1. Consulenza filosofica: risolvere o comprendere?
Inizialmente, soprattutto agli occhi dello studente di filosofia, uno degli aspetti che più spicca della Consulenza filosofica è la sua valenza professionale; del resto, non è certo un caso se la stessa nascita della disciplina viene fatta coincidere con l’apertura del primo studio nel 1981 in Germania, ad opera di Gerd B. Achenbach. Tuttavia, affermare che la Consulenza filosofica è una nuova professione è vero solo in parte: se, infatti, partiamo dal presupposto che nel mondo attuale le professioni si basano essenzialmente sulla fornitura di servizi e beni o, comunque, sulla soddisfazione di una domanda proveniente da dei clienti, allora dobbiamo aggiungere che la Consulenza filosofica è una professione alquanto atipica e paradossale.
Con il tempo, approfondendo lo studio di questa pratica mi sono resa conto come, in fondo, tale paradossalità possa essere ricondotta alla concezione di filosofia di cui la Consulenza filosofica intende essere portatrice. Nonostante le diverse visioni e i diversi approcci presenti tra i consulenti filosofici, tutti sembrano infatti essere accomunati da una visione essenzialmente socratica che concepisce la filosofia come una ricerca continua e senza fine sui problemi umani e il cui luogo preferenziale è costituito dal dialogo intersoggettivo.
Proprio come Socrate, il consulente filosofico ritiene che la condizione preliminare da cui può prendere avvio la ricerca filosofica consiste nella coscienza della propria ignoranza; per questo, il filosofo non può né insegnare, né consigliare ma può solo stimolare il suo partner dialogico ad esaminare la sua vita ed i suoi problemi da un diverso punto di vista. Il fine del dialogo filosofico non è la risoluzione di un problema specifico quanto piuttosto la comprensione dello stesso in una luce più ampia.
Ma, se ora prendiamo per buona l’affermazione di Achenbach per cui «la Consulenza filosofica è un libero dialogo» in cui «si mette il pensiero in movimento» e si «filosofa»,1 non ci si può esimere dal chiedersi se tutto ciò, al giorno d’oggi, possa davvero diventare un lavoro retribuito o comunque, se lo possa diventare senza degenerare in una forma di pratica consolatoria e quindi senza tradire le sue intenzioni di partenza. Lo stesso Achenbach se lo chiede, e, in riferimento ad una definizione di “professione” fornita dalla studiosa Margherita von Brentano,2 perviene ad una risposta negativa.
Eppure, per quanto, ed è bene ricordarlo, pochissimi consulenti al mondo vivano solo e unicamente di essa, la Consulenza filosofica è diventata un lavoro retribuito. Che cosa significa dunque? Forse che è aumentata la richiesta di filosofia? O forse, che tale professione ha dovuto rinunciare ad essere filosofica tout-court per rendersi più appetibile e vendibile presso il largo pubblico vestendo i panni della più consueta «professione di cura»?
Probabilmente, come rileva Ran Lahav, uno dei teorici internazionali, a mio giudizio, più significativi e interessanti di questo ambito, molti consulenti filosofici hanno optato per questa versione della Consulenza filosofica, ossia per una visione orientata verso la risoluzione del problema (Problem-Solving Vision), finendo per tralasciare l’elemento, più genuinamente filosofico, della ricerca della saggezza (Wisdom-oriented vision) .3
È comunque un fatto che la Consulenza davvero “filosofica” è una professione esistente: non è però verosimile affermare che essa deve la sua esistenza concreta ad una vera e propria richiesta o “domanda di filosofia”. Come testimoniano tutti i più noti consulenti filosofici, la maggior parte delle persone che richiede una consulenza, lo fa per risolvere dei problemi molto pratici e non tanto con l’intenzione di “filosofare”.
Ma, come abbiamo visto poco sopra, se il dialogo che si attua nella Consulenza filosofica non ha di mira la risoluzione di problemi pratici ma la loro chiarificazione e comprensione, allora il consulente filosofico non può dare una risposta o risolvere il problema del suo consultante perché quello non è il suo compito. Se “serio”, il consulente spiegherà dettagliatamente, fin da subito, quali sono i presupposti della sua pratica, di modo che egli possa decidere se indirizzare la sua ricerca di aiuto verso un altro canale o se proseguire comunque le sedute di Consulenza filosofica.
La questione, ora, è questa: cosa può spingere una persona, inizialmente interessata a risolvere il suo problema, a intraprendere un percorso di Consulenza filosofica? Il consulente filosofico italiano Neri Pollastri, con l’avallo della sua pluriennale esperienza professionale nel campo, prova a rispondere nel modo seguente: «Secondo la tradizionale caratterizzazione di una professione, essa (la Consulenza filosofica, ndr.) non potrebbe dunque esistere. Nè di diritto, il professionista millanterebbe un credito che non ha, né di fatto, dopo un primo incontro chiarificatore il consultante non tornerebbe più. Ma così non è, perché la ricerca e la riflessione che sorgono attraverso il dialogo modificano il senso del problema e, con esso, quello della domanda. Questo è infatti ciò che fa la filosofia: di fronte a domande senza risposta, tali sono i famosi e tradizionali “problemi filosofici”, s’interroga sul senso della domanda, lo comprende, lo amplia, lo modifica».4
È in questo modo che, già dalla fine della prima seduta, al consultante dovrebbe essere chiaro in quale direzione la Consulenza filosofica intenda lavorare: verso la comprensione del senso del problema e non verso la sua risoluzione. Solitamente, il consultante decide di ritornare proprio perché, già dal primo incontro, ha incominciato a «toccare con mano il potere del pensiero filosofico». Ecco dunque perché, oggi più che mai, la Consulenza filosofica non può essere altro che una professione paradossale: essa «può esistere solo negando ciò che viene richiesto, facendo qualcos’altro dal dare risposta».5 Devo aggiungere che, durante la mia ricerca, ho potuto appurare come il mondo della Consulenza filosofica sia fondamentalmente un mondo vasto ed eterogeneo e non riducibile al solo aspetto professionale.
In effetti, il consulente filosofico sivigliano José Barrientos Rastrojo, sulla scorta di alcune riflessioni di Ran Lahav, preferisce parlare di due forme di Consulenza filosofica: come professione di aiuto in cui si lavora sull’analisi del contenuto del pensiero, e come cammino di vita, in cui si lavora sull’«approfondimento della filosofia» con il fine di raggiungere, da una parte una maggior consapevolezza della realtà e, dall’altra, un aumento della propria armonia interiore e un miglioramento delle proprie condizioni di vita.6
Molti sono gli elementi e i nodi problematici che hanno caratterizzato la Consulenza filosofica fin dalla sua nascita: dalla mancanza di una definizione, di un metodo e di una teoria standard al suo controverso rapporto con il mondo delle psicoterapie, e, in particolar modo, con la psicoanalisi.
2. Il problema di una definizione
Definire: 1. Precisare, fissare i limiti; 2. Determinare la natura di un concetto attraverso un’attenta analisi delle sue componenti e mediante la formulazione in termini appropriati; 3. Risolvere, terminare.
—N. Zingarelli7
Il carattere problematico della definizione della Consulenza filosofica è imputabile a più fattori: dall’ancor giovane età della disciplina alle diversità storiche e linguistiche dei vari contesti nazionali in cui l’achenbachiana Praxis è venuta in contatto. Inoltre, va ricordato che lo stesso Achenbach ha sempre rifiutato di fornire una definizione standard della materia, fondamentalmente in nome dell’unicità irripetibile dell’individuo nella Consulenza filosofica.
I primi paesi in cui si è diffusa la Philosophische Praxis sono stati l’Olanda e Israele, dove la lingua veicolare è l’inglese. Per tradurre il termine tedesco c’è chi ha optato, come Shlomit Schuster, per una traduzione quasi letterale [Philosophy practice] o chi, come la maggior parte dei consulenti di lingua inglese, ha preferito invece tradurlo con il termine Philosophical counseling.
Come constata giustamente Davide Miccione, «bisogna poi considerare che la seconda fase espansiva della consulenza, collegata al successo di Plato not Prozac! best-seller in varie nazioni occidentali, ha finito con il presentarla come un prodotto più della cultura statunitense che di quella europea».8 Anche per questo motivo, si è imposto a livello internazionale il termine inglese Philosophical counseling, mentre il termine tedesco è stato spesso accantonanto o addirittura dimenticato.
La Philosophische Praxis è approdata in Italia tra il 1999 e il 2000 sotto forma di molteplici denominazioni: Counseling filosofico, Consulenza filosofica, Pratica filosofica, Psicofilosofia.
La diversità dei nomi non è certo casuale ma ricalca una diversità essenziale sia nel tipo di approccio che nella specificazione dell’ambito d’intervento. Anche in Italia, tra le varie possibilità, sembrò dominare, almeno inizialmente, la semi-traduzione Counseling filosofico.9 Solo in un secondo momento, soprattutto per il rifiuto di tale termine “ibrido” da parte dell’anima più filosofica dei consulenti italiani, cominciò a prendere piede la dizione Consulenza filosofica.10
Da questa breve ricostruzione storica, si può notare come, in Italia, si sia preferito evitare la traduzione letterale del termine Philosophische Praxis: un termine come Prassi filosofica avrebbe infatto rischiato di apportare solo maggior confusione per la sua genericità. Probabilmente sarebbe stato anche fuorviante in quanto, come scrive Neri Pollastri, la parola prassi richiama «[…] una terminologia ben radicata nella filosofia italiana del primo dopoguerra» la quale quindi «tende a rimandare a un universo di ricerche e studi d’ambito sociale».11
Nel presente scritto si è quindi optato per il termine Consulenza filosofica in quanto, decisamente meglio di altri, è in grado di tratteggiare il perimetro d’azione caratterizzato dall’operare filosofico. In altri termini, esso riesce ad «esprimere al meglio da una parte la diversità rispetto agli approcci psicoterapeutici e formalizzati, dall’altra la ‘normalità’dell’azione consulenziale del filosofo, che si propone, in una società complessa e frammentata, come partner dialogico e competente».12
3. Una definizione in negativo
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo
—E. Montale13
Una delle critiche che più spesso vengono avanzate all’approccio achenbachiano, è proprio quella relativa alla mancanza di una definizione in positivo della Consulenza filosofica. Bisogna ricordare comunque che Achenbach, se da una parte rinuncia a fornire una definizione vera e propria, per sua natura delimitante, non rinuncia invece a dare una connotazione alla Consulenza filosofica: egli ne cita infatti alcune caratteristiche essenziali come il suo essere “un libero dialogo” o il suo «mettere il pensiero in movimento».14
Molto più numerose e precise, invece, sono le definizioni in negativo della disciplina. Fin dalla sua nascita, la Philosophische Praxis, è stata definita più per quello che non è che per quello che è. Ad esempio, come scrive Achenbach: non è una filosofia che viene «applicata»15 o che «viene praticata da specialisti per colleghi specialisti»,16 e, soprattutto, non è una terapia.17 Proseguendo, «non si occupa di sistemi filosofici», «non costruisce alcuna filosofia18 e «non è un ammaestramento filosofico che opera con i patrimoni filosofici tramandati».19
Anche Shlomit Schuster, sulla scorta del fondatore della Philosophische Praxis, scrive che «la consulenza filosofica non ha avuto origine dal counseling psicologico; non è stata praticata prima da psicologi o terapeuti, né è stata la derivazione di un approccio ibrido psicologia-filosofia».20
Peter Raabe critica duramente Achenbach e il suo presunto postmodernismo antirealista, in quanto egli «ha di fatto generosamente permesso ai consulenti di tutto il mondo di definire la consulenza filosofica in qualunque modo ritenessero appropriato».21 Nonostante il fraintendimento di fondo della filosofia di Achenbach, Raabe non esprime, in questo caso, un giudizio del tutto infondato.
Questo vuoto lasciato dal pioniere della disciplina, per lui essenziale nell’ottica di una ricerca autenticamente libera e aperta, non è stato infatti facilmente compreso e assimilato nell’ambito della cultura anglosassone. Questa ha invece preferito colmare la cesura achenbachiana con l’esperienza pre-esistente e socialmente affermata del counselor. Tale figura professionale può essere descritta come quella di «[…] un operatore che svolge una funzione di mediazione e consulenza formalmente non terapeutica e ha trovato un posto stabile sia nelle organizzazioni- scuole, enti pubblici, aziende- sia nel mondo dell’assistenza individuale».22 Il counselor nasce negli anni Cinquanta sulla scorta dell’insegnamento di Carl R. Rogers; tuttavia, successivamente, nel corso degli anni si sono sviluppati diversi tipi di counseling tra cui, più recentemente, il Philosophical counseling. Quest’ultimo, il cui background rimane fortemente psicologico, oltre che improntato al concetto di efficacia terapeutica, non può tuttavia essere considerato solo un adattamento dell’originale achenbachiano ma semmai un suo stravolgimento. In questo tipo di counseling, infatti, la conoscenza filosofica, viene strumentalizzata nell’ottica di una finalità terapeutica: la filosofia viene applicata e non vissuta nella profondità dell’esperienza autentica dell’individuo.
Schlomit Schuster, particolarmente fedele al concetto originario di Philosophische Praxis, scrive a questo proposito: «[…] la conoscenza di che cosa Heidegger […] pensava della verità e della morte, come conoscenza teorica, non è sufficiente. Tale conoscenza non è compresa fino a che il filosofo stesso non ha sperimentato il bisogno di mettere in questione il significato della verità e della morte».23 In questo senso, è auspicabile, ai fini di una investigazione e di una delucidazione degli aspetti della disciplina, non confondere il Philosophical Counseling con la Philosophische Praxis in quanto quest’ultima è da intendersi come «attività rigorosamente non terapeutica»24 e quindi generalmente distante da quelle che si propongono come professioni d’aiuto.
Ma, se da una parte la mancanza di una chiara definizione sostantiva della Philosophische Praxis ha avuto l’effetto di produrre molta confusione e fraintendimenti, dall’altra ha portato ad un vero e proprio rallentamento della crescita teoretica della disciplina.
Neri Pollastri sostiene che Achenbach, almeno inizialmente, soffermandosi eccessivamente sulla critica alla filosofia accademica da un lato e alle psicoterapie dall’altro,25 abbia contribuito a mantenere oscuri alcuni elementi base della disciplina come ad esempio quelli riguardanti le sue peculiarità e le modalità del suo operare.
Di fatto, la filosofia teoretica26 ha contribuito notevolmente a conferire serietà e rigore ai lavori di ricerca e di comprensione della Consulenza filosofica; si pensi ad esempio che il noto filosofo accademico Hans Krämer nel suo Integrative Ethik27 dà forma all’«unico tentativo organico di collocare questa disciplina in un ideale contesto socioculturale ben specificato».28
Ma l’esempio più eclatante della necessità di mantenere un saldo rapporto di collaborazione tra mondo accademico e mondo della Consulenza filosofica è rappresentato dal libro di Eckarth Ruschmann, Philosophische Beratung:29 il consulente tedesco ha potuto infatti dedicarsi alla stesura dell’opera proprio grazie ad una borsa di ricerca concessa dall’Università di Costanza.
Bisogna dire che in Italia, soprattutto negli ultimi anni, consulenza e pratiche filosofiche hanno incominciato a trovare un positivo riscontro nel mondo universitario: lo testimoniano iniziative come le giornate di ricerca, i convegni, e, soprattutto i Master dedicati alla Consulenza filosofica. Insomma, per quanto i consulenti filosofici dichiarino la loro lontananza dal mondo accademico, essi stessi non possono prescindere dal fatto che «[…] la filosofia è ricerca, approfondita e specialistica analisi, studio spesso astratto e bizantino, e che questo suo aspetto non le è accessorio, non è una forma di degenerazione, ma è piuttosto un tratto tipico delle scienze, che la filosofia, in quanto anche scienza, condivide». Proprio per questo motivo, «la filosofia delle università svolge un ruolo di elaborazione teoretica ardita ed astratta, al quale la filosofia “fuori dai ghetti” non può surrogare e dal quale quest’ultima trae strumenti, temi e “linfa vitale”. Al contrario, la filosofia “pratica”, a contatto con la vita della “gente comune”, può applicare e diffondere, tradotto ed adattato, il lavoro degli “scienziati della filosofia” nella realtà quotidiana, facendo sì che tale lavoro “sia utile” alla vita degli uomini».30 Proprio per questo, la relazione tra Consulenza filosofica e mondo dell’Università va inteso nell’ottica dello scambio reciproco e della continuità: la stessa pratica filosofica può essere concepita come la parte applicativa della filosofia accademica, un tentativo di sintesi tra quelle che sono le istanze teoretiche e le istanze pratiche proprie di ogni conoscenza.
4. Il problema del metodo
La filosofia non lavora con i metodi, ma sui metodi. L’obbedienza al metodo è propria delle scienze, non della filosofia.
—G.B. Achenbach31
Il problema relativo alla definizione della Consulenza filosofica può essere considerato tutt’uno con il problema del metodo. Per Achenbach, infatti, dare una definizione standard, stabilire un metodo, costituire una teoria della Consulenza filosofica, sono tutte facce della stessa medaglia: tutte rispondono al bisogno di sicurezza proprio delle scienze e del “positivismo teorico” in auge nelle professioni d’aiuto.32 Già il fatto che la Consulenza filosofica non voglia essere affatto una nuova professione d’aiuto può, in certa misura, chiarire la natura di quello che viene denominato come il cosiddetto metodo oltre il metodo33 del fondatore della Philosophische Praxis.
Come scrive Neri Pollastri, «l’assenza di qualsivoglia indicazione metodologica in Achenbach può risultare frustrante ed irritante; eppure, come non convenire con lui che definire un metodo comporterebbe una pietrificazione del rapporto dialogico, una schematizzazione dei possibili tragitti di pensiero che in esso possono svilupparsi, un tradimento dello spirito indefinitamente critico e fluidificante che caratterizza la filosofia?».34
La pretesa di definire la Consulenza filosofica, il suo metodo e i suoi obiettivi, non ha quindi molto a che vedere con la filosofia in sé, ma piuttosto con un più pragmatico bisogno di standardizzazione e di misurabilità dell’efficacia alla base del sopracitato positivismo teoretico. Non è un caso che Peter Raabe, degno rappresentante del pragmatismo anglosassone, critichi fortemente la visione ametodologica di Achenbach: essa ha infatti il grave difetto di non permettere «alcuna valutazione del “progresso” e dell’“efficacia” del processo di consulenza». Il consulente filosofico, secondo tale visione, «non ha una “posizione oggettiva” dalla quale guardare gli eventi che avvengono all’interno della seduta […] e perciò nessuno strumento con il quale giudicare le conseguenze pragmatiche, in termini di benefici o danni per il cliente, di quanto avviene nel processo di consulenza. Ciò porta logicamente alla conclusione che qualsiasi scelta intenzionale del tema da discutere o della direzione da prendere per far avanzare il processo dialogico sia del tutto accidentale e di fatto priva di significato, in quanto, senza i concetti di progresso ed efficacia, ogni scelta sarà tanto buona o cattiva quanto qualsiasi altra».35
Ma se è vero che la Consulenza filosofica è, prima di tutto, filosofia, il problema di stabilire una via e una meta a cui arrivare, è solo un falso problema: «la filosofia, infatti, “non sa” dove vuole arrivare, mette in dubbio anche ogni criterio di giudizio e ogni finalità in base ai quali sia possibile parlare di efficacia».36 Il terreno su cui poggia la Consulenza filosofica, per Achenbach assimilabile a quello della conoscenza, dovrebbe essere dunque quello di una «libertà senza confini».37
Proprio a partire da questa fondamentale libertà, ossia nella rinuncia di «tutte le convinzioni sicure di sé»^[38] essa può continuare ad essere, sia per il consulente che per il consultante, «uno sbalordimento prodotto nel dialogo».38 Tuttavia, va precisato che di recente alcuni consulenti filosofici, hanno incominciato a lavorare all’articolazione di un metodo della consulenza filosofica: in particolare, Neri Pollastri, attingendo dalla sua conoscenza dell’universo jazz, ritiene che il metodo dell’improvvisazione musicale, non solo possa ben sposarsi con la ricerca filosofica e con le procedure consulenziali, ma anche fornire interessanti spunti per quanto riguarda «la definizione di criteri formativi, in particolare riguardo al ruolo che in essi possono e devono assumere i saperi, filosofici e non».39
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Cfr. G. B. Achenbach, La consulenza filosofica, pp. 69-70. ↩︎
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“Esercitare una professione significa fare qualcosa in relazione agli altri, sulla base della richiesta obiettiva di una prestazione o del suo prodotto. Ciò significa concretamente che l’attività viene onorata, nei due sensi: riconosciuta come necessaria e remunerata, così che si possa vivere di essa”. M. von Brentano, Philosophie als Beruf, a cura di V.J Schickel, Frankfurt 1982, p.61 cit. in G. B. Achenbach, La consulenza filosofica, p. 78. ↩︎
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R. Lahav, Philosophical Practice as Contemplative Philo-Sophia, Part 1: The Problem-Solving Vision versus the Wisdom Vision; Part 2: Towards a wisdom-inspired vision of philosophical practice, in http://www.geocities.com/ranlahav/. ↩︎
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N. Pollastri, Consulente filosofico cercasi, Apogeo, Milano 2007, cit., pp. 63-64. ↩︎
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Ivi, p. 64. ↩︎
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Barrientos Rastrojo José, Violencia de Género y Orientación Filosófica in “Violencia”, Padilla Libros, Sevilla 2005. ↩︎
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N. Zingarelli, Il Nuovo Zingarelli.Vocabolario della lingua italiana, XI Ediz., Zanichelli, Bologna 1987. ↩︎
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Cfr. D. Miccione, La consulenza filosofica, cit., p. 16. ↩︎
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Nel 1999, nasce infatti l’AICF, la prima Associazione Italiana di Couseling Filosofico. ↩︎
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Il termine Consulenza filosofica traduce l’espressione Philosophische Beratung, spesso utilizzata in Germania accanto al più noto termine Philosophische Praxis. ↩︎
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N. Pollastri, Il pensiero e la vita. Guida alle consulenza e alle pratiche filosofiche. Apogeo, Milano 2004, p. 34. ↩︎
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Cfr. D. Miccione, La consulenza filosofica, p. 17. ↩︎
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E. Montale, Ossi di seppia, (a cura di) P. Cataldi e F. d’Amely, Mondadori, Milano 2003. ↩︎
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Cfr. G. B. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 69. ↩︎
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Ivi, p.13. ↩︎
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Ivi, p.17. ↩︎
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Ivi, p. 65. ↩︎
-
Ivi, p. 69. ↩︎
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Ivi, p. 84. ↩︎
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S. Schuster, Sartre’s Words a Paradigm for Self-Description in Philosophical Counseling, http://www.geocities.com/centersophon/press/, cit. in Cfr. P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, p. 7. ↩︎
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Ivi, p. 191. ↩︎
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Cfr. N. Pollastri, Il pensiero e la vita, p. 89. ↩︎
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Cfr. S. Schuster, La pratica filosofica, cit., p. 41. ↩︎
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Cfr. N. Pollasti, Il pensiero e la vita, p. 90. ↩︎
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Cfr. N. Pollastri, Osservazioni per una definizione della consulenza filosofica, “Kykeyon”, 8, 2002, p. 56. Pollastri, in riferimento alla centralità della definizione antinomica nella consulenza filosofica, parla di “peccato originale della Philosophische Praxis”. ↩︎
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Come specifica Pollastri in appendice: “con ‘filosofia teoretica’ si intende qui la filosofia ‘accademica’ (sia ‘speculativa’ che ‘storica’), nella sua totalità, e non la sola branca definita con questo termine, un po’ confusamente, dall’ordinamento didattico italiano” (Ivi, p. 55). ↩︎
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H. Krämer, Integrative Ethik, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1995. ↩︎
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Cfr. N. Pollastri, Osservazioni per una definizione della consulenza filosofica, “Kykeyon”, 8, 2002, p. 57. ↩︎
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E. Ruschmann, Philosophische Beratung (1999); tr. it. Consulenza filosofica, Armando Siciliano Editore, Messina 2004. ↩︎
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Cfr. N. Pollastri, Osservazioni per una definizione della consulenza filosofica, p. 56. ↩︎
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Cfr. G. B. Achenbach, La consulenza filosofica, cit., p. 13. ↩︎
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Ivi, p. 83. ↩︎
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Ricordiamo che la consulente israeliana Shlomit Schuster è stata la prima a utilizzare il termine “Beyond Method” per indicare l’approccio di Achenbach, cfr. S. Schuster, La pratica filosofica, p. 47. ↩︎
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N. Pollastri, Gerd Achenbach e la fondazione della pratica filosofica in “Maieusis”, 1, 2001. ↩︎
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Cfr. P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, cit., pp. 191-192. ↩︎
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N. Pollastri, Un primo ‘manuale’ per l’apprendista consulente filosofo, in P.B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, p. XXXIV. ↩︎
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Cfr. P. B. Raabe, Teoria e pratica della consulenza filosofica, p. 82. ↩︎
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Ivi, p. 83. ↩︎
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Neri Pollastri, I saperi e la formazione nella consulenza filosofica, Intervento al Convegno “I saperi umani e la consulenza filosofica”, Cagliari Is Molas, 5-8 ottobre 2005, in http://www.giornaledifilosofia.net/public/pdf/pollastri.pdf. ↩︎