1. Levinas pensatore coerente e unitario
Se si può intendere la meditazione di Levinas, complessivamente, nei termini di una risposta concretamente e teoreticamente praticabile alla domanda di senso, un ruolo decisivo spetta certamente alla figura del risveglio (éveil). La costellazione metaforica nella quale il risveglio si trova — veglia, insonnia, sonno — è infatti presente in tutti gli snodi principali della riflessione levinassiana, dalla ricerca giovanile di «una nuova via per uscire dall’essere»1 alla formulazione matura dello scompiglio etico (dérangement) provocato nell’io dall’altro uomo. Fin dagli anni ’30, Levinas è alle prese con una forte dicotomia — a tratti ossessiva — tra un soggetto incagliato nelle pieghe dell’essere e assopito nella sua essenza, e un soggetto liberato da questo incatenamento proprio nell’obbligo di accoglienza e responsabilità nei confronti del prossimo: il risveglio non è soltanto figurazione di questa «evasione», ma è anche la categoria descrittiva della dimensione della soggettività individuata proprio nell’uno-per-l’altro e la definizione stessa della filosofia, come etica del risveglio alla convocazione dell’altro uomo.
Questa particolare figura sembra inoltre potersi rintracciare, e in qualche modo «giustificare», nelle letture talmudiche che Levinas tiene, a partire dagli anni ’60, ai Colloqui tra gli intellettuali ebrei di lingua francese. In ragione di una crescente importanza di queste letture all’interno della critica levinassiana — importanza giustificata peraltro da una consapevolezza più matura dell’imprescindibilità dell’ebraismo nella comprensione del pensiero di Levinas — le pagine seguenti cercheranno precisamente di approfondire il rapporto tra il risveglio levinassiano e i testi del Talmud.
Prima di procedere nell’analisi, però, è opportuno esplicitare i termini in cui si presenta l’ebraismo di Levinas, al centro ancora oggi — anche se appunto in misura sempre minore — di una forte incertezza critica: da un lato, pare che il pensiero del filosofo di Kaunas sia ugualmente comprensibile anche senza l’analisi dei suoi testi «confessionali»;2 dall’altro, si ha la sensazione che, a causa di una certa estraneità alla tradizione filosofica «greca», il contesto culturale ebraico non dia i punti di riferimento necessari per uno studio completo sull’opera levinassiana, e si preferisca così attribuirgli un ruolo non decisivo.
In primo luogo, è importante ricordare che Levinas era ebreo fino in fondo, nella quotidianità, in famiglia e nel suo lavoro: «per fedeltà e disciplina, per attaccamento al rituale, anche per l’ambiente, nella vita quotidiana, Emmanuel Levinas fu senza dubbio un ebreo praticante».3 Un dato biografico che porta a considerare Levinas prima di tutto come un «credente». Salomon Malka, in quella che rimane la biografia più appassionata del pensatore lituano, riporta una testimonianza del nipote David Hansel (figlio di Simone Levinas) che insiste sulla distinzione tra praticante e religioso:
È forse il primo insegnamento che ci ha trasmesso mio nonno. Non c’erano per lui delle dicotomie religioso/non religioso, credente/non credente. Queste categorie non sono quelle in cui si vive il giudaismo. […] Io non dico che l’idea di Dio sia qualcosa di estraneo. Ma la credenza non è una nozione prima. […] È la responsabilità per altri, il dovere, l’obbligo, il comandamento. Sono temi che sono stati sviluppati molto da mio nonno e che ci hanno segnato molto.4
Per quanto possa apparire banale, non va dimenticato che è anzitutto nella sua esistenza che Levinas mette in pratica l’insegnamento della Torah. Gli sviluppi del suo pensiero all’interno del rapporto tra giudaismo e filosofia avvengono soltanto conseguentemente alla sua origine e pratica ebraiche.
Accanto a questo ebraismo «quotidiano», si trova in secondo luogo l’approfondimento del Talmud stimolato dagli incontri con Mordechaï Chouchani. Il mistero che avvolge il bizzarro maestro talmudista5 — capace di ridare a Levinas la «fiducia nei libri»6 — non oscura affatto l’amplissimo raggio delle sue conoscenze e l’arguta raffinatezza della sua interpretazione del Talmud, testimoniate quasi all’unisono da chi ha avuto l’onore di ascoltarlo.7 Sebbene l’accostamento di Levinas ai testi talmudici, materia molto complessa,8 avvenga dunque «tardi e in margine a studi puramente filosofici»,9 l’intenso periodo che coincide con l’insegnamento di Chouchani (collocabile all’incirca tra il 1947 e il 1952) porterà in realtà frutti molto importanti: è dunque possibile rilevare anche come la maturazione filosofica presente prima in Totalité et Infini e poi in Autrement qu’être, trovi abbondante linfa nei colloqui con il maestro.10
L’approccio al Talmud che Levinas apprende da Chouchani è indicato da Shmuel Wygoda come sviluppantesi in tre tappe.11 a) I testi vanno studiati nella loro integrità, inscrivendoli nel loro contesto immediato: la Mishnah, il capitolo, il Trattato. Ciò significa saper trovare unitarietà ai commenti della Gemara, che spesso, pur commentando la medesima Mishnah, sembrano molto lontani gli uni dagli altri. b) È necessario uno studio scrupoloso dei richiami biblici o di altri Trattati talmudici, che non abbia alcuna esitazione a rivestire di un significato più esteso il contesto della parola o del versetto in questione. c) Bisogna saper leggere il testo all’interno di un orizzonte ermeneutico molto allargato: il testo si presta a interpretazioni supplementari, non ci si ferma mai alla prima lettura. È probabilmente a questo livello che va collocato il concetto di sollecitazione:
La sollecitazione è, da una parte, una sorta di auscultazione semiotica che si appoggia alla lettera del testo finché questa cede e rivela il suo significato (o i suoi significati). Dall’altra parte, è il ‘tentativo di animare il testo per mezzo di corrispondenze e di echi’, di misurarlo interminabilmente […]. La sollecitazione è il compimento di un senso rimasto in sospeso. Letteralmente e lateralmente. Questo doppio movimento è costitutivo del metodo midrashico: si fa appello all’insieme per comprendere un versetto (lateralità); ma non si esita neppure ad isolare una parola o una sequenza, per auscultarle in isolamento (letteralità).12
Tale azione interpretativa, in una corrispondenza insospettabile con gran parte degli approcci ermeneutici moderni,13 è molto meno astratta di quanto possa sembrare e, in questo senso, trova la giusta concrezione in alcune metafore. Ad esempio, quella della «brace ardente» che troviamo in una nota a piè di pagina che Levinas riprende da Rabbi Hayyim di Volozhin14: in tal caso la sollecitazione è paragonata al soffio continuo sulla brace ardente per ravvivare il fuoco (e cioè il significato) che cova al di sotto di essa. Ma anche verbi quali «strofinare», «sfregare», «triturare», sono significativi del gesto costante e produttivo, operatore di senso,15 della sollecitazione. È in questo senso che la sollecitazione può definire il midrash16: «parola che significa “ricerca”, ma anche “esigenza”, e “interrogazione”, e quasi “interrogatorio”, e comunque “sollecitazione”».17 Nel midrash, però, il concetto operativo di «sollecitazione» vira immediatamente
non in concetto — che sarebbe pura astrazione — ma in esigenza di sollecitudine, in preoccupazione per l’uomo. Dell’altro uomo: prossimo o lontano. […] La sollecitazione squarcia dunque la trama del testo e vira, attraverso lo strappo che ha aperto, in sollecitudine. La sollecitazione sviluppa modi di leggere che la inducono a oltrepassare se stessa, a mutarsi in sollecitudine. […] Questo doppio movimento centripeto — sollecitazione — e centrifugo — sollecitudine — è caratteristico della lettura midrashica. È in questa sorta di mutazione che si genera il soggetto etico, la cui essenza consiste in un ‘essere’verso e per l’altro.18
Con le parole di David Banon — che nelle stesse pagine giungerà a definire il midrash come procedimento eseg-etico — è ormai chiaro che la Bibbia non può essere considerata un oggetto di conoscenza lasciato alla comprensione del soggetto lettore, bensì un’infinita riserva di significati che devono trovare concretezza nella vita individuale e sociale. Il commento, nella sua ripresa incessante, nel suo approccio paziente e nella sua lettura infinita, «conserva al testo la sua dimensione di dismisura e mantiene l’opera nella sua apertura».19
Il midrash diventa allora un punto di riferimento irrinunciabile per tutta la riflessione successiva di Levinas, e lo si può collocare senza dubbio al fianco del metodo fenomenologico, da lui mai realmente abbandonato — almeno a parole — nel corso degli anni. È certamente anche nel superamento dell’aspetto puramente metodologico operato dall’irruzione dell’ordine morale — «come se commentare non fosse altro che comandare»20 -, che Levinas trova la «nuova via» per la quale «uscire dall’essere». Chouchani diviene allora davvero una tappa fondamentale della formazione di Levinas, al pari di Husserl e Heidegger.21
Non c’è alcun dubbio che gli scritti «confessionali» siano di un ordine diverso da quelli «filosofici», ed è lo stesso Levinas ad affermarlo: «io separo molto chiaramente questi due tipi di opere. Ho anche due case editrici; una pubblica i miei testi confessionali, l’altra i miei testi che sono considerati puramente filosofici. Tengo i due ordini separati».22 Ma bisogna comunque tenere presente che i testi dedicati all’ebraismo «insegnano la stessa etica — la stessa moralità del faccia-a-faccia, lo stesso appello alla giustizia come una chiamata divina — che si trova nei suoi scritti non-confessionali o cosiddetti ‘filosofici’. Non c’è alcuna spaccatura in Levinas tra filosofia e religione“,23 esse corrispondono infatti a due movimenti ”distinti, ma solidali, del processo spirituale unico che è l’approccio alla trascendenza».24 Una trascendenza etica. La questione è decisiva: la separazione dei due ambiti certamente non esclude — anzi: stimola — un continuo e fertile dialogo tra il versetto e la parola filosofica, sotto il segno del medesimo invito alla responsabilità per l’altro. È ciò che accade, ad esempio, con il comandamento «non uccidere»: in Levinas esso non equivale alla semplice proibizione dell’assassinio; questo comandamento, scrive il filosofo lituano,
diventa una fondamentale definizione o descrizione dell’evento umano dell’essere, una prudenza permanente nei confronti delle azioni violente e omicide verso l’altro che sono probabilmente l’affermazione più completa di un essere, come se l’imposizione della propria esistenza fosse già mettere a repentaglio la vita di qualcun altro.25
Alla stessa maniera, anche il versetto «io sono straniero sulla terra / non nascondermi i tuoi comandi»,26 è «filosofico fin dall’inizio. Non soltanto l’ammissione di un popolo senza terra, ma il significato di quella presenza sulla terra, di un esilio […] che è la definizione della pura soggettività trascendentale e la necessità primordiale di una legge morale in quell’esilio».27
In quest’ottica, non vi è soltanto un illuminarsi vicendevole dei due ordini di sapere, ma anche una vera e propria ricerca linguistica che permette a Levinas di rovesciare le tradizionali categorie filosofiche. È il caso, ad esempio, della nozione di «elezione»:
L’elezione, scrive Levinas, si sostituisce in me alla nozione di individuazione. Io dico [infatti] che nella responsabilità inalienabile vi è una individuazione dell’io ad opera dell’elezione. […] Molte nozioni suggerite dalla Bibbia consentono di liberare un’intelligibilità ‘più forte’di quella determinata dalle contraddizioni della logica formale.^[28]
In altre parole: è la Parola che consente a Levinas di andare al di là del linguaggio filosofico,28 e di dare piena espressione al superamento della filosofia dell’essere nell’appello alla responsabilità per altri.
Se da un lato, insomma, la filosofia sembra essere «frutto più naturale»29 della meditazione ebraica di Levinas, dall’altro lato è precisamente il suo sforzo filosofico di «evasione dall’essere» che lo porta ad interrogare le sue radici ebraiche e la saggezza talmudica. È in questa direzione che egli allora può scrivere che «la filosofia deriva […] dalla religione. La filosofia è suscitata dalla religione alla deriva, e probabilmente la religione è perpetuamente alla deriva».30
L’ebraismo di Levinas è infine segnato, indelebilmente, dal dramma della Shoah. Oltre a colpire direttamente anche la sua famiglia,31 lo sterminio dei 6 milioni di ebrei da parte dei nazisti, è lo sfondo ineliminabile della sua riflessione, che si può così intendere come una proposta concreta per un’umanità dopo Auschwitz. Malka è convinto che proprio l’assenza di Dio ad Auschwitz ordini al popolo ebraico di continuare ad essere là, «di assumere una fedeltà etica contro Dio stesso».32 È qui che, secondo lui,
si tocca con mano ciò che costituisce la visione ‘laica’dell’ebraismo in Levinas. Fedeltà senza fede. Dio senza divinità. Messianismo senza messia. Religione senza oracolo. […] Il culto consacrato all’altro all’uomo — che egli chiama ‘religione’- non avviene nello slancio, nell’ebbrezza o nella dolcezza. Esso è quando tutti i cammini si sono esauriti e non si cerca più alcuna consolazione. È la fragile dimora della coscienza. È estrema coscienza.33
Per capire quanto effettivamente pesi la Shoahin questo ebraismo «», Malka riporta alcune parole dalle «gelide pagine»del saggio Sans nom, che chiude la raccolta di saggi Noms Propres:
Più di un quarto di secolo fa, la nostra vita s’interruppe e indubbiamente persino la storia. […] Quando si ha questo tumore nella memoria, venti anni non possono cambiarvi nulla. […] Ma anche se durante questa dilazione gratuita, le occupazioni o le distrazioni della vita riempiono di nuovo la vita, anche se tutti i valori disprezzati — o antidiluviani — rientrano in vigore, […] nulla ha potuto colmare, neppure ricoprire l’abisso spalancato. Vi si ritorna soltanto un po’meno di frequente dagli angoli riposti della nostra dispersione quotidiana e la vertigine che afferra sull’orlo dell’abisso è sempre la stessa.34
Con queste necessarie premesse, si è voluto dar ragione di un contesto complesso e problematico: rintracciare nei testi «confessionali» la figura del risveglio, aldilà della ricerca filologica, equivale a voler dimostra come, rispetto agli anni precedenti all’incontro con Chouchani — significativo della maturazione dell’ebraismo di Levinas -, la costellazione metaforica del risveglio viri decisamente verso una connotazione etica, che proprio nella disubriacatura dalla perseveranza nell’essere, nell’appello alla responsabilità per l’altro, nell’irruzione dell’altro nel soggetto, individua il risveglio. Il passaggio per questi testi a sfondo giudaico, allora, metterà in luce una sorta di doppio movimento: da un lato la lettura di Levinas irrora i commenti talmudici delle figure filosofiche a lui care, dall’altro sono gli stessi testi ebraici a chiarificare le categorie, il messaggio e il lessico nei quali si esprime il pensiero levinassiano.
Si tratta, allora, di mettere in pratica l’insegnamento levinassiano (e prima di Chouchani) che invita alla sollecitazione del testo e all’allargamento dei suoi orizzonti, e di applicarlo alle sue letture del Talmud tenute (nella quasi totalità) ai Colloqui tra intellettuali ebrei che la sezione francese del Congresso mondiale ebraico ha organizzato nel corso degli anni. Ciò che ne risulterà sarà dunque un viaggio inedito nei testi talmudici commentati da Levinas: un collage solo apparentemente frammentario,35 poiché in realtà tenuto insieme con grande forza filosofica dall’originale proposta levinassiana di un’etica del risveglio all’altro come dimensione costitutiva del soggetto.
2. Torah come risveglio
Nella giustizia biblica, quando un assassinio è commesso sotto forma di omicidio involontario, non potendo essere perseguito in tribunale, vengono istituite delle «città-rifugio», che fanno da rifugio/esilio all’assassino involontario, braccato dalla comprensibile vendetta dei parenti stretti della vittima. Questi luoghi sono, allo stesso tempo, protezione d’innocente e punizione dell’oggettivamente colpevole: protezione perché sono rifugio dell’omicida involontario a rischio di vendetta, punizione perché fanno da esilio a colui che comunque si porta addosso la colpa dell’assassinio. Nel commentare una pagina del Trattato Makkoth, che tratta appunto delle città-rifugio, Levinas compie un gesto tipico del metodo sopra descritto e riporta l’attenzione sulla nostra condizione attuale:
Le città nelle quali soggiorniamo e la protezione che, legittimamente, in forza della nostra innocenza soggettiva, troviamo nella nostra società liberale […] contro tante minacce di vendetta senza fede né legge, contro tante forze riscaldate, non è, in effetti, la protezione di una semi-innocenza o di una semi-colpevolezza, che è innocenza ma anche colpevolezza, — tutto questo non trasforma le nostre città, in città rifugio o città per esiliati? […] Ci si può chiedere se la spiritualità che si esprime nella nostra maniera di vivere, nelle nostre rette intenzioni, nelle nostre buone volontà, nella nostra attenzione al reale, sia sempre sveglia.36
Alla base di questa riflessione, sembra stare il medesimo concetto di coscienza non ancora abbastanza cosciente che si ritrova in alcune pagine di De l’existence à l’existant,37 «quel “sonno” che nella metaforica di Levinas equivale all’ovvietà del giorno, alla normalità del nostro quotidiano essere svegli».38 Che cosa allora ci risveglia veramente? Levinas mutua la risposta dalla comparsa, nelle opinioni rabbiniche del Trattato, della Torah: essa non è solo protezione contro il vendicatore, allo stesso modo delle città-rifugio, ma appunto si situa già aldilà del delitto, aldilà della violenza. La Torah — meglio: lo studio e la pratica della Torah, assolutamente inseparabili — corrisponde al «risveglio completo dell’anima»39: nella conoscenza e nella prassi della Torah si trova il «livello più alto della vita […], come se l’umano vi si elevasse consegnando una nuova condizione, un nuovo modo della spiritualità dello spirito».40 Bisogna guadagnare quest’ottica per comprendere Levinas quando riporta una celebre frase del protagonista di un racconto di Zvi Kolitz, Yossel ben Yossel.41 Questa frase «è il punto culminante dell’intero monologo e […] fa eco a tutto il Talmud: “lo amo, ma amo ancora di più la sua Torah […] e se anche fossi deluso da lui e come disincantato, non smetterei comunque di osservare i precetti della Torah”».42 Amare la Torah più di Dio significa allora che la concretezza di Dio non sta nell’incarnazione, ma precisamente nella Legge, e nell’uomo capace di studiarla, interpretarla, reinterpretarla e obbedire ai suoi mitsvot, alle sue prescrizioni. In questo senso, allora,
essa esige, contro la naturale perseveranza di ogni essere nel proprio essere — legge ontologica fondamentale -, la cura dello straniero, della vedova e dell’orfano, la preoccupazione per l’altro uomo. Capovolgimento dell’ordine delle cose! Non ci si stupisce mai abbastanza di tale capovolgimento dell’ontologia nell’etica.43
È il medesimo concetto espresso in un altro luogo della produzione levinassiana, appartenente agli scritti cosiddetti «filosofici»:
La relazione con altri non è […] ontologia. Questo legame con altri che non si riduce alla rappresentazione d’altri, ma alla sua invocazione e, dove l’invocazione non è preceduta da una comprensione, la chiamiamo religione. Ciò che distingue il pensiero che intenziona un oggetto da un legame con una persona è il fatto che in quest’ultima si articola un vocativo: ciò che è nominato è, nello stesso tempo, ciò che è interpellato.44
Il risveglio della Torah equivale allora ad una costrizione, ad un peso? Ciò che San Paolo, nella lettera ai Galati (3, 13-15), definisce come «il giogo della Legge», è smentito a più riprese dalle parole di Levinas. In questo senso, in un’altra lezione talmudica, Levinas potrà definire la mitsva — il comandamento, la prescrizione — come un «contorno di rose». Ciò che si ama non sarà mai causa di sopportazione: «Quel che ci trattiene non è per nulla il giogo insopportabile della Legge, che faceva paura a San Paolo, è un contorno di rose. L’obbligo di osservare i comandamenti — le mitsvot — non ci pesa affatto come una maledizione, ci porta i primi profumi del paradiso».45
3. Rivelazione come Risveglio
La Torah è la Parola rivelata. E la Rivelazione è l’amore di Dio che comanda all’uomo l’amore per l’altro uomo. È soltanto attraverso la Rivelazione della Torah, nell’elezione dell’uomo alla responsabilità per il prossimo, che si può uscire — evadere — dalla perseveranza dell’essere in se stesso. La rivelazione di Dio è rivelazione del prossimo. Quest’articolazione originale di trascendenza, separazione ed etica è difficilmente comprensibile per la tradizione occidentale, perché
denuncia la figura del Medesimo e del conoscere nella loro pretesa d’essere il solo luogo della significazione. Questa figura del Medesimo, questo conoscere, rappresentano solo un certo livello dell’intelligenza, quello nel quale essa si assopisce […] e nel quale la ragione, sempre ricondotta alla ricerca del riposo, della quiete, della conciliazione, che implicano l’attribuzione al Medesimo del carattere di realtà ultima e prima, si assenta già dalla ragione vivente.46
Ma allora la Rivelazione può davvero essere pensata come il risveglio del Medesimo?
In una lezione talmudica degli anni ’60, sul tema della «tentazione», Levinas commenta una pagina del Trattato Shabbath nella quale si tratta dell’accettazione della Torah da parte del popolo ebraico. Centrale è, secondo i maestri del Talmud, la necessità della priorità dell’obbedienza sull’ascolto, espressa da Es 24, 7: naasse ve-nishma, «noi faremo e ascolteremo». È solo attraverso questo rovesciamento paradossale e all’apparenza illogico che, secondo Levinas, può avvenire la rottura della totalità, la Rivelazione come risveglio. Non c’è nessuna regressione infantile, anzi: lo sforzo è prettamente adulto. Per il Talmud, questo versetto svela il segreto dell’agire degli angeli: «disse Rabbi Eliezer: quando gl’Israeliti s’impegnarono a “fare” prima d’“udire” — esclamò una voce dal cielo: chi ha rivelato ai miei figli il segreto di che si servono gli angeli, perché sta scritto (Sal 103, 20): “benedite l’Eterno, voi, suoi angeli, eroi possenti, che eseguite i suoi ordini, attenti al suono della sua parola”» (Shabboth 88a-88b). E Levinas aggiunge:
Eseguono prima di aver udito! Segreto d’angeli, non coscienza infantile. Israele sarebbe stato un secondo Prometeo […]. ‘Faremo e udremo’, ciò che sembrava contrario all’ordine logico, è l’ordine proprio dell’esistenza angelica.47
Nel cuore di Autrement qu’être, Levinas scrive:
Obbedienza precedente l’ascolto dell’ordine, l’anacronismo dell’ispirazione o del profetismo è, secondo il tempo recuperabile della reminiscenza, più paradossale della predizione dell’avvenire attraverso un oracolo. “Prima che mi chiamino, io risponderò” [Is 65, 24] — formula da intendere alla lettera. […] Ma questa singolare obbedienza all’ordine di arrendersi, senza comprensione dell’ordine, questa obbedienza anteriore alla rappresentazione, questa fedeltà prima di ogni giuramento, questa responsabilità preliminare all’impegno, è precisamente l’altro-nel-medesimo, ispirazione e profetismo, l’accadere dell’Infinito.48
Questa prossimità dei due luoghi levinassiani testimonia perfettamente del dialogo continuo, nella sua produzione, tra testi «» e scritti «».
Naasse ve-nishma è insomma «una formula da intendere alla lettera» proprio perché invita a rispondere all’appello del prossimo prima di ogni chiamata, elezione prima di ogni comprensione. Infatti, «il fare che ricorre nella formula commentata non [è] semplicemente la prassi opposta alla teoria, ma una maniera di attualizzare senza incominciare dal possibile, di conoscere senza esaminare»,49 di situarsi al di fuori della razionalità del Medesimo, di cominciare prima. Questa formula, dunque, sembra fare qualcosa di più che preservare dalla tentazione: l’integrità (temimùth) che si fa strada attraverso di essa equivale ad una nuova e più profonda struttura della soggettività. Una soggettività proiettata nell’etica, se davvero in questo «fare» prima di «udire», che corrisponde all’accoglimento della Rivelazione, c’è già relazione con l’altro.
La Torah è data nella luce d’un volto. L’epifania dell’altro è ipso facto la mia responsabilità nei confronti dell’altro: la visione dell’altro è fin d’ora un’obbligazione nei suoi confronti. L’ottica diretta — senza la mediazione di un’idea — si può attuare soltanto come etica. La conoscenza integrale o Rivelazione (accoglimento della Torah) è comportamento etico.50
La soggettività pensata da Levinas è descritta in un appassionato paragrafo di un’altra lezione talmudica dedicata al tema della femminilità. Ancora una volta, il punto di partenza è la Rivelazione, la chiamata dell’amore di Dio:
Essere sotto lo sguardo insonne di Dio è precisamente essere, nella propria unità, portatore di un altro soggetto — portatore e sostegno — essere responsabile di questo altro, come se il volto, tuttavia invisibile, dell’altro, ampliasse il mio volto e mi tenesse sveglio con la sua stessa invisibilità, con l’imprevedibile di cui mi minaccia. Unità del soggetto uno e insostituibile, nell’assegnazione irrecusabile della responsabilità per questo altro, più vicino di ogni prossimità, e, ciò nonostante, sconosciuto.51
Un Dio insonne che esige un’umanità tenuta sveglia dall’appello del volto dell’altro uomo. Nella stessa ottica, Levinas può dunque interpretare l’«ispirazione» come modalità della Rivelazione: l’uomo capace di sentirsi insostituibile nella responsabilità per il prossimo, in risposta all’amore di Dio (di cui il volto dell’altro è la traccia),52 è uomo capace di ispirazione, capace cioè di intendere, nell’ascolto, un senso altro al di là di ciò che è inteso; è un uomo dalla coscienza estrema, dalla coscienza risvegliata.53 A confermare nuovamente l’unità del pensiero levinassiano, tornano alla memoria alcune tra le pagine più intense di Autrement qu’être, in cui l’ispirazione è definita come la
denucleazione del nucleo sostanziale dell’Io che si forma nel Medesimo, fissione del nucleo ‘misterioso’dell’’interiorità’del soggetto attraverso questa convocazione a rispondere, attraverso questa convocazione che non lascia nessun luogo di rifugio, nessuna possibilità di scampo e, così, malgrado l’io, o più esattamente, mio malgrado, tutto il contrario del non-senso, alterazione senza alienazione o elezione. Il soggetto nella sua responsabilità si aliena nell’intimo della sua identità di un’alienazione tale che non svuota il Medesimo della sua identità, ma ve lo assoggetta, con una convocazione irrecusabile […]. L’identità del soggetto qui si mette in risalto non attraverso una quiete su di sé, ma attraverso un’inquietudine che mi insegue fuori dal nucleo della mia sostanzialità.54
La Rivelazione che si fa concreta — che si fa etica — significa perciò una
nuova visione dell’uomo. L’anima umana non è qui origine di sé, soggetto in grado di render conto di sé e dell’universo, né esistenza preoccupata di questa esistenza stessa. Essa è obbligata prima di ogni impegno […], responsabilità nell’oblio di sé. […] Umiltà, discrezione, perdono delle offese, che non debbono esser scambiate soltanto per virtù; tutte queste attribuzioni ‘rovesciano’la nozione ontologica della soggettività per collocarla nella rinuncia, nella cancellazione e in una passività totale.55
4. Veglia come attenzione
Nel pensiero di Levinas — che egli stia commentando una pagina del Talmud o che sia alle prese con la critica delle categorie filosofiche della tradizione occidentale — si trova dunque la stessa, originale, soggettività, che si riconosce come tale soltanto nello scoprirsi già usurpatrice del posto che occupa, già ostaggio responsabile dell’altro. Paiono ricordarlo bene, nell’ultima lezione talmudica tenuta da Levinas,56 le parole di Abramo, che in Gn 18, 27 si vede e si dice «polvere e cenere»57:
Verità di uno sguardo in qualche modo ‘avventizio’lanciato su di sé da Abramo nel corso di un pensiero volto all’altro totalmente altro, preoccupato dell’altro e nato da una cura per l’altro. […] Miseria che si rivela gloria! Rinnegandosi nelle sue ceneri e polveri, pensiero che resta, o è già, quanto-a-sé, abnegazione, elevazione dell’umana creatura a un’altra condizione, a un diverso ordine dell’umano,58
l’ordine della santità.
E proprio al passaggio «dal sacro al santo» — locuzione che dà il titolo ad una raccolta di lezioni talmudiche dei primi anni ’70 — corrisponde precisamente il movimento del «risveglio». In più di qualche lezione talmudica, torna a giocare un ruolo determinante la nozione della «notte», che assieme all’il y adescrive la situazione del soggetto primadella rottura — fondamentale ma non definitiva — dell’ipostasi. Nella lettura di una pagina del trattato Menachoth, dedicata alla fabbricazione del tavolo su cui sarà posato il «pane di proposta»,59 Levinas s’imbatte nella paura ebraica di lasciare scoperto questo tavolo durante la notte:
Perché questa importanza attribuita alla notte? Che cosa si teme nella notte? Io penso che la notte costituisca il momento critico per le grandi collettività fondate sull’organizzazione delle funzioni piuttosto che sui contatti personali. La notte ognuno fa ritorno a casa sua. È la vita privata. Disintegrazione e individualismo.60
Non c’è in effetti molta distanza dalla notte che tutto dissolve di De l’existence à l’existant,61 la notte che definisce l’anonimato, l’impersonale dell’il y a. Per descrivere in maniera più completa questa condizione di spersonalizzazione e indistinzione, Levinas si appoggia, nel saggio del 1947, al concetto di «partecipazione» sviluppato da Lévy-Bruhl:
Nella partecipazione mistica […] l’identità dei termini viene meno […]. L’esistenza privata di ciascun termine, dominata dal soggetto che è, perde il suo carattere privato, e ritorna a un fondo indistinto […]. L’impersonalità del sacro nelle religioni primitive […] descrive […] un mondo in cui non c’è nulla che prepari l’apparizione di un Dio.62
La notte può essere quindi la corretta metafora dell’ambiguità del sacro, concetto al centro anche di un’appassionata lezione su un testo di Sanhedrin.63 Seguendo i commenti dei dottori rabbinici, Levinas descrive il «sacro» in termini di ambiguità, dissoluzione del vero nell’apparenza e indistinzione: nel sacro — e soprattutto nella sua peggiore degenerazione, la magia, che «fiorisce nella sua penombra» (ancora l’idea dell’oscurità come anonimato) — non c’è più niente di identico a se stesso, ma tutto si assomiglia, e tutto si confonde. È necessaria allora una certa separazione, «una assenza protetta dalla presenza di proibizioni, […] speranza di santità contro il sacro incorreggibile».64 Si delinea così «la strada “dal sacro al santo”: è quella della vigilanza, del non dimenticare, del non interrompere la luce dello sguardo che deve restare sveglio».65 Santo è colui che sa vigilare, che sa riconoscere nella notte l’appello che proviene dal volto dell’altro, e che, nell’oblio di sé, è consapevole della sua elezione irrecusabile alla responsabilità.
A scanso di qualsiasi equivoco, è forse opportuno aprire una parentesi e precisare qui il significato preciso a cui si riferisce Levinas quando fa uso del termine «veglia». Come per l’italiano, anche la parola francese veille ha due sfumature di significato sostanzialmente diverse. Da un lato, essa indica lo stato di coscienza nel quale vi è piena attività dei centri nervosi, in contrapposizione alla temporanea sospensione di alcune delle loro funzioni, che è tipica del sonno; dall’altro, invece, per estensione, essa si riferisce all’impiego delle ore notturne, normalmente dedicate al sonno, in attività lavorative o assistenziali o in pratiche di culto o devote, oppure in piacevoli intrattenimenti. Il verbo da essa derivato, «vegliare» (veiller), descrive precisamente il secondo significato, ma può anche sfumare nell’accezione di «vigilare», e perciò: stare desto, non dormire, prestare attenzione, … È certamente in questo senso che vanno intesi il «vegliare» e la «veglia» presenti nei termini levinassiani. Ed è anche nelle diverse pieghe di questo significato che si trova lo scarto tra il Levinas degli anni ’40 e l’autore di Totalité et Infini e Autrement qu’être, nonché lettore del Talmud: se prima la «veglia» veniva associata allo stato di insonnia,66 ora appare evidente che la connotazione etica è non soltanto presente, ma centrale.
In un’altra lezione talmudica, il cui tema è la guerra, si incontra un passo segnato da un pessimismo radicale: l’interpretazione di una barayta67 porta a non considerare alcuna reale differenza tra pace e guerra, poiché il male si cela dappertutto; assassini e omicidi si nascondono in ogni angolo. «A meno che codesta tesi non sia precisamente l’appello a un’infinita responsabilità dell’uomo, a una vigilanza infaticabile, a un’assoluta insonnia»68: la veglia arriva a coincidere con la responsabilità. È un appello a non essere disattenti, anche nell’oscurità più indistinta, alla chiamata del volto del prossimo.
È sulla base di queste considerazioni che si può intendere la concezione ebraica del tempo nei termini della permanenza: la veglia — infinita attenzione, eterno ascoltare — è il segreto di un popolo che, proprio nel rito quotidiano (fusione di studio e liturgia) e nella «verità riaffermata con regolarità»,69 risveglia l’essere assopito nella vita naturale. La storia stessa corrisponde, per l’ebraismo, all’attesa ed all’attenzione estrema che descrivono lo stato di veglia;70 vigilanza paziente e costante in un risveglio che non può mai considerarsi definitivo, se i termini della questione sono questi:
La Torah è una permanenza perché è un debito impagabile. Più pagate questo debito, più siete indebitati, e, cioè, meglio vedete l’estensione di quel che resta da scoprire e da fare. Categoria che occorre trasporre alla relazione con l’altro uomo insegnata dalla Torah: più vi accostate all’altro, più cresce la vostra responsabilità nei suoi confronti. Ci si riferisce, dunque, all’infinito del dovere — che è forse la modalità stessa della relazione all’infinito.71
Infinito del dovere, cioè infinito della veglia ma anche infinito del risveglio, che è sempre meno un passaggio da uno stato di coscienza ad un altro, e sempre più un’indicazione etica, per una vita estremamente attenta alle esigenze del prossimo. E in un’ottica che lega a doppio filo risveglio e veglia, nel segno entrambi di una pazienza infinita e costante, certamente non ci si stupirà se le tante chiamate di Dio che si trovano nella Bibbia possano essere lette come un esplicito invito a restare svegli, a «non dormire»,72 come nel caso di Giacobbe (Gn 46, 2: «Dio disse a Israele in una visione notturna: “Giacobbe, Giacobbe”»): «risveglio di Israele in Giacobbe. Ma quanti risvegli non sono altro che insonnie! ‘Visioni notturne’, verità notturne in cui Dio parla a Israele ma lo chiama, come in passato, Giacobbe».73
5. Figure del risveglio: il nazireo e il Messia
Per dare concretezza all’appello alla vigilanza di Levinas, si possono individuare due — tra le altre — significative fisionomiedel risveglio. La prima è al centro di una lettura talmudica del trattato Nazir,74 nella quale Levinas, invitato a parlare della “giovinezza d’Israele”, si confronta con l’istituzione ebraica del nazireato. La seconda, dai tratti certamente più intensi, è contenuta invece nella prima lezione di commento al Talmud di Levinas,75 a proposito di alcuni testi messianici del trattato Sanhedrin.
Del nazireato si parla in Nm6, 1-21: è un «speciale», fatto al Signore, che consta di alcune particolari proibizioni (non tagliarsi i capelli, non bere vino o qualsiasi altro prodotto della vigna, non avere alcun tipo di contatto impuro, specialmente con i morti). A partire da due specifici voti di nazireato, quello di Sansone e quello di Samuele (entrambi non per scelta, ma decisi da qualcun altro), Levinas sembra comprendere il senso profondo di questo voto nella logica dell’ebraismo:
Il disinteresse. Non nel senso unicamente morale del termine, senso indubbiamente presente anch’esso nel disinteresse, ma in un senso ancora più radicale. Si tratta di quel disinteresse che si oppone all’essenza di un essere la quale è sempre precisamente persistenza nell’essenza, ripiegamento dell’essenza su se stessa, coscienza di sé e compiacimento di sé.76
E allora, non tagliarsi i capelli corrisponde proprio al rifiuto non tanto della bellezza, ma della contemplazione di essa, di «questo narcisismo che è la coscienza di sé, sulla quale è costruita la nostra filosofia occidentale e la nostra morale».77 Pare così che soltanto un soggetto predisposto ad un certo oblio di sé sia in grado di accogliere la chiamata traumatica del volto del prossimo. Se poi questa condizione non rientra in una volontà personale, com’è il caso del nazireato di Sansone e Samuele, tale impossibilità di scegliere il voto nei confronti del prossimo — che in quanto contestazione radicale della libertà umana è il tratto specifico del Bene — dona al soggetto una particolare «giovinezza»: la giovinezza propria di un età precedente a quella in grado di scegliere. «Ma così il nazireo assoluto porta attraverso tutta la sua vita il segno di una giovinezza inimmaginabile, di una giovinezza prima della giovinezza, di una giovinezza al di fuori di ogni invecchiamento».78 Il nazireo significa allora il disinteresse e la giovinezza, connotati necessari del soggetto capace di risveglio.
Per quanto riguarda il Messia,79 va precisato che la tradizione talmudica e rabbinica non parla molto di esso. La ragione principale è certamente storica e legata alle varie vicende che nel corso dei secoli hanno portato ad indicare in una persona piuttosto che in un’altra il Messia.80 L’ebraismo è perciò generalmente prudente e silenzioso sul tema messianico. Prima di entrare nel merito dei testi levinassiani, è necessario cercare di capire in che termini è presente l’idea messianica nell’ebraismo. In un saggio dedicato a questo specifico tema,81 Gershom Scholem è certo che tale idea sia da sempre presente nella storia dell’ebraismo, ma che nel corso dei secoli abbia assunto sfumature e caratteristiche diverse. Egli distingue tre generiche correnti all’interno dell’ebraismo: una conservatrice, tesa a mantenere e difendere i valori dell’ebraismo — questa corrente si identifica con il mondo rabbinico, che è anche il mondo del giudaismo di Levinas -, una restauratrice, che vuole ricreare un determinato passato, ed una utopica, che guarda ad una situazione ancora da vivere nel futuro. È certamente nella prima corrente che l’idea messianica ha trovato meno spazio. Nella seconda e nella terza, invece, è stata attiva e generatrice di tensioni e cambiamenti. Con queste premesse, Scholem può distinguere tra messianismo apocalittico (che considera la venuta del Messia come un evento imprevedibile, che irrompe violento nella storia e la sconvolge) e messianismo «razionalista».82 Il filosofo tedesco pensa qui soprattutto alla concezione del messianismo che ha Maimonide: nel suo pensiero, ciò che è più importante, ciò che solo può guidare l’ebreo, è lo studio della Torah; c’è l’attesa messianica, ma nessuno spazio è presente per immagini o fantasie apocalittiche.
La concezione del messianismo di Levinas è dunque in linea con il pensiero di Maimonide o più generalmente dei dottori rabbinici presente nel Talmud, che mette appunto in relazione l’idea messianica con lo studio e la pratica della Torah. In questa stessa direzione, il commento alle pagine 98b e 99a del trattato Sanhedrin fa però un passo in più, e mette in luce la connotazione universale ed etica della venuta del Messia.
Nella coesistenza di varie opinioni, anche radicalmente differenti, dei dottori rabbinici — che bene si inserisce nell’apertura esegetica infinita tipica dei testi talmudici — balza all’attenzione quanto dice Rabbi Hillel: «non c’è Messia per Israele. Israele ne ha già gustato all’epoca del re Ezechia». Il Messia sarebbe in qualche modo superato, già realizzato nella storia al tempo del re Ezechia. È una possibilità scandalosa, ma proprio perché mantenuta all’interno del Talmud va presa in considerazione con molta serietà: c’è da aspettarsi forse un’altra salvezza — di livello superiore — per Israele?83 Ciò che sembra sicuro è che al fondo di queste parole si trova una sostanziale sfiducia nei confronti dell’idea messianica, soprattutto per quella dalle sfumature politiche. Ma si può anche constatare che, stando così le cose, la salvezza — che coincide con l’avvento del Messia — non ha più a che fare con la fine della storia. In altre parole, «essa rimane possibile in ogni momento»84: il messianismo va allora inteso come una possibilità quotidiana di realizzare la «vocazione personale degli uomini»,85 che consiste nella sofferenza, segno non di una qualche espiazione, ma della fedeltà e della vigilanza della coscienza alla chiamata dell’altro uomo. Levinas può così
concepire il messianismo, prima ancora che come un tratto «particolare» del popolo ebraico e della sua storia, come una struttura universale della «soggettività» o dell’umano in generale, che consiste nell’assunzione di responsabilità nei confronti del prossimo. Ogni uomo deve essere Messia se vuole essere pienamente uomo.86
Scrive Levinas:
Il Messia sono Io, ed Essere Io è essere Messia. Si vede dunque che il Messia è il giusto che soffre, che egli ha preso su di sé le sofferenze degli altri. D’altra parte, chi è che prende su di sé le sofferenze degli altri se non colui che dice “Io”? L’ipseità stessa è definita da questo non sottrarsi al peso che impone la sofferenza degli altri. Tutte le persone sono Messia. L’Io in quanto Io, prendendo su di sé tutta la sofferenza del Mondo, si designa da solo per questo ruolo. Designarsi da sé, non sottrarsi fino al punto di rispondere prima ancora che l’appello risuoni: tutto questo è essere Io. […] Questo vuol dire che ognuno deve agire come se fosse il Messia. Il messianismo non è la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia: è il mio potere di sopportare la sofferenza di ognuno. È l’istante in cui riconosco questo potere e la mia responsabilità universale.87
Il Messia è allora l’Io che sa sopportare il peso della sua condizione irrecusabile di ostaggio, l’Io che si scopre se stesso nell’esposizione all’altro, preliminare ad ogni decisione, l’Io che veglia sull’altro e dall’altro viene risvegliato, … in una parola: l’umano.
Ma se il Messia, da unica persona capace di liberare questo mondo, diventa una vocazione da realizzare in ogni momento della propria vita, un compito che ogni uomo deve assolvere responsabilmente in prima persona, si può allora ben comprendere ciò che sottintende Levinas con queste parole:
Mi è stato chiesto se l’idea messianica ha ancora un senso per me, e se è necessario conservare l’idea di una tappa ultima della storia in cui l’umanità non sarà più violenta, in cui squarcerà definitivamente la crosta dell’essere e in cui tutto si chiarirà. Ho risposto che per essere degni dell’era messianica bisogna ammettere che l’etica ha un senso, anche senza le promesse del Messia.^[89]
6. Partire dall’ebraismo?
Nei commenti talmudici, quindi, Levinas pone in luce quell’etica della responsabilità che caratterizza i suoi saggi più significativi e che è descritta dalla particolare figura del risveglio; d’altro canto, però, si è visto come sia da considerarsi indiscutibile la rilevanza del Talmud nella formulazione delle tesi principali della filosofia levinassiana.
Questo «doppio movimento» ha alla base, in realtà, un ulteriore spostamento di livello: il risveglio acquista attraverso i testi talmudici una profondità inedita, per certi versi né catalogabile né definibile, e che lascia alcune questioni aperte.
D’altro canto, e qui si fa necessaria una parentesi, gli ultimi sviluppi della ricerca filosofica sugli scritti levinassiani, che hanno visto l’importante pubblicazione degli inediti Carnets de captivité e Notes philosophiques diverses, sembrano confermare con forza l’irrinunciabilità del confronto con la c? téebraica del pensatore lituano. Scritti all’incirca tra il periodo della prigionia e la pubblicazione di Totalité et Infini,88 queste pagine testimoniano di un pensiero in ricerca, libero e originale, dove il legame tra filosofia ed ebraismo è sorprendentemente molto più esplicito, rispetto alle pubblicazioni edite conosciute fino ad oggi: la filosofia in divenire di Levinas si scopre fin da subito ricerca di una via alternativa all’ontologia heideggeriana nelle pieghe dell’ebraismo. La prigionia e lo hitlerismo, a detta del filosofo, hanno fatto si che l’ebreo si sentisse, di nuovo, «ineluttabilmente connesso al proprio ebraismo»,89 e che ritrovasse così la propria identità israelita: dalla lettura di queste pagine, è evidente che è proprio da qui che Levinas ha intenzione di partire. In due appunti dei Carnets, segnati nella stessa pagina, si può leggere: «partir du Dasein ou partir du J.» e ancora «J. comme catégorie».90 Nello stesso momento in cui Levinas elaborava il suo primo confronto critico con l’ontologia in De l’existence à l’existant, insomma, vi è un tentativo di fare dell’essere-ebreo il punto di partenza e separazione dall’ontologia, poiché unico luogo possibile per una nuova interpretazione dell’uomo e della sua soggettività. Le Notes, poi, sono ancora più ricche di riferimenti espliciti a questo tema. L’interesse di Levinas, in queste notazioni, è principalmente per la metafora, considerata dal pensatore come l’essenza stessa del linguaggio spinto all’estremo, capace di significare aldilà di ciò che dice. Se la filosofia levinassiana è ricerca di trascendenza e superamento nella relazione con l’altro, nell’esigenza di rispondergli e, rivolgendosi a lui, nell’essere in relazione stessa con il superiore, allora questo spirituale si dona per eccellenza in ciò che viene definito «miracolo»91 della metafora: la relazione sensibile, esigente e insistente con l’altro come altezza e volto, e il pensiero della metafora come cammino verso l’altezza, sono indissolubili.
In questo contesto, non può che meritare estrema attenzione il fatto che siano presenti nelle Notes citazioni di varia lunghezza in ebraico, riguardanti questioni squisitamente filosofiche. Non sembra, infatti, trattarsi semplicemente di una questione linguistica o di traduzione, ma di un contributo irrinunciabile all’elaborazione del pensiero levinassiano, che passa indelebilmente per un idioma che porta con sé tutta l’esperienza millenaria di studio e commento del popolo ebraico: le citazioni di passaggi biblici e talmudici, presenti davvero in gran numero e associate a temi filosofici fondamentali nella meditazione di Levinas, sono ricche di associazioni di senso radicate nella tradizione ebraica di lettura della Bibbia che — va detto — nella maggior parte dei casi il mondo filosofico ignora.
Per una comprensione il più possibile completa e definitiva della ricerca filosofica di Levinas, il «»ebraismo è quindi un passaggio obbligato, e — per i motivi che abbiamo già esposto — ancora tutto da indagare. E le letture talmudiche diventano allora — a maggior ragione dopo la pubblicazione dei Carnets delle Notes — uno dei luoghi privilegiati di confronto e approfondimento del delicato rapporto tra ebraismo e filosofia all’interno del pensiero levinassiano. Un rapporto che, se letto nella prospettiva corretta, non è né quello di un filosofo ebraico (la ricerca di Levinas è legata fin dall’inizio al metodo fenomenologico husserliano), né quello di un filosofo sulla scia dei maestri Husserl e Heidegger. La definizione che forse più da ragione di questa ambivalenza è quella data da David Banon, capace di sottolineare la separazione e il dialogo tra l’ambito filosofico ed ebraico, scrivendo di Levinas come un ebreo che pensa.92
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Emmanuel Levinas, «De l’évasion», Recherches Philosophiques, V (1935-36), pp. 373-392, riedito in volume da Jacques Rolland, trad. it di Donatella Ceccon, Dell’evasione, Cronopio, Napoli 2008, p. 46. ↩︎
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Con questo aggettivo, Levinas intende classificare i testi della sua produzione dedicati alla lettura del Talmud o a temi comunque specificamente giudaici. Cfr. François Poirié, Emmanuel Levinas. Essai et entretiens, Actes Sud, Arles 2006, pp. 61-169. ↩︎
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Salomon Malka, Emmanuel Levinas. La vie et la trace, trad. it. di Claudia Polledri, Emmanuel Levinas. La vita e la traccia, Jaca Book, Milano 2003, p. 230. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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«Non si sa granché di questo personaggio. Non si conosce il suo nome - Chouchani non è il suo vero nome. Si ignora la sua origine, la città di nascita, l’ambiente in cui è cresciuto, il luogo dove ha fatto i suoi studi. […] Visse tutta la sua vita come un clochard, senza un domicilio fisso, vagando da una città all’altra, passando da New York a Strasburgo, da Strasburgo a Parigi, poi a Gerusalemme ed infine a Montevideo, in Uruguay, dove si spense nell’anonimato. Con questo epitaffio sulla tomba: “la sua nascita e la sua vita sono annodate da un segreto”» (Ivi, p. 156). Per una ricerca biografica su Chouchani, cfr. Salomon Malka, Monsieur Chouchani. L’énigme d’un Maître du XXème siècle, J. C. Lattès, Paris 1994. ↩︎
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François Poirié, Emmanuel Levinas, cit. alla nt. 3, p. 160. In un’altra intervista, Salomon Malka chiede a Levinas se è merito di Chouchani la sua scoperta del Talmud. Levinas risponde: «Io non so neppure se ciò che so è già una scoperta, ma è lui che mi ha mostrato come bisogna leggerlo. Accanto al suo genio, alle sue conoscenze, alla sua potenza dialettica, tutto impallidisce. […] Chouchani era molto duro, esigente verso di me come verso tutti. Maestro inflessibile! Ma quando aveva un sorriso di incoraggiamento, significava molto. E talvolta egli aveva questo sorriso per dei passaggi midrashici che io tentavo di commentare. Egli pensava che non bisogna costruire né speculare nell’astratto, ma nell’immaginazione. Bisogna pensare a dei mondi che sono evocati da ogni immagine del testo, allora il testo si mette a parlare» (Salomon Malka, Lire Levinas, ed. it. a cura di Emilio Baccarini, Leggere Levinas, Queriniana, Brescia 1986, pp. 116-117). ↩︎
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Tra questi, assieme a Levinas, va ricordato anche un altro nome illustre: Elie Wiesel. ↩︎
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« I trattati talmudici costituiscono la trascrizione - avvenuta tra il II e il VI secolo della nostra era - delle lezioni orali e delle discussioni svoltesi tra i dottori rabbinici. Queste lezioni e queste discussioni sono, per la tradizione ebraica, insegnamenti risalenti al Sinai, che completano e chiariscono gli insegnamenti della Torah scritta (la Bibbia e, più particolarmente il Pentateuco) e che, Torah orale, significano teologicamente la Parola e la Volontà di Dio con la stessa autorità della Torah scritta. [Un testo talmudico è composto di] due parti distinte poste l’una dopo l’altra: Mishnah e Gemara. Mishnah significa “insegnamento” o “lezione da ripetere”. Gemara vuol dire “tradizione”; essa appare come commento o discussione della Mishnah; è anche il termine con il quale si designa l’insieme del Talmud (Mishnah + Gemara), termine che significa, all’incirca, “studio”. Il Talmud (o la Gemara) rappresenta la Torah orale attraverso la quale la Torah scritta è letta nel giudaismo tradizionale. La Mishnah enuncia insegnamenti pratici o relativi alla condotta (Halakah) attribuiti ai dottori rabbinici della più grande autorità - i Tannaiti - e messi per iscritto verso la fine del II secolo della nostra era [grazie all’opera di Rabbi Yehudah Ha-Nasi, nell’anno 186 d.C. La parte più narrativa del Talmud, composta di aneddoti, conversazione, aforismi di tutti i generi, generalmente di interesse filosofico o morale, viene chiamata invece Aggada]. La Gemara, che si riferisce il più delle volte agli enunciati della Mishnah, è composta dalle discussioni che ebbero luogo nelle accademie rabbiniche della Terra Santa e di Babilonia a partire dal terzo secolo tra i dottori chiamati Amorei; queste discussioni furono messe per iscritto verso la fine del VII secolo» (Emmanuel Levinas, L’au-delà du verset. Lectures et discours talmudiques, trad. it. e cura di Giuseppe Lissa, L’aldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, Guida Editori, Napoli 1986, pp. 164-164, nn. 3 e 4). Per un’analisi esaustiva delle articolazioni della tradizione interpretativa ebraica (Talmud, letteratura midrashica, traduzioni della Torah, …), cfr. David Banon, La Lecture infinie. Les voies de l’interprétation midrachique, trad. it. Di Giuseppe Regalzi, La lettura infinita. Il midrash e le vie dell’interpretazione nella tradizione biblica, Jaca Book, Milano 2009. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Quatre Lectures Talmudiques, trad. it. e cura di Alberto Moscato, Quattro letture talmudiche, Il melangolo, Genova 1982, p. 34. ↩︎
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Va aggiunto che le recenti pubblicazioni dei Carnets de captivité e delle Notes philosophiques diverses - in Emmanuel Levinas, Cahiers de captivité et autres inédits, a cura di Rodolphe Calin e Catherine Chalier, Imec Grasset, Angoulê2009 - sembrano mostrare un rapporto tra ebraismo e filosofia esplicito e già forte negli anni dell’elaborazione di De l’existence à l’existant. Cfr. paragrafo 6 di questo saggio. ↩︎
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Cfr. Shmuel Wygoda, «Le maître et son disciple: Chouchani et Levinas», Cahiers d’études levinassiennes, 1 (2003), pp. 149-183. ↩︎
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David Banon, La lettura infinita, cit. alla nt. 9, p. 145. All’interno del passo, si trova tra virgolette un estratto di Emmanuel Levinas, Quattro letture talmudiche, cit. alla nt. 10, p. 104. ↩︎
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Si pensi alla vicinanza con la disseminazione di Jacques Derrida: «il Midrash si lascia guidare, quando vuole, dalla forma fisica dei vocaboli. Modo di leggere che assomiglia ai procedimenti della “disseminazione” in uso oggi in certi circoli d’avanguardia» (Emmanuel Levinas, L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, p. 119). ↩︎
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Cfr. ivi, p. 189, n. 7. Ecco il passo di Rabbi Hayyim di Volozhin: «i nostri maestri insegnano che tutte le loro parole somigliano a braci (Avot 2, 10). [Per quale ragione? Perché?] se soffi sulla brace - in apparenza spenta e in cui rimane una sola scintilla - la rianimerai smuovendola e l’attizzerai soffiando su di essa. E più soffierai, più la fiamma avvamperà e più si propagherà il fuoco, finché si trasformerà in un focolaio incandescente. Allora potrai approfittarne, facendoti luce col suo fulgore o riscaldandoti vicino al suo braciere. Ma soltanto ad una certa distanza, senza possibilità di toccarlo. […] [E Rabbi Hayyim conclude:] anche se le loro parole ci sembrano semplici e prive di stile, in realtà sotto l’azione del martello si disseminano. Perché più si triturano e si esaminano meticolosamente queste parole, più i nostri occhi si rischiarano per lo sfavillio del loro lume vivace, e più si troverà un contenuto insospettato, come dicono i nostri maestri: “volgiti là e ritorna là, perché tutto vi si trova…” (Avot 5, 22)» (Rabbi Hayyim di Volozhin, Nefesh ha-hayyim, trad. fr. a cura di Benjamin Gross, L’âme de la vie, Verdier, Lagrasse 1986, parte III, cap. I). ↩︎
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Cfr. David Banon, La lettura infinita, cit. alla nt. 9, p. 39. ↩︎
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Letteralmente spiegazione e/o ricerca; questo termine indica allo stesso tempo il procedimento interpretativo e l’insieme dei commentari ebraici al testo biblico, la cui compilazione va dal V al XIII secolo d.C. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Dalla scrittura all’oralità, prefazione a Cfr. David Banon, La lettura infinita, cit. alla nt. 9, pag. 11. ↩︎
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David Banon, La lettura infinita, cit. alla nt. 9, pp. 241-242. ↩︎
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Ivi, p. 255. ↩︎
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Ivi, p. 232. ↩︎
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«Sono arrivato a utilizzare tutto questo [i testi talmudici] partendo dalla filosofia tradizionale. Ho pensato per molto tempo che fosse una cultura ‘a lato’. Ho avuto un rapporto approfondito con il pensiero talmudico piuttosto tardi, a contatto con M. Chouchani. Egli non mi ha infuso nulla del suo immenso sapere, né certo della sua incomparabile intelligenza, ma mi ha insegnato come si dovevano affrontare questi testi, questo fondo irraggiungibile. A confronto con lui, tutto questo è nulla e noi non si è nulla. […] Ne ho conservato un ricordo indimenticabile e incomunicabile della vita dello spirito» (Emmanuel Levinas, Transcendance et intelligibilité, trad. it. e cura di Francesco Camera, Trascendenza e intelligibilità, Marietti, Genova 1990. p. 58, corsivo mio). ↩︎
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François Poirié, Emmanuel Levinas, cit. alla nt. 3, p. 131. ↩︎
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Richard A. Cohen, «Levinas and Rosenzweig: Proximities and Distances», Cahiers d’Ètudes Levinassiennes, 8 (2009), p. 21. ↩︎
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Emmanuel Levinas, A l’heure des nations, trad. it. e cura di Silvano Falcioni, Nell’ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000, p. 204. ↩︎
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François Poirié, Emmanuel Levinas, cit. alla nt. 3, p. 132 ↩︎
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Sal 119, 19. ↩︎
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François Poirié, Emmanuel Levinas, cit. alla nt. 3, p. 132. ↩︎
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Un’operazione che si concluderà soltanto con Autrement qu’être, in risposta soprattutto alle considerazioni di Derrida, che imputerà a Levinas di aver criticato l’ontologia presupponendo e utilizzando il linguaggio ontologico. Cfr. Jacques Derrida, Violence et métaphysique. Essai sur la pensée d’Emmanuel Levinas, in Jacques Derrida, L’écriture et la différence, trad. it. di G. Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, pp. 99-198. ↩︎
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A zzolino Chiappini, Amare la Torah più di Dio. Emmanuel Levinas lettore del Talmud, Giuntina, Firenze 1999, p. 268. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Du Sacré au Saint. Cinq nouvelles lectures talmudiques, trad. it. e cura di Ornella Nobile Ventura, con introd. di Sofia Cavalletti, Dal Sacro al Santo. Cinque nuove letture talmudiche, Città Nuova, Roma 1985, p. 138. ↩︎
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Al ritorno dalla prigionia trascorsa nello Stalag XIB nella regione di Hannover, Levinas scoprirà di aver perso tutta la sua famiglia in una fucilazione a Kaunas. Si salveranno soltanto la moglie Raïssa e la figlia Simone, grazie all’accoglienza accordata dal monastero di Saint-Vincent de Paul, vicino ad Orléans (cfr. Salomon Malka, Emmanuel Levinas, cit. alla nt. 4, pp. 75-91). ↩︎
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Id., Leggere Levinas, cit. alla nt. 7, p. 82. ↩︎
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Ivi, p. 83. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Noms propres, trad. it. e cura di Francesco Paolo Ciglia, Nomi propri, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 156, corsivo mio. ↩︎
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Le conferenze di Levinas, infatti, si svolgono con cadenza quasi annuale dal 1963 al 1989 e trattano dei temi più eterogenei: «timidezza e audacia. Morale e politica. Il messianismo e la fine della storia. Il perdono. La tentazione. Israele. Il mondo ha bisogno degli ebrei? Giudaismo e rivoluzione. La giovinezza d’Israele. Gli ebrei e la società desacralizzata. Lo Shabbat. Solitudine di Israele. La guerra. Il modello occidentale. Comunità musulmana. Religione e politica. La comunità. La Bibbia al presente. Israele, il giudaismo e l’Europa. L’idolatria. Zakor, memoria e storia. Le settanta nazioni. Il denaro. La questione dello Stato. In quanto a me… Questi furono i temi dei colloqui che si susseguirono dal 1957 al 1989» (Salomon Malka, Emmanuel Levinas, cit. alla nt. 4, p. 134). ↩︎
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Emmanuel Levinas, L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, p. 111. ↩︎
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Cfr. Emmanuel Levinas, De l’existence à l’existant, trad. it. di Federica Sossi, con premessa all’ed. it. di Pier Aldo Rovatti, Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Casale Monferrato 1986. pp. 61-65. ↩︎
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Pier Aldo Rovatti, «L’insonnia. Passività e metafora nella “fenomenologia” di Levinas», Aut - aut, 209-210 (1985), p. 71. ↩︎
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Emmanuel Levinas, L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, p. 116. ↩︎
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Ivi , p. 119. ↩︎
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Cfr. Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, Milano 1997. Il testo si presenta come un monologo di un ebreo del Ghetto di Varsavia, sopravvissuto agli orrori della Shoah. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Difficile Liberté. Essais sur le judaïsme, trad. it. integrale e cura di Silvano Falcioni, Difficile Libertà, Jaca Book, Milano 2004, p. 182, corsivo mio. ↩︎
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Id., Nell’ora delle nazioni, cit. alla nt. 24, p. 70. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Entre nous. Essais sur le penser-à-l’autre, trad. it. e cura di Emilio Baccarini, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, Jaca Book, Milano 1998, p. 36. ↩︎
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Id., Quattro letture talmudiche, cit. alla nt. 10, p. 145. Questa concordanza di «rivelazione» e «comandamento» è centrale nel pensiero ebraico. Anche Rosenzweig, in un saggio in cui si trovano le concezioni generali che saranno poi alla base della Stella, esprime più o meno la stessa idea: «la rivelazione dice: fai la mia volontà, compi la mia opera! Presupposto dunque: che l’uomo divenga fiduciario del proprio Dio, della volontà di Dio, dell’opera di Dio così da compierla» (Franz Rosenzweig, Die Schrift, ed. it. a cura di Gianfranco Bonola, La scrittura. Saggi dal 1914 al 1929, Città Nuova, Roma 1991, p. 251). ↩︎
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Id., L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, 234, corsivo mio. ↩︎
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Id., Quattro letture talmudiche, cit. alla nt. 10, p. 89. ↩︎
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Id., Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, trad. it. e cura di Silvano Petrosino e Maria Teresa Aiello, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983, p. 189. ↩︎
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Id., Quattro letture talmudiche, cit. alla nt. 10, p. 87. ↩︎
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Ivi, pp. 92-93. ↩︎
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Id., Dal Sacro al Santo, cit. alla nt. 31, p. 120. Il corsivo per “insonne” e “sveglio” è mio. ↩︎
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«Il Dio che è passato non è il modello di cui il volto sarebbe l’immagine. Essere a immagine di Dio non significa essere l’icona di Dio, ma trovarsi nella sua traccia. Il Dio rivelato nella nostra spiritualità giudaico-cristiana conserva tutto l’infinito della sua assenza nell’ordine personale stesso. Si mostra unicamente attraverso la sua traccia, come nel capitolo 33 dell’Esodo. Andare verso di Lui non significa seguire questa traccia che non è un segno, ma andare verso gli Altri che si trovano nella traccia» (Id., En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, trad. it. integrale a cura di Federica Sossi, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, p. 233). È ancora possibile, dopo queste parole, poter sostenere l’esistenza separata di un «Levinas filosofo» ed un «Levinas interprete del Talmud»? ↩︎
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Cfr. Id., L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, p. 191. ↩︎
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Id., Altrimenti che essere, cit. alla nt. 49, pp. 177-178. ↩︎
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Id., L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, p. 208. ↩︎
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La conferenza, dalla quale è stata poi trascritta la lezione, è dell’11 dicembre 1989. ↩︎
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Il contesto è la preghiera in favore della perversa Sodoma minacciata dal castigo di Dio. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Nouvelles lectures talmudiques, trad. it. a cura di Beato Caimi, Nuove letture talmudiche, SE, Milano 2004, pp. 84-85. ↩︎
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Cfr. Es 25, 23-30 e Lv 24, 5-9. Il passo del Levitico menziona in primo luogo la confezione del pane - in traduzione italiana chiamato «pane di proposta» - da depositare tutti i Sabati e da esporre fino al Sabato successivo; poi, la deposizione di questi pani su un tavolo, «davanti al Signore, sempre» e il loro consumo ogni Sabato da parte dei pontefici o da parte dei sacerdoti. Il passo dell’Esodo tratta della fabbricazione del tavolo destinato a portare questo pane. ↩︎
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Emmanuel Levinas, L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, pp. 94-95. ↩︎
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Id., Dall’esistenza all’esistente, cit. alla nt. 38, p. 50. ↩︎
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Ivi , p. 53. ↩︎
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Cfr. Id., Dal Sacro al Santo, cit. alla nt. 31, pp. 81-111. ↩︎
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Ivi , p. 102. ↩︎
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Azzolino Chiappini, Amare la Torah più di Dio, cit. alla nt. 30, p. 291. ↩︎
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«L’insonnia non ha oggetto, né soggetto, avverte Levinas: però qualcosa che ha a che fare con la coscienza vi lavora. L’insonnia è ancora l’il y a, è la notte: ma al tempo stesso è un vegliare, forse il limite della veglia. E se fosse questo il “risveglio”?» (Pier Aldo Rovatti, «L’insonnia», cit. alla nt. 39, p. 61). ↩︎
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Cioè un insegnamento tannaita che non è entrato nella collezione di Rabbi Yehudah Ha-Nasi (barayta significa «esterno» in aramaico). Tutte queste baraytot daranno luogo alla Tosefta, «il complemento», che presenta lo stesso carattere della Mishnah, ma lasciando uno spazio più ampio all’aneddoto. Ecco la barayta in questione: «se l’angelo della morte è in città, non si deve camminare sulla via, poiché l’angelo della morte circola in mezzo alla strada; approfittando della libertà che gli è concessa, procede pubblicamente; se la città è in pace, non si deve camminare ai lati della via, perché, non godendo di libertà, l’angelo della morte avanza nascondendosi» (Trattato Baba Kama 60a-60b, cfr. Emmanuel Levinas, Dal Sacro al Santo, cit. alla nt. 31, p. 152). ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Emmanuel Levinas, L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, p. 95. ↩︎
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In una lezione talmudica del 1988, a sfondo prettamente politico, Levinas esplicita questo concetto per definire propriamente il buon governo. Egli scrive, infatti, che un «ordine politico accettabile può instaurarsi tra gli uomini solo se fondato sulla Torah, la sua giustizia, i suoi giudici, i suoi maestri sapienti. Politica messianica. Attesa, attenzione estrema e storia come veglia» (Emmanuel Levinas, Nuove letture talmudiche, cit. alla nt. 59, pp. 64-65). ↩︎
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Emmanuel Levinas, L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, p. 100. Cfr. anche Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, cit. alla nt. 49, p. 141: «più io ritorno a Me, più mi spoglio […] della mia libertà di soggetto costituito, volontario, imperialista, più mi scopro responsabile; più sono giusto, più sono colpevole» (corsivo mio). ↩︎
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«Il segreto della vita di Israele, il segreto della sua coscienza del “sempre”: il “non dormire”, come il Guardiano stesso di Israele “che non dorme e non sonnecchia” [Sal 120, 4]» (Emmanuel Levinas, L’aldilà del versetto, cit. alla nt. 9, pp. 95-96). ↩︎
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Emmanuel Levinas, Nell’ora delle nazioni, cit. alla nt. 24, p. 98. ↩︎
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Cfr. Emmanuel Levinas, Dal Sacro al Santo, cit. alla nt. 31, pp. 59-80. ↩︎
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Cfr. Emmanuel Levinas, Difficile libertà, cit. alla nt. 46, 83-124. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Dal Sacro al Santo, cit. alla nt. 31, pp. 68-69. ↩︎
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Ivi , p. 69. ↩︎
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Ivi , p. 80. ↩︎
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Per il tema del messianismo di Levinas, cfr. Azzolino Chiappini, Amare la Torah più di Dio, cit. alla nt. 30, cap. VI. ↩︎
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Su tutte sicuramente si può pensare alla vicenda di Gesù di Nazaret. Ma anche a quella di Sabbataï Tsevi, fondatore del sabbatianismo, che mise a dura prova l’ebraismo del XVII secolo. Cfr. Gershom Scholem, Sabbatai Zwi. Der mystische Messias, ed. it. a cura di Milka Ventura, Sabbetay Sevi. Il messia mistico (1626-1676), Einaudi, Torino 2001. ↩︎
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Cfr. G. Scholem, Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, tr. it. di Michele Bertaggia, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo in Gershom Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986. ↩︎
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Questa definizione di «razionalista» non sembra piacere molto a Levinas, che in una nota alle lezioni talmudiche sui testi messianici scrive: «tuttavia non tutto è stato detto - come talvolta sembra credere Scholem - quando si afferma il carattere razionalista di questo messianismo. Come se la razionalizzazione significasse solo la negazione del meraviglioso e come se, nel dominio dello spirito, fosse possibile lasciare valori contestabili senza influire su altri valori» (Emmanuel Levinas, Difficile libertà, cit. alla nt. 46, pp. 83-84, n. 1). ↩︎
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«Il modo in cui leggo il testo talmudico (modo che non ho certo inventato e che mi è stato insegnato da un maestro prestigioso [Chouchani]) consiste nel non donare mai al termine “Israele” un senso solo etnico. Quando si dice che Israele è degno di qualcosa di più grande del messianismo non si tratta solo dell’Israele storico. Non è dal fatto di essere Israele che si definisce il qualcosa di meglio, ma è partire dal qualcosa di meglio - la dignità di essere liberato da Dio stesso - che si definisce Israele. La nozione d’Israele designa sicuramente un’élite, ma un’élite aperta che si definisce a partire da proprietà che sono concretamente attribuite al popolo ebraico. Questo amplia tutte le prospettive che si aprono sui testi talmudici e ci sbarazza, una volta per tutte, del carattere strettamente nazionalista che si vorrebbe dare al particolarismo di Israele. Questo particolarismo esiste […] ma non possiede in nessun modo un senso nazionalista. Una certa nozione di universalità si esprime nel particolarismo ebraico» (Ivi, pp. 109-110). ↩︎
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Ivi , p. 111. Non si può non rilevare la prossimità con il pensiero di Franz Rosenzweig, che individua precisamente nella concezione del «tempo» la principale differenza tra ebraismo e cristianesimo: mentre per i cristiani, con l’avvento di Cristo l’eternità ha fatto il suo ingresso nel tempo, nel mondo ebraico il tempo è precisamente questa eternità. «Per lui [il popolo ebraico] la sua temporalità, il fatto che gli anni si ripetano, vale solo come un attendere, tutt’al più come un peregrinare, ma mai come una crescita. Crescita significherebbe che per lui nel tempo il compimento rimarrebbe ancora da raggiungere e sarebbe quindi una negazione della sua eternità. Poiché l’eternità è proprio questo, che tra l’istante presente ed il compimento non c’è tempo alcuno che possa pretendere di avere posto perché nell’“oggi” è già afferrabile tutto il futuro» (Franz Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, ed. it. a cura di Gianfranco Bonola, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 337). ↩︎
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Emmanuel Levinas, Difficile libertà, cit. alla nt. 46, p. 115. ↩︎
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Francesco Camera, introd. di Emmanuel Levinas, Il messianismo, Morcelliana, Brescia 2002, p. 40-41. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Difficile libertà, cit. alla nt. 46, pp. 116-117. ↩︎
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Per i Carnets, la stesura va dal 1937 al 1950. Per le Notes, si può pensare con discreta certezza che siano state composte nel decennio tra il 1950 e il 1960. Cfr. Emmanuel Levinas, Cahiers de captivité et autres inédits, . alla nt. 11. ↩︎
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Emmanuel Levinas, «L’inspiration religieuse de l’Alliance», Paix et Droit, 8 (1935), p. 4. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Cahiers de captivité et autres inédits, cit. alla nt. 11, p. 75. J. senza dubbio sta per Judaïsme. ↩︎
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Ivi , p. 231. ↩︎
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Cfr. David Banon, «Levinas, penseur juif ou juif qui pense», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], 11 (2009), messo in linea il 5 luglio 2009. Url: https://mondodomani.org/dialegesthai/david-banon-01. ↩︎