivelazione» è una traduzione adeguata: è la «tenda dell’incontro», dell’incontro prestabilito di Dio con il popolo. Esso si chiama anche, con un termine affine, ’ohel ha-’eduth, «tenda del rendere-presenza», perché esso racchiude le Tavole della Legge, che hanno accolto la rivelazione come scrittura che vi è stata incisa e che debbono renderla presente a tutte le generazioni successive.

Con ciò viene dato, al contempo, un esempio convincente dell’altro tipo di lessico adottato nella traduzione, accanto al lessico «assoluto» di cui ho parlato, un lessico che chiamerei «relativo»; quello è pensato con riguardo alla registrazione del singolo senso letterale, alla liberazione del suo originario carattere sensibile dalla crosta dell’astrazione corrente, questo al mantenimento del rapporto reciproco, inteso volta per volta dalla Bibbia, tra due o più vocaboli che abbiano affinità quanto a radice o anche soltanto nel suono. Ho già fatto riferimento a quanto sia importante per lo stile biblico la «paronomasia», cioè l’uso di più vocaboli, contigui o almeno vicini, simili nella struttura o nel suono, in modo che, allorché al primo vocabolo si fa incontro il secondo e il terzo, si oda ancora risuonare o riecheggiare il primo.58 In questo modo questi vocaboli, separati dal loro contesto, sono posti in un peculiare rapporto, nel quale di frequente un vocabolo espresso dal testo si rafforza, per così dire, nel suo effetto sonoro e si imprime più facilmente nella memoria, anzi viene persino espresso qualcosa nel modo appropriato, e proprio ciò che il testo vuole esprimere solo in tal modo. Conseguentemente, nella Bibbia allitterazione e assonanza, come pure la vera e propria ripetizione di vocaboli, locuzioni, proposizioni, non vanno comprese soltanto sulla base di categorie estetiche; esse appartengono per lo più al contenuto e al carattere del messaggio stesso, e renderli in maniera adeguata è uno dei compiti che stanno al cuore della traduzione. Si tratta spesso di correlazioni molto importanti, se noi all’interno di un passo, e non di rado anche all’interno di un’intera sezione, di un intero libro, anzi di una pluralità di libri, ci sforziamo di rendere la stessa radice verbale ebraica attraverso la stessa radice verbale tedesca.

Il vocabolo mo’ed significa anche «tempo stabilito» (Gezeit59), innanzitutto soltanto nel senso del ritorno, ogni anno, dello stesso giorno [o degli stessi giorni]; a partire dal presente di questo, il suo ritorno viene visto come un presente che sempre ritorna; in secondo luogo, esso è inteso nel senso dei tempi di festa. Alla fine, comunque, ad esso si collega, sotto l’influsso del contenuto del vocabolo, l’idea dell’incontro, finché si perviene al concetto dell’incontro festivo, all’interno del popolo, e del popolo con Dio; entrambe le sfumature di significato, anzi, possono ricorrere l’una accanto all’altra [Lev 23, 4]: «Questi sono i tempi dell’incontro… che voi dovete proclamare a suo tempo».60 Subisce realmente un totale cambiamento di significato la parola che sta propriamente per «festa», chag, il cui originario contenuto sensibile, «girotondo, ridda», sbiadisce gradualmente. Chi traduce deve seguire questo processo di astrazione dalla connotazione sensibile, così come, ad esempio, per rendere hithpallel, correntemente tradotto con «pregare», è tenuto nell’intero Pentateuco a usare uniformente il più specifico, ed evidentemente più vicino alle origini, «intercedere» [di fronte a Dio, per qualcuno con cui egli si adira]. Chodesh, invece, il singolare «rinnovarsi della luna, rinnovamento», non va tradotto in alcun luogo con «mese», in quanto qui non viene caratterizzata la durata temporale in quanto tale, ma o l’intero corso attraverso il quale si la luna si rinnova, oppure la luna nuova come suo inizio, e la dinamicità del concetto è indispensabile per la psicologia del dispiegarsi del tempo biblico.

Ancora più importante è mantenere il dinamismo proprio della parola ebraica in denominazioni quali shabbàth e pèsach, che non debbono restare non tradotte, come avviene usualmente; pèsach non si può tecnicizzare in passah, ma deve rimanere, custodendo la memoria vivente di ciò che vi è associato, la festa della memoria di quel «passare oltre» o «passaggio»61 [Es 12, 13]; e la Bibbia tedesca deve trarre interamente fuori lo shabbàth dall’irrigidimento del «sabato» e ricondurlo alla vitalità della festa, del celebrare la festa [quindi, come la parola nei singoli passi, così Lv 23, 1562 si riferisce non al giorno di riposo alla fine della settimana, ma a un altro giorno di festa], fino a che l’uomo, riposando dal «lavoro», che egli ha «fatto» nella settimana, si comprenda situato nell’imitazione di Dio, che nel settimo giorno della settimana della creazione si riposò dal «lavoro» («Arbeit») che aveva «fatto».63 Perciò non è legittimo l’uso, pur consueto, del sostantivo «opera» («Werk») nella storia della creazione e del sostantivo «lavoro» nelle leggi sul sabato, del verbo «fare» («machen») nella storia della creazione e del verbo «eseguire» («verrichten») per il fare dell’uomo nelle leggi sul sabato, ma sia qui che là vanno usate le stesse parole, come fa l’originale, pur laddove, eccezionalmente, il comando del sabato non rimandi alla creazione.

I comandi relativi al sabato offrono un importante contributo alla comprensione della funzione della paronomasia nella Bibbia. In un comando che si fonda originariamente nel riposo di Dio dalla creazione [Es 31, 14 ss64] si vuole dire che nel settimo giorno egli riposò e «riprese fiato» («eratmete»), ma questo verbo, che non ricorre pressoché in alcun altro passo, sta, nella stessa forma, in un altro comando [Es 23, 12], dove l’istituzione del sabato viene fondata dalla finalità sociale: affinché «prendano fiato il figlio della tua serva e il forestiero».65 Il legame che così è stato intrecciato tra i due comandi, senza scrupoli riguardo al grezzo antropomorfismo del «riprendere fiato», deve richiamare alla mente di chi ascolta, proprio attraverso il diritto dell’uomo che è alle sue dipendenze, il riposo di Dio e, con il riferimento al Dio che riposa, il pensiero dello schiavo stanco del lavoro; poiché a ogni uomo deve essere permesso di imitare Dio [«di camminare nei suoi sentieri»]. Entrambe le due fondamentali motivazioni sono fatte l’una per l’altra, perchè Dio e «l’oppresso e indigente» sono l’uno per l’altro; poiché, come proclama la tarda profezia [Is 57, 15], Dio dimora oltre che nelle «altezze e nella santità» («in der Höhe und Heiligkeit») proprio «vicino all’umiliato e oppresso».66

Il settimo anno non è «anno di remissione»,67 poiché i debiti non debbono essere rimessi, ma possono soltanto non essere riscossi [Dt 15, 2 ss.]; è un anno del «lasciare-cadere». Il cinquantesimo anno non è «l’anno del risuonare»68 («Halljahr»), ma l’«anno-che-riporta-a-casa» («Heimholerjahr»69) poiché, qualsiasi cosa voglia dire jobel, l’etimologia popolare in ogni caso ha compreso il nome come riferimento al senso dell’istituzione, il riportare il possessore del fondo, impoveritosi, al proprio terreno, e il riportare alla libertà coloro che ne sono stati privati: «Sarà per voi quello che riporta a casa/ poiché tornate indietro/ ognuno alla sua proprietà/ ognuno alla sua stirpe / dovete ritornare».70

Secondo il comando dell’anno sabbatico, ovvero dell’«anno del riposo»[Lv 25] la terra deve essere coltivata per sei anni, e riposare nel settimo; sette volte la legge ripete la parola «riposare, riposo». E come il comando del sabato ha accolto nel comune riposo ogni creatura, anche il servo, anche il forestiero, persino l’animale domestico, così il comando dell’anno sabbatico accoglie ogni creatura nel godimento comune di ciò che ricresce senza che debba essere raccolto. Questo comando «sociale» — «sociale» e «religioso» non vanno separati nella Torah: il religioso è la direzione, ma il sociale è il cammino — ha, nel contesto della legislazione, un valore così elevato, che la sua inosservanza sta al centro della grande maledizione che conclude le leggi del terzo Libro.71 Quando il popolo che non ha voluto osservare l’anno sabbatico viene scacciato dalla sua terra, popolo e paese vengono separati l’uno dall’altro, allora la terra perverrà al suo diritto: proprio agli anni sabbatici, che il popolo le aveva negato e che adesso vengono riguadagnati, in un lungo tempo di maggese [Cfr. in 2 Cron 36, 21 l’applicazione da parte di Geremia dell’espressione del Levitico]. Ma, come nella profezia «apocalittica» del libro del profeta Isaia [cap. 25] della terra che degenera sotto i piedi dei suoi abitanti e che «la maledizione divora», la visione del Regno di Dio che si manifesta prevale su quella della terra caduta in rovina, così nella maledizione stessa la promessa conduce al di là della predizione di sventura. Solo che qui l’una e l’altra sono più profonde, intrecciate l’una all’altra in modo particolarmente profondo e, in verità, attraverso il fatto che la comunanza di destino tra uomo e terra, e qui anche tra il popolo e il paese, guadagna, per mezzo della ripetizione della stessa parola dal doppio significato, una forma linguistica singolare, che si imprime nella memoria. Forme del verbo razah, che nella forma qal72 significa qualcosa come «rendere valido un servizio attraverso l’accettazione», sono usate allora con una piccola differenza, cosicché il riposo della terra, che compensa quello mancato, e l’espiazione del popolo, — che appiana la tensione nei confronti di Dio, e nella quale si desta la sua conversione, la «sottomissione del cuore» [Lv 26, 41] — vengono intesi con la stessa parola e così sono tenuti in un saldo rapporto reciproco.

Mentre il popolo deve espiare la sua colpa, «sconta la terra il suo anno di riposo», «essa conta sul suo riposare», fino a che i figli di Israele «scontino la loro mancanza»73 e Dio si ricordi di loro e della terra, per unire nuovamente l’uno all’altra. Ricorre qui per la settima volta la radice verbale shabbàth, come nella legge sull’anno sabato, nel passo precedente, è ripetuta sette volte [Lv 25, 1-7]: nella maledizione che si trasmuta in benedizione si compie la caratterizzazione, per sette volte, del settimo anno; prevale la grazia, il «il dare validità nell’accettare», razon, non nominato qui nel passo connotato dalla ritmicità della razah, ma che traluce qua e là all’inizio del libro [Lv 1, 374] e in altri passi.

Nel Decalogo, il verbo paqad che, altrimenti, è reso in tedesco dai traduttori con «provare» o addirittura con «punire» è reso da noi con «assegnare», perché esso designa in tutte le sue forme le attività dell’ordinare, disporre, prescrivere, associare, assegnare,75 e quindi anche la potestà (Walten) di Dio che ordina la storia degli uomini, il suo colmare le lacune, trarre fuori dalle angustie, ma anche la sua azione e le conseguenze, l’agire che, in modo pedagogicamente magistrale, appiana le differenze. Qui egli fa vivere i peccatori, quando i loro figli e nipoti debbono ancora soffrire per la loro mancanza; non vi si parla di una punizione nei confronti dei discendenti al di là della vita dei peccatori. La profezia più tarda [Ez 18, 276] doveva esprimere qui una interpretazione tale da evitare l’equivoco.

Ma anche «profeta» è una traduzione che induce facilmente in errore; il nabi, «colui che dà la notizia» (der Kundgeber) tra cielo e terra, «colui che annuncia» («Künder»), non «profetizza»: egli non aveva da annunciare un futuro rigidamente fissato, ma da porre i suoi ascoltatori davanti alla alternativa.

Il sostantivo tradotto usualmente con «angelo» significa il «messaggero», quello celeste e quello terrestre, umano [proprio così è anche il greco angelos, dal quale proviene «angelo»]. La specificazione induce all’errore; almeno nel tempo preesilico gli angeli esistono soltanto nel loro messaggio, il loro modo di essere consiste nella funzione affidata loro.

Non sempre però è necessario risalire al senso letterale originario, per rendere adeguatamente l’intenzione della Bibbia. Così per il senso proprio della parola kabod — che si traduce con «onore» allorché si tratta dell’uomo, e con «gloria», allorchè si tratta di Dio — non vi è alcun corrispettivo in Occidente. In conformità alla radice verbale, la parola contraddistingue l’intima consistenza di un essere, ma in quanto si manifesta, appare. Nell’ambito umano essa deve rimanere «onore», ma per la kabod di Dio è possibile usare la parola «manifestazione» (Erscheinung), come il farsi visibile della majestas invisibile, il suo farsi manifesta: gloria di luce nei cieli come irradiazione della «potenza» («Wucht»). Presupposta questa immediatezza della percezione linguistica presso il lettore, il traduttore, nel rendere il verbo relativo nella forma riflessiva in passi come Es 14, 4, 17 ss e Lv 10, 3, invece che con espressioni quali «farsi onore», «manifestare la propria gloria» o simili, può rimettere in auge una buona espressione tedesca e fare dire a Dio: «Io mi rendo manifesto».77

In modo immediato, come per il concetto del kabod di Dio si fa comprendere dalla lingua tedesca quella ruah che all’inizio della creazione aleggia — o, meglio, si libra (schwingt78) — «sulla faccia delle acque».79 Il verbo è estremamente raro; in questa forma esso ricorre solo una volta, nel cantico di Mosè [Dt 32, 1180], in un passo che evidentemente l’autore collega in modo paronomastico a quello. Qui il Dio che agisce nella storia dei popoli e di Israele viene paragonato all’aquila che battendo lievemente le estremità delle ali, si libra sul suo nido, per «destarlo», ovvero per spingere al volo i piccoli, che sono appena diventati capaci di volare, e poi però, distendendo pienamente le ali, ne prende uno e «lo solleva sulle sue ali».81 Noi dobbiamo pensare alla storia della creazione, dove le acque corrispondono al nido e le creature [con riferimento alla moltitudine di queste, viene proprio detto che le acque dovessero «brulicare» fino a traboccare82], che Dio chiama all’essere e mantiene nell’essere, corrispondono ai piccoli. Ma che cosa dobbiamo intendere per ruah?

Che si parli di essa e non di Dio stesso, appare chiaro dal fatto che qui il dispiegarsi delle ali viene espresso non in via di paragone, come nel canto di Mosè, ma in senso materiale e la Scrittura, pur con tutta la sua tendenza agli antropomorfismi, evita volentieri dettagli ottici nelle manifestazioni di Dio. Le opinioni sono da sempre divise su quale dei due significati della parola ruah venga inteso qui, vento [ovvero un vento di Dio o un vento impetuoso, un «vento divino»] o spirito [ovvero lo spirito o uno spirito di Dio]. Al fondo di entrambe le interpretazioni sta l’idea che sia necessario decidersi per una delle due. Ma le cose non stanno così. Il fondamentale significato dinamico della parola, il solo sulla base del quale possiamo comprendere il passo, è: l’alitare, lo spirare, il fremere.83 All’uomo della Bibbia si manifesta in tali modi non semplicemente il vento, ma anche lo spirito. In questo passo vengono intesi l’uno e l’altro;84 viene inteso lo spirare e il sibilare, il fremito originario. La Scrittura non pensa in modo lessicale, ma in modo elementare, e vuole che il suo lettore pensi allo stesso modo; qui vuole che il movimento che si origina in Dio, quel movimento che è prima di ogni differenziazione, colga — indifferenziato, ma vivente nella sua realtà sensibile (sinnlich-lebendig) — il suo orecchio in ascolto.85 Noi obbediamo al suo intento, se qui traduciamo «fremito di Dio» («Braus Gottes»); nei passi successivi, però, diciamo «fremito dello spirito» («Geistbraus») dove — e solo dove — si parla dello spirito che procede da Dio e della tempesta dello spirito che ispira l’uomo, e non dello spirito dell’uomo, isolato e chiuso in sé, laddove si deve parlare di «spirito» . Parimenti, diciamo «fremito di vento» («Windbraus») allorché deve essere percepito il processo naturale come un processo nel quale si agita, a somiglianza dello spirare del vento, il fremito della creazione e, ancora, in passi nei quali i due significati stanno vicini, uno accanto all’altro e la loro unità non può andare perduta. Un passo epico, particolarmente rilevante, di questo tipo è il capitolo 11 di Nm,86 il racconto dell’effusione dello spirito sugli anziani e dell’invio da parte di Dio del vento che sospinge le quaglie. Nessun altra parola tedesca può, come «Braus», rendere a tutti questi brani ciò che spetta loro di diritto.

8

La difficoltà della versione adeguata si accresce fino al paradosso, laddove si tratta delle denominazioni di Dio, soprattutto del tetragramma, del nome JHWH [la vocalizzazione è incerta, quella del testo masoretico è convenzionale, l’espressione del nome, che era proibita, non doveva certo essere facilitata da essa]87 . Va ritenuto che esso originariamente, nella forma primitiva «Jàh», fosse mera esclamazione, suono originario (Urlaut88), e successivamente, ampliato con l’aggiunta di un fonema a «Jahu», fosse un’ esclamazione retta insieme da un pronome e da una interiezione, proprio come il grido, dello stesso tenore, dei Dervisci; entrambi hanno anche mantenuto autonoma la prima delle due forme, quale parte costitutiva di nomi propri.

Nel discorso del roveto ardente [Es 3, 1489] il nome viene espresso con l’aggiunta di un’ulteriore lettera.90 Dio risponde alla domanda di Mosè sul suo nome, piuttosto sul senso del nome, in quanto, trasponendo il verbo dalla terza alla prima persona, ’ehjeh [hawah è la forma più antica del verbo, hajah la più recente], «Io sarò» dice, e aggiunge: ’asher ‘ehjeh, «come colui che io sarò»; il fatto che ’Ehjeh sia da comprendere come il nome manifestato, deriva dalla frase immediatamente seguente: «Così devi parlare ai figli di Israele: ’Ehjeh mi manda a voi». Da sempre si suole tradurre quel ’ehjeh ‘asher ‘ehjeh: «Io sono colui che sono» e con ciò — quando non si vuole fare esprimere a Dio addirittura il suo rifiuto di ogni risposta attraverso questo modo di dire non inconsueto, ma pure triviale — si comprende una espressione di Dio sulla sua eternità o persino sul suo essere-sé-da-se-stesso; ciò è impossibile già per il fatto che un uso del verbo nel senso della sua esistenza è altrove estraneo alla Bibbia: esso significa — a prescindere dall’impiego come copula o nel senso di «c’è» e simili — divenire, accadere,91 farsi presente, essere presente, esser-ci.

Per custodire il significato di questo brano centrale da ogni fraintendimento, l’ultimo narratore, ovvero il Redattore, adottando in modo magnifico lo strumento biblico della ripetizione al quale ho già fatto riferimento, ha fatto parlare Dio a Mosè con lo stesso ’ehjeh, nella stessa sezione quasi immediatamente prima del nostro passo [verso 1292]: «Io ci sarò presso di te» e poco dopo [Es 4, 12, 15] ha fatto ripetere la parola ’ehjeh nello stesso, inequivocabile, senso. Nella tradizione ebraica, e al suo interno anche da parte di Yehuday haLevy, si è fatto più volte riferimento a questo rapporto. Rosenzweig dice: «Che senso avrebbe per degli infelici e degli avviliti una lezione sull’esistenza necessaria di Dio? Essi, come il loro esitante condottiero, hanno bisogno di una rassicurazione sull’essere-presso-di-loro di Dio, ma a differenza del condottiero che lo apprende dalla bocca stessa di Dio, ne hanno bisogno nella forma di un’illuminazione dell’antico nome oscuro, in modo che l’origine divina della rassicurazione ne sia confermata».93 Il popolo crede che Mosè avrebbe voluto sapere in quale modo, nelle sue necessità, potesse evocare (beschwören) Dio con il mistero del suo nome, come si credeva in Egitto; Dio risponde che essi non hanno bisogno di evocarlo affinché sia presente (herbeizubeschwören), poiché egli sarà presente presso Mosè, sarà presente presso di loro. Ma aggiunge che essi non possono affatto evocarlo, poiché egli non si renderà presente agli uomini nella forma di manifestazione che essi desiderano, ma in quella da lui stesso voluta ogni volta per questa determinata situazione di vita dei suoi uomini: «come colui che sarò» o «[proprio] così come sarò».

Alla luce di queste considerazioni, noi non possiamo fare nostro nessuno dei modi di tradurre il tetragramma che sono stati trovati. La trasposizione «il Signore», con la quale se la cavano i Settanta, la Vulgata e Lutero — riallacciandosi all’uso ebraico di dire, al posto del nome impronunciabile, ’adonai, «mio Signore», e poi «mio Sovrano» (meine Herrschaft) — era inaccettabile come «l’Eterno» di Calvino e di Mendelssohn, che fraintende il senso; e non ci era permessa neanche la trascrizione usuale nella traduzione scientifica — anche senza tenere in conto la problematicità della vocalizzazione — poiché così il nome di Dio che dice il suo messaggio attraverso tutta la Scrittura viene considerato alla stregua dei muti nomi propri degli dei. Ma non ci era possibile neanche scrivere «Colui-che-è» o «Colui-che-è-presente», perché ciò significherebbe sostituire il nome che rifulge nel suo senso con un concetto statico, che di quel dischiudersi del senso può comprendere solo il «sempre» e non «ogni volta di nuovo». Si trattava di trovare una traduzione che nel lettore in ascolto producesse il sentimento simile a quella certezza che fluisce dal nome, e quindi esprimesse l’essere-presso-di-loro, presso-di-noi, di Dio, non ricorrendo a concetti, ma offrendolo nel suo essere-presente. La comprensione del carattere o del contenuto pronominale della forma originaria del nome prestava l’orientamento. Perciò nella nostra versione tedesca vi sono ICH e MEIN laddove Dio parla, DU e DEIN dove viene interpellato, ER e SEIN dove si parla di lui. Laddove in un discorso di Dio vi sia il Nome e il passo, secondo l’intenzione manifesta, deve avere effetto anche per sé stesso, ovvero come prescrizione che vige effettivamente, senza riferimento a colui che parla come tale, è stata mantenuta la terza persona. In singoli passi della Scrittura — al di fuori del Pentateuteco — dove il Nome si manifesta pienamente nel suo rendersi accessibile (Erschlossenheit), poiché deve essere proclamato proprio l’essere-presente di Dio, si deve osare tradurre EGLI È QUI («ER IST DA») .

Ha costituito una particolare difficoltà la traduzione della forma più breve del nome, JAH; abbiamo deciso di porre al suo posto un più sbiadito «Egli» e «Tu», ma — al fine di mantenere l’originario carattere di esclamazione proprio di questa forma nominale, che ricorre generalmente nei testi di carattere di inno o simili — di anteporre, ovunque sia possibile, un «Oh»; così anche nella forma composta Hallelu-Jah: «Lodate, oh, Lui!»

Diversa è la difficoltà nel caso di ’el ed’elohim, che in realtà non vanno tradotti, come si fa generalmente, nello stesso modo con «Dio»; tra l’una e l’altra parola, comunque, vi è una forte differenziazione, che si rivela tale da non potere essere resa compiutamente. In conformità al carattere della parola, vi si avvicinerebbe il tradurre ’el con Dio ed ’elohim, che anzi è un plurale, con Divinità; ma dei due è proprio ’elohim quello attinente al nome, che più dell’altro è valso a designare il Dio uno, mentre a ’el attiene la rappresentazione generale della potenza, delle potenze, senza che per questo sia consentito il tradurlo con «Potenza» e così reciderlo dalla radice verbale «Dio» [non posso entrare qui nella dibattuta questione riguardante il rapporto etimologico di una parola con l’altra, sebbene, per la coscienza linguistica della Bibbia, esse indubbiamente sono connesse l’una all’altra]. Così, generalmente, ’elohim va tradotto con «Dio» ed ’el, secondo l’opportunità, con Potenza di Dio, Signore Dio, Protezione di Dio: la sfumatura assunta dalla parola va fluttuando e anche il contesto, nel quale si trova volta per volta la parola, deve contribuire a determinarla. Tuttavia, vi sono dei passi, come i detti di Balaam,94 ove il rapporto si capovolge. Del resto, anche la parola «Dio» può essere qui usata insieme ad altre, laddove la componente ’el è intesa in tal modo, almeno dall’etimologia popolare, e quindi nel caso di ’ela, con cui si intende un albero sacro, un «quercia di Dio», e nel caso di ’elil, che designa una nullità, un nulla, ma per lo più proprio un idolo che è nulla; poiché la denominazione deve anch’essa richiamare alla mente Dio, nella nostra traduzione gli ’elilim si chiamano «Per-nulla-Dio»(Gottnichtse95).

Nella prima edizione della nostra traduzione erano state tradotte anche le denominazioni Baal e Molekh, il cosiddetto Moloch. Né l’uno né l’altro sono in origine nomi propri. Il primo caratterizza un essere divino dei Semiti come «Maestro» o proprietario di un tesoro di acqua, celeste o terrestre, che feconda; il secondo presenta una «vocalizzazione ignominiosa» della parola melekh, re, in quanto titolo — che proprio come quel nome tendeva a diventare — degli dei della tribù propri dei Semiti occidentali. Essi sono stati tradotti, in conformità a ciò, con «Maestro» («Obmeister») e «Falso Re» («Aber-könig»96). Ma ne è risultato che molti lettori — obiettivamente sprovveduti — i quali non avevano interiorizzato le nostre spiegazioni, siano rimasti perplessi di fronte a questi passi, e ciò andava in direzione contraria rispetto all’intenzione di questa versione tedesca della Scrittura. Perciò, anche se malvolentieri, in questa edizione ho trattato le due parole come nomi propri.97

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Si possono aggiungere alcuni esempi di concetti che si originano ai confini tra teologia ed etica, tre positivi e due negativi.

Hesed, zedek e ’emeth, che glorificano le virtù divine e le presentano all’uomo che deve camminare «nelle vie di Dio», affinché le imiti,98 sono tutti e tre concetti della concordanza, della fidatezza. Hesed è una affidabilità tra gli esseri, in particolare quella del rapporto di alleanza tra il signore feudale e il suo servitore, e innanzitutto la fedeltà al patto propria del signore, il quale mantiene e protegge il suo servo, e poi quella dei sudditi, che si offrono fedeli al loro signore. La radice verbale che corrisponde in tedesco a questo concetto reciproco è «hold» («devoto»): allo stesso modo l’aggettivo hold e il nome Huld designano originariamente anche la fedeltà dal basso verso l’alto: in Niebuhr ciò significa «essere affezionato e attendere con cuore sincero al signore che dà protezione»], «Holde» era detto nel medio altotedesco il servitore, e nel nostro «huldigen» («rendere omaggio») vive ancora questo aspetto del concetto. La radice tedesca, tuttavia, rende anche la autonomizzazione estetica di esso, come richiesto da Is 40, 6,99 con «Holdheit» («grazia»). Nei Salmi i chassidim di Dio sono i suoi devoti, il suo seguito fedele. Zedek è l’ulteriore e più articolata concettualizzazione: la parola significa l’affidabilità di un agire rispetto a uno stato di cose interiore o esteriore; rispetto a uno stato di cose esteriore, in quanto questo conferisce validità all’agire stesso, gli crea spazio, fa sì che esso abbia il suo diritto; rispetto a uno stato di cose interiore, in quanto questo lo realizza e, dall’anima, lo pone nel mondo. L’unica la radice verbale tedesca, che risponda a entrambi i significati — poiché «diritto», corrispondente alla radice shafat, coglie soltanto il primo dei due — è «vero»: verità, veracità, attestazione[dell’innocente in giudizio], verdetto, uso proprio [l’uso fatto con intenzione onesta], conferma100 segnano l’estensione del concetto. ’Emeth, infine, designa semplicemente la fidatezza, anche quella assolutamente interiore e — come ’emunah, che appartiene alla stessa radice — può essere compresa unitariamente solo sulla base della radice verbale «trau»;101 ’emeth è essenzialmente la fedeltà, e ’emunah spesso gli si avvicina tanto che allora va tradotto non con «fiducia», come avviene altrove, ma, quale eccezione, con la stessa parola «fedeltà» [a questo riguardo, per lungo tempo ho cercato di oppormi, ma inutilmente].

I due concetti negativi che qui vanno resi in tedesco sono ’awen e schaw, nella stessa misura in cui la Scrittura li adopera nel loro senso rigoroso. Anche se non si ritiene — come lo scrivente, e a differenza di Mowinckel, che però nel frattempo, nei suoi Psalmenstudien,102 ha rivisto la sua concezione — che con ’awen si intenda la magia nera, si deve tenere conto del significato intensivo che spesso la parola ha, specialmente nei Salmi. Esso designa allora il male come potenza, e invero in modo tale da abbracciare l’attività di esso, ma si estende talvolta anche al patire questa attività. Non conosco nessun altra parola che sarebbe così appropriata come «afflizione» («Harm») al fine di chiarire la potenza del male, che agisce e viene patito, intesa qui. Schaw può essere tradotto in modo più uniforme. Esso designa ciò che è fittizio e — a differenza, per esempio, di hewel, ovvero fumo o cianfrusaglie — specialmente il fittizio che viene posto a confronto con la realtà, che può quindi elevarsi fino a ciò che è contrario al divino, contrario alla realtà effettiva. Vocaboli come «vano» («eitel»), «nullo» («nichtig»), «falso» («falsch»), non sono abbastanza forti per denominare questa «potenza universale del mondo degli idoli»; esiste una sola parola tedesca che è adeguata a ciò, ed è «Wahn» («illusione»). Perciò il brano centrale sullo schaw, quello del Decalogo, è reso così nella nostra versione tedesca: «Non dare a ciò che è illusorio il SUO, il Nome del tuo Dio» [e non «Tu non devi pronunciare il Nome in modo sacrilego»:103 nassa senza qol, «voce», può forse significare elevare, ma non pronunciare], cioè non coprire una finzione, qualcosa che è stato gonfiato, con il Nome della Realtà somma. Ritroviamo questo sostantivo collegato a questo verbo nei Salmi e precisamente, a prescindere da un passo difficile [139, 20], nel salmo 24, al verso 4,104 dove «colui che ha il cuore puro», «colui che non indusse [qui meglio: levò] il suo cuore a ciò che è illusione»105 viene lodato, anche da qui si dimostra la fragilità del significato apparente «pronunciare». Pure, subito dopo il Decalogo [Es 23, 1]: «Non spargere dicerie illusorie!».106 Poiché allo schaw non si dà semplicemente colui che parla o agisce sulla base di un’illusione, ma anche chi lo fa al fine di illudere, non semplicemente chi incorre nell’illusione, ma anche chi genera illusione, chi — e ciò nei Salmi ricorre più volte — suggerisce il falso e gioca in modo sacrilego un tranello, un inganno con l’illusione che è stata ingenerata, o va ingenerata, nell’altro.

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Ancora un paio di esempi tratti dall’ambito della sociologia biblica. Quando Lutero fa dire a Sara, nel colloquio con Abramo [Gn 16, 2]: «Caro, unisciti alla mia ancella, forse io posso avere prole da lei»,107 egli incorre in un fraintendimento. Kautzsch-Bertholet: «forse posso avere figli attraverso di lei»108 e le altre simili espressioni che si leggono negli altri moderni non sono traduzione, ma perifrasi della parola ’ebbane, che ricorre solo in un altro passo, mai però laddove si parli della naturale generazione di figli. Il verbo è derivato dal nome, da «figlio maschio» — che al plurale significa «figli» in generale — e designa quel primitivo atto giuridico, conosciuto dallo studioso delle tradizioni popolari come adozione attraverso parto apparente, la cui forma principale in ambiente semitico viene così descritta nell’altro brano, laddove Rachele parla a Giacobbe come Sara ad Abramo: «in modo che ella partorisca sulle mie ginocchia»:109 la sterile prende la partoriente sul suo grembo, e così si compie l’identificazione, il suo grembo è ora quello dal quale il bambino è partorito, ella — se assumiamo un’espressione del più antico linguaggio giuridico tedesco — «è stata provvista di un figlio».110 Questo dice Sara, questo dice anche la nullipara Rachele [Gn 30, 3], allorché dà in moglie la sua ancella a Giacobbe: «Giaci con lei, in modo che ella partorisca sulle mie ginocchia e io pure venga provvista di un figlio da lei».111 Ma anche l’uomo senza figli, anche Abramo, si lamenta, egli va invecchiando: ’ariri — che cosa significa? Tutti i traduttori dicono: senza figli;112 ma l’etimologia della parola dice qualcos’altro, qualcosa di natura più sensibile, di più vividamente plastico, ovvero: nudo (entblößt); poiché i figli sono per questi uomini dell’Oriente la veste della vita, anzi il secondo corpo. Perciò nel libro del Levitico113 viene inflitta all’«uomo che prende la donna di suo fratello» la pena corrispondente al peccato: «ha scoperto la nudità di suo fratello, egli deve rimanere nudo di figli».114 E perciò Abraham dice di essere non «senza figli» ma «nudo di figli, privato di figli». Allorché si intraprende una effettiva traduzione della Bibbia, si deve osare talvolta il ricorso a tali vocaboli; nessun uomo vivente ai nostri giorni sa se essi saranno accolti o rigettati dai tempi a venire.

Come ho già detto, noi cerchiamo di tenere distinti i sinonimi gli uni dagli altri, nella misura in cui la lingua tedesca lo consenta, e quindi di non rendere due diversi vocaboli ebraici con lo stesso vocabolo tedesco, e neanche un vocabolo ebraico con due diversi vocaboli tedeschi (almeno all’interno dello stesso contesto); oltre a ciò, ci siamo sforzati, laddove tra più parole sussiste affinità di radice, di mantenerla anche in tedesco. Un esempio, tratto dal capitolo della fuga di Agar115 basta a mostrare come attraverso questo metodo vengano recuperati tesori sommersi. Qui ricorre tre volte la stessa radice verbale; certamente ciò vale per l’originale e per una traduzione fedele. Vi si dice innanzitutto: «Sara allora la umiliava. Ma ella fuggì da lei».116 Allora il messaggero di Dio la trova nel deserto, la interroga e le ordina: «Ritorna dalla tua signora e umiliati sotto le sue mani!».117 Ma egli la conforta, e inoltre fa una promessa: «poiché EGLI ha dato ascolto alla tua umiliazione».118 Si tenga presente la situazione, che presenta tre livelli: più in basso l’umiliato, al di sopra di questo colui che umilia, e ancora al di sopra, però, «il Vivente, Colui che mi vede»,119 per usare le parole dell’umiliato. Da quassù egli, il Vivente, irrompe verso il basso e rialza colui che è prostrato a terra; questi gli può parlare, egli si deve umiliare sotto le mani che umiliano, poiché questa è la via sulla quale egli vuole condurre alla libertà questo uomo, egli che può dare ascolto anche alla «umiliazione» che non è udibile. Che cosa rimane di ciò se, invece del ritorno dello stesso vocabolo, «miseria» fa seguito a «umiliare» [come in Lutero] o persino [Kautzsch-Bertholet] «come tu hai sofferto» a «la trattava duramente» e «piègati»!120

E come la singola parola nel suo originario significato sensibile, per noi anche la struttura verbale dell’ebraico non è una cosa di secondaria importanza, alla quale non sarebbe consentito affermarsi andando contro le consuetudini della lingua nella quale si traduce. Noi non conosciamo alcun «contenuto» che si dovrebbe liberare da questa forma, nella quale ci è tramandato, e trasfondere in un altro. Vale la pena conferire stabilità a questa forma stessa nella lingua dalla struttura diversa, per quanto lo permettano i confini — i confini, non le consuetudini — di questa. Se, ad esempio, proprio nel capitolo di Agar, Sara dice ad Abramo: «Su di te il torto che mi viene fatto!»,121 allora non si tratta di qualcosa di semplicemente formale, ma secondo tutto il suo tenore, qualcosa d’altro rispetto al «Tu mi fai un torto»122 di Lutero. In questo capitolo la differenza nel contenuto diviene quanto mai chiara laddove il messaggero promette il figlio ad Agar. In Lutero: «Egli sarà un uomo selvaggio… e vivrà da nemico di tutti i suoi fratelli».123 Si tratta di una consolazione equivoca; il testo però dice (e noi, seguendolo): «uomo simile a onagro sarà quegli… prenderà alloggio di fronte a tutti i suoi fratelli».124 È questo il figlio che la schiava egiziana sogna, questa è vera promessa.

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È ovvio che noi, sulla base della nostra concezione della fedeltà, invece delle usuali grecizzazioni e latinizzazioni dei nomi propri biblici, abbiamo dovuto accogliere questi nomi stessi; il tempo in cui si diceva Zoroastro per Zarathustra è passato e quello in cui si dice Ezechiele o Hesekiel per Jecheskel passerà. Ma anche qui vi è un limite: non è permesso rendere irriconoscibili nomi geografici, scrivendo, ad esempio, Mizrajim invece di Egitto; perché in realtà la terra c’è ancora e gli uomini sono morti. L’incongruenza appartiene alla natura e alla storia di questo lavoro che viene compiuto per la prima volta; lo scopo e i limiti sono posti non da un principio astratto, ma dalla realtà effettiva — e proprio dalla pienezza della realtà effettiva — di un libro, e da popoli e lingue di due diverse nature.

12

È cominciata nella primavera del 1925 la storia di questa versione in tedesco della Scrittura, del cosiddetto Antico Testamento, versione la cui prima sezione appare qui nuovamente. Ma essa ha una preistoria. Già da molti anni avevo pensato a un lavoro siffatto. Secondo le mie vedute di allora, esso poteva essere intrapreso soltanto come l’opera comune di alcuni uomini che erano legati l’uno all’altro anche personalmente e si potevano quindi aiutare vicendevolmente in modo più profondo di quanto sia possibile altrimenti. Negli anni precedenti la Prima Guerra Mondiale una tale comunità era in formazione ed era intercorso anche un accordo tra essa e una grande casa editrice tedesca, che doveva pubblicare poco a poco la traduzione in singoli volumi [non nell’ordine del canone]. Tra i partecipanti, Moritz Heimann, Efraim Frisch e io ci eravamo già messi d’accordo su ciò che ciascuno avrebbe intrapreso di lì a poco. La guerra ha disperso questo progetto. Solo nel decennio seguente, tuttavia, esso maturò in me, guadagnando la sua fondamentale e metodica chiarezza: solo allora imparai a comprendere immediatamente di quale tipo di libro si tratti, quanto al senso, al linguaggio, alla struttura, e perché esso, nonostante tutto, debba essere nuovamente posto nel presente mondo degli uomini, ovvero rinnovato nella sua realtà originaria; perché, e come. Orbene, quando nel 1923 Franz Rosenzweig, impegnato nella traduzione delle poesie di Jehuda haLevy, si rivolgeva spesso a me per un consiglio, e noi arrivammo a discutere, sulla base degli esempi addotti dall’uno e dell’altro, la problematicità del tradurre e i problemi inerenti a tale compito, ci si presentarono, senza che sapessimo come — quale sfondo della nostra conversazione, sulle prime illuminato solo a tratti, e poi però in modo sempre più imperioso, quale suo centro magnetico — le domande: La Scrittura è traducibile? È già effettivamente tradotta? Che cosa rimane adesso da fare? Poco? Molto? La cosa decisiva? Come può essere fatto? Nel rapporto che una rielaborazione ha con una classica opera di traduzione? In un nuovo inizio che ha del temerario? L’epoca offre lo spazio nel quale possa respirare un nuovo inizio? La vocazione, la forza, l’aiuto, l’orecchio? E soprattutto: come va tradotta la Scrittura? Come va tradotta in questa epoca?

Secondo la concezione che Rosenzweig aveva a quel tempo, la grande opera di Lutero doveva essere sempre la base di tutti i tentativi in lingua tedesca, e non si poteva dunque intraprendere alcuna traduzione nuova, ma soltanto una revisione di quella di Lutero. Certo, si tratta della prospettiva incomparabilmente più comprensiva e profonda di tutto ciò che finora si è analogamente prospettato. La mia idea era che solo l’esperimento — quello che esige e impegna tutto l’uomo, ovvero il farla finita con tutto ciò che l’interprete conosce e mette in atto fino al momento, ma in modo da non vincolarsi ad alcuno — poteva dare una risposta plausibile alle nostre domande. Una risposta a queste è venuta in seguito, inaspettatamente.

Un giorno ricevetti una lettera da un giovane editore, che non conoscevo ancora, Herr Lambert Schneider. Mi scriveva che voleva inaugurare una casa editrice appena fondata con una traduzione dell’«Antico Testamento», ma solo nel caso che io la volessi intraprendere, non importava se come nuova edizione, come rielaborazione, o come opera autonoma. Questa lettera di un cristiano di autentica stirpe tedesca mi apparve come un segno. La lessi a Rosenzweig e aggiunsi di essere incline ad aderire alla proposta, ma solo se egli, Rosenzweig, avesse partecipato. Notai che quanto avevo espresso lo rallegrava e, al contempo, lo disturbava. L’ho capito dopo. A dire il vero, allora non si aspettava più, come all’inizio della sua malattia — una inesorabile sclerosi laterale125 — di morire nel giro di qualche settimana o qualche mese, ma aveva rinunciato a far conto di unità di tempo più grandi per quanto gli restava da vivere. Adesso gli veniva offerta e, dunque ne era ritenuto capace, la partecipazione a un’opera che [come egli comprese prima di me] richiedeva una serie di anni del più intenso lavoro. Ciò equivaleva ad osare un altro modo di far conto del futuro, poiché anche Rosenzweig, come me, credeva in tutta serietà ai segni, solo che vi credeva più di me. Egli disse — ovvero, poiché da lungo tempo non poteva più parlare — impostò col dito tremante su un lentissimo apparecchio una, due, tre lettere di ciascuna parola, sua moglie le completò e proferì: «Proviamo a fare un tentativo.» Era chiaro ciò che intendeva: noi dovevamo risolvere praticamente quella controversia, mettendo alla prova entrambi i metodi, e accertando così se uno dei due potesse essere seguito da parte nostra, e quale fosse. Chiesi: «Quale capitolo?». Rispose: «Il primo.»

Naturalmente iniziammo con il tentare una revisione di Lutero. Prendemmo in considerazione un verso dopo l’altro e, sulla base della nostra conoscenza linguistica e coscienza linguistica ebraica, modificammo ciò che ci sembrava avere bisogno di modifiche. Dopo un giorno di lavoro eravamo davanti a un ammasso di macerie. Si era dimostrato che su questa strada non si arrivava da nessuna parte. Si era dimostrato che l’«Antico Testamento» di Lutero per tutta la sua estensione rimaneva un’opera magnifica, ma già allora non era più una traduzione della Scrittura.

Allora intrapresi l’abbozzo di una versione in tedesco del primo capitolo di Genesi secondo la mia idea. Appena Rosenzweig ebbe letto il manoscritto, mi scrisse: «La patina è andata via, perciò è pura come se fosse nuova, e questo è anche ciò che conta».126 Questa frase costituì l’avvio di puntuali osservazioni, già precedute del resto da tante altre, e che nel complesso formavano un capolavoro di critica favorevole. Con ciò il lavoro comune era cominciato.

La forma assunta dall’azione comune è rimasta la stessa sino alla fine. Io traducevo, e volta per volta inviavo a Rosenzweig i fogli di questa prima redazione, del cosiddetto «manoscritto in quarto», per lo più relativi a un capitolo. Egli rispondeva con le sue annotazioni: obiezioni, indicazioni, proposte di modifica. Io mi avvalevo subito ciò che mi appariva immediatamente chiaro, apportando le modifiche; sul resto, ci consultavamo per lettera. Ciò che rimaneva controverso veniva discusso punto per punto durante le mie visite del mercoledì: partendo dalla mia abitazione sulla Bergstraße a Heppenheim, mi recavo ogni mercoledì a Francoforte sul Meno, dove insegnavo all’Università, e trascorrevo il resto della giornata da Rosenzweig. Quando avevamo completato la prima redazione di un libro, passavo all’elaborazione della seconda, la bella copia destinata alla tipografia, il cosiddetto «manoscritto in folio», e il processo si ripeteva: vi era di nuovo un gran numero di osservazioni. Si ripeteva alla prima, alla seconda bozza; dopo questa leggevamo insieme il libro e lo confrontavamo insieme con il testo; vi erano sempre nuove discussioni che duravano giorni interi. Dopo la terza bozza veniva dato l’imprimatur.

Sui fogli del «manoscritto in quarto», per facilitare a Rosenzweig la visione d’insieme, io indicavo, laddove appariva possibile, le ragioni per le quali traducevo in quel modo e non altrimenti. Poiché gli dovevano essere risparmiate le consultazioni dei libri che si potevano evitare, per ogni passo difficile riportavo le opinioni controverse, da quelle dei più antichi esegeti a quelle dei più recenti articoli delle riviste scientifiche. Tuttavia, su una sola parola lo scambio epistolare andava avanti e indietro per intere settimane.

«Il mio ruolo nella cosa» mi aveva scritto Rosenzweig all’inizio del lavoro, «sarà probabilmente solo quella della Musa fondamentale [Diotima e Santippe in una persona], come il Suo nello Yehudah haLevy.127 Ma, come Ella vede da questo esempio, non si tratta di cosa da poco». «Il suo ruolo», sebbene anche in seguito egli si sia attenuto all’immagine della Musa «fondamentale», è diventato cento volte più importante che nell’«esempio». I fogli che in quegli anni andavano avanti e indietro, danno nel loro insieme il più vivo commento: la Scrittura, che si va rischiarando nello spazio di un influsso scambievole.

Di qualsiasi tipo sia stato questo influsso scambievole, qui io posso soltanto mettere in rilievo alcune questioni principali, già discusse sopra, ma da riformulare, avuto riguardo alla loro connessione:

  1. Siamo stati subito d’accordo sul fatto che, in conformità al nostro compito filologico, correttamente concepito [«Eppure seguiamo sempre la scienza, ma solo la nostra», mi scrisse una volta Rosenzweig], non dovevamo semplicemente attenerci — nella misura di quanto era, in qualche modo, possibile — al testo masoretico, quale unico testo obiettivamente comprensibile ma, al contempo, che non potevamo risalire a questa o quella fonte apparentemente individuabile laddove si trattava, ad esempio, dell’intreccio delle singole parti l’una con l’altra; dovevamo invece tradurre il tutto costituito dal testo letterario davanti a noi. Dovevamo quindi, per usare le sigle della moderna scienza biblica, non tradurre J [lo «Jahwista»] o E [l’«Elohista»] e così via, ma R [il «Redattore»], ossia la Coscienza dell’unità del libro. Nel corso del lavoro, imparando e reimparando dal lavoro, ci siamo reciprocamente rafforzati in tale consapevolezza che, in questo influsso scambievole, si è radicata sempre più profondamente in noi due.
  2. Molto tempo prima dell’inizio del nostro lavoro, ero giunto alla convinzione che, in una versione in tedesco della Scrittura, si dovesse tentare di risalire, dall’essere-scritta della parola al suo originario essere-parlata, che ridiviene sonoro ad ogni lettura autentica. Risultava da ciò che il testo della traduzione — nelle naturali pause del linguaggio, regolate dalle leggi del respiro umano e compiute in conformità al senso — andava disposto in colonne, ognuna delle quali costituisce un’unità, che può essere detta e memorizzata agevolmente, e quindi ordinata ritmicamente, proprio nel modo in cui già ogni primitiva tradizione orale va in cerca di ciò che è dicibile e memorizzabile con facilità, e quindi opera costituendo il ritmo. Rosenzweig ha fatto propria questa mia veduta molto presto e in un articolo, Die Schrift und das Wort,128 l’ha interpretata e fondata nel modo più ammirevole. La struttura a colonne era l’unica cosa, del resto, nella quale egli non volle mai interferire con me. «Non sarai capace di fare una sola colonna», soleva dire.
  3. Avevamo notato che alcune forme del ricorso da parte della Scrittura alla somiglianza inerente alla parola, o al suono, non intendevano essere un ornamento stilistico, ma segno parlante della peculiare importanza o della pregnanza di senso di un passo, e che perciò le allitterazioni dovevano essere rese nella traduzione, laddove la lingua tedesca lo permettesse. Su ciò allora Rosenzweig vigilava con una geniale pedanteria. Nel corso del lavoro, io scoprii però che il principio della ripetizione e della corrispondenza aveva nella Bibbia ebraica una validità ancora più grande, e in modo considerevole, sia estensivamente che intensivamente. Di conseguenza, quando la Bibbia racconta qualcosa, non aggiunge al resoconto dell’evento alcuna «morale della storia» ma, attraverso il racconto, conduce volta per volta la nostra attenzione organica a un senso del racconto, che ci si deve manifestare, per mezzo di ripetizioni, discrete o marcate — le quali modificano soltanto una radice verbale o vanno reiterando intere frasi, a mo’ di ritornello — cioè ponendo in corrispondenza reciproca due o più brani. Allorché, ad esempio, si deve dire che il messaggero di Dio affronta Balaam,129 quando questi ha affrontato la sua asina, ciò si realizza attraverso il fatto che nell’uno e nell’altro caso vengono usate più volte sempre le stesse espressioni, alcune delle quali sono rare. Questo «segreto della forma dello stile biblico», che «io avevo scoperto nel tradurre» — cito Rosenzweig — questi lo ha esposto in un notevole articolo, Das Formgeheimnis der biblischen Erzählungen,130 sviluppando la mia idea.
  4. Nel modo più strano il nostro influsso reciproco si manifestò nei problemi relativi alla traduzione delle peculiarità linguistiche. Al mio primo abbozzo, Rosenzweig aveva scritto: «È proprio sorprendentemente tedesco; al confronto, Lutero è quasi yiddish. E se invece fosse troppo tedesco?».131 Egli cominciò presto a combattere questo «troppo tedesco», dapprima solo allusivamente, poi sempre più vigorosamente. Così egli scrisse, allorché io non resi correttamente la conclusione del versetto 16 nel secondo capitolo di Genesi:132 «Queste (proposizioni) infinitive interne io cercherei di tradurle tutte. Quindi: “puoi mangiare tu, mangiare”.133 Ma ciò si rapporta al fatto che io, qualora andassi oltre Lutero, cercherei di superarlo nella ebraicizzazione della sintassi, mentre Ella, di fronte alla sintassi deebraicizzata, nello scavo del contenuto ebraico della singola parola».134 Comprendevo che il suo sforzo volto alla riproduzione sintattica — ovviamente nel rispetto delle leggi, diversamente determinate, della lingua tedesca — era giustificato, e ciò mi indusse ad appropriamene. Qualche tempo dopo, quando eravamo già profondamente immersi nel lavoro comune, in una lettera giunsi a parlare della diversità tra i principi, che Rosenzweig aveva applicato nella sua traduzione di Yehudah haLevy, e i principi sulla base dei quali io procedevo nel tentativo di tradurre la Scrittura. Al che Rosenzweig rispose [il 14 agosto 1925]: «Tuttora, Ella dimentica sempre, che proprio Lei mi ha convertito, nel modo più radicale, attraverso il lavoro che mi è toccato».135 Ma, in verità, ci eravamo convertiti l’un l’altro.
  5. Rosenzweig aveva giustamente riconosciuto che per me uno dei compiti essenziali della traduzione della Scrittura era «lo scavo del contenuto ebraico della singola parola». Nel corso di quella riflessione, protrattasi per un decennio, ero giunto a comprendere che, a partire da quelli che appaiono come i significati ormai logori dei vocaboli biblici, riportati dai dizionari, si deve risalire ai loro originali significati sensibili, nella misura in cui si rendano accessibili sulla base dell’etimologia ebraica e, con la dovuta cautela, delle altre lingue semitiche. Ciò va fatto tenendo sempre conto che i cosiddetti sinonimi di una lingua differiscono tra di loro — e spesso in modo marcato — nel loro contenuto sensibile e che, tuttavia, riguardo a tale contenuto, anche i concetti corrispondenti di lingue diverse non sono, in molti casi, in alcun modo sovrapponibili l’un all’altro; proprio in questo divergere l’uno dall’altro si manifestano, in modo speciale e chiaramente plastico, le peculiarità del carattere di un popolo. Certo, bisogna aver riguardo anche al fatto che nella traduzione l’originario significato sensibile di una parola non può venire alla luce dappertutto con la stessa forza, e da nessuna parte lo può in modo eccessivamente rilevato. Rosenzweig non semplicemente accondiscese a quella mia tendenza allo «scavo», ma proprio in tale ambito si sviluppò la sua partecipazione più autonoma e feconda.

Erano innanzitutto le denominazioni cultuali e teologiche, ormai sbiadite, quelle che egli cercava di affrancare dalla condizione nella quale erano cadute, attraverso il ripristino delle tonalità fondamentali, laddove egli, in singoli casi, procedeva non dall’effettiva etimologia, ma dall’etimologia popolare, che vige nella Bibbia. Per le sue scoperte si impegnava con passione, talvolta con tale fervore che io — anche qui, come in altri miei interessi — dovevo fungere da custode dei confini della lingua tedesca o persino prendere le parti del lettore che avrebbe dovuto capire. Ma la schermaglia era in realtà soltanto un fenomeno secondario; la cosa che più connotava in modo peculiare il nostro lavoro era una lotta (Ringen) comune per l’adeguatezza, alla quale seguiva, e segnatamente nei punti più importanti e decisivi, una conquista (Erringen) comune, dentro la quale talvolta non si lasciava più scoprire quanto scaturisse dal pensiero dell’uno e quanto dal pensiero dell’altro.

13

Franz Rosenzweig è morto il 10 dicembre 1929. L’ultima frase che il giorno prima cominciò a «dettare», rimandandone però la conclusione al giorno successivo, voleva essere una interpretazione del capitolo 53 di Isaia, al quale lavoravamo allora, in particolare del passo relativo al Servo del Signore.

Da allora ho lavorato alla traduzione da solo. Alla morte di Rosenzweig erano stati pubblicati i primi nove libri, fino a quello dei Re compreso, in seguito furono pubblicati altri sei libri, fino al libro dei Proverbi, denominati anche «Detti di Salomone». Nell’autunno del 1938 lo Schocken Verlag, che nel 1932 aveva rilevato l’opera, è stato disciolto dalle autorità e i libri rimanenti non poterono più andare in stampa.


  1. Cfr. Buber, M., Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten, Lambert Schneider Verlag, Heidelberg 1972-75, 3 voll; Rosenzweig, F., Der Mensch und sein Werk, Gesammelte Schriften (in seguito: G. S.), Bd. I — Briefe, Martinus Nijhoff, den Haag 1979. ↩︎

  2. Cfr. G. S., Bd. IV/1. Diversamente, il secondo tomo del volume IV contiene una selezione dello scambio epistolare che si è tenuto tra Buber e Rosenzweig nel quadro del comune lavoro sulla Scrittura; vale a dire, gli Arbeitspapiere zur Verdeutschung der Schrift, a cura di R. Bat-Adam. ↩︎

  3. Cfr. Bombaci, N., Due percorsi: una rivisitazione del carteggio tra Martin Buber e Franz Rosenzweig, in Dialegesthai del 26 luglio 2002. Ma per i riferimenti biografici cfr. più generalmente G. S., Bd. I/1↩︎

  4. Cfr. Ciglia, F.P., Scrutando la «Stella». Cinque studi su Rosenzweig, Cedam, Padova 1999; ma, a cura dello stesso autore, cfr. anche il recente Rosenzweig, F., Il grido, Morcelliana, Brescia 2003, con il solido apparato critico che lo accompagna; Il grido è la riproposizione del breve saggio di Rosenzweig del 1918 altresì noto come Von Einheit und Ewigkeit e pubblicato per la prima volta nel 1986 a cura di Bernhard Casper. ↩︎

  5. È questa di fatto la ragione principale per la quale la Stella rivela diffusissimi spunti di carattere autobiografico, come opportunamente è stato rilevato; cfr. Schmied-Kowarzik, W., Franz Rosenzweig. Existentielles Denken und gelebte Bewährung, Alber, Freiburg — München 1991. ↩︎

  6. Cfr. Buber, M., Zu einer Verdeutschung der Schrift. Beilage zu dem Werk «Die fünf Bücher der Weisung» verdeutscht von M. Buber in Gemeinschaft mit F. Rosenzweig, Jakob Hegner Verlag, Köln und Olten 1954; infra, § 12. ↩︎

  7. Cfr. infra § 2; dove tra l’altro Buber ammonisce: «Ma ciò che è sorto nel parlare può vivere ancora e sempre rivivere soltanto nel parlare, anzi soltanto attraverso il fatto che esso venga percepito e accolto nella sua purezza» e denuncia la sovrapposizione di un apparato concettuale e dogmatico alla parola originaria: «Ai tratti originari dello scritto, al senso e parola dell’origine, si è sovrapposta la concettualità corrente — in parte di origine teologica e in parte letteraria […]». ↩︎

  8. Ibidem↩︎

  9. Ibidem↩︎

  10. Cfr. infra, § 12. ↩︎

  11. Ibidem↩︎

  12. Segnatamente nei brani in cui si fa riferimento alla coscienza dell’uomo contemporaneo o, come nelle pagine conclusive di Gottesfinsternis, gravide di fiduciose aspettative, alla luce «irradiata da nuovi eventi religiosi». Sulla esigenza del «pensiero dialogico» di dare risposta a quella crisi della categoria di «soggetto» che si è materializzata nell’arco di tempo che congiunge la riflessione cartesiana e quella idealistica, cfr. il cap. introduttivo di Bombaci, N., Ebraismo e Cristianesimo a confronto nel pensiero di Martin Buber, Ed. Dante&Descartes, Napoli 2001. ↩︎

  13. Buber, M., Zwei Glaubensweisen, Manesse Verlag, Zürich 1950; la trad. it. a cura di Sergio Sorrentino (San Paolo, Cinisello Balsamo 1995) tiene conto della Neuausgabe dello scritto (Lambert Schneider Verlag, Gerlingen 19942), corredata da un Nachwort di David Flusser. ↩︎

  14. In Daniel. Gespräche von der Verwirklichung si distingue tra una forma di «realizzazione dialogica» e un elementare atteggiamento di orientamento agli oggetti; nel succitato Ich und Du si tematizza vieppiù la fondamentale distinzione tra un referente della relazione inteso come mero «oggetto» (Gegenstand) ovvero come «presenza» (Gegenwart; si tenga in considerazione, a proposito di questa categoria, la prolusione discussa nei primissimi mesi del 1922 presso lo Jüdisches Lehrhaus di Francoforte); in Zwei Glaubensweisen troverà invece spazio, come è noto, la fondamentale distinzione tra un dass- e un Du-Glauben, intesi rispettivamente quale espressione della fede cristiana e di quella giudaica. ↩︎

  15. Cfr. Ciglia, F.P., Scrutando la «Stella», cit↩︎

  16. * Nella Verdeutschung definitiva il versetto Im Anfang 12, 7 è: «ER ließ von Abram sich sehen und sprach: / Deinem Samen gebe ich dieses Land. / Er baute dort eine Schlachtstatt IHM, der vor ihm sich hatte/ sehen lassen» («EGLI si lasciò vedere da Abram e disse: / al tuo seme io do questa terra. / Egli costruì là un altare sacrificale a LUI, che da lui / si era fatto vedere»). Im Anfang, «In principio», è il titolo con il quale il libro della Genesi figura nella Verdeutschung. Questa nota, come le altre contraddistinte dall’asterisco, è del traduttore. ↩︎

  17. * «dann versagt es, und dann muß man sich ihm versagen.» ↩︎

  18. Franz Rosenzweig, con fine arguzia, amava vedere dietro la sigla R non «Redattore», ma «Rabbenu», ovvero «nostro Maestro». ↩︎

  19. * «ihr deutsch entsprechen, sie verdeutschen». ↩︎

  20. * «er muß die Geschriebenheit der Schrift in ihrem Großteil als die Schalplatte ihrer Gesprochenheit erfahren». ↩︎

  21. * «ja nur durch es rein wahr- und aufgenommen werden». ↩︎

  22. Cfr. M. Buber, Königtum Gottes, Schocken Verlag, Berlin 1932, capitolo secondo. Nella traduzione italiana — La regalità di Dio, Marietti, Genova 1989 il capitolo, dal titolo «Libri dei Giudici e libro dei Giudici», è alle pp. 57-79. ↩︎

  23. * Cfr. M. Buber, Die Sprache der Botschaft, in M. Buber — F. Rosenzweig, Die Schrift und ihre Verdeutschung, Schocken Verlag, Berlin 1936, pp. 54-76, in particolare p. 56. ↩︎

  24. * «Sie dringt in die Gestaltung». ↩︎

  25. Questo postulato è ancora oggi trascurato dai traduttori dell’Antico Testamento; ad esempio, una traduzione dei Salmi pur così significativa come quella di Gunkel rende quattro diverse radici verbali con la sola parola «scherno» («Spott») e cinque con la sola «grido» («Schrei»). ↩︎

  26. * Opera dell’epica nordica. Si tratta di una raccolta di poemi su temi cosmogonici e mitologici, che comprende, peraltro, varie tradizioni relative a eroi delle saghe nordiche. ↩︎

  27. Un’altra modalità stilistica basata sulla parola-motivo vige in molti dei Salmi, laddove nel singolo salmo due o più parole-motivo che si ripetono valgono a indicare ciò che vi è essenziale. Non di rado in uno stesso salmo ritorna una volta la parola-motivo di quello immediatamente precedente, cosicché è come se fosse gettato un ponte dall’uno all’altro. ↩︎

  28. * Die fünf Bücher der Weisung↩︎

  29. * «Alle Erde»; nella Verdeutschung definitiva il primo versetto della narrazione (Im Anfang, 11, 1) è reso: «Über die Erde war eine Mundart und einerlei Rede». Nella Bibbia della CEI: «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole». ↩︎

  30. * Im Anfang, 11, 4: «Nun sprachen sie: / Heran! bauen wir uns eine Stadt und einen Turm, sein Haupt/ bis an den Himmel, / und machen wir uns einen Namen / sonst werden wir zerstreut übers Antlitz aller Erde!» («Dissero allora: / Orsù! costruiamoci una città e una torre, la cui sommità/ arrivi fino al cielo / e facciamoci un nome/ altrimenti saremo dispersi sulla faccia di tutta la terra!»). Nella Bibbia della CEI: «Poi dissero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra.”») ↩︎

  31. * Im Anfang, 11, 9: «… und zerstreut von dort hat ER sie übers Antlitz aller Erde» («… da lì EGLI li disperse su tutta la faccia della terra»). ↩︎

  32. * «Mundart», parola che solitamente significa «dialetto». ↩︎

  33. * Versetto 6. ↩︎

  34. * «vermengende». Verso 9: «Darum ruft man ihren Namen Babel, Gemenge, / denn vermengt hat ER dort die Mundart aller Erde, /» («Perciò la si chiama con il nome Babel, confusione / poiché EGLI ha confuso là le lingue di tutta la terra»). ↩︎

  35. * Il verbo che esprime l’azione di Dio, che «confonde» la lingua degli uomini, e il nome assunto dal luogo — Babele — vengono fatte derivare dall’unica radice bll, «confondere». ↩︎

  36. * Al versetto 3 e al versetto 4. ↩︎

  37. * Versetto 6. ↩︎

  38. * Nel capitolo 9 di Geremia, che condanna la corruzione dilagante in Israele, l’inganno di Giacobbe viene allusivamente assunto come paradigma del tranello ordito nei confronti del proprio fratello: Giacobbe ha «soppiantato» il fratello (Gn 25, 26) e, secondo la pur discutibile etimologia che Geremia fa propria, ja’aqob è appunto correlato a ’aqab, «ha soppiantato». Più diretto è nel citato versetto di Osea il riferimento alla colpa di Giacobbe, che ancora nel grembo materno «soppiantò» Esaù, e sarà dunque trattato dal Signore secondo la sua condotta. Nella Verdeutschung l’espressione iniziale di Os 12, 4 è resa: «War im Mutterleib er dem Bruder auf der Ferse…», ovvero «Nel grembo materno egli era al calcagno del fratello». ↩︎

  39. * Isacco risponde qui alla tardiva richiesta di benedizione da parte di Esaù dicendogli che Giacobbe gli ha carpito la benedizione «con l’inganno»: «Mit Trug kam dein Bruder und hat deinen Segen genommen». ↩︎

  40. * Giacobbe sperimenta su di sé l’amarezza dell’inganno, allorché Labano gli dà in sposa la figlia Lia anziché l’amata Rachele. ↩︎

  41. * Cfr. il capitolo 33 di Genesi. ↩︎

  42. * Il dono offerto da Giacobbe — «dono augurale» nella Bibbia della CEI — è reso con «Segensgabe», «dono di benedizione» nella Verdeutschung. Cfr. Im Anfang, 33, 11. ↩︎

  43. * «ich habe nun doch einmal dein Antlitz angeshn, wie / man Gottesanlitz ansieht». Cfr. Im Anfang, 33, 10. Nella Bibbia della CEI: «io sono venuto alla tua presenza, come si viene alla presenza di Dio». ↩︎

  44. * «Atemzug» è letteralmente «respiro, emissione di fiato». ↩︎

  45. * «die Lichtenden und Schlichtenden»: con questi due participi vengono tradotte nella Verdeutschung le «sorti sacre» — urim e tummim — menzionate nel capitolo 28 di Esodo (Cfr. Namen 28, 30). ↩︎

  46. Cfr. Namen (il libro dell’Esodo nella Verdeutschung), 29, 42: «stete Darhöhung für eure Geschlechter»; nella Bibbia della CEI si legge invece: «Questo è l’olocausto perenne per le vostre generazioni». ↩︎

  47. * Prescrizioni relative al sacrificio quotidiano di due agnelli di un anno, accompagnato dall’offerta di prodotti agricoli. ↩︎

  48. * Il Signore promette di consacrare la tenda del convegno e l’altare, e di fare di Aronne e della sua discendenza i suoi sacerdoti. Gli Israeliti sono stati liberati dalla schiavitù affinché il Signore abitasse «in mezzo a loro». ↩︎

  49. * Il passo è relativo alle oblazioni unite ai sacrifici. Nella Verdeutschung il libro dei Numeri è intitolato IN DER WÜSTE («Nel deserto»). ↩︎

  50. Cfr. In der Wüste, 15, 15. ↩︎

  51. * «einerlei Weisung und einerlei Recht / sei für euch und für den Gastsassen, der bei euch gastet» (ibidem, verso 16). Nella Bibbia della CEI: «Ci sarà una stessa legge e uno stesso rito per voi e per lo straniero che soggiorna presso di voi». ↩︎

  52. * Parola di uso non comune, corrispondente all’infinito sostantivato «das Nahen». ↩︎

  53. * «Höhung, Darhöhung, höhen, darhöhen». ↩︎

  54. * «Hinleite»: anche qui si tratta di una parola non comune, peraltro di difficile traduzione. ↩︎

  55. * Sta per il più comune «Geruch». ↩︎

  56. * Anche nella Verdeutschung definitiva, in questo versetto ricorre la parola «Darheiligung», per designare i frutti maturati nel quarto anno, consacrati al Signore. ↩︎

  57. * Nella Verdeutschung definitiva, tuttavia, in tali versetti non ricorre il sostantivo «Preisnahme», ma si rinvengono voci del verbo «preismachen», che probabilmente costituisce un conio linguistico di Buber. Ad esempio, in Reden («Discorsi», il titolo che il Deuteronomio ha nella Verdeutschung) 20, 6 leggiamo: «Und wer ist der Mann, der einen Rebgarten pflanzte und/ hat ihn nicht preisgemacht? er gehe, er kehre in sein Haus zurück, / sonst könnte er im Kriege sterben und ein andrer Mann würde / ihn preismachen!». Nella Bibbia della CEI: «C’è qualcuno che abbia piantato una vigna e non ne abbia ancora goduto il frutto? Vada, torni a casa, perché non muoia in battaglia e altri ne goda il frutto.» ↩︎

  58. * «noch das erste nach- oder wiedertönen hört». ↩︎

  59. * Parola derivante dal medio altotedesco gezit, «tempo stabilito», ma anche «tempo fissato per la preghiera». Nel tedesco corrente la parola è usata normalmente al plurale, Gezeiten, con il diverso significato di «marea». ↩︎

  60. * «Dies sind die Begegnunszeiten, … die ihr ausrufen sollt zu ihrer Gezeit». Nella Verdeutschung, in Er rief 23, 4 leggiamo: «Dies sind die Begegnungszeiten bei IHM, / Ausrufungen der Heiligung, die ihr ausrufen sollt zu ihrer Gezeit», ovvero «questi sono i tempi dell’incontro presso di LUI…». Nella Bibbia della CEI: «Queste sono le solennità del Signore, le sante convocazioni che proclamerete nei tempi stabiliti». ↩︎

  61. * «… an jenen Übersprung oder Übergang»: il Signore «passa oltre» le case degli Israeliti. Nella Verdeutschung, al versetto Namen 12, 13, si legge: «Das Blut aber werde zum Zeichen für euch an den Häusern, / darin ihr seid: / ich sehe das Blut und überspringe euch», ovvero «Il sangue varrà quale segno che voi sarete in casa / che voi sarete dentro: / io vedrò il sangue e passerò oltre voi». La «cena pasquale» è resa al versetto 11 con «Übersprungmahl». ↩︎

  62. * In questo versetto shabbàth è reso con «Feierung» (il «celebrare la festa, il riposo»), mentre in altri passi semplicemente con «Feier», («festività, giorno di riposo dal lavoro»). ↩︎

  63. * «der am siebenten Tag der Schöpfungsgeschichte von der “Arbeit” feierte, die er “gemacht” hatte». Cfr. Im Anfang 2, 3: «Gott segnete den siebenten Tag und heiligte ihn, / denn an ihm feierte er von all seiner Arbeit, die machend Gott/ schuf»(«Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò, / poiché in esso egli riposò da tutto il lavoro che Dio, attraverso il fare/ creò»). Nella Bibbia della CEI: «Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto». ↩︎

  64. * «Wahret die Feier, / ja, Heiligung sei sie euch…»(Namen 31, 14): «Osserverete il giorno di festa/ sia per voi proprio santificazione…» Nella Bibbia della CEI: «Osserverete dunque il sabato perché lo dovete ritenere santo…». ↩︎

  65. * Nel testo: «eratme der Sohn deiner Magd und der Gastsasse»; nella Verdeutschung definitiva (Namen 23, 12) leggiamo il più comune «Gast» al posto di «Gastsasse», vocabolo che tuttavia esprime meglio il concetto del «forestiero che dimora» nel paese. ↩︎

  66. * «bei dem Geduckten und Geisterniederten». Nella Verdeutschung definitiva però, con maggiore forza espressiva: «Hoch und heilig / wohne ich — / und bei dem Zermalmten (“presso colui che è stritolato”) / und Geisterniederten». ↩︎

  67. * In effetti, nella Verdeutschung definitiva, invece di «remissione» (Erlaß), ricorre la parola «il-lasciare-cadere» («Ablockerung»). Cfr Reden 15, 1 ss. ↩︎

  68. * L’anno giubilare, che ricorreva ogni cinquanta anni, veniva annunciato dal suono di tromba (jobel). Cfr. Lv 25, 8-17. ↩︎

  69. * Così è tradotto «anno giubilare» nella Verdeutschung, ove «giubileo» è reso con «Heimholer». Cfr. Er rief 25, 8-13. ↩︎

  70. * «Heimholer sei es euch, / da kehrt ihr zurück / jeder zu seiner Hufe, / jeder zu seiner Sippe / sollt zurück ihr kehren.»: così nel testo nonché nella Verdeutschung (Er rief 25, 10). Er rief, ovvero «EGLI chiamò», è il titolo del Levitico nella Verdeutschung. Rendo con «proprietà» la parola «Hufe», che indica propriamente il «manso», ovvero l’estensione del fondo rurale adeguata al fabbisogno di una famiglia contadina, corrispondente a quella che un tempo poteva essere coltivata con un solo aratro e un paio di buoi. ↩︎

  71. * Il Levitico, terzo libro del Pentateuco. Le maledizioni sono al capitolo 26. ↩︎

  72. * È la prima delle sette forme del verbo in ebraico, ovvero quella che esprime nel modo più generale l’azione o lo stato significati dalla radice. ↩︎

  73. * «Während das Volk seine Schuld büßen muß, “schatzt das Land seiner Feierjahre nach”, “es schatzt seine Feiern ein”, bis die Söhne Israels “nachschtzen für ihre Verfehlung”». Cfr. le varianti testuali della Verdeutschung definitiva: Begebenheiten Der Tage («Avvenimenti dei giorni», ovvero le Cronache) II 36, 21. ↩︎

  74. * Qui nella Verdeutschung leggiamo «Begnadung» per «grazia». ↩︎

  75. * «die Tätigkeiten des Ordnens, Anordnens, Verdordnens, Beiordnens, Zuordnens…». ↩︎

  76. * «Väter essen Herlinge / Söhnen werden Zähne stumpf!» (Jecheskel 18, 2): «I padri mangiano l’uva acerba / e i denti dei figli si allegheranno». ↩︎

  77. * «Ich erscheinige mich». Nella Verdeutschung, e in particolare nei versetti citati nel testo, ricorre effettivamente il verbo «erscheinigen». ↩︎

  78. * «die im Anfang der Schöpfung “überm Antlitz der Wasser” schwebt oder vielmehr “schwingt”». Nella Verdeutschung definitiva, in Im Anfang, 1, 2 leggiamo: «Die Erde aber war Irrsal und Wirrsal. / Finsternis über Urwibels Antlitz. / Braus Gottes schwingend über dem Antlitz der Wasser.» («La terra era confusione e caos / Tenebra sulla superficie del caos originario/ il fremito di Dio librantesi sulla faccia delle acque») Sulla traduzione del versetto vedi, nel carteggio Buber / Rosenzweig, la lettera inviata il 7 luglio 1925 dal primo al secondo, riportata con il numero 188 in M. Buber, Briefwechsel aus sieben Jahrzehnten, a cura di Greta Schaeder, vol. II, pp. 228-9, e la risposta di Rosenzweig, in F. Rosenzweig, Der Mensch und sein Werk. Gesammelte Schriften, Martinus Nijhoff, Den Haag/ Dordrecht 1979-1984 I: Briefe (lettera n. 1034, a pp. 1052-3 del secondo tomo, che raccoglie la corrispondenza relativa al periodo 1918-1929). Vedi anche le annotazioni di quest’ultimo riguardo alla traduzione del versetto in F. Rosenzweig, Gesammelte Schriften IV, 2° tomo, Sprachdenken. Arbeitspapiere zur Verdeutschung der Schrift, a cura di Rachel Bat-Adam, pp. 3-6 (Aus «Die Schöpfung»). ↩︎

  79. Questa traduzione letterale è qui da preferire, perché «Antlitz» («faccia, volto») è parola-motivo: affacciandosi all’essere, ogni realtà creata mostra la sua «faccia». ↩︎

  80. * «Wie ein Adler erweckt seinen Horst, / über seinen Nestlingen schwingt…»: Reden 32, 11. Nella Bibbia della CEI: «Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati…». ↩︎

  81. * «auf seinem Fittich trägt». «Fittich» è poetico per «Flügel». ↩︎

  82. * «hervor-“wimmeln”». ↩︎

  83. * «das Hauchen, das Wehen, das Brausen». ↩︎

  84. Perciò Gunkel denomina la parola che ricorre in questo passo come un hapax legomenon. ↩︎

  85. Quando Hölderlin esclama: «O Schwester des Geistes, der feurig in uns waltet und lebt, heilige Luft!» («O sorella dello spirito, che come fuoco vive e agisce in noi, aura sacra»), è memore dell’affinità dei due significati di ruah, ma lo è pure dell’unità originaria, laddove fa riferimento al mistero — che viene più volte menzionato nel terzo capitolo del Vangelo di Giovanni — dello «spirare dello spirito». ↩︎

  86. * Nella Verdeutschung definitiva lo spirito effuso sugli anziani è «Geistbraus» (versi 25 e 29), mentre «Windbraus», al verso 31, è lo spirare del vento che sospinge le quaglie presso l’accampamento degli israeliti. ↩︎

  87. * Qui Buber rimanda in nota a un articolo di Rosenzweig, Der Ewige, nonché ai suoi due saggi Königtum Gottes e Moses. Cfr. F. Rosenzweig, Der Ewige, Mendelssohn und der Gottesname, Gedenkbuch für Moses Mendelssohn, M. Poppelauer, Berlin 1929, riportato in Die Schrift und ihre Verdeutschung, cit., pp. 184-210, in Kleinere Schriften, cit., pp. 182-198, nonché in Die Schrift. Aufsätze, Übertragungen und Briefe, a cura di Karl Thieme, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt am Main 1964, pp. 34-50; ora nel terzo volume delle Gesammelte Schriften. Traduzione italiana, della quale ci siamo qui avvalsi nelle citazioni: «L’Eterno». Mendelssohn e il nome di Dio, in La Scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, a cura di Gianfranco Bonola, Città Nuova, Roma 1991, pp. 98-114. M. Buber, Königtum Gottes, Schocken Verlag, Berlin 1932 (La regalità di Dio, Marietti, Genova 1989); Id., Moshe (in ebraico), Schocken, Jerusalem 1945 (ed. tedesca, alla quale fa riferimento la nota di Buber: Moses, Gregor Müller, Zürich 1948; ed. italiana: Mosè, Marietti, Casale Monferrato 1983). ↩︎

  88. «Parola allo stadio originario dell’incontro, prima ancora dell’oggettivazione (Vergegenwärtigung), puro vocativo prima di ogni possibilità di altri casi di declinazione»: F. Rosenzweig, «L’Eterno»…, cit., p. 109. ↩︎

  89. Nella Verdeutschung: «Gott sprach zu Mosche: / Ich werde dasein, als der ich dasein werde. / Und er sprach: / So sollst du zu den Söhnen Ji? sraels sprechen: / ICH BIN DA schickt mich euch.» ↩︎

  90. Tuttavia, Mowinckel, in una lettera a Rudolf Otto, assume Ja-huwa come forma originaria composta dall’interiezione ja e da una forma pronominale huwa; poi la disposizione delle lettere sarebbe rimasta immutata e il tetragramma sarebbe piuttosto da considerare come un’abbreviazione dell’originario vocativo. ↩︎

  91. * Cfr. F. Rosenzweig, «L’Eterno»…, cit., p. 104. ↩︎

  92. * Namen 3, 12: «Er aber sprach: Wohl, ich werde dasein bei dir, / und dies hier ist dir das Zeichen, daß ich selber dich schickte: / hast du das Volk aus Ägypten geführt, / an diesem Berg werdet ihr Gotte dienstbar.» ↩︎

  93. * F. Rosenzweig, «L’ Eterno»…, cit., p. 104. ↩︎

  94. * Nm, capp. 23-24. ↩︎

  95. * Anche qui si tratta di un conio linguistico dell’Autore. ↩︎

  96. * Cfr. la lettera inviata da Rosenzweig a Buber il 12 gennaio 1927 (riportata, con il n. 1159 in F. Rosenzweig, Briefe, cit., pp. 1156-7 del secondo tomo). ↩︎

  97. Riguardo agli importanti problemi della storia della religione semitica e israelitica, legati a queste due parole, cfr. i capitoli 4 e 5 del mio Königtum Gottes (* i capitoli citati dall’Autore, «Il dio della tribù dei Semiti occidentali» e «JHWH il melekh», sono rispettivamente alle pp. 91-105 e 106-120 della citata edizione italiana, La regalità di Dio). ↩︎

  98. Per le prime due, cfr. i paragrafi «Per l’amore» e «Per la giustizia» del mio libro Der Glaube der Propheten [ Manesse Verlag, Zürich 1950, ora in Werke II: Schriften zur Bibel, Lambert Schneider, Heidelberg 1964. Traduzione italiana: La fede dei profeti, Marietti, Casale Monferrato 1983, ove i paragrafi citati sono alle pp. 111-25 e 98-111; nuova edizione 2000], per la terza, ciò che espongo nel mio libro Zwei Glaubensweisen [ Manesse Verlag, Zürich 1950; nuova edizione: Lambert Schneider, Gerlingen 1994. Traduzione italiana: Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995] riguardo al concetto, dalla stessa radice, di «fede» o piuttosto di «fiducia»: il significato originario del verbo va ravvisato in «tenere testa» («standhalten»). ↩︎

  99. * Nella Verdeutschung: «… alles Fleisch ist Gras, / all seine Holdheit der Feldblume gleich!». Nella Bibbia della CEI: «… Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo». ↩︎

  100. * «… “wahr”: Wahrheit, Wahrhaftigkeit, Bewahrheitung [des Unschuldigen im Gericht], Wahrspruch, Wahrbrauch [der mit ehrlicher Intention getane Brauch], Bewährung». ↩︎

  101. * Tra le altre parole, proviene da tale radice il verbo «trauen», «avere fiducia». ↩︎

  102. * Opera in sei volumi che Sigmund Olaf Plytt Mowinckel (1884-1965), eminente studioso norvegese dell’Antico Testamento, pubblicò a Cristiania (oggi Oslo) tra il 1921 e il 1924. ↩︎

  103. «Trage auf das wahnhafte nich SEINEN deines Gottes Namen [nicht “Du sollst den Namen… nicht freventlich aussprechen”]». L’espressione è in Es 20, 7. Nella Verdeutschung definitiva: «Trage nicht / SEINEN deines Gottes Namen / auf das Wahnhafte, /» [Namen 20, 7; cfr. Reden 5, 11]. ↩︎

  104. * Nella Verdeutschung: «Der an Händen Unsträfliche, / der am Herzen Lautere, / der zum Wahnhaften nicht hob seine Seele / und zum Truge nicht schwur.» ↩︎

  105. * «der zum Wahnhaften nicht trug [hier besser: hob] seine Seele». ↩︎

  106. * «Umtrage nicht Wahngerückt!»; nella Verdeutschung: «Trage nicht Wahngerückt um!» [Namen 23, 1]. ↩︎

  107. * «Lieber, lege dich zu meiner Magd, ob ich doch vielleicht aus ihr mich bauen möge» . ↩︎

  108. * «vielleicht kann ich durch sie zu Kindern kommen», nella traduzione E. Kautzch — A. Bertholet, Die Heilige Schrift des Alten Testament, 2 voll., Tübingen 1922. ↩︎

  109. * «daß sie auf meinen Knien gebäre». ↩︎

  110. * «sie ist bekindet worden». ↩︎

  111. * «Geh zu ihr ein, daß sie auf meinen Knien gebäre und auch ich aus ihr bekindet werde»; nella Verdeutschung definitiva, in Im Anfang 30, 3, leggiamo: «komm zu ihr, / daß sie auf meine Knien gebäre…». ↩︎

  112. «ohne Kinder, kinderlos». ↩︎

  113. * Lv 20, 21. ↩︎

  114. * «die Blöße seines Bruders hat er bargemacht, kinderbloß werden sie bleiben». Nella Verdeutschung definitiva, in Er rief 20, 21, leggiamo: «Ein Mann, der seiner Ohmsfrau beiliegt, die Blöße seines / Oheims hat er bargemacht, / ihre Sünde sollen sie tragen: kinderbloß werden sie sterben.» ↩︎

  115. * Il capitolo 16 di Genesi. ↩︎

  116. * «Da drückte S? sarai sie. Sie aber entfloh ihr.» Nella Verdeutschung: «S? sarai drückte sie. Sie aber entfloh ihr.» (Im Anfang 16, 6). ↩︎

  117. * «Kehre zu deiner Herrin und drücke dich unter ihre Hände!». Così anche nella Verdeutschung (Im Anfang 16, 9). ↩︎

  118. * «denn erhört hat ER deinen Druck». Così pure in Im Anfang 16, 10. ↩︎

  119. * «Sie aber rief SEINEN Namen, des zu ihr Redenden: / Du Gott der Sicht! / Denn sie sprach: / Sah auch wirklich ich hier / dem Michsehenden nach? / Darum rief man den Brunnen / Brunn des Lebenden Michsehenden. / Da ist er, zwischen Kadesch und Bared.»: Im Anfang 16, 13-4. Il pozzo presso il quale avviene il colloquio tra Agar e il messaggero di Dio è chiamato in ebraico Pozzo di Lacai-Roi, ovvero «del Vivente che mi vede». ↩︎

  120. * «Was bleibt aber davon, wenn statt der Wiederkehr des gleichen Wortes, “Elend” auf “demütigen” folgt [Luther] oder gar [Kautzsch — Bertholet] “wie du gelitten hast” auf “behandelte sie hart” und “beuge dich”!» ↩︎

  121. * «Über dich mein Unbill!» ↩︎

  122. * «Du tust unrecht an mir». ↩︎

  123. * «Er wird ein wilder Mensch sein… und wird gegen all seinen Brüdern» (Gn 16, 12). ↩︎

  124. * «Ein Wildeselmensch wird der… all seinen Brüdern ins Gesicht macht er Wohnung». ↩︎

  125. * Si trattava di sclerosi laterale amiotrofica. ↩︎

  126. * Lettera del maggio 1925, parzialmente riportata, con il n. 1013, a p. 1035 di F. Rosenzweig, Briefe II . Il testo completo si legge alle pp. 3-6 di Id., Sprachdenken. Arbeitspapiere…, cit. ↩︎

  127. * Lettera scritta all’inizio del maggio 1925, riportata, con il numero 925, in Briefe, cit., pp. 1012 del secondo tomo. Qui Rosenzweig fa riferimento alla sua traduzione delle opere poetiche di Yehudah haLevy: Sechzig Hymnen und Gedichte des Jehuda Halevi, deutsch. Mit einem Nachwort und mit Anmerkungen, O. Wöhrle, Konstanz 1924; seconda edizione, ampliata: Jehuda Halevi. Zweiundneunzig und Gedichte, Lambert Schneider, Berlin 1926. Ancora maggiore il numero delle poesie riportate, a cura di Rafael Rosenzweig, in Gesammelte Schriften, cit., primo tomo del vol. IV (Fünfundneunzig Hymnen und Gedichte. Deutsch und Hebräisch; traduzione italiana: Non nella forza ma nello spirito. Novantacinque inni e poesie scelte da Franz Rosenzweig, a cura di G. D. Cova, Marietti, Genova 1992). ↩︎

  128. * F. Rosenzweig, Die Schrift und das Wort, in «Die Kreatur. Eine Zeitschrift» 1 (1926/7), pp. 124-30, riportato in M. Buber-F. Rosenzweig, Die Schrift und ihre Verdeutschung, cit., pp. 76-87, e in Kleinere Schriften, Schocken Verlag, Berlin 1937, pp. 134-140; ora nel terzo volume delle Gesammelte Schriften↩︎

  129. * Cfr. Il capitolo 22 del libro dei Numeri, IN DER WÜSTE nella Verdeutschung↩︎

  130. * F. Rosenzweig, Das Formgeheimnis der biblischen Erzählungen, in «Der Kunstwart», 41 (1928), Heft 5, pp. 286-96, riportato in Die Schrift und ihre Verdeutschung, cit., pp. 239-61, in Kleinere Schriften, cit., pp. 167-81, in Die Schrift. Aufsätze, Übertragungen und Briefe, cit., pp. 13-27; Traduzione italiana: Il segreto della forma dei racconti biblici a Martin Buber in occasione dell’8 febbraio 1928, in La Scrittura. Saggi…, cit., pp. 77-91. ↩︎

  131. * «es ist ja erstaunlich deutsch; Luther ist dagegen fast jiddisch. Ob nun zu deutsch??»: lettera del 19 giugno 1925, riportata, con il numero 1025, nei Briefe di Rosenweig, pp. 1044-5 del secondo tomo. ↩︎

  132. * Il divieto di mangiare del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Nella Verdeutschung definitiva: «Von allen Bäumen des Gartens magst essen du, essen, / aber vom Baum der Erkenntnis von Gut und Böse, / von dem sollst du nicht essen, / denn am Tag, da du von ihm issest, mußt sterben du, sterben». ↩︎

  133. «magst essen du, essen». ↩︎

  134. * Lo scritto è riportato a p. 15 di F. Rosenzweig, Gesammelte Schriften. Sprachdenken. Arbeitspapiere zur Verdeutschung der Schrift, cit. Vi si può notare come nella prima redazione del versetto gli infiniti «essen» («mangiare») e «sterben» («morire») non venissero ripetuti. ↩︎

  135. * «Sie vergessen immer noch, daß Sie mich bekehrt haben, auf die gründichste Art, durch Arbeit meinerseits». Nei Briefe di Rosenzweig la lettera è riportata con la data del 17 — anziché 14 — agosto 1925 (n. 1044, pp. 1059 del secondo tomo di Briefe). ↩︎