Morale e cultura: l’insostenibilità etica del relativismo

1. Introduzione

Uno dei problemi più controversi attorno a cui gravita il dibattito contemporaneo in ambito filosofico, e soprattutto politico, è indubbiamente quello del relativismo. La concezione relativista, negli ultimi tempi, non ha mancato di essere oggetto non solo di numerosi fraintendimenti, ma anche di reazioni emotive fortemente contrastanti. L’inferenza che Dostoevskij aveva tratto dalla sentenza nietzschiana sulla morte di Dio, secondo la quale da allora in poi tutto sarebbe stato permesso, sembra essere ormai utilizzata per rivelare il potenziale nichilistico insito in ogni visione del mondo che fa appello alla relatività dei valori. Ciò giustifica il particolare clima di apprensione venutosi a creare attorno al termine e gli sforzi compiuti da vari intellettuali per difendere la verità dalla virulenza di ciò che è stato anche definito come «la più grande malattia filosofica del nostro tempo».1

La questione è in realtà antica2 — già Erodoto, infatti, nelle sue Storie sottolineava il fatto che culture differenti fossero portatrici di diversi codici morali; tuttavia ha acquistato un rilievo crescente nell’odierna società globalizzata, in cui la convivenza di varie culture comporta spesso l’insorgere di conflitti tra opinioni e stili di vita differenti, dando luogo a veri e propri dilemmi morali non risolvibili con l’appello a un unico principio. In questo scenario, il relativismo si trova più volte ad essere accostato a quella concezione del multiculturalismo di tipo forte che, facendosi promotrice di un riconoscimento indifferenziato nei confronti di tutte le culture intese come insiemi chiusi dotati di un eguale valore da preservare sempre e comunque, rischia di sfociare nella politica dell’anything goes, finendo col giustificare ogni tipo di pratica per il semplice fatto di essere conforme ai valori tradizionali della cultura di appartenenza.

Lo scopo del presente contributo è mostrare che una concezione etica del relativismo sia praticamente insostenibile e risulti incapace di offrire un’adeguata soluzione ai problemi posti dalle società multiculturali. A tale conclusione si perviene a partire da un’analisi critica dei classici argomenti addotti dai relativisti per sostenere la relatività dei valori — vale a dire l’argomento empirico della diversità culturale e quello della tolleranza — volta a dimostrare che gli esiti paradossali cui essi conducono derivano da un misconoscimento di fondo dei nessi reali che intercorrono tra individui e culture. La discussione intorno al caso delle mutilazioni genitali femminili consente di mettere in dubbio il divieto relativista di pronunciare giudizi morali trans-culturali e di aprire la questione se, al di là delle differenze culturali, non sia possibile condividere invece dei valori universali. Si sostiene in conclusione la tesi secondo cui, per far fronte alle sfide multiculturali, l’approccio etico più adeguato risulta essere quello pluralista, poiché riesce a tenere conto delle differenze culturali e del conflitto morale senza rinunciare però alla condivisione di una moralità minima.

2. Diverse culture, diverse morali

Sebbene esistano varie versioni del relativismo, esso può essere ricondotto a due classi principali: il relativismo epistemico e quello etico. Il primo afferma che le nostre conoscenze, i nostri schemi concettuali e i nostri giudizi non si basano su un unico criterio di verità o su un’unica struttura del reale, ma variano in base al contesto spaziale e temporale a seconda degli individui e delle società; il secondo sostiene, invece, che non esistono fini e valori universali validi in ogni tempo e in ogni luogo e che vi sono varie concezioni del bene, ognuna frutto di un determinato contesto storico-culturale. Si possono distinguere tre forme di relativismo morale: a) descrittiva (definita anche relativismo culturale), che si basa sull’evidenza empirica che membri di differenti culture e società conducono le loro vite in base a principi morali che non solo variano enormemente tra di loro, ma possono anche essere in reciproco conflitto; b) normativa, la quale afferma che il giusto e l’ingiusto variano a seconda delle norme etiche di differenti individui e società; c) meta-etica, che ritiene che nel campo della morale siano impossibili giudizi che presuppongano un’unica verità, per cui ciò che risulta vero per una persona può essere falso per un’altra senza che nessuna delle due sia in errore. I relativisti hanno per lo più rivendicato la coerenza della loro posizione incentrando tutta la forza delle loro argomentazioni sulla premessa di tipo empirico della diversità culturale, ponendola di fatto come solida base anche per sostenere la relatività della conoscenza e della verità, e facendo così logicamente derivare b) e c) da a) .3 Diventa allora importante, per una critica al relativismo che voglia risultare davvero incisiva, analizzare quale particolare tipo di connessione esso intrattiene con il concetto di cultura.

Da un punto di vista logico, seguendo la formulazione che di esso dà J. Rachels,4 l’argomento a difesa della relatività dei valori può essere riassunto nella seguente inferenza: «Culture differenti hanno codici morali diversi. Dunque, non può esserci alcuna verità oggettiva in ambito morale. Giusto ed ingiusto sono solo una questione di opinioni, e le opinioni variano da cultura a cultura».5 La falla dell’argomentazione risiede nel fatto che la conclusione non segue dalla premessa, perché mentre questa riguarda la diversità delle credenze, l’altra ha la pretesa di dirci l’oggettività dei fatti; significa, per esempio, constatare che gli Eschimesi praticano l’infanticidio, non ritenendolo moralmente riprovevole e che, invece, gli Americani ne sostengono l’immoralità. In realtà questa duplice constatazione non costituisce un argomento valido a comprovare che non vi sia alcuna verità oggettiva in etica, dal momento che potrebbe benissimo darsi che la pratica infanticida sia oggettivamente giusta (o ingiusta) e che una delle due parti sia in errore. Questo è il modo in cui anche K. Popper debellava l’argomento relativista, quando affermava che

Se le due parti si trovano in disaccordo, ciò può significare che l’una o l’altra o entrambe sono in errore: questa è la posizione di chi adotta un atteggiamento critico. Quel disaccordo non significa, come pretende il relativista, che entrambe possono avere parimenti ragione. Esse, senza dubbio, possono essere entrambe in errore, anche se non necessariamente. Ma chiunque afferma che essere parimenti in errore significa aver parimenti ragione non fa altro che un gioco di parole o un gioco di metafore.6

Ma per comprendere cosa significhi realmente sostenere che la morale è relativa alla cultura risultano particolarmente interessanti le considerazioni del filosofo J. W. Cook. Egli, criticando il modo in cui Elvin Hatch7 riduce la contesa tra relativisti e assolutisti ad una mera questione di estensione dell’applicabilità di un principio morale (che per i primi si applicherebbe solo ad alcune persone, e per i secondi a tutte) ,8 sottolinea come i relativisti non accetterebbero l’idea che, qualora esistesse un’unica cultura mondiale per cui uno stesso sistema di regole morali fosse applicato a tutte le persone viventi, la loro dottrina risulterebbe falsa. Al contrario, anche in un mondo culturalmente omogeneo, essi continuerebbero a sostenere la relatività dei valori, in quanto questi prescriverebbero la condotta di quell’unica cultura esistente, e d’altra parte sarebbe assurdo pensare che, se un domani si evolvesse una cultura distinta, questa sarebbe moralmente inferiore nel caso in cui non incorporasse quegli stessi principi fino ad allora universalmente accettati. Ecco perché l’autore conclude che sarebbe errato pensare «che il relativismo potrebbe essere effettivamente confutato qualora si scoprisse che alcuni principi morali sono «universali culturali», cioè, accettati in tutte le culture».9 Cook preferisce quindi concentrare l’attenzione sull’altro degli argomenti standard sostenuti dai relativisti per dimostrare i rischi congeniti ad ogni concezione universalista dei principi morali, vale a dire l’argomento della tolleranza.

L’opinione che il relativismo sia una «filosofia della tolleranza» è stata sostenuta da vari antropologi. In particolare, A. Kroeber afferma che il relativismo morale conduce alla tolleranza e ad una diminuzione dell’etnocentrismo.10 Sostenendo infatti che non esistono valori e principi morali assoluti, il relativismo ci impedisce di imporre agli altri il nostro punto di vista e di interferire nelle pratiche e negli stili di vita di culture diverse dalla nostra. Secondo Cook questa non è altro che l’«interpretazione moralistica del relativismo», ed è in essa che va ricercata la vera causa dei paradossi a cui esso va incontro, nonché il motivo per cui, come teoria descrittiva della morale, andrebbe rigettato. «Quando il relativismo morale è interpretato in senso moralistico, sembra essere esposto a una varietà di critiche»11 — sostiene l’autore. Infatti, di qui deriverebbe la nota critica dell’incoerenza logica, secondo la quale il relativismo dichiara che tutti i valori sono relativi, ma nello stesso tempo afferma che è ingiusto essere intolleranti verso i modi di vita estranei, propugnando quindi almeno un valore non relativo, ossia, quello della tolleranza. In realtà, il relativismo morale — questa la tesi dell’autore — ha senso se interpretato in maniera puramente meta-etica, e cioè come la teoria che ci dice il modo in cui devono essere formulati i nostri giudizi morali: non in maniera generale, come farebbero gli assolutisti, ma con una «clausola relativizzante» che specifichi la portata della loro applicazione:

Poiché nessuna azione può appropriatamente essere ritenuta (o essere definita) sbagliata in sé e per sé, cioè, sbagliata in maniera assoluta, un principio morale non può essere formulato in modo del tutto generale (ad esempio, «Cacciare le teste è sbagliato»); ma piuttosto, un principio morale è formulato correttamente solo quando una «clausola relativizzante» è unita ad esso, in modo tale da avere qualcosa di simile a «Per gli Americani cacciare le teste è sbagliato» o «Gli Americani sono moralmente obbligati ad agire così e così».12

L’etnocentrismo costituirebbe allora un errore intellettuale piuttosto che morale, un’assolutizzazione della forma dei nostri giudizi di valore più che un disprezzo verso stili di vita diversi da quelli del nostro gruppo di appartenenza, e sarebbe così svincolato da quella sorta di relazione biunivoca che lega la sua critica al valore della tolleranza. Per dimostrare l’inaccettabilità della pretesa relativista di valere come teoria descrittiva della morale bisogna inoltre tenere presenti le conseguenze paradossali che derivano dal divieto di dare giudizi morali trans-culturali, per il fatto che essi sarebbero sempre l’espressione della morale di una certo contesto storico-culturale. A tal fine, basta considerare l’esempio dell’episodio storico del Nazismo. In questo caso avrebbe ancora senso affermare che non è possibile esprimere un giudizio morale sulla società nazista per gli eccidi perpetrati a danno degli Ebrei, in quanto società diversa dalla nostra? E che dire della schiavitù? Il fatto che nell’antica Grecia fosse una pratica comunemente accettata ci impedirebbe di esprimere la nostra condanna basata sul diritto che ciascuno ha di godere liberamente del proprio corpo? O questa sarebbe una mera espressione del nostro etnocentrismo? Per I. Berlin il pericolo insito nel relativismo sarebbe quello di diventare una forma di determinismo che ci priverebbe del concetto di responsabilità individuale. Egli infatti osserva:

Io mi trovo in un’epoca particolare, vivo le condizioni spirituali, sociali ed economiche in cui sono gettato: come posso evitare di scegliere e agire come agisco e scelgo? I valori secondo i quali conduco la mia esistenza sono i valori della mia classe o razza o chiesa o civiltà, o sono comunque parte integrante del mio «stato», della mia posizione nella «struttura sociale». […] Rimproverare o lodare, considerare possibili corsi alternativi dell’azione, accusare o difendere i personaggi storici perché agiscono o hanno agito in un dato modo, diviene un’attività assurda. L’ammirazione o il disprezzo per questa o quella persona può sicuramente sopravvivere, ma diventa simile a un giudizio estetico.13

Ecco dunque che la proclamata tolleranza dei relativisti, affermando che tutti i modelli di vita hanno lo stesso valore, può infine portare all’indifferenza e all’arbitrarietà della morale, riducendola ad una pura questione di convenzione sociale, e ci priva così degli strumenti intellettuali per condannare anche gli atti più riprovevoli (genocidio, tortura, schiavitù, etc.), nella misura in cui essi vengono considerati espressione dell’insieme valoriale dei contesti culturali di appartenenza. Si tratta allora di chiedersi se il vero problema per cui il relativismo etico cade nelle suddette contraddizioni non risieda nel concetto specifico di cultura che fa da sfondo ad una tale concezione della tolleranza.

3. Culture e individui

La visione che il relativismo offre dei rapporti tra gli agenti morali individuali e i loro contesti sociali e culturali si basa su una concezione monolitica delle culture che non tiene conto della complessità di relazioni che si svolgono all’interno e all’esterno degli insiemi culturali. Per prima cosa, occorre infatti notare che gli individui, in genere, appartengono a più di un gruppo sociale e culturale e, come puntualizza M. Baghramian, anche in società dalle strutture sociali meno complesse, come le moderne nazioni occidentali, non vi è omogeneità, e, anche se concedessimo l’esistenza di una cultura o visione etica dominante all’interno di una società data, in tutte le società sono presenti sotto-culture o correnti in grado di sovvertire quella dominante.14 Diventa inoltre sempre più difficile abbracciare una visione della società e delle unità socio-culturali come totalità sistemiche chiuse e rigidamente definite, quando, invece, risulta molto più realistica la visione secondo cui le culture sarebbero entità dai confini estremamente labili e porosi. Su questo punto ha insistito in particolar modo Seyla Benhabib, che propone una visione «dialogica» delle culture criticando il cosiddetto «multiculturalismo a mosaico», tendente ad un’«elusiva conservazione delle culture»15:

Sempre più spesso, nel recente dibattito sul relativismo cognitivo e morale, la risposta si è incentrata su una visione olistica delle culture e delle società, considerate come totalità internamente coerenti e uniformi. Una concezione siffatta ci ha impedito di vedere la complessità del dialogo e dell’incontro globale tra civiltà — in cui consiste sempre di più il nostro destino — e ha incoraggiato opposizioni binarie come quella tra «noi» e l’»altro».16

Per la filosofa bisognerebbe invece riconoscere l’«ibridismo radicale» e la «plurivocità di tutte le culture, le quali, al pari delle società, non sono sistemi di azione e significazione olistici, bensì plurivoci, pluristratificati, decentrati e frazionati».17 Ma non solo questo. Anche il rapporto tra la visione etica dell’agente morale e le norme sociali sarebbe più complesso di quello implicato dalla concezione deterministica che il relativista ha dell’inculturazione morale, ossia del processo attraverso il quale l’individuo apprende i valori del gruppo culturale cui appartiene. Stando a questa, infatti, diventerebbe praticamente inconcepibile il fenomeno per cui individui o gruppi si oppongono alle norme morali e culturali prevalenti: non tutte le donne indù partecipano al rituale del suttee, che prevede il sacrificio delle vedove sulle pire o sulle tombe dei mariti in segno di devozione, e vari sono i casi di donne che hanno rifiutato di essere sottoposte alla pratica dell’infibulazione, come dimostra l’esempio di Fauziya Kassindja.18 In questo modo, come rileva J. Rachels, il relativismo culturale non solo ci vieterebbe di criticare i codici morali delle altre società, ma anche i nostri, poiché, dopotutto, se giusto e ingiusto sono relativi alla cultura, questo deve valere per la nostra cultura non meno che per le altre.19 Appare allora chiaro che la stessa idea di progresso morale viene posta così in questione. Se l’idea di progresso implica che uno stato attuale di cose sia sostituito da uno migliore, con quale standard giudichiamo ciò che è meglio? Potremmo dire che la nostra società attuale abbia fatto progressi rispetto a quella medievale o che la condizione delle donne in Occidente sia mutata in meglio rispetto al passato? Se non siamo disposti ad accettare questi paradossi, dobbiamo dunque procedere ad un ripensamento della tesi relativista e chiederci se è poi vero che le culture sono così differenti e se non è possibile, invece, la condivisione di alcuni valori primari universali.

4. Il caso delle mutilazioni genitali femminili: relativismo o universalismo?

In molti paesi dell’Africa e del sud dell’Arabia, molte ragazze sono sottoposte alla pratica rituale che vede l’escissione dei loro organi genitali esterni.20 In particolare, si distinguono tre forme diverse di mutilazione. Il primo tipo prevede la rimozione o il puntellamento del prepuzio e, diversamente dagli altri tipi, non sembra precludere l’orgasmo sessuale. Tuttavia, se viene praticato su bambine, è molto probabile che vengano danneggiati altri tessuti per via delle dimensioni limitate dei genitali e di quelle degli strumenti adottati, spesso pinze, rasoi, coltelli e forbici, frammenti di vetro. Il secondo tipo, di media entità, consiste nella rimozione di gran parte del clitoride e delle labbra minori; mentre il terzo, comunemente chiamato infibulazione, vede l’asportazione completa del clitoride, delle labbra minori e di parte delle maggiori. La maggior parte di questi interventi viene eseguita senza anestesia o antibiotici, in pessime condizioni igieniche, ed è causa di molte conseguenze spiacevoli quali infezioni, cisti, cicatrici che rendono difficile e dolorosa la penetrazione, apportano problemi nel tratto urinario, shock, infertilità e, in alcuni casi, anche mortalità. Le ragioni addotte a sostegno della «circoncisione femminile» variano dai motivi religiosi in base ai quali la pratica sarebbe richiesta dal Corano, a quelli tribali per cui servirebbe a rinsaldare l’identità di gruppo; ma ci sono anche concezioni che ritengono che essa aiuti a preservare la verginità della donna e l’onore familiare, nonché ad aumentare il piacere sessuale dell’uomo. Tutte però sembrano rivelare che alla base vige una profonda ignoranza circa la riproduzione e la sessualità femminili, ma anche in merito agli effetti nocivi che le mutilazioni possono provocare sulla salute della donna (spesso frutto del pregiudizio di inferiorità che grava sul sesso femminile).

A questo punto sorge la questione, se cioè, in questo caso, i giudizi morali di una cultura su ciò che è giusto e ciò che non lo è possano avere una qualche rilevanza all’interno di un’altra. Per il relativismo etico, come notato in precedenza, non vi è alcuna base razionale per stabilire che un set di valori morali culturalmente stabiliti sia giusto e un altro sbagliato. L’azione giusta è quella condotta in base alle norme della società o cultura in cui l’individuo è radicato. In base a questo punto di vista, allora, l’approvazione culturale della mutilazione dei genitali sta a significare che la pratica è giusta; la disapprovazione è sbagliata. La tesi, assai condivisibile, sostenuta da Kopelman è tuttavia che le discussioni interculturali e intraculturali, le critiche e la condanna della mutilazione, così come il sostegno agli attivisti per cercare di porre fine alla pratica, può avere autorità morale21 per le seguenti argomentazioni. In primo luogo, affermare che qualcosa è approvato non è un argomento per la sua giustezza, poiché qualcosa può essere sbagliata anche se è approvata dalla maggior parte delle persone di una cultura. I giudizi morali non descrivono ciò che è approvato, ma prescrivono ciò che deve essere approvato; e inoltre, essi devono poter essere difendibili sulla base di ragioni aperte al vaglio critico di tutti. In secondo luogo, il fatto che la morale di una cultura e le visioni religiose siano spesso intrecciate a credenze aperte ad una valutazione empirica e razionale può costituire la base per un esame transculturale. Coloro che sono favorevoli alla circoncisione femminile devono addurre delle ragioni, e possono farlo sostenendo, ad esempio, che essa giova alla salute della donna. È evidente che, in questo caso, le ragioni possono essere sottoposte ad una critica che oltrepassi i confini della propria cultura, poiché sono disponibili dati oggettivi in grado di stabilire se effettivamente la pratica giovi o danneggi la donna.

A seguito di queste considerazioni si può sostenere allora che, nonostante il disaccordo, tutti condividiamo dei fini comuni come il desiderio di promuovere la salute delle persone, la felicità, la cooperazione, e il buon senso di porre fine alle guerre, all’oppressione e alla tortura. Sono questi che ci rendono una comunità mondiale e che ci offrono gli strumenti con cui giudicare e valutare se certe pratiche promuovano o impediscano la realizzazione di tali fini. Nel caso delle mutilazioni dei genitali femminili possiamo quindi affermare la non liceità morale di tali pratiche, in quanto causano danni fisici e spesso anche la morte di coloro che ne sono soggette. Insistere nel sottolineare le differenze, come fanno certe politiche multiculturali, non dovrebbe farci perdere di vista il fatto che condividiamo molti fini e valori, e che questi sono simili abbastanza da permetterci di valutare le nostre visioni del mondo sulla base di una comune umanità. L’importanza di questo riconoscimento è stata sottolineata anche da M. Nussbaum attraverso la ripresa del concetto aristotelico di virtù. Scrive infatti l’autrice:

Poiché è evidente che egli [Aristotele] non fu solo il sostenitore di una teoria etica basata sulle virtù, ma anche il sostenitore di un resoconto unitario oggettivo del benessere dell’umanità, o della fioritura umana. Questo resoconto è considerato oggettivo nel senso che esso è giustificabile attraverso il riferimento a ragioni che non derivano meramente dalle tradizioni e pratiche locali, ma piuttosto da caratteristiche di umanità che stanno dietro a tutte le tradizioni locali e che bisogna stare a vedere se siano o no effettivamente riconosciute all’interno delle tradizioni locali. E una delle più evidenti preoccupazioni di Aristotele era la critica delle tradizioni morali esistenti, nella sua città e nelle altre, come ingiuste o repressive, o in altro modo incompatibili con la fioritura umana.22

Sulla scia della lista aristotelica, Nussbaum elenca certe caratteristiche della nostra comune umanità: la mortalità, il corpo, i sentimenti di piacere e dolore, le abilità cognitive, la ragione pratica, lo sviluppo della prima età infantile e l’associazione. Queste caratteristiche avrebbero il merito, come già in Aristotele, di conservare una certa oggettività, dato che sono presenti in tutte le culture, e, nello stesso tempo, di essere flessibili, in quanto, tenendo conto dei modi particolari in cui vengono declinate nei vari contesti locali, restano aperte alla revisione. Quando sediamo ad un tavolo con gente proveniente da varie parti del mondo e dibattiamo su temi che concernono la fame, una distribuzione equa, o in generale la qualità della vita — afferma l’autrice — siamo posti di fronte al fatto che, a dispetto delle differenze concettuali, è possibile procedere come se tutti stessimo parlando dello stesso problema umano. La forma particolare di universalismo difesa da Nussbaum ha certo il pregio di focalizzare l’attenzione su quei tratti comuni che caratterizzano l’esperienza umana al di là delle differenze culturali, ma ci si chiede se essa è poi davvero in grado di far fronte alle situazioni di conflitto morale che caratterizzano le moderne società multiculturali in cui spesso si assiste allo scontro tra fini e valori incompatibili e incommensurabili.

5. Tertium datur? Conflitto morale e pluralismo

La soluzione più ragionevole per dirimere le questioni poste in evidenza, che tenga conto della non omogeneità delle odierne società, sembra essere quella di trovare una via di mezzo tra un relativismo che, nella sua variante estrema, insistendo sulle differenze culturali, finisce paradossalmente per negarle sul piano morale, asserendo l’equivalenza valoriale delle diverse scelte morali; e un universalismo che, anche se riconosce il conflitto tra valori, lo rende meramente apparente dichiarando che vi è sempre un’unica risposta risolutiva ad esso. L’approccio pluralista può costituire la strada per superare l’impasse tra due opposte ed apparentemente inconciliabili visioni della morale. Il più importante fautore di questo approccio è I. Berlin; rimangono essenziali le sue considerazioni sull’esistenza di una pluralità di valori irriducibile per principio ad un unico valore prevalente:

Ma ugualmente mi sembra che credere che, in linea di principio, sia possibile trovare un’unica formula grazie a cui si possano realizzare in piena armonia tutti i fini degli uomini, per quanto diversi, sia credere a qualcosa di dimostrabilmente falso. Io ritengo che i fini degli uomini siano molteplici e che non tutti siano in linea di principio compatibili l’uno con l’altro; e se questo è vero, allora non si potrà mai eliminare del tutto la possibilità del conflitto — e della tragedia — della vita umana, sia personale sia sociale. La necessità di scegliere tra esigenze assolute è dunque un’ineluttabile caratteristica della condizione umana, e questo conferisce valore alla libertà come la concepiva Acton — un fine in sé e non un bisogno provvisorio.23

Berlin mostra che nell’esperienza ordinaria spesso ci troviamo di fronte a scelte tra fini ugualmente ultimi e concezioni del bene non per forza compatibili tra loro, tanto che la realizzazione di alcuni comporta l’inevitabile sacrificio di altri: in ciò risiede la tragicità dell’esistenza umana. Il pluralismo sarebbe quindi «più umano» poiché permetterebbe di salvaguardare la libertà (ovviamente quella negativa, poiché secondo Berlin la libertà, esercitandosi all’interno di un ordine statale, non potrebbe mai essere illimitata) che né si può ridurre a una scelta tra indifferenti, per non finire come l’asino di Buridano, né ad un mero calcolo in base a cui misurare, su una scala di valori, quello prevalente. Sulla necessità di assumere il conflitto morale come base di un pluralismo etico che consideri la pluralità delle opzioni morali, non solo come dato di fatto ma anche come valore, ha incentrato l’attenzione J. Kekes in The Morality of Pluralism.24 Secondo Kekes, il pluralismo si differenzia dal monismo per il diverso modo di intendere la pluralità dei valori e la soluzione del conflitto morale. Per i pluralisti, la pluralità valoriale implica la condizionalità dei valori, mentre i monisti affermano l’esistenza di valori prevalenti, che hanno la caratteristica di avere sempre la precedenza in caso di conflitto con altri valori, e quella di poter venir violati in base all’unica giustificazione che, violandoli, in realtà li si rende veri; il conflitto viene così spiegato come un semplice difetto conoscitivo che ci impedirebbe di riconoscere la prevalenza di un qualche valore. I pluralisti, invece, negano l’esistenza di valori prevalenti, ma riconoscono che alcuni valori sono più importanti di altri, relativamente al contesto e non in modo aprioristico. Essi infatti distinguono tra valori primari, che si riferiscono a benefici e danni universalmente riconosciuti da ogni essere umano in circostanze normali, e valori secondari che variano a seconda delle persone, delle società, delle tradizioni e delle epoche. Il motivo profondo per cui negano che esista un valore prevalente in grado di risolvere i conflitti è la presa d’atto che, questi, sono spesso causati dall’incompatibilità e incommensurabilità dei valori, anche di quelli primari. Con la prima si intende la caratteristica di escludersi a vicenda, propria dei valori in conflitto; la seconda indica la non comparabilità dei valori: non esiste un metro in base a cui quantificarli e compararli.

L’incommensurabilità e l’incompatibilità dei valori non sono tuttavia, per Kekes, un impedimento per la nostra condotta di vita, ma rendono anzi possibile «l’estensione della nostra libertà».25 Esse costituiscono infatti la condizione di possibilità della pluralità dei valori, espressione dei modi diversi in cui è possibile condurre una vita buona. Ed è proprio questo aumento delle possibilità di vita ad essere essenziale per l’estensione della nostra libertà di scelta. In questo modo, anche il conflitto acquista un suo proprio valore, in quanto sottoprodotto dell’inconciliabilità valoriale, garante a sua volta della pluralità. Scrive infatti Kekes:

La pluralità delle concezioni di una vita buona, comunque, è resa possibile dall’incommensurabilità e incompatibilità delle possibilità valoriali. Se le vite buone non incarnassero tali valori, non sarebbero genuinamente plurali in natura. L’incommensurabilità e incompatibilità dei valori, pertanto, non è un ostacolo alla conduzione delle vite buone ma piuttosto quella loro caratteristica dinamica che ci spinge a condurre i nostri esperimenti di vita. Così, per tornare ai conflitti, essi sono il sottoprodotto necessario dell’incommensurabilità e incompatibilità delle possibilità valoriali. […] La pluralità delle vite buone non sarebbe possibile se non accadessero tali conflitti.26

Questa concezione della pluralità come valore è ciò che D. Marconi ha definito «pluralismo dei Cento Fiori».27 In genere ad essa viene contrapposto il seguente dilemma: «o la scelta si esercita in un ambito in cui non vi è oggettività — nessuna alternativa è intrinsecamente preferibile — e allora la scelta è indifferente, e che vi sia libertà di scelta è altrettanto indifferente; oppure la scelta si esercita in un’area in cui c’è oggettività e quindi possibilità d’errore, e allora la possibilità di scelta accresce la possibilità dell’errore».28 Come sottolinea Marconi, il dilemma antipluralista non sembra però convincente, perché, per prima cosa, anche se le diverse alternative tra cui si sceglie sono equivalenti da un punto di vista oggettivo, si può comunque vedere un valore nell’esercizio di una preferenza, anche se motivata soggettivamente; e, in secondo luogo, il confronto tra alternative potrebbe anche tendere a far prevalere l’alternativa migliore o a rendere migliori le alternative, come avviene ad esempio tra teorie in competizione nel dibattito scientifico.

Tuttavia, resta un altro problema a mettere in seria difficoltà il pluralismo: se esso vede un valore nella possibilità di scegliere la condotta di vita che più si preferisce, che dire allora del fatto che le preferenze possono essere talvolta deplorevoli e produrre scelte esecrabili? «In fin dei conti, — dice Marconi — anche il pedofilo e il serial killer agiscono in base alle loro preferenze, e in questi casi faremmo fatica a vedere un valore nel fatto che costoro siano liberi di scegliere in base ad esse».29 O, ancora, come si comporta il pluralista di fronte al già discusso caso dell’infibulazione femminile in cui da una parte si ritiene che tale pratica debba essere proibita poiché viola l’integrità fisica della persona, e dall’altra che essa sia pur sempre l’espressione delle tradizioni di una data cultura, e quindi dotata di un valore identitario da preservare? In casi come questi, dove in gioco non sono individui ma culture minoritarie, il pluralismo dei Cento Fiori tenderebbe a trasformarsi nel pluralismo dell’equivalenza, stabilendo che non solo le varie alternative sono apprezzabili, ma che sono anche equivalenti. Ritiene infatti Marconi che

Il pluralista dei Cento Fiori ha di solito più difficoltà ad accettare la repressione di culture minoritarie, o di comportamenti riconducibili a identità culturali minoritarie, di quanta non ne abbia ad accettare la repressione di comportamenti individuali incompatibili con altri valori.30

Ma, in questo modo, il pluralismo non finirebbe per coincidere con il relativismo? E in che cosa quello si distinguerebbe più da questo? Proprio nel tentativo di scongiurare tale pericolo, Kekes afferma che la differenza tra relativisti e pluralisti risiede nella diversa risposta alla domanda se giudizi di importanza relativi a valori possano essere giustificati su un terreno indipendente dal contesto. A questo scopo, egli introduce la distinzione tra deep conventions, volte a proteggere i requisiti minimi delle vite buone in generale, comunque queste siano concepite, e variable conventions che ugualmente proteggerebbero i requisiti minimi delle vite buone, ma intendendo questi requisiti come variabili in base alle diverse tradizioni e concezioni della vita buona. I pluralisti affermano poi che i valori protetti da deep conventions hanno una giustificazione indipendente dal contesto, mentre quelli protetti da variable conventions possono legittimamente essere apprezzati in alcuni contesti e non in altri. Ecco quindi che la distanza dal relativismo risiede nella considerazione che le deep conventions proteggono i valori primari (bisogno di cibo, rifiuto della tortura, necessità del rispetto, condanna dello sfruttamento, ecc…), ossia quegli aspetti della natura umana comuni a tutti i membri della nostra specie, che fanno sì che esista una ragione indipendente dal contesto per considerare i valori primari come aventi importanza in tutte le tradizioni: la loro protezione è un requisito minimo in tutte le vite buone, indipendentemente da come tali vite siano concepite dagli individui o dalle tradizioni. I pluralisti possono allora ragionevolmente sostenere che tutti gli individui e le tradizioni dovrebbero osservare le deep conventions che pongono limiti agli ostacoli che impediscono la realizzazione dei valori primari. Per quanto riguarda invece i valori secondari, questi altro non sarebbero che i differenti modi di realizzare quei bisogni primari comuni a tutti gli esseri umani: è per questo che un osservatore che guarda dall’esterno una tradizione può riconoscere che, sebbene i valori secondari possano sembrare estranei, e a volte suscitare sentimenti di disprezzo, essi nondimeno sono solo modi differenti di provare a soddisfare i bisogni basilari della specie umana.

Il pluralismo di Kekes riconosce dunque la differenza tra concezioni morali e il frequente conflitto tra valori, ma mira anche a trovare un punto d’accordo per risolvere in maniera razionale i conflitti, in modo da garantire pur sempre l’ordine e la pace all’interno delle organizzazioni politiche statali. Sul riconoscimento di un limite all’incommensurabilità valoriale ha insistito in particolar modo anche I. Berlin nel constatare che

nella misura in cui pretendiamo di capire i criteri degli altri — che appartengono alla nostra stessa società o a terre ed epoche remote — e di afferrare quello che ci dicono persone di molte tradizioni diverse e con molti diversi atteggiamenti, di capire perché queste persone pensano in un dato modo e dicono quello che dicono, allora — sempre che le loro affermazioni non siano false fino all’assurdo — il relativismo e il soggettivismo di altre civiltà non ci impediranno di condividere presupposti comuni, sufficienti a comunicare fino a un certo punto con loro, e (sempre fino a un certo punto) a capirle ed esserne capiti. È questo terreno comune a essere giustamente definito oggettivo: ciò che ci permette di riconoscere altri uomini come essere umani e altre civiltà come civili.31

Queste riflessioni di Berlin non sembrano essere poi molto lontane dal tipo di universalismo dialogico sostenuto da Benhabib, che insiste nel rilevare che «c’è un pericolo tanto concettuale quanto morale nell’insistere con troppa disinvoltura e avventatezza sull’incommensurabilità totale»,32 dato che questa ci condurrebbe soltanto ad una condizione di afasia e, conseguentemente, alla paralisi dell’azione politica. In realtà bisogna prendere atto che nelle odierne società multiculturali, in cui ormai viviamo come contemporanei morali immessi in una sempre più stretta rete d’interdipendenze, il modo più ragionevole di accostarsi all’altro (individuo, cultura, etnia che sia) non può che essere quello d’intraprendere un dialogo basato sui principi universali del reciproco rispetto, dell’eguaglianza e della libertà di coloro che ad esso partecipano. Il problema sta allora nel modo di concepire quest’universalità, riconosciuta in modo simile sia dagli universalisti che dai pluralisti. È evidente che essa non può certo trovarsi al di là delle differenze, come l’universale platonico, ma piuttosto deve essere ad esse sotteso, per non cadere né nel pericolo assolutista, generatore di intolleranza, e né in quello trascendentalista che ci renderebbe ciechi alla diversità.

In conclusione, si può affermare che l’approccio pluralista (si tratti di un universalismo pluralisticamente ispirato o di un pluralismo universalmente ispirato) sembra il più adeguato a rispondere alle sfide della contemporaneità, poiché consente di preservare l’atteggiamento di tolleranza e apertura mentale che i relativisti hanno sempre rivendicato per sé, senza farlo degenerare in un lassez-faire che ci porrebbe nella situazione di essere incapaci di condannare anche i peggiori crimini politici e sociali; ed è in grado di fare ciò, nella misura in cui si richiama all’ampio ideale del benessere e della fioritura del genere umano, concetto questo, che, se è vero che per la sua complessità non potrebbe mai essere interamente specificato in positivo, ci offre tuttavia dei parametri certi in relazione a ciò che sicuramente non potrebbe condurre ad una tale piena fioritura dell’umanità, e cioè omicidio, tortura, maltrattamento fisico e psicologico, privazione della libertà, sfruttamento, etc., che, pertanto, devono essere condannati ovunque essi abbiano luogo, nella consapevolezza che solo il riconoscimento di una moralità minima può costituire il giusto punto di partenza per ogni autentico incontro dialogico.


  1. K. Popper, Facts, Standard, and Truth: A Further Criticism of Relativism, in The Open Society and Its Enemies, Princeton University Press 1971, vol. 2, pp. 369-393; trad. it. Fatti, standard e verità. Un’ulteriore critica del relativismo, in La società aperta e i suoi nemici, a cura di D. Antiseri, Bompiani, Milano 2009, p. 812. ↩︎

  2. Per una ricostruzione storica del concetto di relativismo cfr. M. Baghramian in Relativism, Routledge, London 2004, pp. 19-117. ↩︎

  3. Cfr. R. Brandt, Ethical Relativism, in P. K. Moser, Th. L. Carson (a cura di), Moral Relativism: A Reader, Oxford University Press, Oxford 2001, pp. 25-30. ↩︎

  4. Cfr. J. Rachels, The Challenge of Cultural Relativism, in P. K. Moser, Th. L. Carson, op. cit. alla nt. 3, pp. 53-65. ↩︎

  5. Ivi, p. 56. ↩︎

  6. K. Popper, Fatti, standard e verità. Un’ulteriore critica del relativismo, in La società aperta e i suoi nemici, cit. alla nt. 1, p. 831. ↩︎

  7. Elvin Hatch è professore di Antropologia all’Università di California. Si è occupato della questione della relatività culturale in Culture and Morality: The Relativity of Values in Anthropology (1983). ↩︎

  8. Cfr. J. W. Cook, Morality and Cultural Differences, Oxford University Press, Oxford 1999, pp. 15-16. ↩︎

  9. Ivi, p. 17: «that relativism could be effectively challenged if it were discovered that some moral principles are «cultural universals», that is, accepted in all cultures». ↩︎

  10. Cfr. A. Kroeber, Anthropology, New York, Harcourt Brace 1948, p. 266. ↩︎

  11. J. W. Cook, Morality and Cultural Differences, cit. alla nt. 8, p. 25: «When moral relativism is interpreted moralistically, it appears to be vulnerable to a variety of criticism». ↩︎

  12. Ivi, p. 14: «Because no action can rightly be thought of as (or said to be) wrong in and of itself, that is, absolutely wrong, a moral principle cannot be properly formulated in an entirely general way (e.g., “Head-hunting is wrong”); rather, a moral principle is properly formulated only when a “relativizing clause” is attached to it, so that you would have something like “For Americans headhunting is wrong” or “Americans are morally obligated to do such and such”». ↩︎

  13. I. Berlin, L’inevitabilità storica, in Libertà, Feltrinelli, Milano 2005, p. 118. ↩︎

  14. Cfr. M. Baghramian, Relativism, cit. alla nt. 2, p. 279. ↩︎

  15. S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale, il Mulino, Bologna 2005, p. 27. ↩︎

  16. Ivi, p. 48. ↩︎

  17. Ibidem↩︎

  18. Fauziya Kassindja è una donna che nel 1994, all’età di 17 anni, giunse all’aeroporto di Newark, negli Stati Uniti, chiedendo asilo politico; era fuggita dal suo villaggio natio del Togo per sottrarsi dalla mutilazione dei genitali che i suoi parenti volevano imporgli. Il suo caso ha avuto una certa risonanza per via delle innumerevoli difficoltà che ha dovuto affrontare a causa del sistema d’immigrazione statunitense. ↩︎

  19. Cfr. J. Rachels, The Challenge of Cultural Relativism, cit. alla nt. 3, p. 58. ↩︎

  20. Per la trattazione della questione faccio riferimento al saggio di L. M. Kopelman, Female Circumcision/Genital Mutilation and Ethical Relativism, in P. K. Moser, Th. L. Carson, cit. alla nt. 3, pp. 307-325. ↩︎

  21. Cfr. Ivi, p. 309. ↩︎

  22. M. Nussbaum, Non-Relative Virtues, in P. K. Moser, Th. L. Carson, cit. alla nt. 3, p. 200: «For it is obvious that he [Aristotle] was not only the defender of an ethical theory based on the virtues, but also the defender of a single objective account of the human good, or human flourishing. This account is supposed to be objective in the sense that it is justifiable by reference to reasons that do not derive merely from local traditions and practices, but rather from features of humanness that lie beneath all local traditions and are there to be seen whether or not they are in fact recognized in local traditions. And one of Aristotle’ s most obvious concerns was the criticism of existing moral traditions, in his own city and in the others, as unjust or repressive, or in the other ways incompatible with human flourishing». ↩︎

  23. I. Berlin, Due concetti di libertà, in Libertà, cit. alla nt. 16, p. 219. ↩︎

  24. J. Kekes, The Morality of Pluralism, Princeton University Press, Princeton 1993, pp. 17-37. ↩︎

  25. Ivi, p. 28. ↩︎

  26. Ivi, p. 30: «The plurality of conceptions of a good life, however, is made possible by the incommensurability and incompatibility of valued possibilities. If good lives did not embody such values, they would not be genuinely plural in nature. The incommensurability and incompatibility of values therefore is not an obstacle to good lives but rather that dynamic feature of them which propels us toward conducting our own experiment in living. And so, to return to conflicts, conflicts are the necessary by-products of the incommensurability and incompatibility of valued possibilities. […] The plurality of good lives would not be possible unless such conflicts occurred». ↩︎

  27. Cfr. D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino 2007, p. 91. ↩︎

  28. Ivi, p. 92. Il fatto che l’aumento della possibilità di scelta porti con sé anche l’aumento della possibilità d’errore sembra essere stato appurato anche in ambito cognitivo: J. Leher nota infatti che con il crescere delle alternative verrebbe meno anche la nostra capacità di valutarle in maniera efficiente, poiché il cervello cosciente riesce a gestire solo un numero limitato di informazioni (J. Lehrer, Come decidiamo, Codice, Torino 2009). ↩︎

  29. Ivi, pp. 94-95. ↩︎

  30. Ivi, p. 96. ↩︎

  31. I. Berlin, L’inevitabilità storica, in Libertà, cit. alla nt. 16, p. 155 (corsivo mio). ↩︎

  32. S. Benhabib, La rivendicazione dell’identità culturale, cit. alla nt. 15, p. 55. ↩︎