Giustificazione morale tra libertà, limite e contingenza. Un’interpretazione a partire da Ágnes Heller

1. Premessa

Ágnes Heller, classe 1929, ha condiviso con altri studiosi (tra cui ricordiamo F. Fehér, G. Markus, M. Vajda, G. Bence, J. Kis) l’impegno umano, politico e intellettuale della cosiddetta Scuola di Budapest, nel legame con la figura di G. Lukács — un’esperienza che, intrecciata ai tumultuosi avvicendamenti di governo dell’Ungheria a partire dal 1956, si mantenne a fasi alterne fino a circa la seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso.1

Con la mediazione fondamentale del pensiero del maestro, l’autrice si è distinta per una originale lettura in chiave etica ed antropologica del dettato marxiano ed ha raggiunto una prima notorietà internazionale con la teoria detta dei «bisogni radicali».2

In estrema sintesi, si trattava di una circostanziata e — sotto il profilo sia teoretico, sia espositivo — suggestiva critica agli effetti dell’avvento del capitalismo a partire dai bisogni ivi generati, in un serrato confronto con i Manoscritti economico-filosofici del 1844,3 i Grundrisse4 e il Capitale5 marxiani.

Sullo sfondo dell’antagonismo a tratti estenuante tra le istanze di soddisfacimento di bisogni meramente quantitativi («quelli nella soddisfazione dei quali un uomo diventa per l’altro un puro strumento»,6 quali il bisogno di possesso, potere e ambizione) e bisogni qualitativi (i quali viceversa sostanziano la pienezza in sé, la natura essenziale dell’individuo, come si dice per esempio a proposito del «bisogno» di estinguere la sete di conoscenza), l’uomo del Novecento emergeva profondamente combattuto. Permaneva infatti l’ancoraggio ad una condizione pesante di «estraneazione» dello spirito da se stesso in senso marxiano e dunque un trovarsi in bilico tra perdita e riappropriazione del legame con gli oggetti prodotti attraverso il lavoro.

E tuttavia — a partire da questo momento teorico — il recupero del senso di un’«essenza umana» sottratta agli imperativi economici e nondimeno prerogativa di un ente autenticamente sociale, veniva presentata come impresa tanto più ardua quanto plausibile. Sullo sfondo mosso delle contraddizioni sociali e politiche, nonché delle tragedie collettive del XX secolo e nella consequenziale distonia delle filosofie della storia hegeliana e marxiana, si trattava di affidarlo ad una «rivoluzione» minimale dei modi, degli stili di vita e dell’agire nella quotidianità (e su questa traiettoria Heller andava sin dagli esordi esplicitando una disposizione alla filosofia di ordine eminentemente «pratico», una cifra quest’ultima che rimarrà stabile nella produzione a venire, insieme con le ricorrenti incursioni nei territori della letteratura e dell’estetica).

Ai fini dell’analisi cui si intende qui procedere non è tuttavia indispensabile addentrarsi nella «teoria dei bisogni», quanto piuttosto evidenziare come su quest’ultima — e lo annota Heller stessa7 — gravasse una certa parzialità nel legame pressochè esclusivo con la narrazione marxiana e soprattutto una sorta di trascendimento della condizione moderna, invero via via superato.

A partire dai primi anni ’80 infatti — e per quanto concerne un immediato riferimento bibliografico si veda la trilogia de A theory of history,8 A philosophy of history in fragments9 e A theory of modernity10 — l’indagine sullo stato dell’arte della «modernità» informa di sé prepotentemente il contributo helleriano, diviene una vera e propria urgenza teorica che condiziona a fondo la declinazione del problema morale e interpretativo. La modernità in questione è di tipo avanzato, è invero «post-modernità» come prospettiva e disposizione: sguardo sul presente dei contemporanei, gettato dal punto di osservazione del «dopo» (e nella fattispecie a posteriori tanto del comprensivo progetto illuministico, quanto delle grandiose architetture del pensiero ottocentesco). Ancora, i contemporanei emergono come «moderni» sui generis, nella misura in cui si collocano a valle degli avvenimenti ineffabilmente senza precedenti che hanno caratterizzato il Secolo Breve.

Questa specifica situazione — la cui valenza è non meno storica ed epocale che soggettiva — impone pertanto un ripensamento delle categorie dell’essere (e insieme del dovere) che tenderà a modellarsi sul presupposto di una diffusa frammentazione del reale e tuttavia in antitesi rispetto alle suggestioni emergenti di nichilismo e relativismo, nel dialogo aperto con un senso acuito del limite e con la sopravvenuta disposizione del reale a darsi in termini instabili.

2. Lo sfondo privilegiato della «libertà»

Ammessa a priori una cifra di instabilità nelle determinazioni del reale, un modo per tornare sulla vexata quaestio del legame tra individuo e sfera etico-morale — e dunque sul problema classico dell’orientamento della condotta — consiste nel cogliere e descrivere la configurazione dell’essere e del dovere a partire da una qualche cifra antinomica del reale.

Su questa traiettoria, muovere dalla «libertà» nel significato specifico attribuitole da Ágnes Heller, si dà come opzione coerente, nella misura in cui di questo concetto — e indipendentemente dalle prevedibili riserve verso premesse teoriche soggette in potenza a ermeneutiche di segno opposto e contrario — emerge il carattere paradossale, l’aporia ineliminabile sotto il profilo logico di una «fondazione che non fonda».11

La «libertà» si offre infatti da una parte come principio fondante («valore base», «fondazione») della mancanza di a priori della modernità, per cui l’uomo risulta svincolato dalla «funzione» sociale, in senso luhmanniano.12 Vorrebbe dire che, rispetto ai cosiddetti premoderni, non siamo più legati — per nascita e per l’intero corso della nostra esistenza — ad una destinazione obbligata di casta o di rango, così come non si dà acriticamente un insieme di norme, aspettative, compiti, riferibili a ciascuno in quanto «situato» su un gradino della scala sociale ed entro una rete strutturata di relazioni.

Con una simile premessa il reale è colto dispiegarsi nell’ampio spettro della sua possibilità:

La casualità originale dell’esistenza non è più il fato capace di determinare il nostro modo di vivere e di porsi come limite delle nostre azioni e delle nostre possibilità; l’origine dell’esistenza, per quanto possa configurarsi come ostacolo o vantaggio, diviene, a sua volta, indeterminata. Ciò che era fato diviene contesto. Il famoso detto di Napoleone, per cui ogni soldato porta nello zaino il bastone da maresciallo, illumina la mutata situazione, la nuova consapevolezza.13

Ma una volta posta la «libertà» entro questa cornice mobile, ecco emergere la contraddizione in termini di una simile «fondazione», perché col disperdersi dei riferimenti dati «per tradizione», con la messa tra parentesi del patrimonio di costumi e valori sul piano sociale, religioso o politico, viene meno, oltre che un insieme di vincoli di appartenenza, anche la componente di rassicurante stabilità di fatto contigua alla necessarietà del vivere.

L’inclusione del principio fondante — e del pari la debolezza per la fuga di riferimenti stabili — hanno generato l’ossimoro di una libertà «fondazione che non fonda», da cui promana la forza e al contempo il limite di un valore tanto aperto quanto lacunoso di determinazioni. Suscita invero una repentina perplessità l’incerto che circonda il valore in sé positivo dello sciogliersi dai lacci deterministici premoderni, mentre si impone una giustificazione in termini approfonditi o quantomeno non banali di una libertà che ripensa la necessità. Ed è così che tornano fors’anche alla memoria le originali riflessioni sull’argomento formulate da J. -P. Sartre, autore dalla significativa influenza sulla stessa Heller,14 il quale ne ha fatto il medium privilegiato del dissolvimento di tutte le possibilità individuali nell’assurdo e nell’inautentico, là dove la contrapposizione tra bruta datità delle cose e coscienza conduce ad un «in-sé-per-sé» dell’uomo come mera «passione inutile».15

Ora — nel contesto qui considerato — la cifra emergente di palese indeterminatezza presiede piuttosto alla costruzione di una Weltanschauung al di sotto della quale la «possibilità» a priori del vivere e dell’agire non circoscritta è fatalmente costretta a trasformare la propria natura. Essa si modella infatti rispetto ad una sorta di «consuetudine del limite» umana, ovvero in relazione non ad una finito pari alla desolante mediocrità del reale, bensì nei confronti di un’esperienza ricorrente del vulnerabile a tratti lacerante e cionondimeno destinata a condizionare non del tutto l’agire — come se la contiguità della libertà umana al «limite» scontasse in fin dei conti anche il «proprio» stesso limite. Ciò a cui la libertà di Heller guarda è allora solo en passant l’essenza dell’individualità umana nel senso del giovane Lukács16 — un’individualità che si dibatte nel caos empirico della vita quotidiana e si arrende di fatto alla riconciliazione impossibile tra bruta datità del reale e perfezione della «forma».17

La duplice presa d’atto del limite costitutivo umano da un lato e del sopravanzamento del medesimo dall’altro consente di ponderare senza superficialità o derive nichiliste più di un passaggio helleriano.

Allora, la figura sovente richiamata di uomo «fascio di possibilità privo di un telos», incarna l’apertura all’infinita espansione insieme alla deprivazione di un fine predeterminato, come pure l’esperienza del senso di una libertà pericolosamente contigua al «Nulla».18 E tuttavia si intravede solo a sprazzi, mai troppo a lungo (come in un gioco di specchi) l’uomo trasportato malgrè lui verso l’assoluta indeterminatezza, stretto nell’irriperibilità di senso residuo, spaesato rispetto al mondo, laddove «non si riesce ad afferrare alcun appiglio; si cammina su una corda tesa sull’abisso».19

Nel medesimo contesto, i riferimenti alle «situazioni-limite» di derivazione jaspersiana20 sfumano in una visione pacata dei condizionamenti ineffabili in capo a ciascuno di noi: l’incatenamento ad un preciso luogo della realtà non appare poi così ineluttabile, mentre l’impossibilità di vivere senza lotta e dolore e la consapevolezza del proprio destino di «morte»21 disegnano uno sfondo meno pervasivo rispetto a quello della «filosofia che si pone il compito di chiarire l’esistenza»22 . Sta a dire che il rapporto tra l’esserci dell’uomo e l’incondizionatezza dell’esistenza può pure assorbire il senso dello «scacco» (Scheitern) nei termini di esperienza dell’irrazionale, urto di fronte al limite, ombra dell’insuccesso sul concetto stesso di azione.23 Ma non per questo ciascuna esistenza concreta «sconterebbe» la propria condizione di parzialità, la «colpa» per le conseguenze inaspettate del suo agire (o del suo «non agire»)^[24] con la scelta di ciò per cui è stata predestinata a vivere.

E ancora, il confronto tra la libertà e la finitezza costitutiva umana in Heller è bensì intrapreso da un essere «gettato nel mondo»,24 il quale se pare rimandare alla scommessa heideggeriana su di un «esserci» che è «l’ente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso»,25 si connota tuttavia secondo una più marcata curvatura della Möglichkeit in termini di un «poter-essere» bivalente, tanto in senso «pratico» (l’esserci è in grado di «intendersi di» o di «affrontare qualcosa»), quanto «ontico» (quel «qualcosa» che viene riconosciuto non necessario, ma «possibile» è suscettibile di realizzazione).

3. Occorrenze morali rispetto alla «libertà»

Per tornare a monte — ciò che qui si attraversa è la costruzione di una dimensione morale all’incrocio tra possibilità e dispiegamento dell’uomo, gravida di un carico consistente di complessità e di potenziale contraddizione.

Heller si sforza del pari di delimitare un ambito di giustificazione pratica e di orientamento dell’agire entro cui dialetticamente si dirima la questione — consunta rispetto agli sforzi ripetuti del pensiero morale, non certo rispetto all’attualità del problema — dell’antitesi tra le ragioni soggettivo-contestuali (piano per antonomasia della miriade di oggetti concreti di dilemma personale) e il portato tanto autorevole quanto astratto dei principi universali. Così che lo scambio tra libertà e limite umano al di sopra dell’orientamento morale avviene contemporaneamente a un’opera di laboriosa composizione di queste due dimensioni tradizionalmente in conflitto.

Ma quali sono — per sommi capi — le tappe salienti di questo percorso?

Procediamo con ordine. Intanto attorno alla regola aurea platonica — la quale recita come sia preferibile subire l’ingiustizia anziché commetterla26 posto che l’atto «ingiusto» in sè individui una malattia per l’anima — e a ridosso dell’imperativo categorico kantiano nella sua seconda sottoformulazione (il quale mette l’accento, come è noto, sulla grandezza della dignità umana per cui ciascuno di noi è fine in sè e non mero mezzo) viene fatta ruotare la figura particolare della «persona buona». La sussistenza di quest’ultima è un «fatto» confortato dal rilievo empirico piuttosto che un’ipotesi in astratto, posta sul piano della scarna potenzialità, così che tanta parte dell’impegno — teoretico e descrittivo — profuso da Heller sviscera l’asserzione — al contempo premessa e interrogativo — : «Le persone virtuose esistono, come sono possibili? »27

La resa del modo di esistenza della persona buona è stata a lungo debitrice28 alle categorie marxiane (in particolare al topos di «essenza umana»),29 mentre col raggiungimento della maturità anagrafica e teorica30 Heller è andata via via incentrandone la descrizione sul delicato rapporto con la virtù in quanto habitus aristotelico — e dunque sulla disposizione razionale costante, che fa sì che l’uomo adempia correttamente al compito che gli pertiene.

Entro questa cornice, è interessante notare come l’eccellenza morale rispetto alle «cose del mondo» risulti sganciata dalla pratica incondizionata del gesto supererogatorio31 e soprattutto ripensi il nesso virtù-felicità. La bontà non può e non deve esaurirsi nella componente eudemonica della vita dell’uomo; si tratta di due entità in qualche caso parallele e tuttavia non necessariamente sovrapponibili.32 Con questo suo distinguo Heller segue una traiettoria disegnata anche in ambienti di pensiero recente le cui premesse teoriche riposano su piani «altri» rispetto alle sue. Così che si rintraccia una curiosa contiguità problematica ad esempio con le argomentazioni sviluppate da P. Foot33 in ambito analitico, sul filone di ricerca cosiddetto neo-naturalistico di matrice anglosassone. Precisa Foot in modo finemente eloquente i termini della influenza destabilizzante sulle concezioni morali da parte dell’endiadi virtù-felicità34 — impostasi nel pensiero occidentale per il tramite di Aristotele. In particolare — sotto il profilo sia linguistico35 sia empirico — emerge come laddove la felicità si dà come obiettivo a prescindere, non necessariamente si abitano contesti privi di razionalità. Tra le prerogative proprie della virtù rientra tuttavia a priori il presiedere alle istanze eudemoniche e non al contrario conformarvisi, cosicchè spetta senz’altro al discorso morale penetrare e sciogliere la contraddizione intrinseca a descrizioni fattuali di individui malvagi e cionondimeno a pieno titolo felici.36

Heller — dal canto suo — mette accuratamente mano a questo genere di empasse subordinando le istanze di felicità ai fini rinvenuti «buoni» — e il ragionamento qui denota invero una certa circolarità — da una «persona» che attraverso una «scelta esistenziale» di matrice kierkegaardiana — retroattiva e atemporale insieme37 — si «determina» al «bene», facendosi nulla più che la «persona buona che è». Questo genere di automatismo è volto a tacitare le obiezioni sul corretto esercizio della deliberazione e a circoscrivere il concetto di virtù in capo all’individuo. Se scaviamo nemmeno troppo in profondità emerge poi come la «persona» in questione sia intenta a «divenire ciò che è» — non con l’assecondare la spinta nicciana della volontà di potenza, bensì col seguire il primitivo e genuino slancio aristotelico di attualizzazione della dynamis nel proprio telos.38

Il telos intrinseco di una vita da noi scelta non deve essere confuso con strategie e scopi, come vengono progettati nei termini delle teorie della scelta razionale. La scelta esistenzale è la nostra scelta di noi stessi, e non la scelta di uno scopo specifico, nemmeno lo scopo della vita. Nessun mezzo può essere utilizzato per realizzare gli scopi di una scelta esistenziale. Il fine intrinseco della scelta esistenziale è veramente un «fine-in-sè». Per citare Aristotele, è «l’attività dell’anima durante tutta la nostra vita». Qualsiasi cosa si scelga esistenzialmente, nello scegliere se stessi, è energeia. È l’attività, e non il risultato finale, che uomini e donne scelgono esistenzialmente, l’«attività in direzione di qualcosa», l’«attività che noi siamo», l’«attività che diveniamo poiché siamo».39

L’uomo «buono» di cui vengono evocate le determinazioni sconta invero contraddittori e altalenanti slanci tra abnegazione disinteressata e affermazione identitaria e tuttavia — questo l’elemento che tiene insieme il tessuto dell’argomentazione — costui partecipa potentemente della passione imparziale per la giustizia del Selbstdenken lessinghiano — un «pensare da sé» come refrattarietà nei confronti di qualunque idea dogmatica di verità saldato da Heller sotto l’influsso arendtiano40 alla «disponibilità a condividere il mondo con altri uomini».41

Per quanto riguarda poi la dialettica tra universale e particolare poc’anzi menzionata, a norme e regole viene bensì riconosciuto portato generale e categorico nel legame classico kantiano con l’idea di «massima» (il principio soggettivo della volontà) e tuttavia esse risultano in persistente soggezione rispetto alla phronesis aristotelica, dunque nei confronti di una «saggezza» che «non argomenta, ma delibera»42 e si stima in grado di «governare ancora l’autorità morale» («Phronesis still wields moral authority»)^[44] .

Percorre il discorso nel suo insieme un’influsso per così dire constantiano43: il pensatore francese sottraeva il rispetto dei principi universali di impronta kantiana (i quali rimandano a «dati primi che sussistono invariabilmente in tutte le combinazioni»)44 all’aridità in potenza di una pervasiva astrattezza. Ne rafforzava tuttavia la validità, per il tramite della ricerca di altri principi — detti «intermedi» o «secondari»45 — adatti alla «combinazione particolare di cui ci si sta occupando»,46 ovvero portatori di volta in volta della specificità dei contesti considerati. Sotto questo rispetto, i «principi generali» avrebbero trovato adeguata applicazione alle circostanze concrete. Similmente, la «persona buona» di Heller, seppur affascinata dall’autosufficienza del principio (e il principale riferimento resta in questo senso la legge morale kantiana) plasma tanto l’idea — invero intransigente nell’architettura kantiana — di «autonomia», quanto lo stretto legame tra essa e la «volontà buona» su di una cifra di consapevole inadeguatezza. La persona buona guarda infatti costantemente al principio ideale, ma di fatto abdica al proprio «io concreto», perché non può che incarnare un’«autonomia relativa»,47 sollecitata com’è dal molteplice delle istanze eteronome (un «altro da sé» di carattere sociale, politico, affettivo e così via).

L’insieme di questi motivi volge circolarmente ad amalgamarsi con la premessa inscritta nel destino umano di una libertà come «fondazione che non fonda»; in quest’ottica, «essere liberi» significa certo prendere parte direttamente alla trasformazione del reale, «gettare l’ombra del dubbio sulla convinzione troppo facile che l’ultimo modo in cui far le cose è l’unica maniera di farle»,48 tenendosi a debita distanza da visioni unilaterali o onnicomprensive. Vengono recepite la peculiarità e le divergenze delle diverse prospettive — in potenza tante quanti sono gli individui — e dissodato il terreno di coltura di una mediazione ragionevole — e perlopiù non ingenua — tra diversi «modi di vita»,49 che caratterizzano distinti raggruppamenti sociali e specifiche comunità umane.

Nel tourbillon di motivi ideali che concorrono a questo obiettivo ed entrano tra di loro spesso in competizione — essi vanno dall’invito alla rottura del conformismo sociale o politico, alle pretese di affermazione identitaria dell’uomo, fino alla difesa della dignità e dei bisogni umani incastonati in un’idea «forte» di reciprocità («Se si prende qualcosa, si deve anche dare qualcosa e nell’ambito di ogni contesto sociale, senza alcuna eccezione»)^[52] — l’approccio si espone tuttavia a qualche riserva. Viene messa tra parentesi per esempio l’obiezione dal preciso riscontro empirico che esistono obblighi per così dire «speciali» che riconosciamo nei confronti di alcune persone, ma che non si danno per scontati verso «tutte» le altre — un aspetto su cui insiste invece opportunamente Ch. Larmore.50 Mentre una certa parzialità dell’interpretazione emerge a considerare che la persona buona — per proiettata che sia verso il dominio della possibilità — è «gettata » in un «mondo» che in termini meramente fattuali coincide perlopiù con il campo di relazioni tra l’uomo, gli altri esseri e le cose in Occidente. E sotto questo rispetto rimane ai margini il problema delle distonie51 che percorrono questo specifico tipo di società, laddove esse incidono — in maniera certo differente da altre regioni della Terra e tuttavia significativa — sulle condizioni di partenza e dispiegamento esistenziale degli individui.

Cionondimeno l’alchimia tra libertà e limite — a prescindere alle premesse di instabilità su cui è costruita — esercita perlopiù un apprezzabile coinvolgimento, specie laddove l’argomentazione morale deflagra nell’indagine del conflitto tragico — che investe in potenza ciascuno di noi — connesso ad un agire che — per quanto ponderato abilmente dalla coscienza — non è mai abbastanza al riparo dalla crudezza del biasimo o della condanna a posteriori, dal giudizio retrospettivo che attiene la liceità degli atti compiuti. Regge — questa descrizione — e giunge ad affascinare — soprattutto laddove esplora i termini del «dar conto» «enorme»52 dell’uomo comune per le azioni commesse o omesse — e il riferimento va in particolare ad una responsabilità «storica», legata alle azioni diacronicamente intenzionate, quali il contrasto rispetto a o il ribaltamento degli imperativi vigenti.53 Qui l’individuo agisce palesemente «accettando il rischio» (forse smisurato rispetto alla caducità dell’orizzonte che lo comprende?) di influire al di là dei propositi o del limite temporale della propria transeunte esistenza, sul livello non solo di bene ma anche di male del mondo. Le pagine helleriane documentano a più riprese diversi modi di questo particolare anticonformismo, ne esplorano il côte tra edificazione e caduta, a seconda dei casi — e sotto il rispetto delle conseguenze — eroico, provvido, inopportuno, colpevole, avventato, fortuito. Il richiamo all’esperienza dell’oscuro funzionario pubblico che falsifica i documenti di ebrei perseguitati dal nazismo aprendo loro una via di fuga, come pure quello alla traumatica e deliberata rescissione dei legami familiari da parte della Nora in Ibsen54 esemplarmente rimanda alla natura bifronte della libertà. Essa si dà infatti come tramite potenziale di un dispiegamento dell’individualità — e parimenti della sua possibile disfatta — in connessione non solo con le motivazioni profonde presenti in ciascuno di noi, ma soprattutto rispetto alla nostra capacità di tradurre il «rispetto» in senso kantiano, ossia a riconoscere la comune dignità umana, per sé come per gli altri. Che la categoria della «responsabilità» provenga — come rileva Agamben nella sua disamina su Auschwitz — dal dominio di appartenenza del diritto più che a quello dell’etica e che quest’ultima se ne appropri, salvo poi «imbattersi in una responsabilità infinitamente più grande di quella che potremmo mai assumere»55 — rispetto alla quale «essere fedeli» significa cogliere la sua «inassumibilità» di fondo — non rappresenta pertanto a ragion veduta un problema incidente in Heller. Fuori dall’«infame zona di irresponsabilità»56 e rispetto all’uomo senza qualità — quindi non tanto rispetto al «superuomo», bensì più modestamente semmai verso colui che in senso arendtiano tende a stringersi alla «banalità» del male57 — l’individuo helleriano si pone come antagonista privilegiato.

4. Prossimità berliniane

Nell’architettura di Heller, la «scelta esistenziale» — di provenienza kierkegaardiana — interpreta un ruolo fondamentale, laddove nel darsi come «radice di tutte le scelte concrete»58 conduce ad una sorta di immanenza della deliberazione tra più opzioni in potenza valide e disponibili e risulta coinvolta nel conflitto strutturale tra forme di vita e valori secondo l’accezione weberiana.

Ancor più dappresso il progetto helleriano è a ben vedere implicato nel «resoconto pluralistico delle libertà»,59 introdotto da Berlin in concorso con il distinguo — ormai canonico ai fini dell’opera di autoaccertamento dell’etica pubblica — tra libertà «positiva» (libertà di intesa non solo come «potere» di fare o essere qualcosa, ma soprattutto come «autodeterminazione», ossia come assenza di eterodirezione e padronanza di se stessi) e «negativa» (libertà da come spazio dell’agire definito per esclusione rispetto all’ingerenza in primis dell’autorità politica).60 Rispetto alla presente ricognizione comprensibilmente si omette di addentrarsi nelle molteplici dotazioni di senso coagulatesi attorno a questo duplice concetto, così come non si riferisce in merito alla sua storica divaricazione e alle difficoltà incontrate dallo stesso Berlin nell’argomentare senza soluzione di continuità la bivalenza.61 Si evidenzia piuttosto come l’impegno ad un «resoconto pluralistico delle libertà» si inscriva nella premessa di un universo diversificato di valori per definizione in contrasto gli uni, gli altri, lungi da una definitiva armonizzazione.62 E cionondimeno non si tratta di «valori relativi» — in quanto essi non incarnano a priori la rinuncia a entrare nel merito dell’eterogeneo denotato dalle diverse culture. Berlin marca anzi una incompatibilità sostanziale tra un siffatto relativismo e l’idea superiore e minimale al contempo di natura umana, per la quale di fatto ciascuno comunica con gli altri, aspira ad essere riconosciuto e considera eventi o stati (la guerra, la povertà, la schiavitù) come «grandi mali da evitare». Un distinguo quest’ultimo in linea con l’oggettività di quei «fini che gli uomini perseguono in assoluto e rispetto ai quali le altre cose sono mezzi»,63 «molti, ma non innumerevoli, perché devono restare entro l’orizzonte umano»64 la cui trasmissibilità rappresenta un a priori:

Sono molti e differenti i fini ai quali gli uomini possono aspirare, e tuttavia gli uomini restano pienamente razionali, pienamente uomini, capaci di comprendersi e di solidarizzare tra loro, di attingere luce l’uno dall’altro, così come noi ne attingiamo dalla lettura di Platone o da quella dei romanzi del Giappone medioevale — mondi, mentalità così distanti da noi. Certo, se noi non avessimo alcun valore in comune con figure così remote, ogni civiltà sarebbe chiusa nel suo bozzolo impenetrabile e noi saremmo esclusi da ogni possibilità di comprensione; è questo il senso della tipologia di Spengler. La comunicazione tra culture lontane nel tempo e nello spazio è possibile solo perché ciò che rende gli uomini umani è comune a tutti e funge da ponte tra loro.65

Cionondimento, quando ci si dispone ad un resoconto pluralistico delle libertà e si segue la suggestione potente di Berlin, lo si fa a partire da una «differenziazione valoriale» che guarda alle diverse forme di civiltà come a qualcosa che si sviluppa in funzione di determinati valori che intende come fini in sé e per sé, «fini ultimi» l’attaccamento ai quali risulta a posteriori e dall’esterno decrittabile — ancorchè non necessariamente condivisibile. Ciascuna società possiede in altri termini un proprio centro di gravità, uno stile di vita che sintetizza il modo in cui gli uomini dell’epoca vivono, sentono, pensano, comunicano.

D’altro canto, una configurazione morale in linea con queste premesse si conformerà alla tendenziale incompatibilità tra valori — incompatibilità che è alla base del costante conflitto all’interno del medesimo valore e della sua interpretazione, tra valori divergenti e tra forme di vita che li ospitano. E va in qualche modo da sé che al di sotto di quella che emerge come una generale destrutturazione delle gerarchie assiologiche, la deliberazione umana sarà altresì invitata ad affrancarsi da moti unidirezionali del pensiero, a tenersi a distanza da scivolose architetture della certezza unitaria le quali rispondono ad un bisogno archetipico di stabilità.

Inserito in questo contesto di comprensione — l’individuo si misura con valori oggetto di una dialettica senza ricomposizione e tuttavia proficua, prudente, caratterizzata da compromessi frequenti certo e al contempo attenta alla comunicazione tra i diversi agenti portatori di specifici punti di vista e tesa a evitare alternative moralmente intollerabili.

Heller partecipa sotto questo rispetto alla forma mentis di Berlin — si «impegna» al pluralismo — condividendone l’assunto di base della tensione tra autodeterminazione ed eteronomia, l’ambiente di un conflitto continuativo e inevitabile, di un equilibrio instabile costantemente perso e riguadagnato, non meno che l’apprensione nei confronti dei totalitarismi de facto e in potenza che si nascondono dietro le visioni moniste e assolute del mondo.66

Rispetto poi — di converso — all’eventualità di derive relativistiche intrinseca alla visione pluralista, Heller si oppone recisamente al «relativismo culturale estremo»,67 descritto come capziosa risposta all’etnocentrismo, come irresponsabile sospensione di giudizio sulle scelte di valore operate da culture differenti, laddove esse violino i due diritti umani — riconosciuti come fondamentali — di «libertà» e di «vita».68 In antitesi rispetto alle distonie di quello che con Bauman si può definire «un tipo di modernità individualizzato, privatizzato, in cui l’onere di tesserne l’ordito e la responsabilità del fallimento ricadono principalmente sulle spalle dell’individuo»,69 il movimento ondivago tra universale e particolare tipico della «persona» di Heller — traslato sul piano politico — approda così a un «relativismo culturale limitato»,70 al di sotto del quale la tolleranza rispetto alla differenza di costumi e di politiche risulta subordinata rispetto a «libertà» e «vita» — valori riguardo alle cui determinazioni in questo preciso contesto non altro si dice, se non che sono «qualificati per un uso normativo universale»71

Lo spartiacque della responsabilità politica diviene pertanto questo:

Gli attori politici possono e devono essere messi a confronto sui terreni del loro rispetto o della loro mancanza di rispetto per le vite e libertà di tutte le popolazioni, incluse le loro.72

Mentre l’agire guarda al minimum valoriale oggettivo del «rispetto» kantiano, si allinea all’ideale universale della dignità umana, recupera il movente della «legge morale»73 salvo diluirne sin da subito l’autosufficienza dei connotati, seguendo la via di un compromesso ragionevole fra posizioni in contrasto, in linea con la premessa pluralista.

5. L’indeterminatezza della «contingenza» tra orientamento morale e scetticismo

A questo punto dell’analisi si potrebbe classificare l’intero discorso di Heller — con la sua dignità e i suoi sfilacciamenti — nella voce eterogenea delle teorie a vario titolo attinenti la «vita buona» che digradano poi in un’etica pubblica. E tuttavia in questo modo si afferrerebbe solo in parte il senso di questo specifico argomentare. Si scavi viceversa ancora un poco in profondità, muovendo un passo indietro verso l’individuo e si toccherà un aspetto ulteriormente problematico del quadro espositivo.

Ora, se i rilievi fatti sino a questo momento sono pertinenti, l’esperienza etico-morale in questione — e direttamente il suo potere di orientare l’agire — sono poste al di sotto dell’oscillazione tra comprensività universale e caducità individuale, nonchè all’insegna dello scambio tra libertà e limite entro una cornice pluralista. Ebbene, sviluppando i termini di questa dinamica, Heller si rifà spesso ad uno sfondo accentuato di «contingenza»,74 ricorrendo così ad un concetto dalla lunga tradizione filosofica, impiegato a ribadire la condizione precipua di «non necessarietà», la tipica «assenza di determinazioni» umana, dunque il dominio in sè della «possibilità» nel suo portato più vasto. A parte il denotare una certa complementarietà con l’idea già discussa di «libertà», una siffatta contingenza emerge in primis come concetto perlopiù sganciato dalla mole di implicazioni e distinguo che storicamente la riguardano (e che rimandano ad Aristotele, Spinoza, Leibniz, Kant, Hegel e più di recente a Foucault per citare solo alcuni riferimenti significativi75 — una messe di senso assai nutrita sulla quale qui comprensibilmente non si indaga). A volerne rinvenire la cifra distintiva, la contingenza à la Heller esprime soprattutto il disincanto novecentesco nei confronti delle certezze metafisiche e degli ideali di «sapere assoluto»; su questa traiettoria incarna la variabile «aperta» dell’insofferenza moderna nei confronti della categoria della necessità. Certo essa occasionalmente assume i connotati più impegnativi di «origine» della «non necessarietà» — fors’anche di dimensione metafisica e astorica entro la quale si affaccia l’interrogativo filosofico primario sull’«essere», la ricerca della sua «verità» al di là degli angusti confini propri di «enti» determinati — e tuttavia si tratta di suggestioni non conchiuse.

La contingenza, a questa stregua, appare soprattutto una costante ineludibile della condizione umana, nondimeno sganciata dal «fatto» puramente biologico.

L’accidente della nascita scaglia ogni persona in un mondo particolare. Non vi è nulla nella nostra costituzione biologica o nel nostro patrimonio genetico che possa pre-determinare la nostra nascita in un’epoca piuttosto che in un’altra, in una società piuttosto che in un’altra, in una condizione sociale piuttosto che in un’altra. L’affermazione ha validità generale in quanto fa riferimento a qualcosa che avviene sempre e ovunque: la contingenza originale come condizione generale dell’esistenza umana.76

La sua matrice è in parte sociologica (emerge una certa fascinazione per la teoria dello sviluppo delle società stratificate tradizionali in Luhmann77 e si intravede una suggestione semantica dalla «prospettiva funzionalista» di ispirazione spenceriana e durkheimiana di T. Parsons),78 in parte storica (dalle considerazioni sulla necessità si evince un debito concettuale rispetto alle dinamiche interne al processo di civilizzazione europea descritte da N. Elias).79

Il riferimento ad una «doppia contingenza» (dual contingency) — si noti la mutuazione, di fatto esclusivamente terminologica, dal succitato funzionalismo80 — individua principalmente la distinzione tra una forma «primaria» e una «secondaria».81 La prima forma allude in generale all’«irriducibilità» tipicamente umana alla categoria della necessità, inscritta nel primo stadio di consapevolezza della «non predeterminazione» dell’ essere e dell’agire dei pre-moderni, i quali tuttavia — prigionieri della necessità incarnata in vincoli pervasivi di sangue, gruppo, religione, confine geografico etc. — traevano con fatica questa loro coscienza fuori dalle insidie disposte su più livelli dall’organizzazione sociale di appartenenza.82 In secondo luogo si dà una «forma secondaria» e matura di contingenza, riconducibile in toto alla «persona moderna», pienamente «persona contingente», laddove tesa a riferirsi finalmente alla «specificità» dell’esistenza umana come ad un universo non circoscritto e a cimentarsi con la riconosciuta realtà del «nascere» privi di un telos predeterminato.83

Col richiamo specifico alla contingenza si tocca forse il culmine dell’accostamento all’indeterminatezza, sebbene la dichiarata cifra in sospeso del reale si componga in maniera perlopiù soddisfacente con la serie dei rimandi stabili chiamati a fare da pezza di appoggio a livello della sfera morale (si è detto che Platone, Aristotele, Kant, Kierkegaard individuano riferimenti irrinunciabili). E tuttavia, proprio l’evidente contraddittorio intrattenuto con l’incerto può dar adito viceversa a qualche perplessità, muove a cogliere l’ambiente di contingenza da altra angolatura.

Non suggerisce forse parimenti l’aggancio ad un siffatto sottofondo di indeterminatezza che la promessa di un orientamento morale sia quantomeno discutibile?

Al riguardo — e rimanendo nell’ambito di un’indagine sul reale colto nell’ampio spettro delle sue antinomie — gli argomenti elaborati da B. Williams a proposito del concetto di «sorte» — nozione apparentata con quella della «contingenza» — si pongono come eloquente contraltare problematico alle conclusioni di carattere morale del discorso helleriano, per cui pare opportuno accennarvi.84 Williams conduce — diversamente da Heller — una disamina declinata in senso scettico, la quale seziona più che sciogliere nodi teorici. Il contesto al di sotto del quale queste riflessioni prendono forma è la vasta e articolata polemica nei confronti delle rielaborazioni del programma kantiano in etica della «teoria della giustizia» di J. Rawls e nei confronti dell’utilitarismo — obiettivi critici tradizionalmente privilegiati dell’autore.

«Quando dico che qualcosa dipende dalla sorte, non intendo sostenere in alcun modo che sia incausato»85 esordisce Williams a proposito del prodursi «in senso ampio» e «indefinito»86 di situazioni inconsuete — la «sorte» appunto — a cui si rimanda la riuscita o il fallimento dell’agire — tanto deliberato, quanto involontario — di ciascuno. Il riferimento va dunque in generale a fattualità sia interne (e dunque psicologiche), sia esterne all’individuo che intersecano l’esperienza umana, inducono un effetto coinvolgente delle decisioni e delle scelte per giungere a condizionare in ultima istanza la realizzazione delle aspettative pratiche sull’esistenza — e dunque a determinare l’esito di ciò che si dice «progetto di vita».

La «sorte» in Williams è un concetto denso, che ospita più di un distinguo.87 Si richiama la «sorte costitutiva» come insieme delle circostanze e situazioni che per gli antichi individuava la «condizione di partenza», ciò che conclamava o meno un destino di saggezza.88

Ma si opera soprattutto una distinzione tra «sorte intrinseca» e «sorte estrinseca»89 rispetto al progetto di vita, grosso modo basata — rispetto all’uomo — sulla differenza «tra ciò che è e ciò che non è determinato da lui e dalla persona che egli è»90 — così che emerge di fatto uno spartiacque tra variabili interne, psicologiche dell’agente — connesse non solo alla sua volontà, ma legate anche al carattere — e ciò che del concetto di «fortuna» rimane al di fuori di noi stessi.

Per Williams passa per questo particolare discernimento dei modi della sorte la giustificazione razionale del «progetto di vita» da parte non solo dell’agente, ma anche di chi osserva e utilizza in fin dei conti un unico criterio di discrimine: la verifica del successo o dell’insuccesso delle azioni rispetto agli obiettivi prefissati. Come pure, l’interpretazione delle declinazioni della «sorte» è altresì medium di lettura del coinvolgimento in azioni al cui esito si reputa di aver concorso, deliberatamente o casualmente (e dunque ha a che fare pesantemente con quell’insieme di significati che ruota attorno al cosiddetto «rincrescimento dell’agente»).91 Così che partecipa di questo particolare «sentire» l’idea che si sarebbe potuto agire diversamente, anzi si può affermare che l’essenza stessa del rincrescimento sia la possibilità dei modi alternativi in cui ci si sarebbe potuti comportare.

L’analisi di Williams si snoda per il tramite di casi indagati fin nelle minime sfumature — figura paradigmatica è in questo senso l’«artista creativo», peraltro sganciato dal contesto storico, di nome Gauguin — di cui si pone che abbia a cuore le pretese altrui e sia consapevole di un certo peso delle conseguenze nel disattenderle. Ma del quale si considera in particolare come la potente e dichiarata ambizione di divenire un acclamato pittore verrà misurata dagli altri a posteriori e retrospettivamente utilizzando il metro della effettiva riuscita rispetto al progetto originale.

Ancora è la tolstojana Anna Karenina92 a incarnare una sconfitta — e una forma conseguente di rincrescimento dell’agente — non solo dovuta ad una congiuntura esterna negativa, ma soprattutto ad uno stato psicologico (ad una «sorte intrinseca») che rende inaccettabile a questa donna — dacchè il suo progetto di vita è andato in frantumi — un cambio di rotta all’esistenza, una qualsiasi alternativa valida al suicidio.

Queste, oltre a numerose altre riflessioni sul mutevole e imprevedibile corso della «sorte» — nonché sul tipo di durevole effetto che essa esercita in ognuno di noi — sono funzionali alla critica di Williams intanto al kantismo, al quale viene imputato di espungere la contingenza dagli oggetti della valutazione morale, di sottrarre indebitamente all’influenza determinante della sorte e la dignità stessa della moralità e lo stesso soggetto agente.93

Ma inducono anche — ed è questo l’aspetto che qui interessa particolarmente — un ripensamento sulla ricerca morale in sé, evidenziandone i limiti e criticandone i procedimenti, laddove essa — sotto forma di teoria — tradisce la propria precarietà laddove nutrita dalle false premesse ideali del corso di una volontà incondizionata contraddetta dall’esperienza quotidiana, nonché messa fuori strada da un modello di vita pienamente razionale. Nel guardare all’agire di ciascuno in maniera retrospettiva, la tensione essenziale tra riflessione e pratica viene ricomposta a posteriori da un’ingiunzione morale che entra nel merito di atti compiuti entro quei contesti di incertezza e di informazione parziale disegnati capricciosamente dalla sorte. La critica di Williams investe quindi direttamente la retrospettiva di taglio morale per sottolineare come nel ginepraio delle interpretazioni e degli interrogativi emergenti (tra i tanti, e riprendendo la figura dell’«artista creativo»: sotto quale profilo ricondurre gli effetti sulle persone della decisione di Gauguin di intraprendere la sua carriera di pittore? Nel malaugurato caso che Gauguin avesse fallito, sarebbe variato il giudizio sulla liceità delle sue azioni?) si immetta a sproposito il moralista, animato dalla vana pretesa di predisporre una sorta di «prontuario» normativo:

Un teorico della morale, riconoscendo un certo valore al successo del progetto di Gauguin e quindi probabilmente alla sua scelta potrebbe tentare di far rientrare questa scelta entro un quadro di regole morali, formulando una norma sussidiaria atta a giustificare quella scelta prima del suo esito. Quale potrebbe essere questa norma? Non può consistere nel dire che uno, se è un grande artista creativo, è moralmente giustificato quando decide di ignorare le aspettative degli altri: a parte i dubbi concernenti il contenuto, la clausola limitativa dà per risolto un problema che, nel momento in cui si presenta, nessuno è in grado di risolvere. D’altro canto, dire: «… se uno è convinto di essere un grande artista creativo», servirebbe a fare della sua ostinazione e della sua fatua autoillusione dei motivi di giustificazione; mentre dire «… se uno è ragionevolmente convinto di essere un grande artista creativo» sarebbe, se possibile, anche peggio. Che cosa si intende per convinzione ragionevole in un caso come questo? Forse che Gauguin avrebbe dovuto consultare professori di arte? L’assurdità di correttivi del genere mette a nudo l’assurdità dell’impresa di coloro che cercano di far rientrare casi del genere in un quadro di norme.94

La «sorte» di Williams si dà allora alla stregua di provvido incomodo, il quale insinuatosi nell’idea stessa di morale induce a ripensarne i connotati, mentre più risicati appaiono i margini in generale della deliberazione. Anche la liceità della pratica retrospettiva vacilla sotto i colpi di un siffatto scetticismo.

Rispetto a questo specifico ventaglio di osservazioni si intuisce come la «contingenza» helleriana — e nell’insieme l’intero discorso che va dalla libertà al limite — vanti un portato più conformista, funzionale a ben vedere all’economia complessiva del discorso della condotta che ha il suo baricentro nella «persona buona». Pur coincidendo infatti con lo spazio aperto della «possibilità» — del fallimento dell’uomo quanto della realizzazione del suo «destino», nel senso letterale di «destinazione» — quest’ultima appare un’entità docile alle istanze parzialmente non prospettivistiche dell’impianto morale helleriano, di fatto in bilico costante tra il riconoscimento dell’unicità di ciascun individuo e l’attrazione irresistibile per un modello oggettivo di conoscenza morale. Nel toccare lo zenit dell’indeterminatezza l’individuo che si sottrae ai vincoli della necessità veste di un habitus morale la propria condizione di contingenza e trova in questo modo il suo spazio nel mondo.

L’accostamento all’indeterminatezza che pervade il reale, la presa diretta della sua struttura mobile, rappresentano per più di un pensatore contemporaneo la tappa obbligata nella riflessione sul presente, mentre il peso degli interrogativi legati alla sfera morale assume una consistenza variabile. Nel caso specifico di Heller, il suo schietto disincanto presiede nelle intenzioni ad una proposta morale fuori da schemi ad personam di vita buona, da assiologie tanto intransigenti, quanto viceversa relativistiche. Se la stessa proposta suggerisce che non esiste un’alternativa netta al problema di come dobbiamo vivere, l’incerto e la possibilità che la connotano non sono compagni di viaggio meno raccomandabili di altri, piuttosto comprimari di rilievo in una Weltanschauung che abbraccia l’attuale a partire dalla sua vociante complessità.


  1. Sul contributo teorico della Scuola di Budapest cfr. E. Franchetti (a cura di), La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, Firenze, La Nuova Italia, 1978. ↩︎

  2. Cfr. A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Milano, Feltrinelli, 1980, A. Heller, Per cambiare la vita. Intervista di Ferdinando Adornato, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp.156-199. ↩︎

  3. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Torino, Einaudi, 1973. ↩︎

  4. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica: “Grundrisse”, (a cura di G. Backhaus), Torino, Einaudi, 1976. ↩︎

  5. K. Marx, Il capitale, Roma, Editori Riuniti, 3 voll., 1970. ↩︎

  6. A. Heller, Per cambiare la vita, cit., p. 159. ↩︎

  7. Cfr. A. Heller, A. Heller, una vita per l’autonomia e la libertà, in «Iride», n. 16, 1995, pp. 565-566. ↩︎

  8. A. Heller, A theory of history, London, Routledge & Kegan Paul, 1982. ↩︎

  9. A. Heller, A philosophy of history in fragments, Oxford, Blackwell, 1993. ↩︎

  10. A. Heller, A theory of modernity, Cambridge USA, Blackwell, 1999. ↩︎

  11. A. Heller, Ethics in the Contemporary World, in «Daimon — Revista de Filosofia», n. 17, 1998, p.9. ↩︎

  12. Cfr. N. Luhmann, R. De Giorgi , Teoria della società, F. Angeli, Milano, 1992, pp. 281-316. ↩︎

  13. A. Heller, La condizione politica postmoderna, Marietti, Genova, 1992, p.23. ↩︎

  14. Cfr., tra gli altri riferimenti, A. Heller, A Philosophy of History in Fragments, cit., pp. 16,17 e A.Heller, A Theory of Modernity, cit., p. 155. ↩︎

  15. Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla. Saggio di ontologia fenomenologica, Milano, Il Saggiatore, 1984, p. 738. ↩︎

  16. Cfr. G. Lukács, L’anima e le forme, Milano, Sugar, 1972. ↩︎

  17. «Forma» intesa come struttura assoluta di senso della realtà umana. ↩︎

  18. A. Heller, Filosofia morale, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 24. ↩︎

  19. Ivi, p. 24. ↩︎

  20. Cfr. ivi, p. 297 e A. Heller, A theory of modernity, cit., p. 215. ↩︎

  21. Cfr. K. Jaspers, Chiarificazione dell’esistenza, Milano, Mursia, 1978, pp. 184-227. ↩︎

  22. K. Jaspers , Ragione ed esistenza, Genova, Marietti, 1971, p. 140. ↩︎

  23. Ivi, p. 142. ↩︎

  24. Cfr. A. Heller, Filosofia morale, cit.. p. 23. ↩︎

  25. M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976, p. 65. ↩︎

  26. Platone, Gorgia, in Opere complete, Bari-Roma, Laterza, 1971, vol. V, pp. 147-256. ↩︎

  27. A. Heller, Le condizioni della morale. La questione fondamentale della filosofia morale, Roma, Editori Riuniti, 1985, p. 21. ↩︎

  28. Cfr. A. Heller, Istinto e aggressività. Introduzione a un’antropologia sociale marxista, Milano, Feltrinelli, 1978, p. 87. ↩︎

  29. Ibid. ↩︎

  30. Cfr. — tra le numerose opere della maturità — il contributo di Filosofia morale, cit. ↩︎

  31. Cfr. A. Heller, Etica generale, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 144. ↩︎

  32. Cfr. A. Heller, Filosofia morale, cit., p. 313 e A. Heller, Morale e rivoluzione. Intervista a cura di Laura Boella e Amedeo Vigorelli, Roma, Savelli, 1979, pp.98 e 99. ↩︎

  33. P. Foot, La natura del bene, Bologna, Il mulino, 2007. ↩︎

  34. Cfr. ivi, pp. 99-118. ↩︎

  35. La disamina di Foot individua sfumature di senso — nonché qualche fraintendimento sotto il profilo logico — della nozione di «felicità» , laddove essa è tradotta linguisticamente e semanticamente in termini di «sentimento profondo» (P. Foot, op. cit. pp. 104-109). ↩︎

  36. Ivi, pp.108-110. ↩︎

  37. Cfr. A. Heller, Filosofia morale, cit., p. 112 e S. Kierkegaard, Enten-eller, (a cura di G. Cortese), Milano, Adelphi, 1978, vol. V, pp. 95,99,100. ↩︎

  38. A. Heller, Filosofia morale, cit., p.24. ↩︎

  39. Ivi, pp.30-31. ↩︎

  40. Cfr.A. Heller, Dove siamo a casa. Pisan Lectures 1993-1998, Milano, F. Angeli, 1999, p. 153. ↩︎

  41. H. Arendt, L’umanità in tempi bui. Riflessioni su Lessing, Milano, Cortina, 2006, p. 86. ↩︎

  42. E.Berti, Saggezza o filosofia pratica?, in «Etica & Politica», (rivista on-line a cura Dip. Filosofia Università Trieste — www2.units.it), n. 2, 2005, p.7. ↩︎

  43. Cfr. in particolare i passaggi tratti dall’ ottavo capitolo del saggio Des réactions politiques del 1797 e riportati in I. Kant — B. Constant, Il diritto di mentire, Firenze, Passigli, 2008, pp. 19-32. ↩︎

  44. Ivi, p. 21 ↩︎

  45. Ivi pp. 21,22. ↩︎

  46. Ivi, p. 21. ↩︎

  47. A. Heller, Le condizioni della morale, cit., pp.25-26. ↩︎

  48. A. Heller, Dove siamo a casa. Pisan Lectures 1993-1998, cit., pp. 94-95. ↩︎

  49. Cfr. A. Heller, Le condizioni della morale, cit., p. 13. ↩︎

  50. Cfr. Ch. Larmore, Dare ragioni. Il soggetto, l’etica, la politica, Torino, Rosemberg & Sellier, 2008, pp. 37-40. ↩︎

  51. Al riguardo basta confrontare la disamina condotta da Heller sulle cosiddette «logiche» della modernità. (Si veda A. Heller, The Three Logics of Modernity and the Double-Bind of Imagination, in «Graduate Faculty Philosophy Journal», n. 21, 1999, pp. 177-193. ↩︎

  52. A. Heller, Etica Generale, cit., p. 151. ↩︎

  53. Ivi, pp. 151-155. ↩︎

  54. A. Heller, Etica Generale, cit., p. 151. ↩︎

  55. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, p. 19. ↩︎

  56. Ibid. ↩︎

  57. Ibid. ↩︎

  58. A. Heller, Le condizioni della morale, cit., p. 47. ↩︎

  59. S. Veca, Etica e politica, Milano, Garzanti, 1989, p. 162. ↩︎

  60. Cfr. I. Berlin, Due concetti di libertà, Milano, Feltrinelli, 2000. Sul tema si veda anche G. Fornero — S. Tassinari, Le filosofie del Novecento, Milano, Mondadori, 2002, Vol. II, pp. 1473-1474. ↩︎

  61. Sull’argomento cfr. S. Veca, op. cit., pp. 161-163. ↩︎

  62. Sul tema del conflitto e della frammentazione dei valori in Berlin, cfr. G. Panizza, Conflitto e complessità etica, Torino, Utet, 2003, pp. 10-17. ↩︎

  63. I. Berlin, «Sulla ricerca dell’ideale» in La dimensione etica nelle società contemporanee, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1990, p. 12. ↩︎

  64. Ibid. ↩︎

  65. Ivi, p. 11,12. ↩︎

  66. Cfr. I. Berlin, Due concetti di libertà, cit., p. 73 e A. Heller, Dove siamo a casa. Pisan Lectures 1993-1998, cit.,p. 153. ↩︎

  67. A. Heller, Oltre la giustizia, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 57. ↩︎

  68. Cfr, ivi, pp. 57-65. ↩︎

  69. Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. XIII. ↩︎

  70. A. Heller, Le condizioni della morale, cit., p. 50. ↩︎

  71. A.Heller, Oltre la giustizia, cit., p. 64. ↩︎

  72. Ibid. ↩︎

  73. Cfr. A. Heller, Le condizioni della morale, cit., p. 58. ↩︎

  74. Cfr., tra i numerosi passaggi dedicati all’argomento, A. Heller, Filosofia morale, cit., pp. 17-54. ↩︎

  75. Per alcune occorrenze del problema della contingenza negli autori menzionati cfr.: Aristotele, Della interpretazione, Milano, Rizzoli, 1992, 12 — B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico, Torino, Boringhieri, 1959, parte I, prep. 29, p. 49 — G. W. Leibniz, Monadologia, in Monadologia. Causa Dei, (a cura di G. Tognon), Roma-Bari, Laterza, 1991, Parte II, 5, art. 33, pp. 91-92 e Parte II, 5, art. 36, p. 92 — I. Kant, Critica della ragion pura, (a cura di P. Chiodi), Torino, Utet, 1992, pp.136-185 — G.W.F. Hegel, Scienza della logica, Roma-Bari, Laterza, 1988, Vol. I, pp. 609-625 e Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830), Milano, Rusconi, 1996, §§ 142, 143.a), 144.b), 145, 146, 147.c) pp. 303-309. Sull’idea di «contingenza» in Foucault cfr. invece l’analisi di F. Leoni in Filosofia teoretica (a cura di R. Ronchi), Torino, Utet, 2009, pp. 56-57. ↩︎

  76. A. Heller, La condizione politica postmoderna, cit., pp. 22-23. ↩︎

  77. Cfr. N. Luhmann, R. De Giorgi, Teoria della società, cit., pp. 281-316. ↩︎

  78. T. Parsons T, Il sistema sociale, Milano, Edizioni di Comunità, 1965. ↩︎

  79. Heller cita in particolare (cfr. A Theory of modernity, cit., pp. 153, 283) The civilising process. Cfr. in proposito la parte II di questo lavoro (in tr.it., Il processo di civilizzazione. I. La civiltà delle buone maniere; II. Potere e civiltà, Bologna, Il Mulino, 1983) alla sez. IV — «Per una teoria della civilizzazione» — pp. 297-320. Qui Elias, che considera il processo di civilizzazione «un mutamento del comportamento e della sensibilità degli uomini in una direzione ben precisa» indaga il passaggio dall’eterocostrizione sociale all’autocostrizione, nonchè l’interpenetrazione tra razionale e irrazionale alla stregua di dinamica interna al cambiamento, soffermandosi sulla progressiva differenziazione delle funzioni sociali e sull’aumento di complessità nell’ habitus psichico dell’«uomo civile», rispetto ai membri delle società poco differenziate. ↩︎

  80. Il concetto di «doppia contingenza» (dell’«inter-azione») è stato impiegato da T. Parsons nell’ambito del modello di società come insieme di parti interdipendenti, rivolte alla stabilità del sistema, descritto ne Il sistema sociale cit. In quel contesto rappresentava la struttura del legame normativo-valutativo nell’ambito dei rapporti di interazione tra «ego» e «alter» (cfr. in particolare T.Parsons, Il sistema sociale, cit., pp. 42-52). ↩︎

  81. Heller A., Filosofia morale, cit., p. 23. ↩︎

  82. Cfr. ibid. ↩︎

  83. Cfr. ibid. ↩︎

  84. Cfr. B Williams, Sorte morale, il Saggiatore, 1987, pp. 33-57. ↩︎

  85. Ivi, p. 35. ↩︎

  86. Ibid. ↩︎

  87. Peraltro la disamina in oggetto può venire confrontata con le suggestioni scettiche sullo stesso tema elaborate da T. Nagel (Cfr. T. Nagel, Questioni mortali, Milano, Il Saggiatore, 1986, pp. 30-43). Se entrambi gli autori hanno indagato il corso mutevole della “sorte” in relazione alle soluzioni di matrice kantiana del problema morale, Nagel ha insistito sul legame tra essa e le credenze intuitivamente plausibili che la riguardano. Il concetto induce altresì un’erosione della valutazione morale nella misura in cui non si danno oggetti di volontà buona o cattiva completamente sotto il controllo umano. Le «azioni» dal canto loro tendono a sfumare negli «eventi», ossia nelle circostanze di varia natura rispetto al quale il «libero arbitrio» è perlopiù parziale. Tuttavia se è un’evidenza empirica che la valutazione morale continua a essere perseguita e si salda al risultato di «quel che si è fatto» — (cfr. p.35) la sorte per Nagel « non è un errore, etico o logico, ma la percezione di uno dei modi in cui condizioni intuitivamente accettabili di giudizio morale minacciano di indebolirlo del tutto» (p.32). I nostri atteggiamenti morali — posto che «qualunque cosa facciamo appartiene a un mondo che non abbiamo creato»(p.43) — riflettono allora la profonda conformazione antinomica del reale in cui l’individuo portatore di specifici punti di vista è suo malgrado calato. ↩︎

  88. B. Williams, op. cit. p. 33. ↩︎

  89. Cfr. ivi, pp. 39 e sgg. ↩︎

  90. Ivi, p. 40. ↩︎

  91. Ivi, p. 42. ↩︎

  92. Ivi, pp. 41-42. ↩︎

  93. Ivi, p. 34. ↩︎

  94. Ivi, p. 38. ↩︎