Wittgenstein e Rorty: dalla parte della filosofia o della letteratura?

Un uomo è prigioniero in una stanza se la porta non è sbarrata e si apre dall’interno, e se a lui non viene in mente che anziché spingere bisogna tirare. (Wittgenstein, Pensieri Diversi.)

L’idea di questo confronto tra Wittgenstein e Rorty nasce dalla curiosità di capire quanto l’impostazione generale dello studioso americano sia vicina a quella del pensatore austriaco. Che non si tratti di una stranezza ma di un interrogativo legittimo lo conferma, indirettamente, lo stesso autore de La filosofia e lo specchio della natura quando ammette il proprio debito nei confronti delle Ricerche e quando presenta come wittgensteiniane alcune delle sue posizioni. Che il quesito sia anche interessante e meno ovvio di quel che sembra è invece ciò che si cercherà di mostrare nel corso dell’articolo che, del pragmatista americano, prenderà in esame soprattutto alcune idee contenute in Contingency, irony and solidarity.1

Senza ombra di dubbio la tesi più audace di Rorty è quella secondo cui non esiste alcuna apprezzabile differenza tra letteratura e filosofia. Con quest’ultimo termine infatti non si indica una disciplina speciale, fornita di un metodo e di un campo d’indagine, ma soltanto «un dipartimento accademico».2 La filosofia non è collocata in un luogo appartato della cultura, dal quale è spettatrice della contingenza dei fatti del mondo. Vale a dire, essa non è un’indagine volta alla ricerca di ciò che è necessario. Solo se fosse la scoperta di un «terreno comune»3 e neutrale dal quale poter gettare uno sguardo globale e onnicomprensivo su quello che accade, potrebbe sperare di non essere considerata letteratura tout court ed evitare di essere messa sullo stesso piano di una qualsiasi scienza naturale o storico-sociale (visto che in tal caso non si occuperebbe della realtà contingente, ma della sua possibilità non empirica). Dal momento però che non esiste alcuna necessità che limiti dall’esterno la contingenza, non c’è neppure uno specifico ambito disciplinare filosofico che colga ciò che è oltre lo strato superficiale dei fenomeni.

Secondo Rorty, che non ci sia alcuna differenza sostanziale tra un libro di filosofia e uno di letteratura lo si ricava dal fatto che in entrambi manca non solo un fuori-testo, ma anche la capacità di scoprire qualcosa.4 Fondamentale, a questo proposito, è la critica rivolta nei confronti della nozione realista di riferimento.5 Egli rifiuta infatti l’idea che, quando si parla, si agganci l’extralinguistico: un testo non esce mai fuori di sé per afferrare parti di realtà. Il riferimento esiste, ma soltanto a livello intratestuale: ciò significa che tutti i libri (compresi quelli scritti dagli scienziati) rinviano esclusivamente ad altre cose che sono state pubblicate. Il pensatore americano tuttavia non si limita soltanto a questo, ma si spinge più in là, osservando che senza un vero e proprio rimando alle cose manca il requisito minimo perché, di un testo, si possa dire che svela qualcosa di reale.6 La conclusione è che qualunque opera crea, cioè fabbrica una sua descrizione del mondo. Dal suo punto di vista, quindi, i grandi libri, cioè quelli che nei rispettivi ambiti chiudono un’epoca e ne aprono un’altra, non svelano mai l’essenza di qualcosa o le leggi universali e necessarie del mutamento fisico ma, semplicemente, forniscono un nuovo vocabolario nei termini del quale ridescrivere, in maniera inedita e originale, ciò che in passato era sempre stato visto in un certo modo. Ai suoi occhi il filosofo che rompe con gli schemi consolidati della tradizione (o lo scienziato che rivoluziona un campo di ricerca) è «un «poeta» nel senso lato del termine»,7 cioè è un «artefice di nuove parole»,8 con le quali cambia il modo di parlare.

È per questo che in Contingency, irony and solidarity si osserva che chi, come Galileo, dischiuse nuovi orizzonti non effettuò «una scoperta».9 Egli cioè non «trovò finalmente le parole che ci volevano per adeguarsi al mondo»,10 ma «si imbatté in uno strumento che dimostrò di assolvere certi scopi meglio di tutti quelli precedenti. Una volta che si capì cosa si poteva fare con un vocabolario galileiano nessuno fu più molto interessato a fare quello che si faceva prima […] con un vocabolario aristotelico».11 Analogamente Yeats non «arrivò a qualcosa a cui non era mai arrivato nessuno prima di lui, [nel senso che] espresse qualcosa che da lungo tempo anelava a trovare espressione».12 Piuttosto «si imbatté in alcuni strumenti con i quali potè scrivere poesie che non erano semplici variazioni sul tema di quelle dei suoi predecessori».13 Se ne deduce che

ciò che vale per il rivoluzionario, lo scienziato e il poeta forte, vale anche per il filosofo forte — per individui come Hegel e Davidson, filosofi a cui importa dissolvere i problemi ereditati dalla tradizione piuttosto che risolverli. Da questa prospettiva, se alla dimostrazione si sostituisce, come metodo della filosofia, la dialettica, o alla teoria della verità come corrispondenza si sostituisce una teoria della verità come coerenza, non si è effettuata una scoperta sull’essenza di un’entità preesistente chiamata «filosofia» o «verità». Si è cambiato il nostro modo di parlare [corsivo mio], e con ciò anche quello che vogliamo fare e che pensiamo di essere».14

Per secoli i filosofi sono stati schiavi dell’idea secondo cui il loro compito era quello di ricercare l’unità del molteplice o le condizioni a priori della conoscenza. Generazioni di pensatori, dice Rorty, si sono immolate sull’altare dell’essenzialismo e del fondazionalismo, ma ora è giunto il momento di voltare pagina, di vestire panni nuovi contrapponendo alla metafisica platonico-kantiana il suo rovescio, cioè l’ironia. Se infatti «la “filosofia”, definita in base alla linea canonica Platone-Kant, è un tentativo di conoscere determinate cose… cose molto generali e molto importanti»,15 per l’ironico «la “filosofia”, così definita, è il tentativo di applicare e sviluppare un particolare vocabolario decisivo prestabilito: un vocabolario imperniato sulla distinzione tra apparenza e realtà».16 Il metafisico, in altri termini, prende sul serio ciò che l’ironico considera solo come un modo di descrivere determinati aspetti. Così mentre per il primo la terminologia caratteristica della tradizione filosofica occidentale — basata su concetti come necessità e contingenza, unità e molteplicità, io e persona, noumeno e fenomeno, essere e divenire — è qualcosa di più di un semplice gioco linguistico, perché «in realtà è uno strumento che ci farà approdare a qualcosa di universale»,17 per l’altro è solo un modo di parlare, ossia uno dei tanti impieghi possibili del linguaggio, l’unico nel quale abbia senso una definizione della filosofia in termini di indagine volta alla scoperta di ciò che è necessario (ed è proprio per questo che egli se ne vuole liberare). Il metafisico

ritiene che, sopra ogni cosa, si ha il dovere intellettuale di accompagnare le proprie tesi più controverse con argomentazioni, che a loro volta comincino da premesse relativamente meno controverse. […]. La forma di argomentazione preferita dall’ironico [invece] è quella dialettica, nel senso che per lui la persuasione si applica ai vocabolari e non alle proposizioni. Il suo metodo è la ridescrizione e non l’inferenza. La specialità dell’ironico è quella di ridescrivere gruppi di oggetti o eventi con un gergo pieno di neologismi, nella speranza che gli altri siano spinti ad adottarlo e ampliarlo [corsivo mio].18

Per questo preferisce alla logica (ovvero alla «semplice inferenza tra proposizioni»19) la dialettica (ossia «la contrapposizione tra vocabolari»20).

La scelta di un termine hegeliano per indicare la sostituzione di una terminologia vecchia con una nuova non è casuale, perché per Rorty il primo esempio cospicuo di filosofia ironica è rappresentato dalla Fenomenologia dello spirito: in quest’ultima, infatti, la dialettica «non è una procedura argomentativa o un modo per ricongiungere il soggetto e l’oggetto ma semplicemente una tecnica letteraria, la capacità di produrre sorprendenti svolte gestaltiche facendo dei sicuri, rapidi passaggi da una terminologia a un’altra».21 Questo significa che nella Fenomenologia ogni figura è la riformulazione originale di una concezione filosofica del passato, dettata dal desiderio di rigettare il modo in cui l’uomo occidentale aveva fino a quel momento descritto se stesso, il proprio rapporto con la realtà, la morale, la religione e quant’altro:

In pratica, benché non in teoria, Hegel abbandonò l’idea di giungere alla verità in favore di quella di rinnovare. Egli criticò i suoi predecessori non perché le loro proposizioni erano false, ma perché i loro linguaggi erano obsoleti.22

In questo modo prese le distanze dal canone platonico-kantiano, inaugurando una tradizione filosofica — quella ironica — che fu poi continuata da Nietzsche, Heidegger e Derrida. Se si volesse trovare «un nome più attuale»23 per quella particolare procedura argomentativa che è la dialettica, si potrebbe parlare di «critica letteraria»24 visto che essa consiste nel «mettere un libro nel contesto di altri libri»25 e quindi nel ridescrivere il primo alla luce dei secondi. Da questo punto di vista i filosofi ironici sono dei critici specializzati nel riformulare testi metafisici.26 Il loro obiettivo è infatti quello di convincere il lettore ad abbandonare il vocabolario in cui quei testi sono stati scritti per fargli abbracciare una terminologia inedita e dunque un nuovo modo di concepire se stesso e ciò che più gli interessa. Essi sono quindi dei «filosofi privati»:27 mirano alla riscrittura, alla ricomprensione in termini originali del proprio rapporto con ciò che ritengono più significativo, vale a dire vogliono soddisfare un’esigenza dell’individuo, non della collettività. Ciò che conta, per loro, è la costruzione di una nuova immagine di se stessi, non l’adempimento di un compito sociale: questo è il genere di filosofia che l’ultimo Rorty auspica e che, nello stesso tempo, pratica.

L’equivalenza con la letteratura non comporta tuttavia la necessità di etichettare Aristotele e Leibniz come scrittori. Il pensatore americano non intende correggere il senso comune, per il quale è ovvio che i due autori appena citati non possano essere assimilati a dei narratori, ma solo liberarlo dalla nozione realista di una collocazione su piani ontologicamente distinti delle loro rispettive attività. Ciò significa che le differenze che sussistono tra esse vanno lette in una chiave pragmatica. Ossia: la ragione per cui autori come Heidegger e Manzoni sono ricorsi a vocabolari differenti è che con essi hanno potuto realizzare meglio gli scopi che si erano prefissi e non che tali vocabolari erano quelli intrinsecamente adatti, cioè gli unici che ingranavano con ciò che dovevano descrivere. Non esistono linguaggi giusti o sbagliati, ma solo linguaggi più o meno funzionali rispetto agli obiettivi indicati. La filosofia ironica, come si è visto, esegue una rilettura della tradizione metafisica con un vocabolario tutto suo, perché ritiene che questo sia l’unico modo di sfuggire all’ipoteca linguistica del canone platonico-kantiano e di dare una descrizione nuova della nostra condizione. Uno scrittore, invece, si prefigge finalità di tutt’altro genere e quindi ricorre a strumenti linguistici che sono diversi da quelli adottati dal filosofo ironico. È solo la possibilità di operare queste distinzioni pragmatiche del tipo mezzo-fine che, secondo Rorty, giustifica il punto di vista del senso comune in base al quale la filosofia è qualcosa di altro dalla letteratura, rendendo legittimo l’uso di questi due termini come se identificassero attività differenti.

L’ultimo Wittgenstein tuttavia respingerebbe con forza questo modo di porre il problema. Lo farebbe non in nome della superiorità o della separatezza della filosofia, ma in base alla convinzione che essa, malgrado non sia una disciplina speciale, debba pur sempre essere considerata qualcosa. Ma che cosa? Un sapere forse? No, perché, non producendo nuove esperienze,28 non ci fa conoscere alcunché.29 La filosofia non costruisce teorie,30 vale a dire «non spiega e non deduce nulla».31 Per questo si distingue sia dalla scienza che dalla logica. A quest’ultima sembra competere «una particolare profondità»,32 perché il suo obiettivo è quello di afferrare «il fondamento, o l’essenza, di tutto ciò che è empirico»,33 vale a dire «qualcosa che sta all’interno, che possiamo vedere se penetriamo la cosa con lo sguardo».34 La profondità cui aspira il logico, cioè, «sta sotto la superficie»35 dell’esperienza empirica. La scienza, al contrario, «nasce da un interesse per i fatti naturali»36 e «da un bisogno di cogliere nessi causali».37 Allo scienziato preme spiegare il comportamento dei fenomeni che studia ma, per far questo, deve necessariamente andare «alla caccia di nuovi fatti».38 Egli quindi, diversamente dal logico, ha a che fare con la contingenza empirica. Di ciò che è al di là non si occupa. La filosofia si muove invece in una prospettiva completamente diversa perché, pur riflettendo su esperienze determinate e molteplici, non tenta di individuare le cause e gli effetti degli accadimenti: «essenziale alla nostra ricerca è piuttosto il fatto che con essa non vogliamo apprendere nulla di nuovo. Vogliamo comprendere qualcosa che sta già davanti ai nostri occhi. Perché proprio questo ci sembra, in qualche senso, di non comprendere».39 Ciò significa che «per scendere in profondità non occorre andare lontano; anzi, non occorre assolutamente che tu abbandoni per questo l’ambiente circostante che ti è più vicino e abituale».40

Nelle Ricerche si dice che «la filosofia si limita […] a metterci tutto davanti […]. — Poiché tutto è lì in mostra, non c’è neanche nulla da spiegare».41 Vale a dire: essa è la comprensione di quello che «abbiamo sempre sotto gli occhi»,42 ossia la comprensione dell’«ovvio». Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, però, cogliere l’«ovvio» è tutt’altro semplice. È vero, come sosteneva Tolstoj, che ciò che è significativo e importante deve essere anche universalmente intellegibile.43 Tuttavia afferrare una cosa essenziale non è mai facile. Non lo è non per «il fatto che per comprenderla occorrerebbe una qualche particolare competenza intorno a materie astruse, ma [per] il contrasto fra il capire la cosa e ciò che la maggior parte degli uomini vuole vedere. Per questa via può divenire massimamente difficile da capire proprio ciò che è più ovvio [corsivo mio]».44 O come si legge altrove: «Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. […] Gli autentici fondamenti di una ricerca non danno affatto nell’occhio [corsivo mio] a chi vi è impegnato».45

Afferrare l’«ovvio» significa comprendere la «certezza» sullo sfondo della quale operiamo, vale a dire quella originaria «determinazione di senso»46 senza la quale nemmeno si darebbero i significati particolari, cioè gli impieghi effettivi. Wittgenstein scrive che «“filosofia” potrebbe anche chiamarsi tutto ciò che è possibile prima di ogni nuova scoperta e invenzione»:47 c’è qualcosa infatti che sta prima delle scoperte e delle invenzioni della scienza, che le precede non nel senso temporale ma trascendentale del termine e senza il quale quelle non potrebbero neppure avere un significato. Questo «qualcosa» è la comprensione preliminare che noi abbiamo dell’esperienza (linguistica e non): senza di essa non potremmo fare alcunché di determinato. «Potrei dire — scrive il pensatore austriaco — che, se al luogo cui voglio pervenire si potesse salire solo con una scala, abbandonerei il proposito di raggiungerlo. Infatti, dove debbo tendere davvero, là devo in realtà già essere [corsivo mio]».48 Il motivo per cui non c’è bisogno di una scala è che non ci si deve spostare. Questo però non significa che in filosofia si debba restare immobili. Un luogo da raggiungere c’è, ma esso è sempre già-raggiunto. E questo luogo è di tutti e di nessuno: ognuno di noi infatti, se parla e agisce in modo determinato, deve avere una comprensione preliminare delle esperienze che fa.

Si legge nel fondamentale § 90 delle Ricerche: «È come se dovessimo guardare attraverso i fenomeni: la nostra ricerca non si rivolge però ai fenomeni, ma, si potrebbe dire, alle possibilità dei fenomeni».49 In queste righe viene chiarita la natura della comprensione con cui la filosofia fa tutt’uno. Si tratta di un «guardare attraverso» l’esperienza dall’interno dell’esperienza stessa. Perché dall’interno? Perché «non c’è alcun fuori; fuori manca l’aria per respirare».50 Non è possibile uscire dal linguaggio o, più in generale, dall’esperienza ed è per questo che ci si può occupare sia dell’uno che dell’altra esclusivamente dal loro stesso interno, cioè standoci dentro («quando parlo del linguaggio […], devo parlare il linguaggio di tutti i giorni»51). Ciò spiega anche perché il tipo di vedere con cui la filosofia fa tutt’uno non possa essere in alcun modo paragonato all’inforcare un paio di occhiali. Come scrive Emilio Garroni, il guardare attraverso wittgensteiniano «non significa affatto “guardare, scrutare attraverso un filtro” — una lastra di vetro colorato, poniamo — per vedere ciò che sta dall’altra parte del vetro. Vuole significare invece — ma solo in prima approssimazione — qualcosa come “guardare dentro un filtro dall’interno del filtro”».52 Il vedere attraverso un filtro per cogliere qualcosa che è al di là di esso «suppone che […] si abbiano certe informazioni almeno virtuali sullo spazio entro cui è possibile guardare attraverso: deve stare l’oggetto, qui l’occhio, e in mezzo il filtro. L’espressione insomma suggerisce che quello spazio e gli oggetti che lo occupano, compreso il filtro in quanto oggetto, non sono a loro volta e nello stesso modo guardati attraverso».53 Il guardare di cui si parla nelle Ricerche ha invece questa caratteristica: ciò attraverso cui si guarda è anche ciò in cui si sta, senza che sia possibile trarsene fuori.

L’altro aspetto che lo contraddistingue è il fatto che quello sguardo afferra qualcosa che è diverso dal mezzo attraverso il quale si vede e nel quale, nello stesso tempo, ci si trova. Ciò che si coglie, scrive infatti Wittgenstein, sono le «possibilità dei fenomeni», non i «fenomeni». Ma dove sono queste «possibilità»? All’interno o all’esterno dei «fenomeni»? Per un verso sono fuori, visto che non sono ad essi identiche ma, per un altro, si danno necessariamente al loro interno, poiché non possono essere individuate se non stando dentro questi ultimi. In sostanza esse sono ciò tramite cui identifichiamo i «fenomeni» e quindi possono essere pensate come una specie di contorno. Se non fossimo in grado di operare questo riconoscimento, verrebbe meno la condizione che fa essere il linguaggio quello che è: infatti «tutti [corsivo mio] i giochi linguistici riposano sul fatto che si possono riconoscere parole ed oggetti».54

La comprensione preliminare a cui si faceva cenno in precedenza è proprio questo vedere qualcosa come qualcosa che è la condizione per poter fare delle esperienze determinate (e che nulla ha a che fare con il «vedere come» di cui si parla nelle Ricerche e nelle Osservazioni sulla filosofia della psicologia55). Si tratta di un a priori che può essere colto solo a posteriori, cioè risalendo ad esso partendo da quello che di volta in volta diciamo e facciamo. Questo spiega perché il filosofo austriaco si sforzi di penetrare il modo in cui usiamo i termini e le proposizioni del nostro linguaggio, cioè perché ritenga così importante descrivere come parliamo: egli sa che la «certezza» che costituisce lo sfondo della nostra prassi linguistica non può essere colta indipendentemente dagli impieghi effettivi, ma solo insieme ad essi, perché è qualcosa che affiora in essi:

Non già che cosa siano le rappresentazioni, ci si deve chiedere, o che cosa accada quando uno si rappresenta qualche cosa; bensì: come si usi la parola «rappresentazione». Ma questo non significa che io voglia parlare soltanto di parole. Infatti, nella misura in cui, nella mia domanda, si parla della parola «rappresentazione», viene anche [corsivo mio] messa in questione l’essenza della rappresentazione».56

In altri termini «l’essenza è espressa nella grammatica»,57 cioè non è separata da essa, pur essendo altra. L’autore delle Ricerche guarda quindi attraverso i particolari giochi linguistici che pratichiamo per cogliere quella che potremmo chiamare la loro condizione interna, cioè richiama alla mente le espressioni in uso per risalire fino a quella sensatezza sullo sfondo della quale soltanto queste sono suscettibili di impieghi determinati. Lo sfondo può essere però solo additato, perché è afferrato dall’interno del nostro dire e, proprio perché è colto attraverso esso, non è visto direttamente ma solo obliquamente, il che significa che se ne può parlare esclusivamente in termini allusivi e metaforici, cioè in termini tali da implicare una continua riformulazione nel tentativo di dire meglio ciò che in precedenza era stato già detto, sapendo tuttavia che ciò di cui si sta parlando non può essere esplicitato perché è destinato ad essere sempre presupposto dal nostro dire.

Di questo carattere ripetitivo delle sue considerazioni Wittgenstein è perfettamente consapevole: «Ogni frase che scrivo intende già il tutto, e dunque di continuo la stessa cosa. Non sono altro, per così dire, che vedute di un unico oggetto osservato sotto angoli diversi».58 Nelle Osservazioni sopra i fondamenti della matematica è ancora più esplicito: «Sembra che io non abbia mai fatto altro che — mettere in evidenza una distinzione tra determinazione di senso e impiego di senso».59 Oppure: «Delle frasi che scrivo solo una ogni tanto fa un passo avanti; le altre sono come lo scatto delle forbici del barbiere, che deve continuare a muoverle per dare un taglio al momento giusto».60 Emblematico, infine, è anche ciò che dice nel Della certezza: «Io credo che il leggere queste mie annotazioni potrebbe interessare un filosofo: un filosofo che sappia pensare da sé. Infatti anche se soltanto raramente ho colto il bersaglio, lui potrebbe tuttavia riconoscere a quale bersaglio io abbia incessantemente continuato a mirare».61 L’importanza di queste osservazioni consiste nel fatto che il pensatore austriaco ammette apertamente di essersi affaticato sempre intorno allo stesso tema, di aver mirato «sempre allo stesso punto»,62 tornando sì continuamente sui suoi passi nella speranza di trovare parole migliori delle precedenti, ma sapendo anche che ciò su cui si stava sforzando di fare chiarezza era comunque destinato a rimanere in ombra. Egli, in altre parole, con espressioni come «certezza», «ovvio», «forma di vita», allude sempre (sebbene mai nello stesso modo e richiamando ogni volta l’attenzione su aspetti diversi) a quella preliminare «determinazione di senso» che è ancorata in tutte le nostre domande e in tutte le nostre risposte in modo tale che non possiamo toccarla63 e che può essere pensata anche come lo «strato di roccia» contro il quale la vanga si piega,64 ossia come ciò che sta al termine della catena delle spiegazioni e delle giustificazioni o come «lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso».65

La filosofia wittgensteiniana, mirando dunque a quella sensatezza preliminare che è in gioco sempre (e non solo quando gli specialisti si occupano della materia),66 non ha un suo specifico ambito d’indagine. Come si è visto, però, la mancanza di un carattere disciplinare non esclude che essa sia qualcosa ed è proprio qui che emerge la differenza di fondo con Rorty. Per quest’ultimo infatti, non essendoci «qui la classe dei testi filosofici e la classe dei testi letterari»,67 tutto è letteratura. Il fatto che non si possa distinguere materialmente tra gli uni e gli altri (perché non esiste un insieme di «tratti pertinenti e osservabili»68 che sia comune a tutti gli scritti filosofici, né un insieme analogo che sia comune a tutti quelli narrativi) è, per il pensatore americano, una ragione sufficiente per negare la possibilità di qualunque caratterizzazione della filosofia e della letteratura che pretenda di andare al di là dei criteri pragmatici su cui generalmente ci si basa per individuare nella prima qualcosa di altro dalla seconda. Ma è davvero così? Vale a dire: il riconoscimento dell’impossibilità di una definizione puntuale e materiale comporta sul serio la rinuncia a qualsiasi separazione che non sia quella del senso comune?

A pensarla diversamente, sostenendo che i due aspetti non è detto che debbano marciare insieme, è, ad esempio, Garroni che, in aperta polemica con Rorty, scrive che «una distinzione deve essere fatta», ma non in termini «di classi di testi, intesi come oggetti osservabili, quanto piuttosto [in termini] di condizioni non osservabili, e tuttavia pensabili, anzi necessarie, che possono essere ora dominanti, ora subordinate, ma non mai assenti, in testi diversi che diciamo via via “letterari” o “filosofici”».69 Quello che uno scritto filosofico sembra esigere sempre, spiega lo studioso italiano, è la «condivisione»:70 l’autore infatti, come capita ad ognuno di noi quando comprende qualcosa, pretende che i suoi asserti siano condivisi (o discussi). Ma questo non accade solo con il discorso filosofico. È la comprensione in genere ad avanzare una simile pretesa: nessuno infatti, quando capisce qualcosa, si sogna di affermare che, di quello che ha colto, non si può, e quindi non si deve, in alcun modo parlare. Se si comportasse così, gli altri non lo capirebbero. Ciò significa che «non ha senso pretendere di comprendere da soli a soli».71 Al contrario ognuno di noi, proprio con il suo esternare ciò che ha compreso, aspira (in linea di diritto) al consenso altrui. Sotto questa «condizione di condivisibilità»72 si trova quindi la filosofia, ma anche ogni tentativo di afferrare il senso di qualcosa. Diversamente stanno le cose per un testo letterario. Esso infatti è tale solo a patto che la comprensione e l’istanza che essa reca con sé vengano neutralizzate. Affinché si possa raccontare qualcosa, la comprensione deve ritrarsi, poiché solo la messa in parentesi di quest’ultima consente il recupero di quella dimensione temporale che è essenziale per qualunque narrazione e che invece viene azzerata, o comunque appiattita, ogni volta che si coglie il senso di qualcosa (comprendere infatti equivale sempre a disporre in uno spazio logico elementi che sono comparsi uno dopo l’altro, cioè che si sono succeduti linearmente). Da ciò segue che uno scritto narrativo, a differenza di uno filosofico, «non aspira ad essere condiviso o discusso»:73 anzi, se mirasse a questo, cesserebbe di essere letteratura per tramutarsi, essenzialmente, in uno sforzo di comprensione.74

Secondo Garroni, quindi, Rorty «ha il torto di confondere non, certo, regioni diverse dell’esperienza, presuntivamente definibili, ma, sì, istanze diverse del pensiero e del linguaggio stesso che interessano l’eterogenea e non suddivisibile (con qualche rigore) regione dell’esperienza».75 Il pensatore americano intende infatti l’esperienza come se fosse un territorio omogeneo, globalmente comprensibile sotto il segno della contingenza. Questo è il fraintendimento che lo porta ad eliminare ogni distinzione tra filosofia e letteratura. Egli ritiene che non ci sia spazio per nessuna necessità. Vale a dire: tutto quello in cui crediamo, che facciamo e che diciamo affonda le sue radici in un insieme di pratiche sociali, che sono contingenti per definizione. È questa negazione di ogni necessità (espressa in vari modi, ma in maniera particolare con l’adozione del «naturalismo», quella «concezione secondo cui ogni cosa avrebbe potuto essere altrimenti, o secondo cui non possono esistere condizioni senza condizioni»76) ad aprire le porte alla liquidazione della metafisica e a preparare il terreno per la riconversione della filosofia in genere letterario. Se esaminata con cura, tuttavia, quest’idea in base alla quale tutto è contingente, nonostante la sua lineare semplicità, nasconde una difficoltà che non può essere elusa e che non ha nulla a che vedere con il senso ovvio in base al quale ogni esperienza avrebbe potuto assumere forme differenti da quelle effettivamente assunte. Infatti il riconoscimento dell’assolutezza della contingenza non può essere, a sua volta, contingente perché, se lo fosse, si dovrebbe dire che chi lo compie fa qualcosa che avrebbe potuto anche non fare: ma allora come può essere sicuro di aver riconosciuto qualcosa? Rorty, in ultima analisi, pretende che tutto sia contingente meno il pensiero che pensa tutto questo.

Il fatto che invece pensiamo la contingenza indica che deve esserci uno scarto tra il pensare e il ciò che si pensa. Se infatti questa differenza non ci fosse, il pensiero non sarebbe diverso dal suo tema ma coincidente con esso, e dunque non sarebbe (come invece pare che debba essere sempre) un pensiero di qualcosa, ma il qualcosa stesso. Con altrettanta evidenza, però, questa diversità non può non essere anche, insieme, un’identità, vista l’impossibilità di separare il pensiero dal suo contenuto, e tuttavia, malgrado ciò, tra questi due aspetti c’è una distanza che non può essere annullata.

Il punto essenziale sul quale l’ultimo Wittgenstein si differenzia da Rorty è perciò proprio il riconoscimento del carattere non contingente del pensiero che guarda attraverso l’uso che noi facciamo dei termini del nostro linguaggio. Il fatto stesso che possiamo anche solo riflettere su quello che di volta in volta diciamo e facciamo significa infatti che non siamo del tutto all’interno della nostra prassi. Chiaramente, visto che «fuori manca l’aria per respirare», non siamo nemmeno del tutto all’esterno, vale a dire: siamo e l’uno e l’altro contemporaneamente. La necessità non è altro che ciò che sta al limite del nostro parlare e agire, perché è qualcosa che non si dà mai indipendentemente da tutto questo (esiste forse un pensare o un comprendere che sia separato dal nostro dire qualcosa di determinato?) e che tuttavia non coincide con i giochi linguistici che pratichiamo. Tutte queste considerazioni riprendono alcune osservazioni svolte da Giuseppe Di Giacomo in Dalla logica all’estetica, un saggio su Wittgenstein in cui viene fornita una lettura delle Ricerche che si muove in una prospettiva radicalmente diversa rispetto a quella rortiana:

Se il Tractatus — scrive infatti lo studioso italiano — è caratterizzato dal tentativo di definire il linguaggio indipendentemente dal suo uso «qui e ora» […] nelle Ricerche filosofiche […] è proprio nell’uso contingente che consiste il linguaggio. Questo però non significa, come vuole R. Rorty, risolvere la necessità nella contingenza delle pratiche sociali, per arrivare così a vedere nelle Ricerche filosofiche una concezione detrascendentalizzata e naturalizzata della filosofia. Al contrario, […] la nozione di «uso», in quanto «linguaggio in genere», rappresenta un vero e proprio principio-condizione grazie al quale si danno insieme e il concetto (il linguaggio) e il caso particolare (il gioco linguistico).77

In altri termini l’ultimo Wittgenstein non propone «una concezione assolutamente contingente del linguaggio perché […] è proprio nella sua contingenza che il linguaggio esige di essere necessario [corsivo mio]».78 Infatti è soltanto sullo sfondo della possibilità di usare i segni in generale che si danno gli impieghi effettivi di questi ultimi, ma quella possibilità (che altro non è se non “il saper già parlare” richiesto per poter dire qualcosa) non può essere colta al di fuori degli usi determinati perché si dà insieme ad essi, essendo la condizione di ogni nostro dire e agire. Per il filosofo austriaco solo chi sa cos’è un gioco, cioè chi ne possiede il «concetto», può impiegare il termine per designare attività che non sempre presentano aspetti in comune, il che equivale a dire che solo chi è in grado di identificare i fenomeni può fare esperienza di essi. E soltanto se si è certi di tutta una serie di cose si possono praticare gli stessi giochi linguistici degli altri ed applicare le regole correttamente, senza commettere errori.

Questo è il motivo per cui la contingenza della prassi linguistica e comportamentale esige la necessità della forma di vita. Ciò significa che, per Wittgenstein, la prima è pensabile e dicibile solo sullo sfondo della seconda che ne costituisce il limite interno, cioè la condizione che dall’interno la rende possibile. Le Ricerche filosofiche, in questo quadro, sono il tentativo di scendere in profondità rimanendo in superficie: esse sottopongono il linguaggio comunemente usato «a una sorta di deformazione metodica per fargli dire non senz’altro l’ovvio concreto, quale viene comunemente detto, ma, diciamo, l’ovvio della non-ovvia condizione dell’ovvio, quale comunemente non viene detto, pur stando sotto gli occhi di tutti».79 Rorty invece, partendo dal riconoscimento dell’assolutezza della contingenza e rinunciando ad ogni discorso sulla necessità, arriva alla conclusione che «la parola “letteratura” oggi abbraccia né più né meno che qualunque [corsivo mio] libro che potrebbe avere una qualche rilevanza morale, […] che potrebbe mutare la nostra percezione di ciò che è possibile e importante».80 Dal suo punto di vista, quindi, tutti i testi di un qualche rilievo sono letterari, ivi compresi quelli filosofici (ironici o meno che siano). L’idea che ci sia da comprendere, oltre ai giochi linguistici, qualche altra cosa, qualcosa che non è oltre essi, cioè al di là, ma che si dà insieme ad essi, gli è estranea.

Si potrebbe dire che quello che manca nell’autore americano è il concetto wittgensteiniano di «sfondo». Cos’è uno sfondo? È qualcosa che non può essere colto separatamente dai particolari che su di esso si stagliano e che, tuttavia, non si identifica con essi. Vale a dire: ogni volta che si parla di «sfondo» si parla di qualcosa che, pur dandosi insieme alle determinatezze, le eccede. La «certezza» o la «forma di vita» o quella originaria «determinazione di senso» senza la quale non si darebbero i significati particolari non sono altro che lo sfondo della dicibilità, ossia qualcosa che non può essere esplicitato se non nella forma obliqua e allusiva della metafora la quale, tuttavia, nella misura in cui rimane un tentativo di dire quell’orizzonte, fatalmente lo presuppone sempre. La difficoltà della filosofia è dunque quella di esprimere ciò che non può essere espresso e che tuttavia non si può fare a meno di comprendere se parliamo e agiamo in un certo modo. Di questa difficoltà l’autore delle Ricerche è cosciente: «E così […] sei un cattivo filosofo se ciò che scrivi è difficile da capire? Se tu fossi migliore, renderesti facile il difficile. — Ma chi ha detto che questo sia possibile?!».81 È forse l’abilità quella che manca? No, non è questo: «Uno scrittore molto più ricco di talento di me avrebbe pur sempre scarso talento».82

Malgrado quindi entrambi gli autori riconoscano l’impossibilità di uscire dal linguaggio e affermino la necessità di muoversi al suo interno, differenti sono le conclusioni alle quali approdano: mentre infatti per Rorty l’abbandono dell’idea metafisica del «mettersi fuori» si traduce nell’affermazione secondo cui noi siamo totalmente interni ai giochi linguistici che pratichiamo, per il pensatore austriaco tutto ciò comporta il riconoscimento dello statuto paradossale della nostra condizione di enti che non sono né completamente dentro, né completamente fuori quello che di volta in volta dicono, bensì l’uno e l’altro contemporaneamente. Diversamente da Wittgenstein, tuttavia, il filosofo americano non individua questo carattere autocontraddittorio del nostro stare nel linguaggio e così si condanna a rimanere prigioniero di quest’ultimo, senza scorgere quella che potremmo chiamare l’altra faccia del dicibile. Egli cioè si comporta come quel tale di cui si parla in un paragrafo (solo apparentemente irrilevante) dei Pensieri diversi: «Un uomo è prigioniero in una stanza se la porta non è sbarrata e si apre dall’interno [corsivo mio], e se a lui non viene in mente che anziché spingere bisogna tirare».83 Che cos’è, innanzitutto, la «stanza»? È ciò in cui non possiamo non stare, quindi è il linguaggio o, più in generale, l’esperienza nella quale sempre ci troviamo. Siamo dunque prigionieri per il solo fatto di essere nella stanza del mondo? No. In trappola, dice Wittgenstein, è solo chi è convinto, erroneamente, che la porta sia bloccata dall’esterno. La realtà, invece, è che essa «non è sbarrata», ma semplicemente chiusa. Ciò significa che si può aprire. Il punto essenziale però è: come si apre? La risposta è: «dall’interno». È a questo che l’uomo non pensa ed è qui che sbaglia. Se infatti gli venisse in mente che «anziché spingere bisogna tirare», avrebbe la possibilità non di uscire,84 ma di vedere «dall’interno» cosa c’è fuori.

Quella del «prigioniero» è, in fin dei conti, la stessa situazione in cui si trova Rorty. Il pensatore americano crede infatti che la porta del linguaggio sia sigillata e che perciò non ci sia nulla da fare se non riconoscere il nostro essere irrimediabilmente dentro. Come si è visto, invece, le cose stanno diversamente perché, se ci si rende conto che quella porta deve essere tirata verso di sé e non spinta,85 allora diventa possibile gettare uno sguardo su ciò che è al di là. Ma è appunto questo che non è facile in filosofia: capire che l’unico modo di guardare fuori è quello di restare dentro.


  1. Come è noto, Contingency, irony and solidarity è stato tradotto in italiano La filosofia dopo la filosofia, ma vista la scarsa fedeltà della traduzione è senz’altro preferibile l’utilizzo del titolo originale. ↩︎

  2. Richard Rorty, Idealismo ottocentesco e testualismo novecentesco, in Richard Rorty, Conseguenze del pragmatismo [Consequences of Pragmatism, 1982], tr. di F. Elefante, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 156. ↩︎

  3. Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura [Philosophy and the Mirror of Nature, 1979], tr. di G. Millone e R. Salizzoni, Milano, Bompiani, 1992 (1986), p. 240. ↩︎

  4. Cfr. per intero Richard Rorty, La filosofia come genere di scrittura: saggio su Derrida, in Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit. ↩︎

  5. Cfr. Richard Rorty, Introduzione, in Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit., pp. 18-26. Cfr. anche, per intero, Richard Rorty, Esiste un problema a proposito del discorso immaginario?, in Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit. La critica alla nozione realista di riferimento viene ripresa anche in Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, cit., pp. 215-223. ↩︎

  6. Cfr. Rorty, La filosofia come genere di scrittura: saggio su Derrida, in Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit., in particolare le pp. 107-115. Cfr. per intero anche Rorty, Esiste un problema a proposito del discorso immaginario?, in Rorty, Conseguenze del pragmatismo, cit. ↩︎

  7. Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia [Contingency, irony and solidarity, 1989], prefaz. di A.G. Gargani, Bari, Laterza, 1994 (1989), p. 21. ↩︎

  8. Ivi, p. 30. Nella stessa pagina Rorty precisa che questa accezione del termine “poeta” rinvia alla nozione di “poeta forte” di Harold Bloom. ↩︎

  9. Ivi, p. 29. ↩︎

  10. Ibidem. ↩︎

  11. Ibidem. ↩︎

  12. Ibidem. ↩︎

  13. Ibidem. ↩︎

  14. Ibidem. ↩︎

  15. Ivi, p. 93. ↩︎

  16. Ibidem. ↩︎

  17. Ibidem. ↩︎

  18. Ivi, pp. 95-96. ↩︎

  19. Ivi, p. 96. ↩︎

  20. Ibidem. ↩︎

  21. Ibidem. ↩︎

  22. Ibidem. ↩︎

  23. Ibidem. ↩︎

  24. Ibidem. Sui compiti della «critica letteraria», che Rorty considera come la «la principale disciplina intellettuale» (ivi, p. 101), cfr. in particolare pp. 96-100. ↩︎

  25. Ivi, p. 98. ↩︎

  26. Cfr. ivi, p. 119. ↩︎

  27. Ivi, p. 115. ↩︎

  28. Cfr. Ludwig Wittgenstein, Ricerche filosofiche [Philosophische Untersuchungen, 1953], a cura di M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1967, p. 66, § 109. ↩︎

  29. Cfr. ivi, pp. 59-60, § 89. ↩︎

  30. Cfr. ivi, p. 66, § 109. ↩︎

  31. Ivi, p. 70, § 126. ↩︎

  32. Ivi, p. 59, § 89. ↩︎

  33. Ibidem. ↩︎

  34. Ivi, p. 61, § 92. ↩︎

  35. Ibidem. ↩︎

  36. Ivi, p. 59, § 89. ↩︎

  37. Ibidem. ↩︎

  38. Ivi, p. 60, § 89. ↩︎

  39. Ibidem. ↩︎

  40. Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia [Remarks on the Philosophy of Psychology, 1980], a cura di R. De Monticelli, Milano, Adelphi, 1990, p119, § 361. Questo paragrafo è della massima importanza: la filosofia scende in profondità rimanendo in superficie. In questo consiste quello che potremmo chiamare il suo statuto paradossale. ↩︎

  41. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 70, § 126. ↩︎

  42. Ivi, p. 70, § 129. ↩︎

  43. Cfr. Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi [Vermischte Bemerkungen, 1977], a cura di M. Ranchetti, Milano, Adelphi, 1995 (1980), p. 45. ↩︎

  44. Ibidem. ↩︎

  45. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 70, § 129. ↩︎

  46. Ludwig Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica [Remarks on the Foundations of Mathematics, 1956], tr. di M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1988 (1971), p. 106, § 37. ↩︎

  47. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 70, § 126. ↩︎

  48. Wittgenstein, Pensieri diversi, cit., p. 28. ↩︎

  49. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 60, § 90. ↩︎

  50. Ivi, p. 64, § 103. ↩︎

  51. Ivi, p. 68, § 120. ↩︎

  52. Emilio Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Milano, Garzanti, 1992, p. 11. ↩︎

  53. Ivi, p. 12. ↩︎

  54. Ludwig Wittgenstein, Della certezza [On Certainty, 1969], tr. di M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1978, p. 73, § 455. Ma il riconoscimento è anche la condizione preliminare di ogni nostro sapere: «In conclusione il sapere si fonda sopra il riconoscimento» (ivi, p. 60, § 378). ↩︎

  55. Il «vedere come» (cfr. per intero Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § XI) è strettamente imparentato con il balenare improvviso dell’aspetto e quindi è sempre un vedere qualcosa come qualcos’altro (la teste di lepre come una testa di anatra, il triangolo come una freccia, i rami come un volto). Il «riconoscimento» invece, avendo a che fare con quelle fisionomie degli oggetti che sono continuamente in vista, non salta mai da un aspetto all’altro e quindi è sempre un vedere qualcosa come qualcosa. Esso, cioè, ha questo di caratteristico: «che il mio sguardo non vaga irrequieto (come cercando) sull’oggetto; che non scambio per qualcos’altro [corsivo mio] l’aspetto di quel che vedo, ma afferro immediatamente un aspetto, e lo tengo ben fermo» (Ludwig Wittgenstein, Grammatica filosofica [Philosophische Grammatik, 1969], a cura di M. Trinchero, Firenze, La Nuova Italia, 1990, p. 129, § 116). L’aspetto che Wittgenstein dice di afferrare «immediatamente» è una fisionomia particolarmente familiare che, proprio perché è estremamente nota, viene colta all’istante, non appena si getta lo sguardo sull’oggetto. Il motivo quindi per cui non ha senso «dire, dando un’occhiata a un coltello e a una forchetta: “Ora vedo queste cose come un coltello e una forchetta”» (Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 257, § XI) è che una posata è un oggetto talmente noto che può essere solo riconosciuta come tale. Per le stesse ragioni «non potrei tentar di vedere la lettera F come questa lettera», ma — aggiunge il filosofo austriaco — «potrei benissimo tentar di vederla come una forca» (ivi, p. 271, § XI). Mentre infatti il primo aspetto è continuamente in vista (essendo ben noto), il secondo non è altrettanto familiare (dal momento che siamo abituati ad identificare la F come una lettera dell’alfabeto e non come una forca) e quindi può essere afferrato solo quando salta agli occhi: ma ciò comporta un vedere in un certo modo ciò che di solito viene visto altrimenti, ossia un vedere qualcosa come qualcos’altro e non un riconoscere qualcosa come qualcosa. ↩︎

  56. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 153, § 370. ↩︎

  57. Ivi, p. 154, § 371. Sul concetto wittgensteiniano di «essenza» non è possibile dilungarsi in questa sede. Ciò che tuttavia va tenuto presente è che nelle Ricerche il problema dell’«essenza» non scompare, ma continua ad essere posto, anche se in termini diversi rispetto a quelli del Tractatus↩︎

  58. Wittgenstein, Pensieri diversi, cit., p. 28. ↩︎

  59. Wittgenstein, Osservazioni sopra i fondamenti della matematica, cit., p. 106, § 37. ↩︎

  60. Wittgenstein, Pensieri diversi, cit., p. 126. ↩︎

  61. Wittgenstein, Della certezza, cit., p. 61, § 387. ↩︎

  62. Wittgenstein, Pensieri diversi, cit., p. 28. ↩︎

  63. Cfr. Wittgenstein, Della certezza, cit., p. 20, § 103. ↩︎

  64. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., p. 113, § 217. ↩︎

  65. Wittgenstein, Della certezza, cit., p. 19, § 94. ↩︎

  66. Tale sensatezza preliminare è quella precomprensione che ognuno di noi possiede nella misura in cui fa esperienza. ↩︎

  67. Emilio Garroni, Narrazione e filosofia, in AA. VV., Teoria e pratica della scrittura creativa, a cura di T. De Mauro, P. Pedace e A.G. Stasi, Roma, Controluce, 1996, p. 133. ↩︎

  68. Ibidem. ↩︎

  69. Ibidem. ↩︎

  70. Ivi, p. 139 e sgg. ↩︎

  71. Ivi, p. 137. ↩︎

  72. Ivi, p. 147. ↩︎

  73. Ivi, p. 140. ↩︎

  74. Per Garroni, tuttavia, narrazione e comprensione si escludono, ma si implicano anche reciprocamente: cfr. ivi, pp. 143-147. ↩︎

  75. Ivi, pp. 135-136. ↩︎

  76. Richard Rorty, Wittgenstein, Heidegger e la reificazione del linguaggio, in Richard Rorty, Scritti filosofici II [Essays on Heidegger and Other Philosophical Papers — Vol. 2, 1991], a cura di A.G. Gargani, Bari, Laterza, 1993, p. 77. ↩︎

  77. Giuseppe Di Giacomo, Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, Parma, Pratiche Editrice, 1989, p. 18. ↩︎

  78. Ibidem. ↩︎

  79. Emilio Garroni, Sul dover essere del senso, in Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, cit., p. 264. ↩︎

  80. Rorty, La filosofia dopo la filosofia, cit., p. 100. ↩︎

  81. Wittgenstein, Pensieri diversi, cit., p. 144. ↩︎

  82. Ivi, p. 142. ↩︎

  83. Ivi, p. 86. ↩︎

  84. Di una simile possibilità, nel paragrafo, non si fa menzione alcuna e in ogni caso si è già visto che Wittgenstein la esclude categoricamente. ↩︎

  85. Spingerla equivarrebbe infatti ad oltrepassarla. ↩︎