Vulnerabilità e cura nell’etica di Judith Butler

1. Premessa

Nel dibattito contemporaneo sui conflitti sociali, all’interno dei quali si inseriscono anche i conflitti di genere, gli studi di filosofia politica e di filosofia morale seguono spesso percorsi e riflessioni che si incrociano con gli intenti di elaborazione di una teoria del riconoscimento.1 L’ampio interesse emerso su questo tema è all’origine dell’idea di raccogliere, in questo percorso di riflessione, gli snodi filosofici ed etico-politici del pensiero di Judith Butler, intellettuale notoriamente affermatasi nell’ambito degli studi femministi e della teoria politica sul piano internazionale e in tempi relativamente recenti anche nel nostro panorama culturale: tant’è che le traduzioni italiane delle sue principali opere, negli ultimi anni, sono notevolmente aumentate, fino a giungere anche a quelle dei testi minori.2 Indubbiamente il merito di aver portato all’attenzione dei lettori italiani le opere e il pensiero della filosofa statunitense spetta ad Adriana Cavarero, che in Bodies that Matter la definisce come «la più autorevole esponente del pensiero lesbico americano, come una filosofa di grande ingegno e come una figura di primo piano nel femminismo internazionale», in ragione anche della sua specifica formazione proveniente dalle sue esperienze di attivismo politico nei movimenti radicali femministi e LGBTQ e altresì per la competenza nel saper declinare questioni portanti in diversi ambiti culturali e disciplinari, fra i quali la filosofia.3 È opportuno puntualizzare che Butler muove i primi passi, all’interno del femminismo internazionale, mostrando sin da subito di appartenere ad una tradizione di pensiero etico-politico che declina diversamente il significato filosofico della parola «femminismo», inscrivendosi nell’orizzonte poststrutturalista della contemporaneità, caratteristico di tutte le espressioni radicali della cultura statunitense, in cui Foucault, Derrida, Deleuze, Lacan rappresentano alcune tra le voci più autorevoli della cornice teorico-politica del radicalismo americano, con cui Butler interloquisce.4 In questa sede, però, s’intende tralasciare il solco speculativo già tracciato da Butler sulla filosofia femminista e sui temi che riguardano la sessualità, per i quali è disponibile, fra l’altro, una copiosa letteratura critica di rimando, e si avanza la proposta di rileggere, invece, le opere della produzione più recente della filosofa americana, a partire da Giving an Account of Oneself, tradotto in italiano, per scelta dell’editore, col titolo Critica della violenza etica, al fine di riconsiderare alcuni snodi filosofici attorno a cui ruota la rivendicazione butleriana del diritto ad un’esistenza pacifica in nome di una comune umanità. Tale scelta consente, a parere di chi scrive, di approfondire nuovi temi sui quali si riapre oggi un significativo dibattito accademico oltreché culturale, e allo stesso tempo di confrontarsi con alcune assonanze filosofiche butleriane che incidono nella tarda formazione della filosofa statunitense, lasciando tracce di pensiero non ancora del tutto esplorate che segnano, in qualche modo, l’ingresso di Butler in una nuova direzione della speculazione filosofica. Rispetto alla più recente produzione scientifica butleriana, sembra infatti che venga delineandosi una sorta di torsione speculativa che la spinge a riarticolare la questione sulla condizione umana, dialogando ora con Lévinas, Adorno, Cavarero, Arendt, al fine di elaborare un’etica non violenta, in un presente segnato dal conflitto, dal disconoscimento e dalla guerra.

Nella «seconda Butler», se così si può dire, al di là di certi paradigmi antropologici più o meno condivisibili, si apprezza la sensibilità mostrata verso la fragilità e la vulnerabilità umana, condizioni esistenziali queste che la inducono a sostenere nuove istanze di riconoscimento per chi, nel nostro tempo, è portatore di un’identità minoritaria, volgendo ora lo sguardo verso altre forme di oppressione dovute non solo a motivi sessuali, ma soprattutto politici, razziali e religiosi. Dalle riflessioni, che Butler articola in Precarious life, si evince, come afferma Lorenzo Bernini, che dalla consapevolezza della propria precarietà e della propria dipendenza dall’altro deriva per Butler l’obbligo morale del riconoscimento della vulnerabilità dell’Altro.5 Al centro delle recenti opere butleriane vi è, perciò, la riflessione sulla vita buona e la critica di quelle forme del potere che, organizzando le vite umane, ne istituzionalizzano le disuguaglianze.6 In questa direzione, l’idea centrale di Butler poggia sul fatto che ogni persona può vivere degnamente una vita buona solo con il sostegno di un contesto sociale e politico che giudichi la vita di ciascuno degna di essere vissuta. In questo senso, si può comprendere il suo appello alle istituzioni politiche per la protezione dei soggetti minoritari, cioè il ricorso necessario a norme di riconoscimento istituzionalizzato che «creano e confermano la nostra possibilità in quanto umani».7 L’incontro con gli altri, infatti, rende gli individui vulnerabili, perché li espone originariamente alla violenza, alla costrizione e all’assoggettamento; Butler è pienamente convinta del fatto che la risposta al nostro desiderio di essere riconosciuti dall’Altro dipenda da quelle norme sociali che confermano la dignità dell’esistenza di ciascuno «come essere umano». La possibilità di una vita autenticamente buona, in assenza di leggi che riconoscano la dignità di ogni vita umana, non è affatto garantita. Alla luce dello sviluppo di tali riflessioni, si viene così registrando una sorta di cambiamento di rotta nel pensiero della «seconda» Butler, che prefigura ora come necessaria la mediazione con le istituzioni politiche verso le quali la stessa aveva in precedenza mostrato solo avversione e antagonismo, sia nell’ambito della sua proposta di sovversione della normatività di genere, tema centrale e decisivo della fortuna di Gender Trouble, che della critica alla norma nella sua indiscussa pretesa di universalità etica, sostenuta in Giving an account of oneself.8

La riflessione butleriana sulla vulnerabilità ci restituisce ora note interessanti sulla condizione umana: il rischio, implicito nell’esistenza personale di ognuno, di essere feriti segna inequivocabilmente il senso stesso di precarietà della condizione umana, caratterizzata dal limite, dalla debolezza e, perciò, dalla dipendenza dall’Altro, cui è interamente affidato il riconoscimento e il bisogno di protezione, ma anche il diritto ad una «vita buona». In questa direzione, si muovono le riflessioni butleriane che cominciano a snodarsi nel saggio Precarius Life, ruotando poi attorno all’interrogativo morale «Can One Lead a Good Life in a Bad Life?», in cui Butler si è impegnata nel tentativo di elaborare una teoria critica della società che, parafrasando Hannah Arendt, tenga conto della pluralità e della singolarità che caratterizzano la condizione umana. Nel solco della critica alla violenza etica, già tracciato da Adorno in Minima Moralia, Butler, in occasione del conferimento dell’omonimo Premio, consegnatole a Francoforte nel 2012, per avere lavorato nella tradizione intellettuale della teoria critica della società, riapre dunque la vexata quaestio («come condurre una vita buona?») per interrogarsi nuovamente su cosa possa significare l’aspirazione ad una vita buona quando si vive nella vulnerabilità di una vita di per sé cattiva, una vita cioè che, contestualizzata nel nostro tempo, appare a Butler assimilabile all’attuale sistema economico neoliberista e, in particolare, alla violenza israeliana sui palestinesi.9 Per queste ragioni, Butler viene maturando la convinzione che il modello hegeliano del riconoscimento vada rimodulato, guardando ora con più attenzione alla vulnerabilità dell’Altro, espressa, sulla scorta di Lévinas, dalla significazione del suo Volto, di quell’alterità la cui vita umana rimane «sospesa» in assenza di una scelta etico-politica non violenta. La sua proposta di pensare ad una filosofia nuova, fondata sulla centralità della relazione con gli altri e sull’istanza etico-politica del riconoscimento, si configura come unica possibilità di scongiurare la distruttività dell’umano da parte di una politica fondata sulla logica della sopraffazione dell’altro, dello sfruttamento, ma anche sui nazionalismi e sulla guerra, nonché sulla divisione ingiusta e irresponsabile tra vite ritenute degne di essere vissute e vite che non godono di tale riconoscimento.10 Riprendendo le riflessioni su Antigone già articolate in Undoing gender, Butler in Precarious life, puntualizza che se una vita è ritenuta indegna di lutto e privata del pubblico cordoglio non è una «vita umana», non è cioè da potersi considerare propriamente una vita degna di essere vissuta.11

È in questa direzione che Butler viene elaborando una teoria critica della società, con forte assonanza francofortese, in cui la «norma» etico-politica del riconoscimento appare pensabile solo dialetticamente in relazione alle pratiche concrete della vita comunitaria. Sulla scia di Adorno, in particolare, e a partire dalla sua critica alla violenza etica, Butler reputa che una norma universale, che sia imposta senza tenere conto delle realtà particolari, cui la norma stessa si applica, sia necessariamente violenta.12 Poste le premesse secondo cui la condizione di realizzabilità di una vita buona dipende dal contesto comunitario in cui si è inseriti, per il fatto che la comunità politica può supportare il desiderio di una vita buona cui ciascuno tende, ma allo stesso tempo e a certe condizioni può anche negarlo, Butler, come Adorno, in rapporto al suo tempo, si interroga sulla relazione tra etica e politica, tra moralità e teoria critica sociale, riaprendo la domanda del «che cos’è una vita buona» negli ordinamenti politici del mondo contemporaneo.13 Questo lavoro intende, pertanto, prendersi cura degli interrogativi sopra menzionati, recuperando interlocuzioni e assonanze filosofiche che si dispiegano lungo il percorso speculativo seguito da Butler nel suo tentativo di rielaborare in chiave post-hegeliana la teoria del riconoscimento nella nuova veste che lo riconduce ora all’incontro con l’Altro e ai temi relativi alla vulnerabilità dell’umano e alla responsabilità che ci lega agli altri.

2. Assonanze francofortesi: Butler in dialogo con Adorno

Nella riflessione di Butler l’interrogativo morale su come condurre una vita buona riapre la questione fondamentale posta da Adorno in Minima Moralia: «non si dà vita vera nella falsa».14 Butler riconosce al filosofo francofortese una notevole sensibilità e uno spiccato rigore speculativo nell’aver saputo rintracciare quella «falsità» dei rapporti sociali che, come afferma Rahel Jaeggi, citando Andreas Bernard, «si annida fin dentro i comportamenti apparentemente più privati e remoti».15 Per Adorno, infatti, persino le esperienze della vita quotidiana denunciano la profonda alienazione dell’individuo che vive all’interno della società di massa, in cui è ridotto a mero oggetto di manipolazione politica, sociale e tecnologica, costretto ad una forma di vita «falsa» e «alienante». La «fenomenologia della vita quotidiana» che il filosofo francofortese ci restituisce nei Minima Moralia rivela un aspetto interessante, che Butler fa proprio quando pone all’argomentazione critica la domanda su come condurre una vita buona: ogni aspetto particolare del quotidiano, dal rapporto con i pomelli delle porte, con i frigoriferi, con le automobili a quello con le case, le strade, i regali, l’amicizia e così via, rappresenta per Adorno un particolare di quella forma di vita che è il capitalismo e la massificazione dell’individuo, cui gli sguardi critici del filosofo francofortese e della filosofa americana non si sottraggono. L’approccio critico di Adorno alle «forme di vita» appare a Butler pienamente condivisibile in quanto ogni aspetto particolare della vita quotidiana rappresenta l’espressione di pratiche sociali e istituzionali che influenzano palesemente le nostre azioni e le nostre stesse possibilità di vita. Sulla scia della riflessione adorniana, Butler sottolinea, quindi, il condizionamento sociale dell’individuo che, in qualche modo, si ritrova gettato in quella «forma di vita» già determinata altrove e per tali ragioni, ogni processo di soggettivazione si dà come assoggettamento, lasciando intravedere sin da subito la condizione originaria dell’essere «esposti» all’altro: l’individuo, il sistema sociale, il regime politico, il modello economico e così via.

Seguendo la linea interpretativa del saggio intitolato Forme di vita e capitalismo di Rahel Jaeggi, nota allieva di Axel Honneth, impegnata nello sviluppo e nell’elaborazione di una teoria critica delle odierne società capitalistiche, è significativo precisare che quando si parla di «forme di vita», si devono intendere quelle configurazioni sociali di natura storica che riproducono la vita umana, plasmandola e forgiandola, nel loro intreccio costitutivo con le pratiche sociali e con le istituzioni politiche. Le «forme di vita» perciò non indicano semplici opzioni individuali (stili o modi di vita) come se fossero espressione della libertà di scelta del singolo individuo, ma rimandano a determinate condizioni sovraindividuali da cui dipende inesorabilmente la realizzazione della vita buona.16 In questa direzione, Butler reputa che i Minima Moralia di Adorno rappresentino un testo chiave dal punto di vista tematico, per riproporre un’interpretazione peculiare della critica della «forma di vita» del capitalismo da intendersi non come sistema economico isolato dal contesto sociale e politico su scala globale, ma come ciò che struttura e determina originariamente le pratiche sociali della vita umana. Com’è noto, fra i temi di Minima Moralia, di particolare interesse, quali l’arte del donare, il tempo libero, i modi di amare, spicca, in particolare, quello del rapporto con gli oggetti, poiché, come fa notare Adorno, riportando l’esempio delle pantofole, «[…] in molte cose e oggetti di uso comune sono iscritti, per così dire, dei gesti, e quindi anche delle forme di comportamento».17 Dei Minima Moralia, Butler sceglie il tema relativo alle «forme dell’abitare», impegnata anch’ella, come Adorno, nell’elaborazione di una teoria critica delle forme di vita, per verificare se le moderne società capitalistiche permettano effettivamente ad esse di fiorire oppure, al contrario, le rendano vulnerabili, esponendole a condizioni di dominazione e di sfruttamento, reprimendo l’aspirazione dell’individuo ad una vita buona e costringendolo ad una vita cattiva o «falsa», come direbbe appunto Adorno. Butler stessa appare pienamente persuasa del fatto che le condizioni per una vita buona non possano essere garantite, nel nostro tempo, dal sistema globale neoliberista, in cui si inserisce la congiunturale violenza israeliana di Stato, che viene inflitta ai palestinesi.18

La questione etica di come condurre una vita buona non può, perciò, essere abbandonata, anzi per Butler presuppone l’elaborazione di un’attenta e rigorosa teoria critica del capitalismo, inteso come quella forma di vita alienante, che continua a plasmare i rapporti che si hanno con se stessi, con gli altri e con il mondo circostante. Sia pure in contesti diversi e con esperienze personali differenti, Butler, seguendo Adorno, critica il capitalismo così come si manifesta nelle pratiche sociali del nostro tempo, facendo riferimento, in particolare, alle attuali politiche statunitensi e israeliane, che si sono espresse inauditamente nel bombardamento della popolazione civile di Gaza e nell’occupazione progressiva dei territori palestinesi da parte di Israele. In questa direzione, Butler riprende il solco dell’alienazione dell’individuo, già tracciato da Adorno, denunciando il modo in cui le forme del potere contemporaneo organizzano le vite umane, assegnando loro un valore diverso: ad alcune se ne riconosce la dignità, altre invece si relegano nella dimensione in cui anche il lutto non conta.19 Assumendo la prospettiva che caratterizza i Minima Moralia, il filosofo francofortese appare a Butler il teorico per eccellenza della critica sociale, un attento studioso capace di individuare con sguardo certosino quei fenomeni che mostrano l’alienazione dell’individuo «nelle più sottili e frastagliate ramificazioni della vita quotidiana».20 Le riflessioni di Butler scorrono, dunque, parallelamente a quelle adorniane, sia pure con rimandi ad esperienze di vita e a contesti storici diversi (Adorno conosce l’esilio negli Stati Uniti, a causa dell’affermazione del nazismo in Europa, invece Butler vive il contesto a noi più vicino, determinato dalle conseguenze dopo i fatti dell’11 settembre) per poter dire quali siano le forme di vita buona o cattiva, vera o falsa, e se le odierne società permettano o meno a tutte le «forme di vita» di fiorire o piuttosto, come è stato già detto, ne espongano alcune a condizioni di sfruttamento e di asservimento. Nella «fenomenologia adorniana» della vita quotidiana, tracciata nei Minima Moralia, Butler scorge il valore etico-politico della critica del capitalismo, come forma di vita alienante e disumanizzante, come modello «falso», nel quale non può darsi una vita buona e per queste ragioni rilancia il tema della vita «offesa» e «alienata», un tema tanto caro alla tradizione della Scuola francofortese. In tale direzione, in occasione del conferimento dell’omonimo Premio, consegnatole a Francoforte nel settembre del 2012, Butler prova a riformularne la domanda, riconoscendo ad Adorno il merito di avere sottolineato le difficoltà di trovare una «vita vera» in un mondo strutturato dall’oppressione e dallo sfruttamento.21 Butler osserva innanzitutto che esistono differenti concezioni di ciò che potrebbe essere una «vita buona», esse maturano in stretta relazione con le condizioni sociali e politiche di appartenenza o con le percezioni individuali dalle quali non si può certamente prescindere nella concezione stessa di una vita più o meno buona. Gli economisti, ad esempio, la misurano attraverso il prodotto interno lordo (PIL), ma per Butler non è tanto dall’esperienza ricorrente o dal linguaggio comune che si possa pervenire ad una risposta chiara e vera, quanto piuttosto da una filosofia morale che sia capace di interrogarsi sulla relazione tra moralità e teoria sociale, tra moralità e politica. La questione etica di come si dovrebbe vivere non può di certo essere abbandonata, dal momento che il capitalismo, così come è stato tematizzato da Adorno, sebbene non operi ovunque allo stesso modo, continua nel nostro tempo a caratterizzarsi come quella forma di vita che plasma i rapporti sociali, la cui critica pertanto resta alla base di ogni riflessione sulla vita buona.

Sulla scia di Adorno, infatti, Butler ritiene che la ricerca di una vita buona si leghi indiscutibilmente alla ricerca di una forma buona della politica ossia, in altri termini, alla ricerca di una buona politica senza la quale una vita buona non potrebbe darsi.22 Per Butler, l’etica si trova coinvolta nel compito della teoria sociale e diviene, per riprendere alcune espressioni adorniane, «la critica del mondo amministrato», quale premessa dell’etica stessa. In Problemi di Filosofia morale, cui Butler fa esplicito riferimento in Giving an account of oneself, Adorno puntualizza infatti: «Perché nella seconda natura, nella condizione di dipendenza universale in cui versiamo, non c’è alcuna libertà; per questa ragione non c’è alcuna etica neanche nel mondo amministrato; e, pertanto, la premessa dell’etica è la critica del mondo amministrato».23 Sono queste le ragioni per le quali la filosofa statunitense avverte l’esigenza che l’interrogativo morale sulla «vita buona» sia posto in modo più ampio rispetto ad una tradizione filosofica che pure ne ha fatto oggetto di riflessione privilegiata.24 L’interrogativo morale sulla «vita buona» non è, infatti, una prerogativa della filosofia butleriana, né tantomeno di Adorno, interlocutore privilegiato di Butler nell’elaborazione di una teoria critica della società. Butler riconosce che la formulazione della domanda sulla vita buona trovi conferma già nella cornice greca della speculazione filosofica, in particolare aristotelica, ma annota però che «l’espressione “la vita buona” appartiene a una formulazione aristotelica superata e legata a forme individualistiche di condotta morale […]».25 Sin da subito si pone perciò il seguente interrogativo:

Come si fa a condurre una vita quando non tutti i processi vitali che costituiscono la vita possono essere controllati, o quando solo certi aspetti di una vita possono essere diretti e formati in modo cosciente e deliberato, mentre altri sicuramente no?26

Butler riprende l’antica domanda aristotelica sulla vita buona, ma ne sposta l’interrogativo morale dalla questione di che cosa sia una vita buona all’altra cioè al come condurre una vita buona. Sempre sulla scia di Adorno, Butler si interroga su come sia possibile condurre una vita buona in condizioni di per sé cattive, essendo pienamente convinta del fatto che la forma che la vita stessa assume non dipenda, come è stato già detto, dalle deliberazioni individuali o delle scelte personali di ciascuno. In altri termini, per quanto ci si possa sforzare di condurre una vita buona, le condizioni che la rendono effettivamente possibile sfuggono alla determinazione soggettiva o alla volontà personale, poiché sono determinate da altro, cioè da quelle forme del potere che strutturano e organizzano le vite umane assegnando ad esse un valore diverso.27 Se per Aristotele, il «bene umano» è un «bene pratico» che l’essere umano può compiere e fare suo, agendo secondo virtù, per Butler la realizzazione del bene è fortemente sottomessa a condizioni sovraindividuali e la vita umana è determinata esclusivamente da circostanze non controllabili dal singolo. Secondo il parere di Butler, il venir meno di certe condizioni particolari si ripercuote inevitabilmente sulle stesse virtù e sulla realizzabilità del bene che non è indifferente rispetto alle condizioni stesse della sua realizzabilità.28 In tale contesto, occorre comunque precisare che Butler rappresenta, in chiave etica, l’estremità di una posizione opposta a quella aristotelica che può essere racchiusa nella seguente espressione: «noi siamo determinati dagli altri, perché l’altro è l’origine del proprio sé». In altri termini, Butler abbandona la tradizionale prospettiva etico-filosofica che punta all’autosufficienza dell’io, ritenuto l’artefice delle proprie azioni, pensando ad un Io che invece non è un agente auto-determinato, autosufficiente e padrone di se stesso, ma determinato da altro in un problematico quadro speculativo che accentua l’eterogenesi della soggettività stessa.

Per tali ragioni, Butler ritiene che Aristotele, nell’Etica Nicomachea, abbia supportato un’indagine etica che appare molto discutibile: realizzare il bene ed essere felici dipende dalla capacità del singolo di saper imprimere alla propria vita una certa qualità e, quindi, nel saper mettere in pratica le proprie virtù, scegliendo uno stile di vita che non è dato dalla ricerca degli onori o delle ricchezze materiali, ma dalla virtù del «giusto mezzo» cioè da quella capacità di evitare gli eccessi, in cui consistono i vizi. L’individuo, per Butler, si ritrova, invece, in una posizione di dipendenza strutturale dalle altre singolarità e questa condizione umana è ben presente nella sua riflessione, che coglie nell’essere esposti agli altri la modalità esistenziale di ogni individuo. Come si vedrà in seguito, la condizione di esistenza individuale dipende, per Butler, dalla possibilità di esporsi alla domanda e allo sguardo altrui, che postula sempre l’altro come necessario, l’unico che può perciò restituire la possibilità di una vita degna di essere vissuta. Secondo Butler il punto di partenza dal quale riformulare la domanda sulla vita buona rimane, perciò, Adorno, che nei Minima Moralia afferma: «non si dà vita vera nella falsa».29 In altri termini, Butler fa proprio il suggerimento di Adorno, secondo cui è impossibile, in una società ingiusta, vivere una vita vera da un punto di vista etico e politico. Affinché ciò possa realizzarsi è necessaria una teoria critica della società che possa migliorarla, modificarla, finanche rivoluzionarla.30 Occorre premettere che per Butler, come per Adorno, la questione della vita buona è strettamente correlata alla questione della politica buona e retta e alle condizioni di realizzabilità di tale politica. La possibilità di vivere una vita buona dipende direttamente dalla società e in generale dal contesto storico-politico e dalla capacità di quest’ultimo di consentire a che ogni essere umano possa fiorire nella pienezza del proprio essere. In questa direzione, è opportuno ribadire che l’indagine etica butleriana riconduce fondamentalmente ad un’indagine politica in quanto riconosce un nesso inscindibile tra il perseguimento di una vita buona e il contesto storico-politico e sociale, in cui tale desiderio si colloca, tant’è che avrebbe senso per Butler riformulare la domanda sulla vita buona in questi termini: «quale configurazione sociale della “vita” aderisce alla domanda su come vivere nel modo migliore?».31 È evidente che Butler stia riflettendo su come si possa vivere una vita buona (l’Autrice di Vite precarie preferisce il termine «condurre» al posto di «vivere») a fronte del potere istituzionalizzato che organizza a priori le vite umane conferendo loro ingiustamente un valore diverso. Durante il suo intervento a Francoforte, in occasione del conferimento del Premio Adorno 2012, Butler apre la cerimonia con queste parole:

A quanto pare, se mi chiedo come vivere nel modo migliore, o come condurre una vita buona, non mi riferisco semplicemente alle idee su cosa è buono, ma anche su che cosa significhi vivere e su che cos’è la vita. Per chiedermi quale vita condurre, devo avere un senso della mia vita, ed essa deve sembrarmi qualcosa che posso condurre, non semplicemente qualcosa che mi guida. Tuttavia, risulta chiaro che non posso “condurre” tutti gli aspetti dell’organismo vivente che io sono. Ma devo ugualmente chiedermi: come posso condurre la mia vita? Come si fa a condurre una vita quando non tutti i processi vitali che costituiscono la vita possono essere controllati, o quando solo certi aspetti di una vita possono essere diretti e formati in modo cosciente e deliberato, mentre altri di sicuro no?32

In altri termini, ciò che qui si mette in luce è il fatto che la condizione di realizzabilità di una vita buona dipende dal contesto comunitario in cui si è inseriti, poiché le forme del potere, rappresentate dalle leggi, dalle istituzioni, dalla cultura nel suo complesso, possono supportare il desiderio umano di una vita buona, cui ciascuno per natura tende, ma allo stesso tempo e in certe condizioni possono anche negarlo. In questa direzione, per Butler risuonano con accorata attualità le celebri riflessioni di Adorno in cui si esprime la condanna dell’abitare che il filosofo francofortese affida a un celebre aforisma dei Minima Moralia: «Abitare non è più praticamente possibile».33 Appare ora significativo ripercorrerne alcuni snodi fondamentali, al fine di comprendere cosa Adorno intenda sottolineare con tale espressione, per individuarne modalità e slittamenti con cui il tema stesso si ripresenta nella speculazione butleriana. Innanzitutto, «abitare il mondo» significa per Adorno soggiornare sulla terra, trovare cioè dimora nella prossimità con luoghi e cose cui appare connesso il senso stesso dell’esistere. Nella condizione umana, Adorno precisa però che l’abitare è esperito dall’uomo come uno spaesamento, un senso di vuoto, una perdita di se stessi, una sorta di «asilo per senzatetto»: la perdita della casa è, in altri termini, indicata come la perdita della dignità della propria vita e come il pericolo di massificazione dell’individuo. Adorno traccia, dunque, dietro il tema dell’abitare un concetto di individuo che rimanda al problema dell’alienazione umana vista nel passaggio congiunturale dal nazionalsocialismo alla democrazia di massa. Notoriamente critico verso la logica del dominio, sottolinea la drammaticità derivante dall’impossibilità di vivere una vita degna nel mondo, in cui l’abitare si è ridotto semplicemente ad avere una casa, a possedere qualcosa. E citando Nietzsche puntualizza nell’aforisma 18:

Fa parte della mia fortuna- scriveva Nietzsche nella Gaia scienza- non possedere una casa. E oggi si dovrebbe aggiungere: fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria. Questo dice qualcosa del difficile rapporto in cui il singolo si trova con la propria proprietà, finché possiede ancora qualcosa.34

Si sottolinea in questi brevi passi una filosofia della vita umana, in cui il termine «abitare» appare certamente frequentativo di «avere», non nel senso di possedere qualcosa, una casa ad esempio, ma di abitare un mondo «abitabile», di avere cioè un mondo, rinunciando alla cultura del possesso che è la cultura del dominio, in cui, parafrasando Heidegger, si perde la differenza ontologica tra essere e ente. Ora, in questo senso, appare interessante il riferimento esplicito all’aforisma 18, in cui il ragionamento di Adorno ruota attorno ad una riflessione che riguarda la metamorfosi delle case, di cui mette a confronto due modelli: l’uno borghese, simbolo dello spazio privilegiato dell’individuo, luogo della famiglia, spazio del privato, l’altro rappresentativo della nuova società di massa, modello standardizzato, tipico delle case prefabbricate che caratterizzano le periferie delle metropoli californiane, dove Adorno è vissuto da esule, spostandosi da New York a Los Angeles. È ovvio che non si tratti per Adorno semplicemente di una differenza architettonica, ma di una sorta di metamorfosi dell’abitazione dietro la quale si nasconde la crisi dell’individuo, che diventa inessenziale nella nuova società di massa, in cui appunto non è più possibile abitare cioè «vivere». Differentemente dal primo modello di casa, quello tedesco, borghese, che richiama uno stile quasi unico, diversificato, il modello standardizzato delle case prefabbricate californiane caratterizza in una sequenza regolare case che appaiono invece identiche. Sia il modello borghese di abitazione che quello tipico del consumismo e della massificazione sociale dell’American way of life rappresentano per Adorno il prodotto di progetti architettonici di trasformazione dello spazio abitativo in stretto rapporto con la cultura del tempo di cui essi stessi sono espressione, con profonde ripercussioni sulla vita e sui comportamenti delle persone che abitano la città. «La casa è perciò tramontata» — afferma Adorno — e «il singolo non può nulla contro questo stato di cose».35 Non mancano in questi snodi tematici, le note critiche nei riguardi di un’architettura che si lascia condizionare da esigenze puramente stilistiche ed estetiche, dimenticando che lo spazio della casa, inteso come quella «porzione di mondo» abitata, è vissuto dall’interno di sé cioè dal profondo della propria anima.

Adorno osserva che le trasformazioni del modo stesso di progettare e di vivere le case rappresenti una metamorfosi essenziale della vita moderna. A confronto delle nuove abitazioni, tutte in serie, uguali fra di loro, le vecchie case borghesi, come quella in cui lui stesso è cresciuto, benché abbiano comodità di cui le nuove case sono prive, appaiono «muffose» cioè esprimono dei valori ormai tramontati della famiglia in un’epoca tecnologica, in cui si è affermato un deleterio individualismo a discapito della vita comunitaria tipicamente rappresentata dal modello borghese ottocentesco di casa. E mentre le nuove abitazioni trasformano le case in uno spazio abitativo asettico e privo d’intimità, la stessa cosa — afferma Adorno — accade in campo socialista dove la «casa familiare» non esiste più perché è di proprietà dello Stato.36 Sono queste le ragioni che spingono Adorno a precisare che le due scuole di architettura Wiener Werkstätte e Bauhaus, sebbene apparentemente diverse, hanno più punti in comune che differenze: per entrambe si tratta cioè di rispondere non tanto alle esigenze abitative degli individui, ma di creare abitazioni per le masse, ricorrendo all’uso della nuova tecnologia, che riduce l’architettura a mero decoro come le «forme elementari» del cubismo.37 Ecco subito individuato il tema centrale dell’aforisma 18: «abitare è diventato impossibile». Adorno è pienamente convinto sul fatto che all’individuo non resti che ritrarsi all’interno di una sfera di esistenza privata, anche se a sua volta inautentica, in cui non ci si dovrebbe mai sentire a casa propria, una dimensione, però, che costituisce un male minore in attesa di tempi migliori. Per tali ragioni, il filosofo francofortese puntualizza:

Già quando si occupa di progetti di arredamento e di decorazione interna, capita nei pressi del gusto artigianale del tipo dei bibliofili, per quanto possa essere ostile all’arte industriale in senso stretto. Vista da lontano la differenza tra Wiener Werkstätte e Bauhaus non è poi così considerevole. Nel frattempo, le curve della forma puramente funzionale si sono rese indipendenti dalla loro funzione e trapassano nel decorativo come le «forme elementari» del cubismo. L’atteggiamento migliore, di fronte a tutto ciò, sembra essere ancora un atteggiamento di riserva e di sospensione: condurre una vita privata finché l’ordine sociale e i propri bisogni non consentono di fare diversamente, ma senza caricarla e aggravarla, come se fosse ancora socialmente sostanziale e individualmente adeguata. […].38

Da qui emerge una filosofia dell’abitare che nella speculazione butleriana diviene immediatamente condivisibile, poiché fondata sulla consapevolezza della vulnerabilità della condizione umana che appare già compromessa alle sue radici, transitoria e problematica, rinviando ad un’idea dell’abitare che, secondo l’immagine proposta da Adorno, è proprio di un «asilo per senzatetto».39 In continuità forse non immediatamente evidente con le riflessioni di Adorno sulla fenomenologia dell’abitare, al centro della riflessione critica di Butler di Vite precarie vi sono, infatti, le vite «offese», vite che soffrono per la mancanza di riconoscimento, corpi negati dal discorso e dall’immaginario pubblico, ma soprattutto vite discriminate che denunciano l’esistenza indiscutibile di una profonda disuguaglianza umana, per il fatto che la perdita di alcune vite è ritenuta degna di lutto mentre quella di altre no.40 Il caso emblematico che nelle riflessioni di Butler rappresenta meglio la filosofia adorniana di un abitare impossibile è quello dei palestinesi e dei migranti del nostro tempo, ai quali è negato il diritto di cittadinanza. Nell’opera Vite precarie, Butler nomina i nuovi «volti» della vita alienata, si tratta dei morti che non trovano posto nelle retoriche ufficiali del lutto nazionale, dopo i fatti dell’11 settembre: migranti, musulmani morti nell’attacco alle Twin Towers vittime palestinesi della violenza di Stato israeliana, vittime afgane e irachene. Appellandosi ora alla nozione levinasiana di «volto», la teorica americana tenta di elaborare un’etica ebraica della non violenza, spiegando «come avviene che altri ci avanzino delle richieste morali, ci rivolgano delle pretese morali che non siamo liberi di rifiutare».41 Sebbene il volto dell’Altro, che ci interpella, non possa obbligarci o comandarci alcunché, comprendere la precarietà della vita e criticare le forme del potere organizzato significa dare una risposta al quel grido d’angoscia e di dolore che altrimenti rimarrebbe inespresso.

3. La Begierde insoddisfatta: Butler in dialogo con Hegel

Scrupolosa ed attenta studiosa di Hegel, Butler dedica il suo primo saggio, Subjects of Desire: Hegelian Reflections in Twentieth-Century France alla lettura critica del filosofo tedesco, un saggio che in realtà rielabora la sua tesi dottorale in cui offre una ricostruzione significativa del tema filosofico del riconoscimento, soffermandosi sulle influenze di Hegel nella filosofia francese del secondo Novecento.42 Per Butler, la speculazione hegeliana si configura come una tappa obbligata nello studio del tema del riconoscimento, innanzitutto per il fatto che proprio in Hegel l’identità fa già la sua prima apparizione, evidenziando la struttura costitutivamente relazionale e intersoggettiva della «coscienza», che diviene «autocoscienza» nella relazione con l’altro.43 Gli interessi di Butler si spostano poi dall’ambito filosofico hegeliano a quello etico-politico, ruotando attorno all’analisi dei processi di soggettivazione e assoggettamento nel rapporto mai risolto tra violenza e norme, tra vulnerabilità e riconoscimento, attraverso una preliminare analisi della dialettica desiderio-riconoscimento, che ripone l’attenzione sulla costituzione del soggetto e sulla sua relazione con l’alterità. Il tema del riconoscimento appare, perciò, centrale nella formazione intellettuale di Judith Butler nonché nella sua produzione filosofica; ne viene fuori l’elaborazione di una teoria del soggetto attraverso la quale si segna la crisi dell’ontologia dell’identico e l’apertura ad una soggettività relazionale, che dischiude l’incontro con l’alterità in una dimensione connotata hegelianamente dal desiderio di essere riconosciuti dall’altro.

A ben vedere però la lotta hegeliana per il riconoscimento lascerebbe intravedere a Butler una strumentalizzazione dell’alterità che funzionerebbe come una sorta di «specchio»: la «coscienza» hegeliana si servirebbe dell’altra coscienza per divenire «autocoscienza» cioè, in altri termini, per vedere nell’altro e per sapere solo se stessa. Quale ruolo avrebbe infatti, in questo caso, la figura dell’Altro se non quello di essere strumentale all’affermazione dell’Io? Butler mostra di voler individuare sino in fondo quale sia la complessa questione che si cela dietro alla teoria hegeliana del riconoscimento, sostando nuovamente su alcune note affermazioni hegeliane secondo cui «l’autocoscienza è in sé e per sé in quanto e perché essa è in sé e per sé per un’altra; ossia essa è soltanto come un qualcosa di riconosciuto».44 In altri termini, per Butler, la nozione hegeliana di riconoscimento, nella sezione su «Signoria e servitù» della Fenomenologia dello Spirito, attesta la configurazione «ex-statica» del sé, cioè avvia ad una considerazione della soggettività come continuamente esposta di per sé all’alterità, rappresentando l’estremità di una posizione, oggi dominante, secondo cui noi siamo determinati dagli altri. Come si può notare nel capitolo sesto del saggio Undoing Gender, intitolato «Desiderio di riconoscimento», Butler condivide l’idea hegeliana di un soggetto dislocato, ex-statico, fuori di sé, che dipende dal riconoscimento altrui in un continuo rimando a qualcuno o a qualcosa che ne legittimi l’esistenza.45 In altri termini, la condizione «ex-statica» del soggetto, per la quale Butler si riconosce debitrice a Hegel, indica che ogni soggetto esiste «fuori di sé», poiché la realtà della sua identità dipende irrimediabilmente dal riconoscimento dell’altro, cioè da un dispositivo di norme che assoggettano le singolarità e le prefigurano in un ordine già strutturato.46 Da qui deriva la condizione di vulnerabilità dell’individuo che si ritrova sempre determinato altrove in un modo in cui il suo sé è sempre l’altro cui è originariamente consegnato: egli vive sempre proiettato al di fuori di sé nell’essere Altro da sé. Come sottolinea Butler, l’individuo non è mai affrancato dall’Altro, lui è proprio tale relazionalità, quindi è l’Altro che dà forma al suo sé, un «sé», che per Butler stessa non è da intendersi come l’equivalente del soggetto.

Ora, Butler, differentemente da Hegel, non affida il riconoscimento all’intenzionalità del soggetto, alla sua capacità o alle sue virtù nel conoscere l’altro e nel riconoscerlo, ma ad un contesto di norme, di principi che sono sociali. Si viene così tracciando, nel suo pensiero filosofico, una sorta di dipendenza del soggettivo dal sociale-simbolico. Sotto l’influenza di Lacan, di Foucault e di Lévinas, Butler critica la visione paradigmatica sostanzialista e solipsistica del soggetto, che ha sempre bisogno dell’altro perché abbia luogo il riconoscimento. Per tali ragioni, la questione hegeliana del riconoscimento diventa per Butler di cruciale importanza, perché esso definisce lo spazio precipuo in cui possa avvenire l’autentico incontro tra soggetti diversi e si possano porre le basi di un’etica non violenta, consapevole della vulnerabilità e delle singolarità che contraddistinguono gli esseri umani come l’uno esposto all’altro. Il riconoscimento è altresì lo spazio vero e autentico, in cui Butler pone le basi di una società globale pensando a relazioni internazionali non siano più dominate da logiche di guerra permanente, lesive dell’integrità e della dignità della persona. In questa direzione, le analisi delle categorie hegeliane di «Coscienza» e «Autocoscienza» della Fenomenologia dello Spirito, così come le suggestive pagine hegeliane della dialettica servo-padrone, attraverso l’ermeneutica di Alexandre Kojeve che, negli anni Trenta a Parigi, ha aperto la strada alla ricezione della filosofia hegeliana, sono percorsi determinanti cui la Butler si è particolarmente ispirata.47 Come Hegel, Butler è consapevole che il misconoscimento sia una possibilità inscritta in ogni relazione umana e che il soggetto sia costitutivamente esposto alla violenza altrui; la sua identità dipende, nella sua interezza, dal riconoscimento dell’altro e, quindi, in senso lato, da quel sistema di potere costituito e contingente che può riconoscerlo o disconoscerlo. Come è stato già detto, è in questa direzione che Butler attribuisce a Hegel l’originale elaborazione della nozione «ex-statica» del sé, un sé che si colloca necessariamente al di fuori di se stesso sin dall’inizio del processo stesso di soggettivazione, consegnato originariamente ad una condizione esistenziale di vulnerabilità, perché esposto al potere dell’altro che lo assoggetta e lo plasma.

Per certi versi, Butler nota che ogni azione di riconoscimento da parte di un sistema sociale-simbolico di potere è allo stesso tempo una forma di assoggettamento che riconduce i soggetti entro il quadro «normativo» del sistema stesso. Ma, come Hegel sottolinea la possibilità dell’inversione dei ruoli nella dialettica servo-padrone, allo stesso modo Butler pensa alla possibilità del soggetto di intervenire sulle norme stesse, imposte da un sistema violento di potere, per rendere possibile la trasformazione radicale di quel potere che opprime le individualità, disconoscendo le differenze. Nel quadro speculativo di Butler, nell’ambito di una concezione costruttivista della soggettività, in cui il soggetto è appannaggio esclusivo dell’esteriorità, è difficile, però, pensare alla possibilità del soggetto di intervenire sulla norma sociale al fine di una sua liberazione dal dispositivo dominante del potere. Se il soggetto non ha alcuna consistenza ontologica, perché non preesiste alla struttura di potere, anzi nella concezione butleriana della soggettività intesa quale performance sempre nuova (una funzione, un ruolo, un insieme di atti e di comportamenti) egli stesso è un prodotto del potere, allora ne derivano alcune questioni decisive: in primo luogo, come si può rivendicare un atto politico di liberazione da una norma di potere senza che questa sia preceduta, in qualche modo, dall’esistenza di un soggetto? In secondo luogo: chi potrebbe assumersi il compito di rivendicare un cambiamento radicale del dispositivo del potere se il soggetto è una costruzione del potere stesso e quindi non preesiste ad esso? Nel tentativo di conciliare la sua prospettiva poststrutturalista della soggettività con l’elaborazione di un’etica non violenta, Butler, usando un registro più filosofico, affronta comunque la questione dell’umano dal punto di vista del riconoscimento, orientandosi in Giving an Account of Oneself ad un’elaborazione del sé nuova e originale proprio sulla scorta della rilettura di Hegel. Le tesi hegeliane intorno alla dialettica servo- padrone sollecitano Butler a rielaborare una teoria critica del riconoscimento, che insiste sul carattere trasformativo del soggetto stesso nell’incontro con l’altro, sulla base di quel vincolo che espone il soggetto ad un’esteriorità e ad un’alterità come condizioni di possibilità del suo stesso EsserCi. Differentemente da Hegel, Butler afferma però che «l’individuo non ritorna mai a se stesso affrancato dall’Altro, e che è proprio tale “relazionalità” a costituire il sé.48 Su quest’ultimo aspetto, Butler abbraccia anche la prospettiva psicanalitica, confrontandosi con Jessica Benjamin, autorevole esponente della psicanalisi relazionale, autrice del recentissimo saggio intitolato “Il riconoscimento reciproco. L’intersoggettività e il Terzo”, in cui l’autrice tenta di stabilire la possibilità di un riconoscimento reciproco, partendo dalla presupposizione stessa che il riconoscimento sia possibile».49 Butler riconosce l’impegno intellettuale della psicanalista Benjamin, ritenendo che da quasi tutti i suoi testi si evince il suo impegno nel dare un senso al riconoscimento. In alcuni passaggi di Undoing Gender, Butler infatti, afferma:

Non è solo la presentazione di un soggetto ad un altro che facilita il riconoscimento, da parte dell’Altro, del soggetto che si presenta. Si tratta piuttosto di un processo che si verifica quando il soggetto e l’Altro concepiscono se stessi in quanto riflesso l’uno dell’altro, laddove tale riflesso non si risolve attraverso l’annullamento dell’uno nell’Altro (ad esempio, mediante un’identificazione incorporante) oppure attraverso una proiezione che annienta l’alterità dell’altro. Nell’appropriazione della Benjamin della nozione hegeliana di riconoscimento, esso rappresenta un ideale normativo, un’aspirazione che guida la pratica clinica.50

Il percorso del riconoscimento non si conclude cioè con l’annullamento dell’uno nell’Altro, come avviene in una «identificazione incorporante», né tantomeno in una «proiezione» che annienta l’alterità dell’Altro Secondo Butler la teoria dell’intersoggettività della Benjamin ha il pregio di «aggiungere alla relazione oggettuale il concetto dell’Altro, esterno ed eccedente la costruzione psichica dell’oggetto in termini di complementarità».51 È significativo sottolineare che Butler vede in Benjamin un’interlocutrice privilegiata per il fatto che la psicanalista americana ha tessuto un dialogo costante tra la psicanalisi relazionale e la teoria sociale e critica al fine di studiare in chiave clinica e di comprendere la sofferenza e la disumanizzazione dell’altro in una congiuntura storica caratterizzata dalla seconda Intifada (2003-2004) tra palestinesi e israeliani. Secondo Butler, Benjamin ritrova nel lavoro terapeutico la possibilità di tracciare percorsi possibili di gestione non violenta dei conflitti sociali, che si radicano nella dimensione intersoggettiva dell’esistenza.52 La nozione di riconoscimento, nella sua formulazione più originale che la Benjamin indica nella cosiddetta Terzietà, rimanda ad un’esperienza affettiva significativa dell’altro inteso non come un oggetto di bisogno da controllare, consumare o respingere, ma come un’altra mente con cui possiamo connetterci cioè entrare in relazione.53 Nel saggio dedicato al riconoscimento reciproco, Benjamin chiarisce la posizione e la funzione del Terzo, pur calcolando i rischi di rottura impliciti in una relazione intersoggettiva che minaccerebbero di cancellarne la reciprocità; per tali ragioni, puntualizza alcuni passaggi che possono essere racchiusi in queste sue affermazioni:

In questo libro mi riferirò alla posizione del «Terzo». È la posizione in cui riconosciamo implicitamente l’altro come un «soggetto simile», un essere che possiamo sperimentare come «altra mente». Il Terzo si riferisce ad una posizione costituita dal mantenere la tensione del riconoscimento tra differenza e uguaglianza, intendendo l’altro come un soggetto separato ma equivalente che agisce e conosce, con il quale è possibile condividere sentimenti e intenzioni. La condivisione inizia nelle primissime interazioni preverbali, in cui le intenzioni si allineano (grado di simmetria) o i sentimenti risuonano (senso di uguaglianza) anche tra partner ìmpari.54

Per la psicanalista americana è stato necessario teorizzare l’intersoggettività da una prospettiva che prende in considerazione da un lato lo studio dell’infanzia, in particolare la relazione madre-bambino, in cui il riconoscimento reciproco assume un ruolo centrale e dall’altro la soggettività delle donne, in particolare della madre. Ciò che caratterizza le relazioni della primissima infanzia è, infatti, l’essere esposti all’altro: il bambino dipende, cioè, come tutti i bambini, dal potente caregiver in modo del tutto asimmetrico e, pertanto, ciò che struttura la relazione sin dalla primissima infanzia è la dipendenza dall’altro da cui «possiamo essere feriti o danneggiati quando l’altro fallisce o fraintende nel riconoscerci».55 Ora, la nozione di riconoscimento, che anche Benjamin riprende da Hegel, introduce il problema della vulnerabilità del soggetto tanto caro a Judith Butler. Il lavoro terapeutico deve puntare, quindi, a fornire un aiuto a diventare più capaci di reciprocità in una relazione asimmetrica, in cui la vulnerabilità dell’Altro si appella al nostro senso stesso di responsabilità, affinché l’Altro non venga ridotto ad oggetto di bisogno o di scarica da gestire all’interno della nostra mente, ma lo si intenda come un soggetto Altro, con il quale si può rispondere insieme al desiderio reciproco di riconoscimento nell’ambito di una relazione intersoggettiva. L’Altro si configura, in questa direzione, come un soggetto separato e diverso, ma di eguale dignità e valore, con il quale diventa possibile condividere sentimenti e intenzioni. Il riconoscimento reciproco equivale a trovare una via intersoggettiva che non sia né individualistica né totalitaristica, ma ritrovare insieme qualcosa che unisce in nome della comune appartenenza all’umanità. Per tali ragioni sopra esposte, appare interessante rileggere sia pure brevemente il tema del conflitto entro un percorso di ricostruzione della Anerkennung, a partire dal modo in cui è stata articolato da Hegel nel periodo di Jena, tenendo anche in considerazione gli snodi critici che Butler ritrova nel modello hegeliano del riconoscimento sebbene Hegel sia stato l’autore più letto e più condiviso sin dai tempi della sua formazione filosofica.56

L’esigenza di fondo che spinge a riprendere la significativa eredità hegeliana è data dal fatto che Hegel stesso ha puntualizzato in modo chiaro ed inequivocabile che nelle dinamiche intersoggettive, caratterizzate originariamente dalla «lotta per il riconoscimento», siamo esseri necessariamente esposti l’uno all’altro e il riconoscimento di sé può aver luogo solo dietro conferma da parte dell’altro, cui consegniamo la nostra singolarità. La vita, per Hegel, non esclude, però, il pericolo del misconoscimento, cioè del riconoscimento negato, che genera una profonda lesione nell’identità e nell’integrità dell’intera persona. L’incomprensione della differenza nasce dall’incapacità di riconoscere l’alterità dell’Altro, perciò è necessario un nuovo modo di pensare la soggettività non più in termini di autoaffermazione e di autopoiesi di stampo cartesiano, ma nel senso di un soggetto che si ritrova originariamente coinvolto nell’esistenza con altri soggetti: ciascuno, in qualche modo, è sempre debitore nei confronti dell’altro, del «proprio sé», della propria storia di vita. Hegel interpreta bene tale aspetto, quando conferma la struttura relazionale dell’autocoscienza che diviene tale nel rapporto con un’altra autocoscienza.57 È interessante notare che dal riconoscimento offerto dall’Altro, ogni soggetto ha la possibilità di riconoscersi, a sua volta, nel proprio sé, nella propria storia. È questo un aspetto suggestivo di ciò che Adriana Cavarero propone di denotare come «identità narrativa», di cui ci offre un’interessante descrizione nel saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti, affermando innanzitutto che dall’altro possiamo ricevere il dono del riconoscimento del proprio sé nella forma specifica di una storia di vita raccontata da lui o da lei e, quindi, «la categoria di identità personale postula sempre come necessario l’altro».58 In altri termini, l’identità può essere intesa nel senso di una ricostruzione della storia personale a partire dalla narrazione che ne fa l’altro che la racconta e che, raccontandola, esaudisce, così, il desiderio di essere riconosciuti nel proprio essere.

Per esemplificare, Cavarero si riferisce al famoso paradosso di Odisseo, commentato da Hannah Arendt in Vita della mente, e lo reinterpreta attraverso la lettura di una delle scene più belle dell’Odissea, in cui Ulisse, ospite incognito alla corte dei Feaci, sente un aedo cieco cantare le gesta di grandi eroi e riconosce la sua storia, cioè riconosce sé stesso.59 Quando Ulisse ascolta la sua storia narrata da un altro, la guerra di Troia, le sue avventure cantate dall’aedo, si riconosce in quella storia che proviene da altrove e, sotto il mantello purpureo, si commuove e piange, poiché, come afferma Hannah Arendt, «soltanto ascoltando il racconto egli acquista piena nozione del suo significato».60 L’esempio di Odisseo rappresenta «la situazione in cui qualcuno riceve la propria storia dalla narrazione altrui» e questo particolare aspetto, come nota bene Arendt, implica che l’identità non è un dato ma un processo, un divenire. Possiamo sapere «chi è» o «chi è stato» qualcuno solo riconoscendone la storia o, in altri termini, la sua biografia, per la quale Odisseo stesso, come Socrate, è debitore ad un altro che la racconta e dal quale, raccontandola, in qualche modo, viene «riconosciuto».61 Si può certamente affermare che ciascuno/a coglie la propria identità, il proprio sé a partire dalla narrazione che l’altro gli rende della propria storia di vita. Tornando alla riflessione hegeliana, l’alterità fa già la sua prima apparizione nella Fenomenologia dello Spirito, in cui la coscienza si ritrova in un complesso e tortuoso movimento di costituzione di sé nella relazione con l’altro. Per Hegel, infatti, la formazione della coscienza implica il riconoscimento dell’alterità nei diversi segni in cui essa si manifesta: il tu, la famiglia, gli altri, il contesto storico di appartenenza e così via; in questo senso, nel riprendere la ricca e suggestiva intuizione hegeliana, si può affermare che il riconoscimento di sé avviene attraverso il riconoscimento che offre l’altro, cui siamo esposti, e verso cui, per questo, siamo anche debitori. Diversi critici, fra cui Butler, obiettano al filosofo tedesco di aver puntualizzato solo una delle modalità dell’agire che il riconoscimento dischiude: riconoscere se stessi attraverso l’altro. Sembra, infatti, che l’alterità hegeliana sia funzionale all’affermazione dell’identità, poiché Hegel interpreta l’autocoscienza come un ritorno in sé dall’essere-altro. La coscienza hegeliana è, infatti, originariamente aperta all’altro, ma attraverso l’altro ritorna in se stessa, per autoriconoscersi cioè per diventare appunto «autocoscienza».62 D’altra parte leggiamo nella Fenomenologia hegeliana:

Ma in effetto l’autocoscienza è la riflessione dall’essere del mondo sensibile e percettivo, ed è essenzialmente il ritorno dall’esser-altro. Come autocoscienza, essa è movimento; ma poiché distingue da sé solo se stessa come se stessa, ecco che, ad essa la differenza, immediatamente come esser-altro, è tolta; la differenza non è; e l’autocoscienza è soltanto l’immota tautologia dell’Io sono Io; […]63

L’incessante movimento della coscienza consiste, dunque, nel «puro autoriconoscersi entro l’assoluto essere altro» e ciò presume che l’altro rivesta, per Hegel, un ruolo strumentale all’affermazione dell’io.64 Il movimento hegeliano della coscienza, sotto un profilo più generale, può essere inteso nel senso di un viaggio esistenziale, in cui la coscienza riscopre se stessa passando dalla certezza di sé alla verità.65 In questo movimento della coscienza, Hegel disegna le figure fenomenologiche (Gestalten) per rappresentare le tappe di maturazione e di formazione della coscienza individuale, che costituiscono anche i veri e propri momenti storici della Bildung occidentale.66 In altre parole, il cammino percorso dalla coscienza è, come afferma Jean Hyppolite, la storia particolareggiata della sua formazione, «l’itinerario dell’anima elevantesi allo spirito attraverso la mediazione della coscienza».67 La coscienza, dunque, non è, per Hegel, «esser coscienza» (Bewusst-sein) quanto piuttosto «diventare coscienza» (Bewusst-werden); e questo cammino della coscienza si configura hegelianamente come una dura lotta in cui la coscienza dà prova di se stessa.68 La trattazione del tema del riconoscimento, che viene affrontata da Hegel attraverso la celebre dialettica servo-padrone, consente di mettere in scena il dramma dell’esistenza umana, la conflittualità presente nella storia individuale e collettiva.

Ora, Hegel è ben consapevole che il riconoscimento avvenga, come è nel rapporto signoria-servitù, secondo modalità relazionali inautentiche, che fanno della vita una vera e propria lotta perenne, poiché l’autocoscienza pretende per sé il riconoscimento, ma non è a sua volta disposta a donarlo all’altra autocoscienza. La struttura generale dell’autocoscienza, così come viene concepita da Hegel, indica che il percorso del riconoscimento è unilaterale ed evidenzia da parte di una autocoscienza, il padrone, la negazione dell’alterità dell’altra. L’autocoscienza hegeliana, infatti, vede nell’altro solo la conferma di sé, ma affinché la logica conflittuale, che comunemente caratterizza i rapporti intersoggettivi, possa tradursi in una logica relazionale, fondata sul reciproco riconoscimento, è necessario che l’altro non sia sottomesso dall’io, ma venga altresì riconosciuto nella sua alterità: chi vuole essere riconosciuto dall’altro deve, a sua volta, riconoscere l’altro, non può pretendere solo per sé ciò che l’altro gli sta offrendo. Judith Butler reputa che Hegel, sia pure entro certi limiti, non si sarebbe lasciato sfuggire che il riconoscimento per essere reciproco non possa mai darsi in modo unilaterale: «non appena lo concedo, ne sono potenzialmente investita, e la forma in cui lo offro mi è potenzialmente restituita».69 Sul carattere della reciprocità del riconoscimento hegeliano, Butler ha però qualche perplessità e, affrontando il tema in chiave posthegeliana, con espliciti riferimenti all’etica lévinasiana dell’Altro, insiste sul fatto che il soggetto hegeliano (l’autocoscienza) compirebbe alla fine una sorta di appropriazione indebita nei confronti dell’altro, denotando uno stile tipicamente imperialistico, per il quale l’altro è pienamente assimilato e ridotto all’io, nonché alle sue esigenze di autoaffermazione e di riconoscimento di sé.70 Tale aspetto sembrerebbe visibile in alcuni snodi argomentativi in cui Hegel stesso afferma: «l’autocoscienza […] è essenzialmente il ritorno dall’essere-altro. Come autocoscienza, essa è movimento; ma poiché distingue da sé solo se stessa come se stessa, ecco che, ad essa, la differenza, immediatamente come un esser-altro, è tolta».71 Ritornando, quindi, al ruolo che l’altro riveste nel percorso hegeliano del riconoscimento, sembra che Hegel abbia assegnato un primato all’io piuttosto che all’altro, poiché nella contesa tra le due opposte autocoscienze, quella del padrone e quella del servo, «l’uno estremo è solo ciò che è riconosciuto, mentre l’altro è solo ciò che riconosce».72

L’autocoscienza hegeliana del padrone apprende questa lezione sotto l’aspetto di un’aggressione nei confronti dell’altro, che deve appunto negare, per riaffermare se stessa in una posizione sovrana. Hegel sembra consapevole del fatto che, nelle relazioni interpersonali, il riconoscimento non è una modalità autentica della relazione con l’altro, poiché le dinamiche intersoggettive si configurano visibilmente come una vera e propria lotta fra opposti che non si riconoscono reciprocamente.73 Hegel intuisce, però, che ogni essere umano nell’esperienza esistenziale è segnato dal desiderio fondamentale e costitutivo di essere riconosciuto dall’altro. Per tali ragioni, il cammino concreto, che la coscienza hegeliana è chiamata ad affrontare, non è immediato e lineare, ma segnato da insuccessi, sconfitte e, soprattutto, da una dura lotta, in cui il riconoscimento è solo unilaterale e parziale, poiché «ciò che il signore fa sul servo, il servo lo fa su di sé: si riconosce servo», per paura della morte, cioè della totale negazione di sé.74 Hegel afferma, infatti, che nel rapporto conflittuale, il padrone e il servo danno prova reciproca di se stessi attraverso la lotta per la vita e per la morte.75 Di fronte al timore per la morte l’autocoscienza più debole è costretta a soccombere, alienandosi nei confronti di quella più forte, in questo caso il servo, per paura della morte, è spinto a riconosce il padrone come il principio del suo essere; il servo, infatti, non ritrova la sua essenza nel suo essere per sé, ma nell’essere per un’ altra autocoscienza cioè per il padrone, che avendo ridotto il servo ad oggetto del suo appetito (Begierde) lo fa lavorare, limitandosi solo a godere di quanto il servo produce.76 Il padrone pretende in modo unilaterale il riconoscimento da parte del servo, ma il suo bisogno imperioso di farsi riconoscere dal servo non è accompagnato, a sua volta, dalla capacità di riconoscere l’altro (il servo), colui che sta alle sue dipendenze. Il conflitto che si scatena tra le due autocoscienze opposte non è altro che una dura lotta per il riconoscimento.77 Secondo l’interpretazione di Hyppolite, Hegel porta alla superfice i rapporti di disuguaglianza nel riconoscimento, che sono impliciti nell’esperienza della signoria (Herrschaft) e della servitù (Knechtschaft).78

Ora, alla luce delle riflessioni hegeliane cui si è fatto riferimento, è facile constatare che un autentico riconoscimento implica, nella relazione interpersonale, l’assunzione di uno sguardo empatico verso l’altro, capace di «vedere» e di intendere l’alterità dell’Altro, la sua irripetibile singolarità, evitando, in tal modo, che l’Altro stesso si riduca ad oggetto del proprio desiderio; la coscienza empatica intende l’altro come mai pienamente oggettivabile e incontra l’alterità nel segno della differenza e della trascendenza.79 La trattazione del tema del riconoscimento così come sviluppato all’interno della Fenomenologia dello Spirito è stata ripresa da Ricœur, che coglie l’originalità di Hegel non tanto nell’elemento dell’intersoggettività, quanto, piuttosto, in ciò che la presuppone cioè nell’etica del mutuo riconoscimento.80 È interessante notare che Ricœur ricostruisce il tema hegeliano dell’Anerkennung, così come è stato articolato da Hegel nel periodo di Jena, e presenta l’argomentazione hegeliana del riconoscimento contro la sfida hobbesiana dello stato di natura, fondato sull’antropologia dell’homo hominis lupus est, ritenendo che la categoria hegeliana del mutuo riconoscimento offra agli esseri umani la possibilità di «accedere ad una esperienza effettiva, ancorché simbolica, di mutuo riconoscimento, sul modello del dono cerimoniale reciproco».81 C’è, però, come nota Ricœur, un aspetto che sfugge ad Hegel e che riguarda quella forma del riconoscimento che implica la donazione gratuita di sé all’altro e che si richiama alla logica del puro dono, quella che ignora la comparazione e il calcolo.82 Ricœur puntualizza questo aspetto, legando il tema hegeliano del mutuo riconoscimento a quello del dono, che intende come paradigma alternativo alla cultura utilitaristica ed individualistica, tipica dei nostri tempi.83 In tale forma del riconoscimento, l’Altro è ritenuto un bene in sé stesso e chi dona si affida totalmente alla risposta dell’altro, pur sapendo di esporsi al rischio e all’incertezza. Nell’esperienza del dono emerge, per Ricœur, un’altra modalità del riconoscimento: la riconoscenza e la gratitudine disinteressata verso l’Altro. Il dono, interrompe il circuito del dare-ricevere e ci espone totalmente all’Altro, che può anche non rispondere al nostro dono, contravvenendo così a quella stessa fiducia che gli è stata offerta mediante una donazione libera e disinteressata.84 Chi dona si ritrova totalmente esposto alla sfida posta dall’alterità indecifrabile dell’Altro, perciò deve essere pronto a scommettere sulla risposta dell’Altro, ma la scommessa si può anche perdere e la fiducia può essere tradita.85 Chi sa donare è anche capace di perdonare cioè di esporsi ad un dono incondizionato di sé all’Altro «al di là di ogni calcolo, di ogni economia di redenzione, di restituzione simbolica, che altrimenti annullerebbero il perdono».86 Suggestive sono, in questo senso, le puntualizzazioni di Derrida, che, nell’ambito dell’approccio al tema filosofico del perdono, afferma che il perdono, come il dono, cui esso è legato, «è chiamato a fare l’im-possibile».87

Ora, è evidente che la categoria hegeliana dell’Anerkennung, sia pure rivisitata nelle differenti interpretazioni contemporanee, abbia una declinazione significativa sia sul piano etico che politico e sia oggi uno degli argomenti più dibattuti del nostro tempo, nonché una nozione chiave per l’elaborazione di una nuova teoria critica della società. La sensibilità e la conseguente attenzione verso questo tema è giustificata anche da una certa urgenza politica a impegnarsi in una prospettiva multiculturale che tenda a ridurre la conflittualità tra i diversi gruppi sociali, salvaguardandone le differenze.88 È in questa direzione che, esemplificando, si muovono le riflessioni di Honneth in merito al tema del riconoscimento, che viene elaborando proprio a partire da quella che egli stesso definisce l’idea originaria di Hegel.89 Nella visione di Honneth, i conflitti sociali sono il prodotto dello scontro frontale fra gruppi diversi, che confliggono intorno agli stessi interessi; essi non scaturiscono esclusivamente dal tentativo di avere un maggiore controllo sociale o un maggiore potere, ma dal desiderio più originario e costitutivo della persona: l’essere riconosciuti nel proprio valore dall’Altro. Honneth reputa che l’aspirazione degli individui al riconoscimento intersoggettivo della propria identità è insita, fin dall’inizio, nella vita sociale e risale alle primissime relazioni primarie, attraverso le quali, seguendo Mead, indica come il luogo della costituzione del «Me». Si tratta di un’«immagine cognitiva di sé» che il soggetto si forma «nel momento in cui impara a percepirsi dalla prospettiva di una seconda persona», cioè dalla prospettiva dell’Altro.90

L’attenzione alla singolarità conduce Butler a prendere le distanze da Hegel e a rielaborarne la categoria di riconoscimento sotto l’influenza della filosofia della responsabilità di Lévinas e il pensiero di Adriana Cavarero, interrogandosi sul soggetto precario, violato, disumanizzato e vulnerabile. Per tali ragioni, per Butler, così come per gli studiosi di Hegel sopracitati, vale comunque la pena riprendere l’idea hegeliana di riconoscimento, per ripensarla come un nuovo progetto etico-politico, che nell’assumere in linea di principio l’idea di lotta fra autocoscienze già tematizzata da Hegel, possa costituire un’alternativa alla condizione di vulnerabilità che si sperimenta nelle relazioni asimmetriche di potere e che rende l’essere umano suscettibile alle ferie altrui. Affinché ciò divenga possibile, è necessario per Butler pensare tale progetto all’insegna della responsabilità e della cura dell’Altro, principi fondamentali in grado di sostituire al segno negativo della dipendenza altrui e della debolezza il riscatto di ogni vita umana e il dovere di considerare tutti pari in dignità e diritti, all’insegna di un’umanità condivisa e solidale. Butler, però, differentemente da Honneth e sulla scia di Foucault, ma anche di Lévinas per certi aspetti, reputa che la possibilità di rispondere eticamente a un Volto richieda una «normatività del campo visivo» e per questo afferma:

[…] di già dato deve sempre esserci non solo un frame, una cornice epistemologica al cui interno il volto possa apparire, ma soprattutto un’operazione di potere, dal momento che solo in virtù di alcuni ordini e disposizioni antropocentriche e di un certo tipo di frames culturali un determinato volto potrà apparire a ognuno di noi come volto umano.91

Alla luce di tali considerazioni, si può però precisare che per Butler, come per Foucault, esiste un linguaggio implicito che struttura l’incontro interpersonale con l’Altro e «radicate in questo linguaggio ci sono una serie di norme (frames) che riguardano ciò che si costituirà o meno come riconoscibile», invece l’etica di Lévinas, cui Butler si ispira, fa appello al principio di responsabilità cui ci sentiamo chiamati nell’incontro dell’altro in una relazione interpersonale che può essere ripensata attraverso un’altra chiave di lettura: la fiducia, che nasce dalla consapevolezza della nostra situazione esistenziale di interdipendenza e dalla semplice verità socratica secondo cui nessuno è sufficiente a se stesso.92


  1. Di tali studi se ne segnalano di seguito alcuni, per i riferimenti presenti in questo lavoro: J. Butler, Undoing Gender, Routledge, New York, 2004, La disfatta del genere, trad. it. di P. Maffezzoli, Meltemi, 2006, Idem, Giving An Account Of Oneself, Fordham University Press, New York, 2005, Critica della violenza etica, trad. it. di F. Rahola, Feltrinelli, Milano, 2006, A. Honneth, Kampf um Anerkennung.Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1992, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, trad. it. di C. Sandrelli, Il Saggiatore, Milano, 2002; N. Marcucci-L. Pinzolo, a cura di, Strategie della relazione. Riconoscimento, transindividuale, alterità, Meltemi, Roma, 2010; P. Ricoeur, Parcours de la reconnaissance, Éditions Stock, 2004, Percorsi del riconoscimento, trad. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina, Milano, 2005; L. Bernini-O.Guaraldo, a cura di, Differenza e relazione. L’ontologia dell’umano nel pensiero di Judith Butler e Adriana Cavarero, Ombre Corte, Verona, 2009. Nell’ambito degli studi che legano la psicanalisi relazionale con la teoria sociale e critica e con il pensiero femminista e i gender studies, numerosi sono i suggerimenti per la rielaborazione di una teoria del riconoscimento che tracci veri e propri itinerari di gestione e di risoluzione di conflitti sociali e politici, che si radicano nella dimensione intersoggettiva dell’esistenza. In questa direzione si confronti: J. Benjamin, Beyond Doer and Done to. Recognition Theory, Intersubjectivity and the Third, Routledge Taylor & Francis Group, 2017, Il riconoscimento reciproco. L’intersoggettività e il Terzo, trad. it. di N. Carone, Raffaello Cortina, Milano, 2019. ↩︎

  2. J. Butler, Subjects of Desire. Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia University Press, New York, 1999, Soggetti di desiderio, trad. it. di G. Giuliani, Laterza, Roma-Bari, 2009.J. Butler, Undoing Gender, Routledgge, New York, 2004, La disfatta del genere, cit.J. Butler, Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New York, 1999, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. it. di S. Adamo, Laterza, Roma-Bari, 2013J. Butler, Bodies that Matter. On the Discursive Limits of «Sex», Routledge, New York-London, 1993, Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso, trad. it. di Simona Capelli, Feltrinelli, Milano, 1996J. Butler, Gender Trouble. Feminism and the Subversion of Identity, Routledge, New-York-London, 1999, Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. it. di S. Adamo, Laterza, Roma-Bari, 2013.J. Butler, Giving An Account Of Oneself, Fordham University Press New York, 2005, Critica della violenza etica, trad. it. di F. Rahola, Feltrinelli, Milano, 2006J. Butler, La rivendicazione di Antigone. La parentela tra la vita e la morte, trad. it. di I. Negri, Bollati Boringhieri, Torino, 2003J. Butler, Sentire ciò che nell’altro è vivente. L’amore nel giovane Hegel, trad. it. di M. Anzalone, Orthotes, Napoli-Salerno, 2014. ↩︎

  3. Cfr. J. Butler, Bodies that Matter.On the discursive Limits of «Sex», Routledge, New York and London, 1993*, Corpi che contano. I limiti discorsivi del sesso*, trad. it. di Simona Capelli, Prefazione di Adriana Cavarero, Feltrinelli, Milano, 1996, pp. VII-IX. Adriana Cavarero ha anche curato la presentazione all’edizione italiana di Subjects of Desire. Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia University Press, New York, 1987-1999², Soggetti di Desiderio, trad. it. di G. Giuliani, Laterza, Roma-Bari, 2009. ↩︎

  4. Com’è noto verso la metà degli anni Ottanta del Novecento, Cavarero pone le fondamenta filosofiche del pensiero della differenza sessuale, sulla base dell’esperienza, presso l’Università di Verona, della Comunità filosofica di Diotima.Ora, nella riflessione butleriana, è propriamente la categoria della differenza sessuale ad acquisire una connotazione fortemente aporetica sul piano filosofico e notevolmente problematica su quello politico, in cui l’assunzione del binarismo uomo-donna, maschio-femmina, rappresenta una sorta di «norma violenta» verso quelle minoranze sociali che non si riconoscono nel paradigma dell’eterosessualità. Il carattere performativo che Butler stessa attribuisce al genere, sulla base della teoria costruzionista di Foucault sulla sessualità, suggerisce che «uomo» e «donna» non sono qualcosa che noi siamo, cioè categorie che di per sé connotano originariamente il corpo sessuato, ma qualcosa che noi facciamo, qualcosa che noi impersoniamo come se, in una scena teatrale, che è il mondo della vita, «vestissimo» un abito. In questa direzione, Butler avvierà una contestazione del primato ontologico che Cavarero attribuisce invece al concetto di «unicità incarnata», cioè a quel processo di «incarnazione» che conferisce al soggetto un’identità sessuata, restituendo gli individui ad una originaria differenza duale che li rende unici e irripetibili. Di tale impostazione speculativa della filosofia cavareriana ne è testimonianza la vasta produzione bibliografica dei volumi collettivi, di seguito riportati, che hanno contribuito alla diffusione del pensiero della differenza sessuale, centrato sull’idea secondo cui la condizione umana è una condizione di «differenza tra corpi» cioè una condizione esistenziale caratterizzata dalla dualità originaria, che smaschera la falsità di quel pensiero neutro, tipico della storia dell’Occidente filosofico, mossa ingannevole del maschile che ha reso ininfluente la differenza sessuale, cancellandone il femminile.Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano, 1987;Diotima, Mettere al mondo il mondo. Oggetto e oggettività alla luce della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano, 1990;Diotima, Il cielo stellato dentro di noi. L’ordine simbolico della madre, La Tartaruga, Milano, 1992;Diotima Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità, Liguori, Napoli, 1995;Diotima, La sapienza di partire da sé, Liguori, Napoli, 1996;Diotima, Il profumo della maestra. Nei laboratori della vita quotidiana, Liguori, Napoli, 1999;Diotima, Approfittare dell’assenza. Punti di avvistamento sulla tradizione, Liguori, Napoli, 2002. ↩︎

  5. Cfr. L. Bernini, Riconoscersi umani nel vuoto di Dio, in Bernini L.-Guaraldo O., a cura di, Differenza e relazione. L’ontologia dell’umano nel pensiero di Judith Butler e Adriana Cavarero, p.27, cit. ↩︎

  6. Cfr. N. Perugini, a cura di, Judith Butler. A chi spetta una vita buona?, Nottetempo, Milano, 2013. ↩︎

  7. Cfr. J. Butler, La disfatta del genere, pp. 59-60, cit. ↩︎

  8. In questa direzione, se in Undoing Gender le norme sociali di riconoscimento dalle quali, secondo Butler, dipende la stessa individualità, si rendono necessarie per la tutela delle minoranze sessuali, in Precarious Life l’esigenza di normatività si estende ad altri soggetti oppressi, come ad esempio le minoranze palestinesi a fronte della violenza israeliana di Stato.Cfr. J. Butler, La disfatta del genere, pp. 59-60, cit.; Idem, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma, 2004; Idem, Critica della violenza etica, cit.; Perugini N., a cura di, Judith Butler. A chi spetta una vita buona? cit. ↩︎

  9. Ibidem. Numerose sono state le critiche di quanti si sono opposti al conferimento del Premio Adorno a Butler, per il fatto che la studiosa sia attivamente impegnata contro l’occupazione israeliana della Palestina. ↩︎

  10. È questo il tema centrale di Precarious life, in cui Butler apre una domanda significativa: «perché ad alcuni è concesso di provare dolore e piangere i propri morti, mentre ad altri non è riconosciuta neanche la dignità di esseri umani?». Si confronti, in tal senso, J. Butler, Precarious life. The powers of mourning and violence, Verso, London-New York, 2004, Vite precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, trad. it., a cura di Olivia Guaraldo, Meltemi, Roma, 2004. ↩︎

  11. J. Butler, Vite precarie. Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, p.57, cit.; Idem, La disfatta del genere, pp. 198-205, cit. ↩︎

  12. Cfr.J. Butler, Critica della violenza etica, cit. ↩︎

  13. Si rimanda alla traduzione italiana curata da Perugini, relativa all’intervento curato da Butler in occasione del conferimento del prestigioso Premio Adorno, a Francoforte nel 2012, assegnatole per l’eccellenza riconosciutale nel campo della filosofia, della politica, dell’etica, nonché della psicanalisi.Cfr. N. Perugini, a cura di, Judith Butler. A chi spetta una vita buona? cit. ↩︎

  14. Cfr. T. W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa, trad. it. di Renato Solmi, Einaudi, Torino, 1976, p. 35 e p. 57. Come annota Butler, nel suo intervento a Francoforte sulla «vita buona e vita cattiva», l’espressione «vita falsa» cui Adorno fa riferimento viene tradotta in inglese da Rodney Livingstone con «vita cattiva»; per Butler ciò è molto significativo, poiché quest’ultima espressione consente di riferirci al fatto che dal punto di vista morale il perseguimento di una vita buona rappresenta una vita «vera»: in altri termini, una vita buona ha un contenuto di verità. Solo ad essa, pertanto, può essere conferita significatività rispetto alle altre «forme di vita». ↩︎

  15. Cfr. R. Jaeggi, Forme di vita e capitalismo, Rosenberg & Sellier, Torino, 2016, Capitolo I, p. 34 ↩︎

  16. Cfr. M. Solinas, Introduzione, in Jaeggi R., Forme di vita e capitalismo, pp. 7-31, cit. ↩︎

  17. Cfr. T.W. Adorno, Minima Moralia, § 72, p. 124, cit. ↩︎

  18. Cfr. N. Perugini, a cura di, Judith Butler. A chi spetta una vita buona? cit. L’impegno di una critica sociale spinge Butler a procedere ad un’attenta analisi dei fatti dopo l’11settembre, per valutare quali sono le conseguenze sotto il profilo della tutela dei diritti umani e delle libertà individuali. Com’è noto, nasce da qui la stesura di cinque saggi, raccolti in Precarious life. The powers of mourning and violence cui si farà in seguito riferimento. ↩︎

  19. Cfr. J. Butler, Precarious life. The power of mourning and violence, London-New York, 2004, Vite precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, trad. it. Meltemi, Roma, 2004. ↩︎

  20. Cfr. A. Bernard-U. Raulff, a cura di, Theodor W. Adorno «Minima Moralia» neu gelesen, Franfurt am Main, Suhrkamp, 2003, p. 8. Si rimanda alla citazione di Bernard, riportata da Rahel Jaeggi, in Forme di vita e capitalismo, Nota 7, p. 34, op.cit. ↩︎

  21. I due interventi curati da Butler in occasione del conferimento del Premio Adorno del 2012 sono stati raccolti da Nicola Perugini nel breve saggio intitolato Judith Butler, A chi spetta una vita buona? già in precedenza citato. Ivi, in particolare alle pagine 67-80, è stato riportato il secondo intervento di Butler, in merito alla critica della violenza israeliana di Stato sui palestinesi. La filosofa statunitense intervenne nel tentativo di fornire una risposta plausibile alle forti polemiche esplose in un articolo del Jerusalem Post, che a seguito del conferimento del Premio Adorno alla Butler, le attribuivano l’accusa di antisemitismo e di aver condotto una campagna contro l’occupazione israeliana della Palestina, appoggiando Hamas e Hezbollah. In questa occasione la filosofa statunitense ribadisce apertamente il suo impegno politico nel voler sostenere «un ebraismo non associato alla violenza di Stato», rammaricandosi del fatto che ogni critica politica verso Israele venisse «bollata» come espressione di antisemitismo. ↩︎

  22. Cfr. T.W. Adorno, Problemi di filosofia morale, citato in Perugini N., Judith Butler. A chi spetta una vita buona? a p. 17 e in nota a p. 64. ↩︎

  23. Cfr. Th. W. Adorno, Probleme der Moralphilosophie,[1963], a cura di Th. Schröder, in ID., Nachgelassene Schriften, a cura del Theodor W. Adorno Archiv, parte IV: Vorlesungen, vol. 10, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1996, p. 261 e Butler J., Giving An Account Of Oneself, Fordham University Press New York, 2005, Critica della violenza etica, cit. ↩︎

  24. Cfr. N. Perugini, a cura di, Judith Butler. A chi spetta una vita buona? pp. 14-16, cit. ↩︎

  25. Ibidem, pp. 15-16. Il corsivo è mio. ↩︎

  26. Ibidem, p. 18. ↩︎

  27. Ibidem, p. 25. ↩︎

  28. Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari, 1988, Libro VII, trad. it. di Armando Plebe, Cap. II e Cap. VII; T.W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionem aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp Verlag, 1951, Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, trad. it. di Renato Solmi, Einaudi, Torino, 1976N. Perugini, a cura di, Judith Butler. A chi spetta una vita buona?, cit. ↩︎

  29. Cfr. T. W. Adorno, Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, cit. e Perugini N., a cura di, Judith Butler. A chi spetta una vita buona? Nota 1, p. 64, cit. ↩︎

  30. Come nota Perugini, la riflessione sulla «vita buona» viene articolata da Butler sulla base del rapporto tra il concetto di biopolitica, teorizzato da Foucault, e la questione morale, posta da Adorno sulla vita buona. Si confronti la Nota introduttiva, a cura dello stesso nel saggio già citato Judith Butler. A chi spetta una vita buona?, alla p. 6. ↩︎

  31. Ibidem, p. 17. ↩︎

  32. Ibidem, pp. 17-18. ↩︎

  33. Cfr. T. W. Adorno, Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1951, trad. it. di R. Solmi, Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Torino, Einaudi, 1994, §18, pp. 34-35. ↩︎

  34. Ibidem, p. 35. ↩︎

  35. Ibidem, p. 34. ↩︎

  36. Ibidem, p. 34 ↩︎

  37. Ibidem, p. 35. Indagando sul rapporto tra alienazione e arte, è noto che Adorno rappresenti, in ambito marxista, l’opposizione all’arte moderna. Per tali ragioni, nell’aforisma 18, riferendosi specificatamente all’architettura, elabora un giudizio severo nei confronti di quella «forma di vita» che è rappresentata dall’american way of life, cui va riferita la sua teoria critica della società. ↩︎

  38. Ibidem, p. 35. Il corsivo è mio. ↩︎

  39. Ibidem ↩︎

  40. Cfr. J. Butler, Precarious life. The power of mourning and violence, London-New York, 2004, Vite precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, cit. ↩︎

  41. Ibidem, p. 160. ↩︎

  42. J. Butler, Subjects of Desire. Hegelian Reflections in Twentieth-Century France, Columbia University Press, New York, 1999, Soggetti di desiderio, cit. ↩︎

  43. Cfr. G. W.F. Hegel, Die Phänomenologie des Geistes, Fenomenologia dello Spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1960, vol. I, pp. 143-145 e pp. 153-164. ↩︎

  44. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, vol. I, p. 153, [13] op. cit.; Butler J., Undoing Gender, Routledgge, New York, 2004, La disfatta del genere, trad. it. di P. Maffezzoli, Meltemi, Roma, 2006, p. 182. ↩︎

  45. Cfr. J. Butler, La disfatta del genere, pp. 179-183, cit. ↩︎

  46. Butler si ritrova impegnata in un’opera di critica postmoderna della soggettività, nella quale mette in discussione i paradigmi tradizionali di «soggetto», «autore», «autoreferenzialità». I soggetti più che parlanti sono «parlati» da una struttura linguistica che li precede e li performa in quanto soggetti, più che «agenti» sono «agiti» cioè assoggettati e determinati da un sistema di norme che vi si antepongono. ↩︎

  47. Cfr. J. Butler, Undoing Gender, Routledge, New York, 2004, La disfatta del genere, pp. 179-183, cit. ↩︎

  48. Ibidem, p. 179 e Critica della violenza etica, pp. 41-44, cit. ↩︎

  49. Cfr. J. Benjamin, Beyond Doer and Done to. Recognition Theory Intersubjectivity and the Third, Il riconoscimento reciproco. L’intersoggettività e il Terzo, trad. it. di Nicola Carone, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019. ↩︎

  50. Ibidem, p. 162. ↩︎

  51. Ibidem, p. 163. ↩︎

  52. Ibidem, Introduzione all’edizione italiana di Vittorio Lingiardi e Nicola Carone, pp. VIII-IX. ↩︎

  53. È Benjamin stessa che usa il termine «mente», per indicare la soggettività relazionale. ↩︎

  54. Ibidem, pp. 8-9. ↩︎

  55. Ibidem, p. 101. ↩︎

  56. Cfr. J. Butler, La disfatta del genere, pp. 245-246, cit.Nonostante le puntualizzazioni critiche rivolte alla filosofia hegeliana nella quale si forma Judith Butler, si può rilevare, nella sua filosofia politica e morale, una continuità derivante dalle ascendenze hegeliane presenti nella concezione della soggettività e nell’elaborazione della teoria del riconoscimento. ↩︎

  57. Cfr. G. W. F. Hegel, Die Phänomenologie des Geistes, Fenomenologia dello Spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1960, vol. I, p. 153, [13]. ↩︎

  58. Cfr. A. Cavarero, Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 31. ↩︎

  59. Ibidem, pp. 27-31. ↩︎

  60. Cfr. H. Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 221 e Cavarero A., Tu che mi guardi, tu che mi racconti, p. 27, cit. ↩︎

  61. Ivi, pp. 27-28 e p. 31. ↩︎

  62. Cfr. G.W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, vol. I, pp. 143-152, [2], cit.Questo particolare aspetto del riconoscimento hegeliano è stato oggetto di critica da parte di J. Butler anche per un’altra ragione: il ritorno al sé diventa impossibile, poiché l’io è sempre altro rispetto a se stesso e non si dà alcun momento finale in cui possa tornare ad essere se stesso, poiché costantemente trasformato dagli incontri a cui è sottoposto. Per queste ragioni, Butler afferma che «il riconoscimento diviene allora il processo irreversibile attraverso cui divento continuamente altro da quello che ero, smettendo così di essere in grado di tornare ciò che ero». Cfr. Butler J., Critica della violenza etica, p. 41, cit. ↩︎

  63. Ibidem, p. 144. ↩︎

  64. Ibidem, p. 20. ↩︎

  65. Ibidem, pp. 81-92. ↩︎

  66. Cfr. J. Hyppolite, Genèse et structure de la “Phénomenologie de l’Esprit” de Hegel, Editions Montagne, Paris, 1946, Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, trad. it. di G.A. De Toni, Bompiani, Milano, 2005, pp. 16-21. ↩︎

  67. Ivi, p. 16. ↩︎

  68. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, pp. 143-152, cit. ↩︎

  69. Cfr. J. Butler, Critica della violenza etica, pp.39-40, cit. ↩︎

  70. Ibidem, pp. 40-41. ↩︎

  71. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, p. 144, [2], cit. ↩︎

  72. Ibidem, p.155, [20], cit. ↩︎

  73. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, p. 156, cit. ↩︎

  74. Cfr. J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, p. 212, cit. ↩︎

  75. Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, p. 157, cit. ↩︎

  76. Ibidem, p. 160. ↩︎

  77. Cfr. J. Hyppolite, Genesi e struttura della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, pp. 206-209, cit. ↩︎

  78. Ibidem, p. 208. ↩︎

  79. Roberta De Monticelli propone di intendere la conoscenza personale dell’altro, come una conoscenza sui generis, in cui l’individualità dell’altro si annuncia nel segno e nel modo di una trascendenza, di un’haecceitas, poiché l’altro è sempre portatore di una profondità nascosta. Riprendendo l’approccio fenomenologico husserliano, la studiosa fa notare che l’Altro si adombra alla nostra conoscenza e ciò che si rende subito visibile non è la totalità della sua individualità, del suo essere personale, perciò «l’individualità essenziale delle persone è il modo della loro trascendenza […] la maniera che esse hanno di non apparire come gli individui che sono, pur annunciandosi come tali».Cfr De Monticelli R., La conoscenza personale. Introduzione alla fenomenologia, Guerini, Milano, 1998, pp. 127-131.Nota anche Laura Boella che l’empatia ci consente di mettere al centro della nostra esperienza la scoperta dell’esistenza dell’altro nella sua ineliminabile alterità e differenza. Il «vedere» e il «sentire» gli altri, pur non essendo aspetti ricorrenti del nostro vivere in un contesto sociale, presuppongono un desiderio di condivisione delle emozioni, delle sperienze, dei sentimenti, molto forte e piuttosto diffuso nel nostro tempo. In questa direzione, appare interessante il saggio che Boella dedica allo studio e alla conoscenza del fenomeno «empatia» e soprattutto alla sua pratica, che non esula però dalle analisi della complessità e delle difficoltà operative nella sua attuazione concreta.Si confronti Boella L, Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2006. ↩︎

  80. Cfr. P. Riœur, Percorsi del riconoscimento, pp. 171-173. cit. ↩︎

  81. Ibidem, p. 173. ↩︎

  82. Ibidem, p. 249. ↩︎

  83. Ibidem, p. 248-253. ↩︎

  84. Ibidem, pp. 271-272. ↩︎

  85. Cfr. F. Brezzi, Oltre la differenza verso il riconoscimento, in Kurotschka V.G. Cacciatore G., a cura di, Saperi umani e consulenza filosofica, Meltemi, Roma, 2007, pp.199-209. ↩︎

  86. Cfr. J. Derrida, Pardonner l’impardonnable et l’imprescriptible, Editions de l’Herne, 2004, Perdonare. L’imperdonabile e l’imprescrittibile, trad. it. di L. Odello, Raffaello Cortina, Milano, 2004, p. 9. ↩︎

  87. Ibidem, p. 10. ↩︎

  88. Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung. Grammatik sozialer Konflikte, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1992, Lotta per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano, 2002. Ivi Honneth elabora un modello teorico del riconoscimento che si fonda su tre aspetti fondamentali e significativi per ogni teoria sociale, amore, diritto e solidarietà, individuando tre gradi, cui corrispondono tre momenti dell’identità personale: quello delle cosiddette relazioni primarie, quello delle relazioni giuridiche e quello della comunità etica. Si vedano pp. 114-156. ↩︎

  89. Ibidem, pp. 43-79 ↩︎

  90. Ibidem, p. 15 e p. 9. Il corsivo è mio. ↩︎

  91. Cfr. J. Butler, Critica della violenza etica, pp.43-44, cit. ↩︎

  92. Ibidem. ↩︎