Recensione a Peter Burke, Testimoni Oculari. Il significato storico delle immagini

Peter Burke, Testimoni Oculari. Il significato storico delle immagini, Carocci, Roma 2002.

La prefazione del libro di Peter Burke, Testimoni Oculari. Il significato storico delle immagini,1 pubblicato per l’edizione italiana nel 2017, esordisce con una considerazione sull’ineludibile rapporto conflittuale dello storico con il passato e le sue rappresentazioni. Per esprimere in immagini questo concetto, Burke si rifà al caso di un pittore in difficoltà davanti alla scelta del vestiario con cui dipingere un personaggio storico come Alessandro Magno:2 sarà bene riflettere su quali fossero i costumi dell’età ellenistica, o meglio accrescere il significato del quadro con vesti anacronistiche, magari proprie dell’epoca in cui vive lo stesso autore? Ecco che sovviene alla memoria la celebre opera di Rembrandt che Paul Ricœur custodiva gelosamente nella parete retrostante alla scrivania del suo studio. Il quadro infatti rappresentava per Ricœur l’impresa filosofica attraverso la figura di Aristotele, vestito secondo gli abiti rinascimentali, mentre contempla il busto di Omero. A corredo del suo vestiario un medaglione con l’effigie di Alessandro Magno, il tutto a simboleggiare lo stretto legame tra filosofia, poesia e politica. Omero è il padre della mitologia greca, dalla quale si è sviluppata la filosofia rappresentata da Aristotele, a sua volta precettore di Alessandro Magno, simbolo della politica. In questo contesto aggiungerei la coppia storia-passato, protagonista di prim’ordine. Il riferimento all’opera di Rembrandt non è casuale, se si considerano le analisi che Peter Burke propone nel suo libro, dove raccoglie le considerazioni fatte durante un ciclo di lezioni sul significato storico delle immagini e di come esse possano risultare delle prove e delle testimonianze essenziali per avere più informazioni sul passato, in collaborazione con i documenti testuali. Il legame tra storia, passato, filosofia, poesia – in questo caso intesa anche come arte creativa nel senso figurativo, iconico, sebbene il linguaggio poetico stesso sia essenzialmente foriero di immagini – e anche politica, sembra riproporsi esattamente nell’ordine delle considerazioni ricœuriane sul quadro di Rembrandt, oltre che accomunare i percorsi teorici intrapresi dai due intellettuali, Burke e il filosofo francese. L’accostamento tra i due può essere una utilie chiave interpretativa durante questa lettura.

La problematica della rappresentazione si manifesta infatti sia sulle creazioni figurative che su quelle testuali. Non di rado si è voluto sottolineare come il linguaggio sia sostanzialmente metaforico e figurato, come indicano certe radicalizzazioni derivate dalla cosiddetta «svolta linguistica», in cui si dà un certo peso alle figure retoriche.3 Solo ultimamente tuttavia, soprattutto dagli anni Ottanta del Novecento, le arti figurative in generale sono state considerate come una valida alternativa per avere maggiori informazioni sul passato. Il testo di Burke sin dal titolo propone di approfondire se e come le immagini possano essere valutate alla pari delle testimonianze storiche. L’opera infatti applicherà una sorta di ermeneutica dell’immagine, la quale sembra presentare delle forti similitudini con i problemi ermeneutici, fenomenologici ed epistemologici del testo storico, che sono stati affrontati da Ricœur sin dalla trilogia di Temps et récit. Proprio durante l’ultimo Ventennio del Novecento infatti immagine e linguaggio hanno intrapreso dei percorsi comuni per quanto riguarda l’approccio epistemologico in ambito storico: se nella storiografia il linguaggio figurativo ha assunto una grande importanza, anche le immagini, i dipinti, le fotografie e le videoregistrazioni sono state considerate dello stesso valore gnoseologico rispetto alle testimonianze storiche scritte o oralmente trasmesse. Anche Burke come Ricœur affronta la questione dal punto di vista del concetto di traccia, distinguendolo da quello di fonte: il termine secondo lo storico inglese può infatti dare adito a malintesi, proprio a causa del problema della rappresentazione del passato e dell’enigma della passeità del passato, temporalmente antecedente rispetto a coloro che ne esaminano le reliquie, ma attuale attraverso le sue vestigia. Per questo anche le immagini così come i testi si tramandano ai posteri sotto forma di traccia e assumono perciò un carattere polisemico:4 lo storico non potrà ignorare il fatto che il quadro è stato dipinto in un determinato contesto, quello del mondo in cui l’autore è vissuto; inoltre l’autore stesso può avere avuto varie motivazioni per trasmettere con l’immagine determinati messaggi, derivabili dall’analisi comparata del linguaggio simbolico della rappresentazione con gli aspetti psicologici, culturali, sociali che caratterizzavano quel tempo storico. L’interpretazione dell’immagine è legata ad un mondo ormai passato ed essa stessa non può essere considerata semplicemente una fonte, ossia una testimonianza diretta da cui lo storico può attingere, ma mediata in primo luogo dalla distanza temporale che separa lo studioso dalla realtà in cui l’opera è stata prodotta. Tutte queste discriminanti vengono abilmente analizzate da Burke in relazione alle problematiche ermeneutiche, filosofiche e storiografiche più recenti che hanno caratterizzato il dibattito del Novecento attorno alla questione della rappresentazione storica.5 A questo proposito per Burke ci sono due questioni che vanno tenute a debito conto nella storia dello sviluppo delle immagini come testimonianza storica: la prima è l’invenzione della stampa e l’utilizzo delle xilografie, che hanno consentito una riproducibilità di copie identiche. Ciò non solo ha permesso la maggior diffusione delle immagini ma anche una maggior accuratezza dal punto di vista scientifico, come nel caso dei manuali di botanica, che i greci preferivano non descrivere tramite disegni poiché in questo modo le specie vegetali non erano identicamente riproducibili. Il secondo fattore è la distinzione dell’arte creativa dall’arte documentaria. Un’ultima distinzione, ma non in ordine di importanza, è la documentazione figurativa prodotta a fini propagandistici: si ricordano quindi le raffigurazioni stereotipate degli indigeni, secondo lo sguardo etnocentrico dei primi esploratori o le immagini delle battaglie, finalizzate a glorificare le gesta della propria parte.

In questo contesto sono fondamentali gli studi metodologici sull’immagine, i differenti approcci che sia gli autori sia gli studiosi hanno avuto rispettivamente nel confrontarsi con la raffigurazione della realtà i primi, e nell’intendere il significato storico delle rappresentazioni i secondi. La prima distinzione è di carattere metodologico, laddove si individua una prima differenza tra fotografie e ritratti, quindi una distinzione epistemologica con la coppia iconografia ed iconologia. L’iconografia è uno strumento che cerca di interpretare il significato delle tracce, seguendo la metodologia storiografica di Carlo Ginzburg, richiamata sapientemente da Burke con l’esempio letterario del lavoro di investigazione di Guglielmo da Baskerville, il protagonista de «Il nome della Rosa».6 Questo approccio tuttavia sembra essere ormai obsoleto, in quanto oggi l’immagine assume dei significati che vanno al di là del semplice studio immanente delle figure che un’immagine propone. Un esempio può essere quello della pubblicità e delle implicazioni psicologiche delle operazioni di persuasione a scopi di mercato: per esempio Burke cita l’accostamento dell’immagine di una bella donna ad un prodotto di bellezza, intento a conquistare la fiducia del pubblico femminile.7 Si va oltre dunque l’analisi del mero disegno nelle sue componenti tecniche o artistiche e si cerca da una parte di comprendere la relazione che collega la rappresentazione con il pubblico verso cui è riferita, dall’altra il legame tra l’autore e il significato che egli avrebbe voluto dare alla sua opera. Due processi che, per usare un lessico caro a Ricœur, stanno a monte e a valle della rappresentazione, il cui compito è sempre quello di dare un’imitazione della realtà, una mimesis. Imitazione che non significa semplice copia identica, ma riproposizione di un oggetto attraverso un linguaggio che produca a sua volta significato, senza snaturarsi nel suo ruolo di rappresentanza storica fedele al referente originario.8 Di particolare interesse sono le analisi sulla propaganda politica, dove sembra che Burke voglia sottolineare come la rappresentazione del potere e le sue caratteristiche estetiche propendano verso una sorta di culto della personalità, rimasto costante nel tempo anche col variare dei sistemi politici (assolutismo, democrazia, totalitarismo), come dimostrano le analisi delle varie rappresentazioni di Luigi XIV, Napoleone, Hitler e Mussolini, Lenin e Stalin, ma anche di un sostenitore dei valori della Rivoluzione Francese come Charles James Fox.9 Un’altra questione dibattuta che accomuna gli epistemologi storici e gli artisti sono le rappresentazioni dell’Altro, laddove il dipinto vuole più dare una caricatura della realtà piuttosto che rappresentarla in maniera oggettiva. Come detto in precedenza lo sguardo etnocentrico ha non poco contribuito a creare gli stereotipi culturali che tuttora persistono nelle nostre credenze: tant’è che molto spesso gli esploratori in contatto con nuove culture hanno utilizzato categorie proprie della loro civiltà per rappresentare le altre.10 Hanno spazio nell’analisi anche gli ultimi strumenti di rappresentazione, come la fotografia e la cinematografia. L’autore si guarda bene di citare direttamente le tematiche controverse della storiografia contemporanea, per esempio il dibattito sull’autenticità dei documenti fotografici e le videoregistrazioni riguardanti i campi di sterminio, ma si comprende come questi strumenti innovativi abbiano avuto un ruolo fondamentale per lo storico e per il valore epistemologico della disciplina stessa. Gli ultimi capitoli infatti riflettono sull’effettiva possibilità di mettere in comunicazione il testimone diretto, in tal caso l’artista che raffigura la realtà, e lo storico, il quale deve verificare l’opportunità di accogliere la rappresentazione come prova documentaria, valutandone la veridicità e la pertinenza con la realtà a cui si riferisce. Vi sono comunque numerosi indizi che fanno propendere per una visione dell’epistemologia storica che voglia evitare qualunque deriva negazionista, come dimostrano anche i tentativi di distinguere l’ideale dell’artista dalla realtà rappresentata e le varie considerazioni sui resoconti fotografici della guerra in Vietnam, che hanno influito enormemente sull’opinione pubblica e delle quali non si discute l’autenticità e il loro valore storico. Se ne sottolinea invece la portata narrativa, dunque si dà all’immagine un ruolo testuale di narrazione, cronachistico, sottolineando il potere documentario e storiografico delle arti figurative.11 Il testo si presenta dunque come uno scorrevole percorso itinerante tra i principali problemi che implicano l’utilizzo delle immagini come prova documentaria in storiografia, senza addentrarsi in maniera specifica nel dibattito teoretico tra gli storiografi e gli epistemologi: Burke infatti riesce a conciliare un linguaggio divulgativo adatto a qualunque pubblico con un’acribia metodologica dall’elevato tenore accademico.


  1. Peter Burke, Testimoni oculari. Il significato storico delle immagini 1ª edizione, Carocci, Roma, 2017, tr. it. di Giancarlo Brioschi (Eyewitnessing. The Use of Images as Historical Evidence, Reaction Books, London, 2001). ↩︎

  2. Ivi, pag. 9. ↩︎

  3. Uno dei principali referenti di Paul Ricœur da questo punto di vista è Hayden White. Già nella trilogia di «Temps et Récit», in particolare nel terzo volume (P. Ricœur, Temps et Récit. Le temps raconté, 1ª edizione, vol. 3, Éditions du Seuil, Paris, 1985) abbiamo una disamina della teoria dei tropi di White, in cui si elencano punti critici e punti di forza del suo utilizzo in storiografia. ↩︎

  4. A questo proposito consulta anche Vinicio Busacchi, La capacità di ognuno, 1ª edizione, Carocci, Roma, 2014, p. 88 e seg. ↩︎

  5. Ho riassunto le principali problematiche storiografiche del Novecento, secondo le indicazioni della bibliografia ricœuriana dell’ultimo Ventennio del Novecento, nella mia tesi di laurea magistrale, Paul Ricœur e la «Scuola delle Annales», Università degli Studi di Cagliari, Cagliari, 2016. ↩︎

  6. Umberto Eco, Il nome della Rosa, 21ª edizione, Bompiani, Milano, 1986. Particolarmente rilevante, per comprendere gli spunti teorici e filosofici che hanno accompagnato la stesura dell’opera di Eco, è la citazione wittgensteiniana a p. 495 di questa edizione. Si comprende la funzione delle tracce in relazione all’uso della ragione. ↩︎

  7. Peter Burke, op. cit., pp. 108-110. ↩︎

  8. Paul Ricœur, Temps et Récit. L’intrigue et le récit historique, 10ª edizione, Éditions du Seuil, Paris, 1983, vol. 1, pp. 105-162. ↩︎

  9. Peter Burke, op. cit., pp. 69-92. ↩︎

  10. Ivi, p. 21 e pp. 143-162. ↩︎

  11. Ivi, pp. 174-175. ↩︎